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ZWEIG

STEFAN ZWEIG, AMOK – ADELPHI, MILANO 2004

Nel marzo del 1912 una nave proveniente da Calcutta e in transito nel porto di Napoli è al centro di un misterioso accadimento notturno, che la straordinaria maestria narrativa di Stefan Zweig rivela solo nel finale di questo avvincente racconto. All’inizio e per alcune pagine il lettore segue il monologo infastidito dell’io narrante, un passeggero costretto a viaggiare in una cabina umida e rumorosa, irritato dal frastuono delle turbine e dagli schiamazzi degli altri ospiti del transatlantico. L’insonnia e il caldo tropicale lo costringono a passare la notte sul ponte, fumando in silenzio, accompagnato nelle sue meditazioni dallo sciabordio delle onde: «Non avevo mai visto il cielo come in quella notte, così accecante, duro come acciaio inazzurrato e tuttavia scintillante, grondante, fremente, zampillante di luce che si partiva, larvata, dalla luna e dalle stelle e che sembrava in qualche modo ardere da un interno misterioso».

Improvvisamente scorge accanto a sé la sagoma di un uomo, in evidente stato di agitazione e di alterazione alcolica. Tra i due si instaura subito una sorta di complicità, basata sulla solidale comprensione del primo e sull’ansiosa necessità di sfogarsi dell’altro. Che subito si qualifica come medico, e medico in fuga da una tragedia che lo aveva irresponsabilmente, ma forse innocentemente, coinvolto. Tedesco, era stato costretto a lasciare la Germania in seguito a uno scandalo, avendo sottratto all’ospedale in cui lavorava una forte somma di denaro, sotto l’influenza di una donna «fredda e altera» di cui si era perdutamente innamorato. Imbarcatosi per le Indie olandesi, con il miraggio di iniziare una nuova vita e di riparare al suo debito, si era visto assegnare una condotta in una zona putrida della foresta interna. Qui aveva trascorso sette anni, occupandosi della salute degli indigeni, ma in un perenne e umiliante stato di prostrazione professionale e culturale. Un pomeriggio si era presentata in ambulatorio una signora europea, elegante e gelida, dal «viso impenetrabile, duro, pieno di sicurezza, d’una bellezza senza età … un viso con due occhi grigi inglesi in cui tutto sembrava quieto e dietro ai quali si poteva immaginare ogni genere di passione», che sommergendolo dapprima di complimentose tergiversazioni con una «loquacità grandinante», gli aveva poi chiesto imperiosamente di intervenire, in cambio di molto denaro, a risolvere la sua drammatica e imbarazzante gravidanza illegittima e indesiderata.

Qui la finezza psicologica di Stefan Zweig si rivela impareggiabile nel seguire la tortuosità delle reazioni del medico, descritte in termini quasi deliranti eppure anche di estrema e lucida consapevolezza: sconcerto, rabbia, rifiuto, disprezzo, volontà di ricambiare l’umiliazione, ansia di vendetta, per finire in un parossistico e indomabile desiderio sessuale. La ricca signora si allontana precipitosamente, e il medico viene assalito da un attacco di pazzia. L’Amok, appunto, che con un termine malese indica «una follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana… un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun’altra intossicazione alcolica», che colpisce gli uomini rendendoli furiosamente irrefrenabili. Il medico insegue la donna, e non riuscendo a raggiungerla, decide di lasciare il suo ambulatorio trasferendosi nella città di lei, ottenebrato non solo dalla passione fisica, ma anche dalla volontà di soccorrerla, aiutandola a liberarsi del bambino. La follia, “l’Amok”, gli fa assumere atteggiamenti incresciosi, che turbano e insospettiscono la rispettabile comunità europea in cui la signora è inserita.

Gli avvenimenti precipitano irreparabilmente verso la tragedia. L’aborto clandestino a cui ricorre la donna presso una mammana cinese, la conduce a morire dissanguata: il medico per salvarne la reputazione firma, in un estremo impeto di generoso e folle sacrificio, un falso certificato di morte: quindi lascia il suo lavoro e si imbarca per l’Europa. Sulla sua stessa nave tuttavia l’ignaro marito della signora fa imbarcare la bara di lei, con il probabile intento di sottoporre il cadavere della moglie a un’autopsia in patria. E qui l’incidente notturno accennato nelle prime pagine del racconto scriverà la parola fine, inaspettata ma definitiva (che mi sembra giusto non rivelare), alla terribile vicenda.

