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BERENGO GARDIN

GIANNI BERENGO GARDIN, LA PIU’ GIOCONDA VEDUTA DEL MONDO – CONTRASTO, MILANO 2018

Dopo le grandi navi, le perle, gli uccelli e i giardini di Venezia, il maestro Gianni Berengo Gardin pubblica con l’editore Contrasto un altro splendido volume illustrato, con immagini in bianco e nero che inquadrano, secondo le stesse parole dell’autore, “i motoscafi, le gondole, la Regata storica, la Pescheria, il Fontego dei Turchi, i matrimoni. La vita di oggi rispetto a quella di ieri”. Nel nono libro che Berengo Gardin dedica alla città in cui è vissuto dall’infanzia fino al 1965, e che continua ad amare con assoluta fedeltà (pari a quella riservata alla sua Leica e alla pellicola tradizionale rispetto al digitale), sono le finestre ad assumere il ruolo di protagoniste. Una finestra in particolare, quella dell’ultimo piano di Palazzo Erizzo Bollani sul Canal Grande, fra il rio di San Grisostomo e il rio dei Santi Apostoli, dove aveva abitato nella prima metà del Cinquecento Pietro Aretino. In una lettera del 27 ottobre 1537 al suo benefattore Domenico Bollani, proprietario del Palazzo, riportata in questo volume, così si era espresso lo scrittore toscano, riferendosi al Canale a alla città veneta: “E per esser egli il patriarca d’ogni altro rio, e Vinezia la papessa d’ogni altra cittade, posso dir con verità ch’io godo de la più bella strada e de la più gioconda veduta del mondo”. Una veduta gioconda che ha conquistato l’occhio del fotografo, dal 2004 ripetutamente ospite di un amico a Palazzo Bollani,  godendo del privilegio di osservare lo straordinario panorama che aveva affascinato Aretino cinque secoli fa. La bellezza sfida il tempo, la poesia salverà il mondo.

© Riproduzione riservata               IBS, 28 dicembre 2018

 

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BERGER

LORE BERGER, LA COLLINA MISERICORDIOSA – LINDAU, TORINO 2015

Lore Berger si uccise nell’agosto del 1943, a 22 anni, gettandosi dalla torre idrica del Bruderholz, sulla collina sovrastante Basilea. Il mese prima aveva mandato il suo manoscritto La collina misericordiosa alla giuria del premio letterario Gutenberg di Zurigo: al breve romanzo, considerato troppo pessimista e corrosivo, venne assegnato solo il quinto posto, mentre gli furono preferite opere più banali ma edificanti. Lore Berger, figlia di un professore di ginnasio basilese, esprimeva in queste pagine il disagio morale della gioventù elvetica più sensibile e colta nei confronti di una cultura e di una morale (quella della Svizzera borghese e neutrale degli anni ’40), ritenuta meschina e superficiale, e di un’educazione familiare «non cattiva ma striminzita». Il romanzo ricalca e in alcuni casi preannuncia con fedele spietatezza la biografia dell’autrice: Esther, la protagonista ventenne della narrazione, soffre infatti di una malattia che la riduce a rifiutare il cibo e qualsiasi collaborazione con i metodi di cura, e che lei stessa definisce come mal d’amore e taedium vitae. Esther è l’alter ego di Lore, che le presta emozioni e pensieri, amori, amicizie e ribellioni, ma sdoppiandosi, riflettendosi anche in un altro personaggio del libro, la raffinata ed estetizzante Bea che, malata di tubercolosi renale, pone termine alla sua vita proprio come qualche mese dopo farà l’autrice del racconto. La collina misericordiosa non ha una vera e propria trama: può essere considerato un diario o una lunga lettera arricchita da numerosi inserti testuali: flash-back, poesie, aforismi, appunti di cronaca. Una specie di arazzo, insomma, in cui un’anima sofferente, dalla sensibilità acuta e contorta, guarda in modo sarcastico e amaro al mondo delle persone “normali”, “sane”, smascherandone l’ipocrisia e la vuotezza. Un mondo, si legge,«fatto di gente operosa e felice, bambini che giocano e coppiette di sposini o paffute signorine del vicinato che per la maggior parte diventano puericultrici, e la loro religione, la loro filosofia e la loro morale non sembrano mostrare più buchi di quanti non ne mostrino le loro calze e i loro denti».

