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RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, TENEREZZA – EINAUDI, TORINO 2022

In questo decimo libro pubblicato con Einaudi, Eugenio Borgna esplora uno dei sentimenti umani tra i meno considerati nel mondo contemporaneo, forse addirittura irriso per la fragile, delicata e disponibile attenzione attraverso cui si rapporta con l’alterità: la tenerezza.

Il Professor Borgna (Borgomanero 1930), esponente di punta della psichiatria fenomenologica, è stato Primario emerito di psichiatria dell’ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Ha firmato decine di pubblicazioni scientifiche e numerosi volumi divulgativi, indagando l’arcipelago delle emozioni (titolo di un suo successo librario del 2001) che investono l’essere umano, sia come patologia clinica (schizofrenia, depressione, malinconia, autismo, anoressia) sia come sentimenti che riguardano più generalmente la persona nella sua individualità e nel relazionarsi con l’esterno: ansia, solitudine, nostalgia, disperazione, senso di colpa, turbamento, sfiducia.

La sua scrittura si ricollega sempre non solo con l’esperienza medica vissuta in decenni di pratica ospedaliera, ma anche con le suggestioni derivate dalle molte, partecipi letture di autori amati e studiati per tutta la vita: Pascal, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Simone Weil tra i filosofi; Sant’Agostino, i mistici, Santa Teresa di Calcutta tra i religiosi; Leopardi, Emily Dickinson, Rilke, Celan, Mann, Cristina Campo, Antonia Pozzi tra gli scrittori e i poeti. Senza trascurare il cinema e la musica classica.

In questo saggio proposto nella collana einaudiana Le vele, Borgna rileva quanto la tenerezza, sorella della gentilezza, sia necessaria alla cura del corpo e dell’anima altrui, “nell’attenzione e nell’ascolto, nel silenzio e nella solidarietà”. In particolare allo psichiatra, più ancora che ad altri specialisti, è richiesto di avvicinarsi a chi soffre con empatia e generosa disponibilità. Criticando severamente le cure ospedaliere e universitarie asservite oggi al mito esasperato dell’oggettività e del rimedio farmacologico, l’autore sottolinea l’importanza fondamentale dell’avvicinamento soggettivo e interiore al paziente, da mettere in atto con l’uso di parole che sappiano aprirsi alla comprensione e alla rispondenza affettiva: “Non c’è comunicazione autentica se non quando si evitano parole indistinte e banali, ambigue e indifferenti, glaciali e astratte, crudeli e anonime”.

Alle parole adeguate si deve accompagnare poi il linguaggio del corpo, dei gesti, degli sguardi. Borgna rivaluta l’importanza del sorriso, delle lacrime, delle carezze: segnali fisici che indicano grazia e vicinanza, comunione e umana simpatia, capaci di produrre vaste risonanze emozionali, sebbene spesso vengano interpretati come indice di debolezza e affettazione. La tenerezza si può e si deve imparare, ad essa ci si deve educare, non esclusivamente quando si esercitino professioni di servizio sociale, ma nei rapporti quotidiani di amore, amicizia, confronto che hanno il diritto di essere preservati dall’indifferenza e dalla noncuranza: altrimenti si smarriscono, svaniscono nella distrazione e nella superficialità. Parole educate e gentili, quindi, evitando aggressività e prepotenza; senso del pudore nell’approssimarsi alle emozioni altrui, soprattutto nell’età fragile dell’adolescenza; gesti misurati e non invasivi, lontani tuttavia dalla freddezza dell’impassibilità.

Ci sono stati psichiatri che hanno saputo trattare il disagio mentale con rispetto e dedizione, restituendo ai malati il senso della dignità e della libertà: Basaglia, Tobino, Callieri, Selz… Da loro Borgna ha tratto insegnamenti culturali e umani. Altrettanto riconosce di avere imparato da scrittori e poeti, le cui testimonianze letterarie vengono riportate con ammirazione e gratitudine, e con l’intenzione di celebrare “Il mistero della poesia che, quando è grande, ci fa conoscere l’indicibile nella vita, e le scintille di luce nelle notti oscure dell’anima”. Maestri di tenerezza sono stati Leopardi, Pascoli, i crepuscolari, Etty Hillesum, Antonia Pozzi. Leggendoli e rileggendoli, possiamo aprirci agli orizzonti della trascendenza e uscire dai confini asfittici del nostro io: “Nella tenerezza si incrinano le barriere che separano le une dalle altre le persone, e si rinnovano gli slanci del cuore, che sanno creare relazioni fondate sulla reciprocità”.