 

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/Amok-Stefan-Zweig.html         2 maggio 2018

 

RECENSIONI

ZWEIG

STEFAN ZWEIG, IL LIBRO COME ACCESSO AL MONDO – ARCHINTO, MILANO 2021

Opportunamente le edizioni Archinto pubblicano alcuni saggi di Stefan Zweig sull’importanza formatrice della lettura. Il libro come accesso al mondo raccoglie dieci testi che, oltre a testimoniare l’acume critico dello scrittore viennese, ne mettono in luce la profonda sensibilità letteraria e la radicata convinzione nel valore etico della cultura. Stefan Zweig (1881-1942) a ottant’anni dalla morte continua a mantenere intatto il suo fascino di intellettuale poliedrico, di scrittore raffinato e versatile, di uomo dall’alta e coraggiosa statura morale. Inviso ai nazisti per le origini ebraiche e per la strenua opposizione politica, fu costretto a lasciare l’Austria dopo il rogo dei suoi libri nel 1933, rifugiandosi prima a Londra, poi a New York e infine in Brasile, dove si uccise avvelenandosi insieme alla seconda moglie.

Gli interventi raccolti in questo piccolo volume sono accomunati dalla stessa tensione etica, e dalla stessa penetrante analisi testuale. Si tratta di recensioni pubblicate su diversi organi di stampa di lingua tedesca tra il 1905 e il 1931, che la curatrice e traduttrice Simonetta Carusi postilla con chiarificatrici note conclusive. Hanno la dote della vivacità comunicativa, determinata dall’essere destinate al commento puntuale di pubblicazioni correnti, commento che però travalica l’attualità spingendosi oltre alla contingenza dei libri presi in esame, perché arricchito da riflessioni filosofiche, citazioni letterarie, riferimenti storici che assumono un carattere teorico e ideologico universale.

Quindi leggiamo due saggi del 1906 e del 1908 dedicati a Rainer Maria Rilke, (“un poeta in cerca di Dio”), alla sua poesia “di temerarietà inaudita” da meditare “con amore”: “nessuno – nessuno! – oggigiorno in Germani scrive versi così belli, potenti, raffinati”. Altre due recensioni sono riservate ai romanzi di Joseph Roth, “impregnati di realismo e scritti in una prosa smagliante”, capaci di rispecchiare il disorientamento psichico e sociale di una generazione tragicamente reduce dalla prima guerra mondiale.

Del 1930 è l’omaggio che Zweig tributa a Il disagio della civiltà di Sigmund Freud, la cui grandezza intellettuale e scientifica viene individuata nella capacità di “gettare domande nel mondo”, in modo “crudo, oggettivo, non addolcito dalla fede … con severità e determinazione”.

Ma l’attenzione dello scrittore austriaco è rivolta anche a temi più generali, quali le tradizioni popolari, il recupero del genere fiabesco, le inquietudini giovanili, esaminati in tre brevi articoli: Ritorno alla fiaba, Il diario di una adolescente, Il dramma nelle Mille e una notte, in cui con rigore e onestà affronta la contrapposizione tra il passato più remoto, le civiltà più lontane e lo sconcerto di una modernità difficile da interpretare. In questo senso, il suo elogio della “cultura come antidoto alla barbarie”, il suo sospetto verso un’epoca forsennatamente dominata solo dalla tecnica, trovano gli accenti più appassionati nei due testi che aprono e chiudono il volume, che definiscono il libro come accesso e visione del mondo, di cui mi sembra importante riportare alcune frasi.

“Il libro ha il potere di dilatare l’anima e costruire mondi nella nostra vita interiore… Come si fa a sopportare di non conoscere nient’altro al di fuori di ciò che si coglie esclusivamente con gli occhi, con le orecchie, per puro caso; come si fa a respirare senza l’ossigeno che emana dai libri? … Quando leggiamo, non ci rendiamo conto di assorbire attraverso gli occhi una sostanza impalpabile che rinvigorisce il nostro organismo spirituale… Quando leggiamo, cos altro facciamo se non partecipare dall’interno alla vita di persone estranee, vedere con i loro occhi, pensare con il loro cervello? Quanto più si vive in intimità con i libri, tanto più profondamente si sperimenta la totalità della vita, perché colui che ama i libri, grazie al loro aiuto, vede e comprende il mondo in modo miracolosamente potenziato, non solo con i propri occhi, ma con lo sguardo di innumerevoli anime”.