Il rappresentante più emblematico di tale mondo, osservato con rabbia e consapevolezza della propria superiorità, ma anche con rimpianto e nostalgia, è il giovane Thomas Rheinardt, odontotecnico rozzo e belloccio di cui la nobile e intellettuale Esther si innamora, attratta dalla sua esuberante adesione alla vita fisica, ai valori dei benpensanti – che lei rifiuta e subisce nello stesso tempo -. Thomas per brevissimo tempo illude Esther, per poi subito dimenticarla, tradirla, condannarla alla disperazione: «Così terribile non me l’ero immaginato. Non avevo pensato che nei rapporti tra uomo e donna ci potesse essere tanto dolore. In realtà non eravamo fatti per quella felicità che rende sopportabile l’esistenza, no, nessuno di noi due».

Ma Thomas non è che un elemento, un personaggio tra i tanti che convinceranno Esther/Lore a preferire la morte alla vita. Altrettanto assurdi e indifferenti risultano il mondo della amicizie universitarie, le feste mondane, i circoli letterari o le redazioni dei giornali che la giovane frequenta illudendosi di scoprirvi l’autenticità dell’esistenza. Solo nella natura e in un dio che forse in essa si nasconde, la protagonista potrebbe trovare la pace cui aspira: nella misericordia della collina, della betulla che accarezza i vetri della finestra, dei pazienti occhi canini del suo cucciolo Nicevo. E a questa misericordia si consegna, dopo aver lottato sia con la vita sia con il desiderio di morire: «Ho paura di entrambe, della vita come della morte… per nessuna delle due sono abbastanza forte, né per l’agitazione né per il silenzio».

 

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www.sololibri.net/La-collina-misericordiosa-Lore.html      16 agosto 2015

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BERNHARD

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BERNHARD

THOMAS BERNHARD, IL FREDDO – ADELPHI, MILANO 2014

«Da un momento all’altro ero di nuovo al punto di dover partire per Grafenhof. Ma dissi di no e non ci ritornai mai più».Con queste parole termina Il freddo (Adelphi, 2014), il romanzo di Thomas Bernhard che racconta la sua infernale odissea giovanile, tormentata non solo dalla tubercolosi – e quindi da continui ricoveri, estenuanti e crudelissime cure, ricadute, inattesi miglioramenti – ma da una sostanziale, e forse inorgoglita, estraneità all’ambiente e alla società in cui era costretto a vivere. Figlio illegittimo e non riconosciuto dal padre, cresciuto in una famiglia economicamente disastrata, con una madre agonizzante per un cancro all’utero, rifiutato dalle scuole di una Salisburgo ottusa e farisaica, il giovane Thomas si ammala, e viene ricoverato nel sanatorio di Grafenhof, perverso mulino sanitario macinasciagure.Si ritrova quindi in balia di medici aguzzini impreparati, infermieri e suore indifferenti, tra malati deprivati di qualsiasi dignità: «Erano lì coricati… apatici, disgustati dalla vita, allineati gli uni accanto agli altri, e sputando nelle bottiglie svolgevano il compito supremo che gli era assegnato… Sapevo che qui regnavano l’impulso a spegnersi, la disponibilità alla morte». Eppure il diciottenne Bernhard riesce a salvarsi, aggrappandosi a una astiosa diffidenza nei riguardi della medicina ufficiale, e alla propria capacità di intuire l’assurdo insito nei gesti e nei pensieri di chi lo circonda; ma soprattutto convincendosi di poter guarire con il coltivare due passioni fondamentali della sua giovane esistenza: la letteratura e la musica.
Cantando Bach, Purcell, Haydn, Schubert durante la messa all’ospedale, e poi nella parrocchia del paese; leggendo Baudelaire, Trakl, I Demoni di Dostoevskij, recupera un barlume di fede nella vita che lo convincerà ad evadere, ribellandosi, dal destino che gli era stato beffardamente assegnato, beffando lui stesso la condanna comminatagli, e diventando uno dei massimi scrittori del Novecento.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Il-freddo-Thomas-Bernhard.html      25 gennaio2016