Ricordando l’amichevole frequentazione telefonica ed epistolare che anni fa ci aveva avvicinati, mi permetto di segnalare al Professor Borgna un distico di Sandro Penna, non citato nel suo libro, che potrebbe forse rappresentarne una degna e penetrante epigrafe: “La tenerezza tenerezza è detta / se tenerezza cose nuove dètta”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 20 giugno 2022

 

RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, L’ORA CHE NON HA PIÙ SORELLE – EINAUDI, TORINO 2024

Il titolo dell’ultimo libro di Eugenio Borgna, L’ora che non ha più sorelle, è ripreso da un toccante verso di Paul Celan dedicato al tragico momento del distacco dalla vita. Il Professor Borgna, illustre neuropsichiatra, psicoanalista di indirizzo junghiano e saggista di fama, è stato dal 1963 direttore del servizio psichiatrico dell’Ospedale Maggiore di Novara, di cui ora è primario emerito: scrive qui non solo con evidente cognizione di causa, ma anche con l’acuta sensibilità che caratterizza ogni sua pubblicazione, del “mistero insondabile” del suicidio, soffermandosi in particolare sulla morte volontaria messa in atto dalle donne.

Borgna individua nella fragilità una delle premesse che possono portare all’atto autodistruttivo (sia pure condizionato da diverse motivazioni esteriori, o da stati depressivi e psicotici), a causa dell’esposizione al pericolo di ferite inferte “da contesti ambientali freddi e indifferenti, che destano con maggiore facilità dolorose risonanze interiori” nell’anima femminile.

Il suicidio maschile, numericamente più esteso a livello mondiale, rivela aspetti differenti, con tratti aggressivi, lucidamente pianificati, talvolta espressamente determinati da una ribellione ideologica o sociale. L’autore cita gli esempi della fine di alcuni scrittori novecenteschi (Pavese, Trakl, Benjamin, Zweig, lo stesso Celan), segnata da una disperazione e da un impeto lacerante lontano dalla rassegnata malinconia che contraddistingue la rinuncia alla vita delle donne.

Se di Virginia Woolf e di Amelia Rosselli è riconosciuta scientificamente la disposizione psicotica che le aveva portate a lunghe degenze ospedaliere e a pesanti cure mediche per tutto il corso dell’esistenza, in altre figure di scrittrici e poetesse care all’autore si delineava già dall’adolescenza una propensione al suicidio, non determinata da infermità mentali, ma dalla vulnerabilità della loro condizione ferita dalla solitudine, e dal desiderio disatteso di realtà diverse da quelle sperate, come in Marina Cvetaeva, Sylvia Plath, Simone Weil, Antonia Pozzi.

Forse che in Simone Weil la decisione di non nutrirsi più nell’estate del 1943, poco più che trentenne, devastata dall’angoscia per l’avanzare del nazismo, e da un senso opprimente di estraneità alla storia, non può a ragione venire considerata una precisa volontà di morte, già accarezzata nelle fantasie adolescenziali descritte nei suoi diari? E in Antonia Pozzi, poetessa amatissima da Eugenio Borgna, la malinconia leopardiana che ha accompagnato la sua breve esistenza, non ha accentuato il continuo desiderio di morire, che le sue relazioni, ogni volta franate e incomprese, hanno concorso a realizzare? I versi di Antonia tratti da composizioni adolescenziali (Largo, Novembre, La porta che si chiude, Prati, Grido) facevano già presagire la volontà di concludere la vita a ventisei anni, nel dicembre del 1938, annunciando ai genitori con una lettera agghiacciante e disperata la sua decisione (“voi dovete pensare che questo è il meglio. Ho tanto sofferto…”)

“O lasciate lasciate che io sia / una cosa di nessuno / per queste vecchie strade / in cui la sera affonda // – O lasciate lasciate ch’io mi perda / ombra nell’ombra”, “E poi – se accadrà ch’io me ne vada – / resterà qualche cosa / di me / nel mio mondo – / resterà un’esile scia di silenzio / in mezzo alle voci / – un tenue fiato di bianco”, “io sono stanca, / stanca, logora, scossa, / come il pilastro d’un cancello angusto / al limitare d’un immenso cortile”, “Non avere un Dio / non avere una tomba / non avere nulla di fermo / ma solo cose vive che sfuggono / – essere senza ieri essere senza domani / ed acciecarsi nel nulla – / – aiuto”.