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SoloLibri.net › Il-libro-come-accesso-al-mondo-                     2 agosto 2021

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STEFAN ZWEIG, ADDIO A RILKE – IBIS, COMO 2023, pagine 69

Un poeta e un narratore, tra i massimi letterati novecenteschi in lingua tedesca: Stefan Zweig (Vienna, 1881-Petropolis,1942) e Rainer Maria Rilke (Praga,1875-Montreaux,1926)): si erano conosciuti ed erano diventati amici, ammirandosi vicendevolmente, e alla morte del poeta il narratore (romanziere e saggista) gli dedicò un commovente discorso celebrativo. Addio a Rilke, è il titolo di questo libricino pubblicato da Ibis, in cui Zweig omaggia con profonda stima e sincero entusiasmo la scrittura e la persona dell’amico praghese in un’orazione funebre tenuta il 20 febbraio 1927 allo Staatstheater di Monaco. Ne ripercorre la vita, dall’infanzia in cui, appena appresa la scrittura, giocava con le rime, e poi lungo l’adolescenza e prima giovinezza, già votate alla composizione, con impegno responsabile e perfezionista. Zweig cita tutti i suoi volumi, via via più complessi e meditati, dal Libro d’ore (“forse la più pura elevazione religiosa che un poeta dei nostri giorni abbia sperimentato”) alla luce “asciutta e trasparente” delle Nuove poesie, con la loro “tagliente durezza, vittoria di una oggettività consapevole sulla pura intuizione, trionfo definitivo di una lingua divenuta completamente scultorea”. Per arrivare ai Sonetti a Orfeo e alle Elegie duinesi, “ascesa verso la solitudine che lui stesso aveva scelto”, per “rappresentare il quasi irrapresentabile”.

Una missione, quella che Rilke incarnava nel suo dialogo con l’infinito, al di là delle cose e del più facile sentimentalismo, difendendo il significato ultimo e profondo della scrittura in versi, come rivelò in un brano famoso tratto dal suo unico romanzo, I Quaderni di Malte Laurids Brigge: “Perché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si acquistano precocemente), sono esperienze. Per scrivere un verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna capire il volo degli uccelli e comprendere il gesto con cui i piccoli fiori si schiudono al mattino. Bisogna saper ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e congedi previsti da tempo, a giorni dell’infanzia ancora indecifrati, ai genitori che eravamo costretti a ferire quando ci porgevano una gioia e non la comprendevamo (era una gioia per qualcun altro), a malattie infantili che cominciavano in modo così strano con tante profonde e gravi trasformazioni, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattine sul mare, al mare soprattutto, ai mari, a notti di viaggio che passavano alte rumoreggianti e volavano assieme alle stelle, e non basta ancora poter pensare a tutto questo. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche accanto ai moribondi bisogna esser stati, bisogna essere rimasti vicino ai morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori a folate. E ancora avere ricordi non basta. Bisogna saperli dimenticare, quando sono troppi, e avere la grande pazienza d’attendere che ritornino. Perché i ricordi in sé ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, anonimi e non più distinguibili da noi stessi, solo allora può darsi che in una rarissima ora si levi dal loro centro e sgorghi la prima parola di un verso”.

Poesia come esperienza totale, quindi, rivelatrice e trasformativa, che lo segnò anche fisicamente, portandolo a una morte precoce, a una lenta consunzione mai raccontata ad altri. Zweig non lesina i dettagli anche sull’esistenza materiale dell’amico, sui suoi viaggi solitari da “eterno senzapatria, pellegrino di tutte le strade”, in Russia, Spagna, Italia, Francia, Egitto, Africa, per assorbite atmosfere che diventassero silenziosamente voce e musica poetica. Il suo apprendistato da assistente allo scultore Rodin, da cui apprese la resistenza e l’impassibilità che la materia oppone alla volontà addomesticatrice di chi scrive. Il generoso dedicarsi a corrispondenze epistolari mai superficiali, con giovani aspiranti poeti e le molte ammiratrici. La fragilità fisica di “quest’uomo mite, appartato, silenzioso”, che dall’esterno “appariva delicato, lamentoso e debole”, e invece interiormente era fatto di quarzo, capace di sfinirsi sulle pagine pur di raggiungere l’esito desiderato.

Rilke fu poeta vero, nelle parole contemplanti e meravigliate di Stefan Zweig. Poeta: “parola antichissima e sacra, densa e importante e raffinata, adatta a lui … puro nel volto e nel respiro … che come sempre le cose divine, appare di rado nel tempo… Davanti a un evento così alto, così raro, anche il lutto si trasforma in umiltà e il lamento si scioglie in gratitudine”.

 

«Gli Stati Generali», 28 agosto 2025

 

 

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