 

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BERNHARD

THOMAS BERNHARD, SOTTO IL FERRO DELLA LUNA – CROCETTI, MILANO 2015

Nella traduzione attenta di Samir Thaber, e con testo tedesco a fronte, è uscito da Crocetti il volume di poesie che lo scrittore austriaco Thomas Bernhard (1931-1989) pubblicò nel 1958. Dei cinque libri di versi dati alle stampe da Bernhard in giovane età, questo Sotto il ferro della luna è forse il più maturo e il più noto, e lascia trapelare in nuce temi e toni della sua prosa narrativa e teatrale posteriore. Tuttavia non ci troviamo davanti, qui, alla scrittura livida e rancorosa, ossessiva e crudele, autoreferenziale e misantropa delle prove maggiori: i nodi e le rigidità caratteriali, ereditati dalla sua sofferta vicenda biografica, si allentano nella descrizione della natura, pur senza mai sciogliersi del tutto. Il paesaggio montano e severo in cui Bernhard si autoesiliò non è mai consolatorio, né amico: eppure viene avvertito come solidale nella faticosa adesione al puro esistere, alla ordinaria conservazione di sé, nello scorrere imperturbabile del tempo.

«Quest’anno è come l’anno di mille anni fa, / non sappiamo nulla, / non sappiamo nulla del declino, / delle città sprofondate, del vortice in cui sono affogati / cavalli e uomini», «Si sveglieranno e saranno dimenticati / nella risata che rotola dalle colline, / nel temporale dei lupi // che investe di soffi sulle città fumanti le teste ovine / e le rende polvere». Un destino indifferente livella vegetali, animali e persone, e per esso non vale la pena lottare o soffrire, visto che ogni cosa è fatalmente consegnata alla dissoluzione e all’oblio.

Il paesaggio descritto è in prevalenza notturno e invernale, tormentato da neve, pioggia e vento, minacciosamente silenzioso, abitato da presenze spettrali «che danzano sopra i maiali e perseguitano mucche / nel loro sonno irrequieto». Ma nella simbologia negativa dell’universo bernhardiano ha almeno il pregio di non essere animato e percorso da parole e gesti umani, rimanendo invece puramente spopolato, selvatico: «Più selvaggio grida / l’uccello / del mio morire, / ascolta, / nel vento si agitano / paure, / infreddolito / torna a me / ciò che avevo perduto…». Se c’è una qualche preghiera, non è mai rivolta a un dio, ma sempre ai morti, ai trapassati, con cui si stabilisce l’unico rapporto possibile, fatto di impotente rassegnazione, di soffocata animosità. Cimiteri, processioni funebri, alberi spettrali, luna e stelle lucide come l’acciaio, scarse case disabitate, uccelli che stridono nel cielo plumbeo: vivere è faticoso, senza alcuna prospettiva di riscatto o salvezza, senza possibilità di un’apertura verso il futuro. Non leggiamo in questi versi l’odio e il disprezzo verso la mentalità claustrofobica e l’ideologia politica austriaca che tracima dai romanzi e dalle opere teatrali successive di Bernhard: solo disarmata paura, e passiva disperazione: «ormai nessun arbusto ti proteggerà / da fredde stelle / e da rami macchiati di sangue, / nessun albero e nessun cielo ti consolerà, / nelle corone di inverni in frantumi / cresce la tua morte, / con rigide dita / lontano da erba e da lande selvagge / nei detti della neve or ora caduta».