Borgna nella sua lunga attività ospedaliera si è imbattuto in pazienti che esprimevano questa stanchezza di vivere, o che avevano tentato di uccidersi: racconta commosso di alcune di loro – Margherita, Emilia, Stefania – e dell’angoscia provata nel timore di non saperle aiutare, convinto che la propria missione di “psichiatra dell’interiorità” dovesse trovare la più alta e umana realizzazione soprattutto nella disponibilità all’ascolto, a una comprensione partecipe, in grado di allontanare ogni intenzione o progetto suicidario delle degenti a lui affidate.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 24 novembre 2024

 

 

RECENSIONI

BORGNA

RICORDANDO EUGENIO BORGNA

Il Direttore di Odissea, Angelo Gaccione, mi ha invitato a ricordare Eugenio Borgna riattraversando le fasi della nostra amicizia: altri, più titolati e competenti di me, hanno già saputo e sapranno evidenziarne l’alto magistero intellettuale e scientifico.

Il mio rapporto di familiare e reciproca vicinanza con il Professore è iniziato intorno al 2010, in seguito ad alcune mie recensioni. Da allora si è sviluppato e approfondito, con fasi alterne, fino allo scorso 7 ottobre, quando con l’ultima mail mi comunicava il suo confortante giudizio sui versi di una raccolta inedita che gli avevo fatto leggere, informandosi affettuosamente del mio recupero fisioterapico dopo un’operazione di protesi al ginocchio. Gli ho poi inviato una recensione all’ultimo libro L’ora che non ha più sorelle, pubblicata sul blog SoloLibri il 24 novembre, ottenendo dall’ affezionata e attenta segretaria Nadia l’assicurazione del suo gradimento, insieme al rammarico di non essere in grado di rispondermi personalmente. Voglio credere sia stato così, anche se temo fosse già molto malato. Eppure, solo a metà luglio mi scriveva con relativo ottimismo: “Non so come dirle ancora la mia gratitudine per questa sua presenza amica. A presto. Il suo Eugenio Borgna”.

Decine le lettere e i biglietti che ci siamo scambiati in questi anni, parlando di tutto: di fede e politica, di poesia e di musica, delle nostre famiglie e dei nostri lutti, con una confidenza che si accresceva attraverso le sue frequenti e lunghissime telefonate. Ci scambiavamo le pubblicazioni, le sue accompagnate sempre da un biglietto scritto con una grafia tonda, larga, generosa, e con termini di squisita gentilezza, a volte addirittura di estrema umiltà, quasi dovesse scusarsi di aver osato sconfinare da psichiatra nel campo della letteratura. Nel volume La dignità ferita del 2012 ho ritrovato questo messaggio: “Non so cosa sia questo libro, Alida, se di psichiatria o di antipsichiatria, di psichiatria morale e di psichiatria salvata dalla poesia; ma lei vorrà aiutarmi a ricercarne il senso: se questo c’è? Grazie, e in amicizia”.

Ci siamo incontrati di persona solo due volte, a Milano nel 2012 in occasione di una conferenza a cui mi aveva invitato, e alcuni anni dopo nel corso di una sua inaspettata e graditissima visita a casa mia, a Garda. Ricordo la trepidante agitazione all’idea di conoscerlo, il timore di deluderlo con la mia scorbutica timidezza. In realtà, nelle due ore trascorse in un bar della Stazione Centrale, aveva parlato quasi sempre lui, grande affabulatore com’era, ma spiandomi nel volto qualsiasi espressione, in particolare quella di colpevole imbarazzo quando ci aveva avvicinati un’anziana deforme per chiederci l’elemosina. Avendogli comunicato l’assoluta incapacità che provo di affrontare il dolore, mio e degli altri, lui che del dolore altrui si era occupato per tutta la vita, mi aveva consolato: “È la cosa più difficile, guardare in faccia la sofferenza”.