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Sotto-ferro-luna-Bernhard.html        14 ottobre 2016

 

 

 

 

 

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BERNHARD

THOMAS BERNHARD, – GUANDA, MILANO 2012

In questo romanzo – – pubblicato da Thomas Bernhard nel 1978, l’autore austriaco esibisce la propria autodistruttiva e bruciante nevrosi attraverso l’invenzione di un alter-ego ossessivamente psicotico, uno studioso di scienze naturali ermeticamente chiuso al mondo e in se stesso, relegatosi volontariamente in un gelido e ottuso paesino di montagna per dedicarsi a sue fantomatiche ricerche scientifiche. Scritto in prima persona, con uno stile logorroico, ansimante e ansiogeno, che riproduce i labirintici percorsi di un pensiero malato, il racconto ci introduce nell’atmosfera asfittica e persecutoria dell’ambiente che aveva fatto dello stesso Thomas Bernhard una vittima e un bersaglio privilegiato.

Il protagonista del racconto, capace di vivere per mesi recluso in casa, in preda ad allucinazioni e a paure paralizzanti, e a “un meccanismo di impotenza vitale e di nausea esistenziale”, solo di tanto in tanto trova il coraggio di uscire per recarsi nell’ufficio del suo unico amico Moritz, un vivace e comprensivo agente immobiliare, disposto ad ascoltare le sue lamentazioni, e a incoraggiarlo nel contempo verso una visione più ottimistica della quotidianità. Qui si imbatte casualmente in una coppia di clienti dell’agenzia, interessati ad acquistare un podere per costruirvi una spaziosa ma isolata casa di proprietà: lui, ingegnere svizzero specializzato nella progettazione di centrali elettriche, lei affascinante e misteriosa signora di origine persiana. Elettrizzato dall’incontro, e desideroso di approfondire la conoscenza con i due nuovi arrivati, lo studioso misantropo recupera subito una parte del suo carattere troppo a lungo rimossa e censurata, e sfogando l’emozione in una corsa sfrenata attraverso il bosco, sotto la pioggia battente, intuisce nuovamente il sapore della libertà, da riscoprire in sé e nel prossimo. Propone quindi alla signora persiana di accompagnarla in lunghe passeggiate nei campi durante le assenze lavorative del marito, e lentamente scopre in questa donna, interessata come lui alla filosofia e alla musica, la possibilità di un’amicizia solidale e sensibile.

La confidenza e le confessioni reciproche fanno ben presto comprendere allo scienziato psicotico che la situazione più tragica non è tanto la sua, quanto quella vissuta da lei: e in questo scoprirsi meno fragile del temuto, e sostegno necessario alla disperazione dell’amica, trova una via d’uscita dalla sua depressione. Lo stile della narrazione si modifica conseguentemente al miglioramento dello stato mentale del protagonista: diventa più rapido e asciutto, più razionale e coerente.
Il sollievo reciproco che i due riescono a concedersi, discutendo di Schopenhauer e di Schumann, si esaurisce però in fretta, illanguidendo in una progressiva e annoiata estraneità: e di questa estrema, irrecuperabile delusione sarà la signora a pagare le conseguenze più tragiche e definitive. “Da me si era aspettata la salvezza, ma io l’avevo delusa. Anch’io ero perduto, come lei, una persona annientata, anche se con lei non l’avevo ammesso, lo sentiva, lo sapeva. Da una persona simile non poteva venire la salvezza”.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Si-Thomas-Bernhard.html          18 ottobre 2016

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BERNHARD

THOMAS BERNHARD, IN HORA MORTIS – SE, MILANO 2017

Chi ama Thomas Bernhard non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo volume, appena riproposto in una raffinata edizione da SE, con ricche note biografiche e bibliografiche, un’interessante appendice iconografica di foto che ritraggono l’autore dall’infanzia alla maturità, e soprattutto con un’esaustiva e appassionata postfazione del germanista Luigi Reitani, a cui si deve anche la nuova traduzione.