Più disteso era stato il secondo incontro a casa mia, che aveva lodato per la luminosità e l’ordine e la cura delle piante, con mio grande compiacimento. Era stato inflessibile sulle indicazioni del pranzo: un toast e un succo di pera, a cui avevo aggiunto di mia iniziativa un uovo alla coque di cui lo sapevo goloso. Così alto e magrissimo com’era, non gli risparmiavo le raccomandazioni a nutrirsi di più, e a volte mi comunicava con soddisfazione quasi adolescenziale di avere optato al ristorante per un menù più consistente del solito. Poi ricambiava le mie attenzioni commentando “da medico” le diagnosi sull’artrosi che gli sottoponevo, o il percorso terapeutico per la depressione che seguivo da dieci anni, esortandomi a lasciar perdere gli psicofarmaci e ad affrontare con maggiore coraggio l’esterno e i rapporti con gli altri.

A un certo punto la nostra amicizia ha corso il rischio di infrangersi, per colpa dell’irrigidimento che mi impongo quando temo che un legame diventi troppo coinvolgente in termini affettivi ed emotivi. Mi è successo spesso, soprattutto avanzando con l’età, di interrompere rapporti a cui tenevo, per il timore di soffrire troppo se si fossero guastati per qualsiasi ragione, dopo le tante gravi perdite patite. Avevo rifiutato il suo invito a passare dal “lei” al “tu”, e addirittura gli avevo chiesto di non telefonarmi più. Cosa che immagino l’abbia ferito, perché mi ribadiva spesso la sua gioia per la nostra amicizia. Addirittura in una dura e permalosa mail lo avevo accusato di maschilismo (lui, così attento e sensibile alla fragilità femminile!), perché aveva osato scherzare sulle mie troppe paure, con allusioni da me ritenute inopportune e mortificanti. Il Professore, che si firmava, “il suo Eugenio”, capiva e scusava, conoscendo le difficoltà ambientali che avevo vissuto con le mie figlie per tanti anni, e le nostre sofferenze. Capiva e scusava da amico e da psicanalista.

Sono felice di essere riuscita, l’anno scorso, a esprimergli il mio rammarico per alcune estemporanee irritazioni nei suoi confronti, e la gratitudine invece per i tesori che il nostro rapporto mi aveva regalato: “Gentile Prof. Borgna, spero stia bene, e che il caldo non la faccia soffrire troppo. Qualche giorno fa è morto un caro amico, lasciandomi il rimpianto di un immotivato allontanamento, come succede spesso al mio calvinismo severo. E allora mi è venuto da pensare che per un certo periodo siamo stati molto amici anche noi, e poi io mi sono chiusa a chiave nel mio dolore, per quello che mi succedeva intorno. E ho interrotto i rapporti con tutti. Si sbaglia sempre, non bisognerebbe mai perdere di vista nessuno, nemmeno chi ci ha fatto del male. Così avevo scritto in una poesia, pensando che avrei potuto essere più affettuosa e più attenta anche con mio marito, mia mamma, mio papà, gli amici che ho trascurato. E quindi mi scuso anche con lei, se non sono riuscita a dirle che la sua vicinanza mi è stata cara. Alida”, “Mia gentile Alida Airaghi le sono infinitamente grato della sua mail che mi è giunta segnata da questo grande dolore che è conseguito alla morte di un suo caro amico. Le parole con cui mi dice questo sono come sempre molto gentili, umane, nostalgiche, luminose e poetiche. Infinite grazie di ogni sua mail che mi giunge come una azzurra colomba trakliana, anche se giornate come queste accrescono la nostalgia e il dolore per le persone care che non ci sono più. Non posso dimenticare le sue splendide poesie che rileggo e che sono di una bellezza e di una malinconia dolorosa, ma irrorate del fiume della speranza che è la sola cosa che possa dare un senso al nostro dolore. Grazie di tutto con grande nostalgia. Eugenio Borgna”.

Non so se il rimpianto, insieme alla mia riconoscenza, possano raggiungere il caro Eugenio Borgna, lì dove era certo di arrivare, con la sua limpida fede nell’eternità dell’anima. Ma in qualche modo, pur da non credente, lo spero.