In hora mortis, è un breve poema diviso in quattro sezioni, in cui l’ateo Thomas Bernhard affronta, con la consueta rabbiosa e angosciata inquietudine, l’Assoluto, che chiama filialmente e in maniera ossessivamente ripetuta “Signore” (Herr), aggrappandosi allo scampo di una millenaria tradizione religiosa. Scritto nel 1958, fa parte della produzione poetica giovanile di Bernhard, poco considerata dalla critica, e solo recentemente rivalutata come fase preliminare e introduttiva alla sua più considerevole attività letteraria in prosa. In quegli stessi anni, il genio saliburghese (nato nel 1931 in Olanda, frutto di una relazione illegittima, dal cui stigma si sentì marchiato per tutta la vita) scrisse altri tre volumi di versi, recentemente pubblicati in Italia da Crocetti e Guanda, che evidenziano sia il suo rapporto conflittuale con la famiglia e l’asfittico ambiente culturale austriaco, sia l’intenso desiderio di recuperare un’avvolgente intimità con la natura, terragna e cosmica. Quest’ultimo aspetto è presente anche nelle poesie di In hora mortis, in cui la campagna (la terra, le stalle, gli animali, i contadini) offre un suo humus di antico simbolismo sacrale – fatto di giaculatorie e riti scaramantici, più vicini alla superstizione che alla fede -, e il cielo rimane immobile e inavvicinabile, specchio di indifferenza e gelo:

«Selvaggio cresce il fiore della mia ira / e tutti vedono la spina / che nel cielo affonda / stillando sangue dal mio sole / cresce il fiore della mia amarezza / da quest’erba / che i miei piedi lava», «un merlo  che non canta / e la mia scrittura nel cielo / straniera alle erbe / Signore mi tormenta la stella», «Signore che mi lasci inginocchiare su neve e ghiaccio / per una preghiera / e la grazia di un cielo lontano», «Signore la mia preghiera crea dalla notte e dal timore / il sole / e la luna», «Signore / che non vuoi la mia preghiera / e divori la mia supplica / sul dorso di stanche stelle / di floridi campi / di tetri cortili / che erigi la mia tomba / che mi uccidi con una scure».

Come risulta evidente dai versi sopra riportati, potentissima è l’eco profetica veterotestamentaria di Isaia, Geremia e dei Salmi (cfr. Sal 10. 17. 87. 129), nella loro implorante richiesta di aiuto, nella loro violenza vendicativa e nella spirale opprimente di colpa-penitenza-redenzione. Ma si avvertono pure risonanze dalle litanie medievali, dalla letteratura pietistica del 1600-1700, fino alle eredità espressionistiche di molti autori di lingua tedesca (Benn, Trakl, Bachmann, Celan), giustamente sottolineate dal curatore del volume Luigi Reitani. Il tema della morte, che campeggia già nel titolo, è predominante in ogni sezione. Cadenzato da pause di silenzio, da gridi penetranti e da una tenebrosa musicalità da requiem, esso si rifà alla tradizione degli “Sterbebüchlein”, trattatelli religiosi che insegnavano ai fedeli l’ars moriendi, esortandoli alla meditazione interiore prima dell’incontro supremo con Dio. Ma qui l’assalto al cielo di Bernhard non ha nulla di docile e rassegnato, piuttosto assume i toni di una sfida irosa, esibendo un disperato bisogno di consolazione, l’ansiosa ricerca di una risposta, e insieme il blasfemo rifiuto di ogni acquiescente devozionismo: c’è insomma in queste poesie giovanili già tutto il grande narratore che conosciamo e amiamo di più, la sua tormentata angoscia, il suo urlo di ribellione contro un destino ostile, contro un Deus absconditus e silenzioso da cui si sente tradito e condannato.

 

© Riproduzione riservata               «Nazione Indiana», 25 settembre 2017

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BERNHARD

THOMAS BERNHARD, AVE VIRGILIO. CARME – GUANDA, MILANO 2017

Con la traduzione di Anna Maria Carpi, Guanda pubblica una raccolta di Thomas Bernhard scritta tra il ’59 e il ’60 (quando l’autore trentenne cercava scampo alle sue angosce al di fuori dagli asfittici confini del suo paese), e inconsciamente dimenticata o consapevolmente sepolta in qualche cassetto per più di vent’anni.  Ave Virgilio è un Carme suddiviso in sette sezioni, che di bucolico ha solo il riferimento classico del titolo, su uno sfondo però rabbioso di pascoli montani, stalle e contadini, malinconiche feste di paese, culti e riti più superstiziosi che devoti: tutto l’armamentario culturale che caratterizza la produzione letteraria di Thomas Bernard, «profeta dei deformi», cantore rancoroso e blasfemo di una natura terribilmente inclemente nei riguardi delle sue creature.

Il grumo di dolore che attraversa queste pagine esplode nello spasimo livido di astio per la condanna di un’origine orgogliosamente esibita e altrettanto spietatamente rigettata: «La mia parola scelse / pecore, porci, abbatté manzi pregni, / bevve dalla groppa della vacca…/ in millenari libri / l’aratro di mio padre sfigurò le costellazioni». L’aratro come la penna, il padre come ogni autorità – letteraria, medica, politica o religiosa – capaci di “sfigurare” anche il cielo: «ho trivellato i firmamenti…». Il passato è un passato di morte, violenza e desolazione, come nella litania della sposa in Hochzeitgesellschaft: «Tutti volti morti / e più indietro / tutti mestieri morti / tempo morto e morto perire / morti prati, morti campi / morti casali, morte vacche / morti porci, morti ruscelli / e nei ruscelli / pesci morti / morte preghiere, donne morte, / città morte, morti inverni…»; a lei risponde lo sposo elencando una lunga serie di privazioni, di “senza” (senza mare, senza primavera, senza contenuto, senza uscita, senza occhi, senza latte, senza bianco…).

Altri personaggi portano le stimmate di una condanna metafisica, nella brutalità della loro vita ottusamente elementare: parroci, osti, macellai, scrivani comunali, artigiani e braccianti. Tra loro si erge l’io del poeta, incompreso e perseguitato, il solo capace di innalzarsi aldilà delle miserie: «e se mi linciassero sulla piazza del paese, / se mi sbattessero in una fossa buia / e sputassero sul mio teschio / e ancora si contendessero il mio cazzo…//…  io parlai di verdemela e di crusca invernale, / esplorai le tasche del mio cappotto… / Insensati salmi io diffusi dal pulpito, / abbattei grida di uccelli nel grano matto…», «io nel bosco, / io nel gelo, / io nei fiumi, / io nei grossi libri, / io sui crinali dei colli…»; «voi che mi avete messo fuori, / me, una bestia qualunque, / espulso come piscia dopo la birra…». Capovolgendo «l’alfabeto di Virgilio», Thomas Bernhard fustiga non solo le “mandibole”, la “demenza” dell’«idiota provincia», ma anche la natura, nei suoi paesaggi plumbei, nelle carcasse degli animali uccisi, negli alberi rinsecchiti, nei gelidi inverni. Fuggire, allontanarsi dalla «sozza vita», cercare salvezza in Italia o in Inghilterra («ma dov’è il mio biglietto?») non serve e non basta a promettere pace al «salmo incessante» («Cosa vuole da me il giorno / e mi fa domande») di questa «voce del lutto» che ha prodotto «un’esperienza poetica tra le più originali e condivise del secondo Novecento», come afferma Valerio Magrelli nella quarta di copertina.

 

«Poesia» n. 330, ottobre 2017

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BERNHARD

THOMAS BERNHARD, GOETHE MUORE – ADELPHI, MILAN 2013

In quarta di copertina è scritto che questo “piccolo gioiello” contiene in nuce tutto Thomas Bernhard. E in effetti ritroviamo nei quattro racconti qui antologizzati le ossessioni, il sarcasmo, il dolore e la rabbia che caratterizzano l’intera produzione dell’autore austriaco (1931-1989). Persino i tic stilistici, esasperati quasi a creare volutamente un effetto comico e straniante (le ripetizioni, gli intercalari, le inserzioni e le sottolineature del parlato).