 

© Riproduzione riservata      «Odissea», 7 dicembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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BORLENGHI

RICORDO DI ALDO BORLENGHI

Scrivo di Aldo Borlenghi (1913-1976) a più di un anno dalla sua morte, che troppo pochi hanno ricordato, per affetto più verso il docente che verso il poeta. Ho seguito le lezioni di Borlenghi per tre anni, all’ Università Statale di Milano, ho dato con lui due esami: aveva fama di professore severissimo e quasi crudele, caustico e ironico nei confronti degli studenti, che trattava con gelida cordialità, senza mai tentare (se non con i suoi laureandi) approcci più profondi. Scrupoloso nella preparazione delle sue lezioni, non divagava mai; mai si lasciava coinvolgere in polemiche o discussioni che non riguardassero il suo corso. Nonostante il suo passato di antifascista, il suo fiero anticlericalismo, il suo cerebralissimo comunismo, nessun accenno veniva mai fatto alla situazione politica; il movimento studentesco, intervenendo nel suo corso, si trovava di fronte a una muro di indifferenza quando non di aperta ostilità. Ma non era, Borlenghi, un “potente” tra gli accademici. Non lo si poteva definire “barone”. Viveva in una dimensione estranea a ciò che gli accadeva intorno, superiore (con aristocratico disprezzo) a tutto e a tutti, eterea: era, se possibile, uno studioso puro. Ma pure un uomo in qualche modo disarmato e disarmante: e valgano a esempio questi due episodi.
Avvicinandosi a una studentessa che durante le lezioni leggeva il giornale, aveva tentato di rimproverarla, ma dinanzi alla reazione agguerrita di lei, aveva concluso con un timido «Credo che non si possa»; ancora, nel corso di una lezione difficile e noiosa, si era interrotto, e nel suo flebile e arguto toscano «Volevo sincerarmi che proprio nessuno mi ascoltasse». Io, veramente, quella volta lo ascoltavo, ma in realtà non gli importava avere o no studenti, allievi, persone che lo stimassero. La sua attività di poeta fu sempre strettamente collegata con quella di critico, ed entrambe procedettero secondo parametri comuni: meditato rigore di ricerca, severo controllo stilistico e formale, fastidio per gli schemi ideologici e tutti gli incalanamenti dottrinari, puntiglioso e assoluto riferimento alla parola, che veniva analizzata, scomposta e ricomposta, levigata, resa insieme intensa e impalpabile, puro suono. Il primo libro di versi di Borlenghi, che tuttavia fu un poeta precoce, risale al 1943, a un periodo per forza di cose poco attento alla poesia; ma già era stato preceduto dalla pubblicazione della sua tesi su Leopardi. Così, se i suoi versi uscirono ancora in edizioni molto distanziate tra loro (Mondadori 1952, Mondadori 1965: se lasciamo perdere due piccoli volumi a tiratura limitata, nel ’58 e nel ’72), i contributi critici furono invece più frequenti, accompagnando e puntellando la sua attività di insegnante universitario. Argomenti preferiti erano il Tommaseo, Machiavelli, il teatro del ‘500, la novellistica del ‘300, la critica letteraria ottocentesca, e ancora Leopardi. La sue poesie mantengono tuttora la fama e il fascino di una lettura difficile, di una penetrazione quasi impossibile. Ricordo uno splendido attacco: «Rifiuto, ai luoghi, qualunque / incidenza affettiva». Né i luoghi, né le persone o gli amori, né la sua stessa vita assumono una qualche importanza, nell’economia della sua poetica: tutto vale tutto, e di niente e con niente “fa” una poesia: «A che il metallo delle acque / sottometta riflessi / nel nulla della luce e al riparo a lungo / da un salire, a interminabile descrizione di larve, / di un incresparsi che alle tenebre già accosta; / a che, le incrinature sue di un metallo / che primo si cancellerà: di forme / assidue smaterializzata / profondità e non / accecante non correre cieco / e ripetersi e riprodursi».

«Quinta generazione», giugno 1977

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BORSO

DARIO BORSO, TRE QUADERNETTI INDIANI – EXORMA, ROMA 2019

Nonum prematur in annum, raccomandava Orazio. Ma Dario Borso (filosofo e germanista, uno dei nostri più stimati traduttori dal tedesco) ha moltiplicato per sei il suggerimento del poeta latino. Infatti solo dopo cinquant’anni ha osato far uscire dal cassetto e affidare alle stampe questo libro di viaggi e memorie, Tre quadernetti indiani.

Ventenne, durante un pellegrinaggio laico in India, si era imbattuto per caso al Crown Hotel di Delhi in un coetaneo milanese, Pietro Spiga: entrambi reduci da un altro tour iniziatico negli Stati Uniti, erano partiti insieme alla volta del Nepal. Dario poi, ammalatosi di malaria, era stato ricoverato in ospedale a Calcutta, quindi aveva raggiunto da solo Madras, iniziando a scrivere un resoconto dei suoi inquieti, affascinati, illuminanti itinerari fisici e mentali. Tornato in Italia, aveva chiesto all’amico Pietro di illustrare con disegni a china le sue narrazioni, e tali schizzi (incorniciati in quadri neri ‒ punteggiati, zebrati, stellati, animati da facce paesaggi animali vegetali) sono riprodotti nell’edizione romana di Exorma.

Un mese intero – ottobre ‒, passato girando da una città all’altra (Mamallapuram, Kovalam, Quilon, Alleppey, Cochin, Mahé, Hampi…) a piedi, in treno, in corriera, su ferryboat e barconi; incontrando i personaggi più incredibili provenienti da ogni parte del mondo; ascoltando musica orientale monocorde (“le voci indiane si rincorrono su tempi estenuanti senza mai raggiungersi”); fumando hashish e mangiando funghi allucinogeni, che producono in testa “tante storie sconnesse, come un film muto impazzito”; cibandosi di vivande piccanti e bevendo intrugli alcolici; leggendo e citando brani e poesie occidentali, oppure recuperando miti, leggende, divinità indù (Shiva, Kali, Parvati, Zarathustra, Ganesh, Krishna) indicanti nuove strade da percorrere, nuove mete intellettuali da raggiungere.

A ragione Valerio Magrelli nella prefazione scrive che Borso nel suo diario ha inteso coscientemente privilegiare l’aspetto visivo (e io aggiungerei coloristico) delle descrizioni, con i cieli di volta in volta blu inchiostro, “rosso porpora con increspature giallognole” o “di un grigio fosforescente elettrico”, nubi violacee, lune bianchissime, arcobaleni doppi e fulmini saettanti nel buio. Mare, spiagge, deserti, giardini, templi, città caotiche e affollate. Donne e uomini mezzi nudi o avvolti in vesti variopinte. Frutti (“ananas col suo bel ciuffo verde, una noce di cocco abbronzata ma pelosa, una papaya smunta e allampanata”). Animali minuscoli come le lucciole, zanzare e scarafaggi, o enormi come gli elefanti, e poi anatre, sorci, scimmie, vacche, tigri, capre, cammelli. E un’avventurosa Sylvie francese da amare con dolcezza, s’il vit…

Un turbinio di percezioni, suoni odori visioni che si accavallano, insieme alle parole (“Si sta seguendo un filo, si formula una frase, ed ecco che una parola qualsiasi, anche un avverbio, anche una particella, sale sul palco e chiama altre sorelle a improvvisare”). Eppure, in questo vortice di impressioni, chi narra mantiene non solo un suo stile composto, limpido, curato e quasi classico, ma addirittura rispolvera una propria disposizione meditativa, razionalmente critica, che lo porterà negli anni a insegnare filosofia nelle università milanesi. Così contesta l’ascetica severità di Wittgenstein in favore di una fisicità materiale più esuberante: “Non è detto che su ciò di cui non si può parlare si debba tacere. Si può sempre gridare, pregare, cantare”. Infatti, “certe cose dell’India costringono all’infanzia: la luce che va e viene spesso e volentieri, le ghiacciaie di legno e i furgoni con i blocchi del ghiaccio, i dodge polverosi dalle sponde tremolanti, gli altoparlanti in strada che trasmettono a tutto volume come al cinema parrocchiale nelle domeniche d’estate…”: allora gli anni bambini passati nel paesino veneto tornano alla memoria, insieme all’alito della mamma ritrovato nel giro lento del ventilatore, al parlare svelto di lei e a quello burbero del padre, al negozio da fruttivendolo di famiglia (“‒Mamma, mamma, hanno appeso le ciliegie all’albero! ‒. Finora le avevo viste solo da noi, in bottega”).