Già dal primo brano, che dà il titolo al volume, il lettore si trova immerso in un’atmosfera ironicamente surreale, beffarda, con il Genio (“il più grande in assoluto fra i tedeschi mai esistiti”, “il paralizzatore della letteratura tedesca”, “il grande spirito”), immobile sul suo letto di morte, alle prese con l’inventario finale del dato e avuto nella scrittura. Circondato dalla venerazione di signore e donnette, e dalla dubbia e litigiosa fedeltà di tre segretari-intellettuali (Kräuter, Riemer ed Eckermann), si convince improvvisamente della futilità di ogni letteratura, convertendosi alla superiore evidenza del pensiero filosofico. Esige pertanto di incontrare Wittgenstein, di poterlo ospitare a Weimar per discutere con lui su “il dubitabile e il non dubitabile”, eclissando confini temporali e geografici: ma muore prima che il suo desiderio venga esaudito, e le sue ultime parole “Mehr nicht!” (Più niente!) vengono modificate dagli assistenti nelle celebrate e celebrative “Mehr licht!” (Più luce!). L’ironia sghignazzante di Thomas Bernhard sembra prendersi gioco di ogni accademismo letterario, di ogni pomposità culturale avvertita come fittizia e ingannevole.

Gli altri tre racconti scavano più direttamente nella biografia dell’autore, mettendo in luce il suo mai superato risentimento nei confronti dell’istituto familiare, castrante e oppressivo, e dell’ambiente claustrofobico e colpevolizzante della sua Austria. Quindi ci imbattiamo in un uomo adulto che tenta di sottrarsi alle persecuzioni dei genitori (ottusi e malevoli affaristi, privi di ogni sensibilità e cultura) rifugiandosi nella torre del palazzo avito in compagnia dei saggi illuminanti di Montaigne: “Io non ho mai avuto un padre e non ho mai avuto una madre, ma ho avuto sempre il mio Montaigne. I miei procreatori, che mi rifiuto di chiamare padre e madre, mi hanno ripugnato fin dal primo momento, e io ho tratto molto presto le conseguenze di questa ripugnanza e mi sono buttato dritto dritto fra le braccia del mio Montaigne, la verità è questa”.

Il terzo, esilarante e drammatico racconto, vede di nuovo un figlio adulto che rievoca il suo tormentoso passato di bambino, obbligato a seguire i genitori in sadiche e punitive escursioni tra le montagne, in cerca di una quiete esteriore che non sapevano raggiungere interiormente: crudeli nell’esasperare la prole nel fisico e nel carattere, tentando di riscattare così i loro fallimenti esistenziali. Infine, il falò apocalittico a cui Thomas Bernhard sottopone in sogno l’Austria cattolica e nazionalsocialista sembra voler ridurre in cenere l’intero universo che l’ha esiliato ed emarginato in una condanna economica e morale ingiusta e ingiustificata: “L’intera disgustosa Austria ormai solo bestialmente fetida, con tutti i suoi volgari e abietti abitanti e con i suoi edifici famosi in tutto il mondo, chiese e conventi e teatri e sale da concerto, andava a fuoco e bruciava sotto i miei occhi”.

Rabbioso e dolorante, angosciato e deluso, Thomas Bernhard sembra trovare solo nell’invenzione della parola un porto sicuro di consolazione e conforto.

 

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https://www.sololibri.net/Goethe-muore-Thomas-Bernhard.html            3 febbraio 2018

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BERNHARD

THOMAS BERNHARD, CAMMINARE – ADELPHI, MILANO 2018

Il titolo tedesco di questo romanzo, che Thomas Bernhard pubblicò nel 1971, è Gehen, “Andare”, e forse rende meglio che Camminare il senso affannato, tortuoso, scomposto delle varie e intersecantesi direzioni percorse dai tre protagonisti, non solo peregrinando attraverso la città di Vienna, ma soprattutto smarrendosi nei pensieri e nelle ossessioni mentali da cui sono perseguitati.

Il narratore senza nome riproduce in una prosa torrenziale, irrefrenabile e circonvoluta, i monologhi con cui Oehler gli racconta l’improvvisa pazzia che aveva portato il loro comune amico Karrer ad essere internato nel manicomio dello Steinhof. I tre camminavano il lunedì e il mercoledì, alternandosi nella frequentazione, ma controllandosi reciprocamente nei movimenti, nella velocità, nel vestiario, nelle strade battute (in genere limitate al centro cittadino, tra il Friedensbrücke, la Klosterneuburgerstrasse e la Alserbachstrasse), immersi in macchinose conversazioni di filosofia, e in sarcastici commenti sulla vita borghese e volgare dei loro connazionali.

«Nulla è più istruttivo del veder camminare uno che pensa, così come nulla è più istruttivo del veder pensare uno che cammina, per cui possiamo dire senz’altro che vediamo come pensa colui che cammina, così come possiamo dire che vediamo camminare colui che pensa e viceversa vediamo pensare colui che cammina e così via… In ogni pensiero siamo perduti, se ci abbandoniamo a questo pensiero, se ci abbandoniamo davvero anche a un solo pensiero, siamo perduti… Così siamo sempre lì a buttare via i pensieri che abbiamo, e ne abbiamo sempre perché è nostra abitudine avere sempre dei pensieri; per tutta la vita, a quanto ne sappiamo, buttiamo via i pensieri, non facciamo altro, perché non siamo altro che persone intente a rovesciare e a svuotare di continuo le proprie menti come secchi di rifiuti, ovunque siano».

A cosa pensava dunque Karrer, e con quanta «tensione nervosa» quando è improvvisamente impazzito? Non solo alle teorie di Wittgenstein, non solo all’indefinibilità del reale, al provincialismo austriaco, agli orrori architettonici, alla stupidità delle persone che continuano a mettere al mondo figli destinati all’infelicità, alle vane illusioni sulle sorti umane. Ma soprattutto al fatto che il genio non viene riconosciuto ed è osteggiato sia dalla gente comune sia dal potere, che una vita fuori dall’ordinario crea fastidio e imbarazzo, che il senso del bello e dell’ordine è stigmatizzato e deriso. A questo pensava e di questo discuteva animatamente con il suo amico Oehler (che lo riferisce al narratore senza nome), piangendo la sorte dell’illustre chimico Hollensteiner, suicidatosi per protestare contro la cecità e l’indifferenza del governo che non aveva finanziato le sue ricerche: «… uno Stato che fa l’impossibile per distruggerti anziché venirti in aiuto, che fa l’impossibile per paralizzarti anziché venirti in aiuto». Ed entrambi così furibondi e pieni di rancore erano entrati nel negozio di tessuti di Rustenschacher, dove la follia di Karrer era esplosa osservando nei pantaloni che voleva acquistare delle imperfezioni che ne rivelavano la vera provenienza: non il vantato ed elegante tessuto inglese, ma «merce di scarto cecoslovacca».

La scrittura funambolica di Bernhard rivela, nel presentare il tracollo psichico del protagonista, tutta la sua grottesca, rabbiosa, irritante abilità descrittiva. Karrer precipita in un vortice di disperata e vulnerabile paranoia, aggredendo il proprietario del negozio e il commesso, urlando il suo disgusto verso tutto e tutti, ribellandosi al conformismo di maniera che livella gusti e comportamenti. Chi legge Thomas Bernhard, e ne percepisce il furore iconoclasta nei riguardi delle istituzioni (in questo caso rappresentate tanto dalla psichiatria, quanto dall’interesse economico e dalle convenzioni sociali) finisce per sodalizzare con i suoi eroi, che sono sempre i reietti, i disadattati, gli eversivi, incapaci di adeguarsi e di trovare un qualsiasi sollievo dal dolore di vivere.

 

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https://www.sololibri.net/Camminare-Thomas-Bernhard.html       2 aprile 2018