La breve postilla finale di Chandra Livia Candiani sottolinea lo sguardo mai giudicante, mai arrogante, con cui Dario Borso si volge all’India, rendendocela com’è: superficie indulgente su cui galleggiare, senza pretendere di scendere in profondità, puntando gli occhi agli orizzonti.

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Tre-quadernetti-indiani-Borso.html            18 dicembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

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BOVE

EMMANUEL BOVE, UN PADRE E UNA FIGLIA – IL NUOVO MELANGOLO, GENOVA 1997

Di Emmanuel Bove, importante letterato francese attivo tra le due guerre, si sono cominciati a ripubblicare i romanzi dopo trent’anni di eclissi. Beckett, Rilke, Barthes, Handke hanno dato della sua narrativa giudizi ammirati ed entusiastici, e del testo qui riproposto, Un padre e una figlia, pubblicato a Parigi nel 1928, Max Jacob scrisse “Uno dei più bei libri che conosca”. La trama è esile e facile da riassumere: il protagonista, Antoine About, è – come spesso in Bove – un perdente, un uomo dalle aspirazioni minime e dalle realizzazioni ancora più modeste: “L’aspetto trasandato, poco pulito, l’aria stralunata”.

About è un parrucchiere per signora che, dopo aver collezionato vari mestieri, licenziamenti e strategie di mantenimento, riesce ad aprire un suo negozio, a sposarsi, e a intraprendere un’esistenza dignitosa. Ma il suo sentimento ossessivo di inadeguatezza, di inferiorità, di sconfitta lo porta inesorabilmente a vergognarsi di se stesso, del suo lavoro considerato troppo umile, del suo aspetto fisico ordinario. Cerca un riscatto sociale e morale nelle figure della moglie Marthe e della figlia Edmonde, che hanno aspirazioni borghesi e artistiche ben più ambiziose delle sue, e che, pur approfittando della sua estatica ammirazione e sfruttandolo economicamente, finiscono poi per disprezzarlo, tradirlo e abbandonarlo.
Lui si riduce a vivere da solo, con un’anziana domestica che tenta senza successo di concupire e molestare sessualmente; beve, frequenta personaggi equivoci e si lascia andare verso una deriva esistenziale e psichica senza ritorno: “Smagrito, stizzoso, ricurvo, Antoine era un vecchio… Godeva della propria abiezione… Lo evitavano. Alcuni si voltavano al suo passaggio, altri si scostavano come temendo lo scarto di un ubriaco”.

La postfazione al volume di Carlo Alberto Bonadies, che ne ha curato anche la traduzione, è esemplare e approfondita sia nella ricostruzione della tormentata biografia di Emmanuel Bove, sia nell’indagine formale della sua scrittura.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Un-padre-e-una-figlia-Bove.html      14 marzo 2017

 

RECENSIONI

BOVE

EMMANUEL BOVE, LA TRAPPOLA – LE MANI, RECCO 1995

Questo romanzo che Emmanuel Bove scrisse nel 1945, poco prima di morire, e che da noi è stato pubblicato solo cinquant’anni dopo, con traduzione e postfazione di Carlo Alberto Bonadies, racconta – in una sospesa atmosfera kafkiana – le vicende allucinate, contorte e indecifrabili di un irrealizzato e pavido giornalista francese, Joseph Bridet, che nel settembre del 1940, dopo alcuni ondeggiamenti ideologici, si scopre oppositore del Maresciallo Petain e della Francia occupata dai nazisti, e cerca un suo personale riscatto e una più dignitosa via di scampo esistenziale nell’adesione al programma di De Gaulle. Tenta quindi di espatriare dall’Inghilterra, per raggiungere di lì il Nord Africa: e ricorre, in questo suo delirante disegno di salvezza, all’aiuto di vecchie conoscenze in realtà inserite politicamente in sordidi giochi di potere, ambizioni frustrate, tradimenti personali e corruzione morale. Irretito inoltre nelle spire di un matrimonio sull’orlo del fallimento, Bridet subisce senza opporre alcuna resistenza l’ingenuità inconcludente della moglie Yolande, sprovveduta preda di avvenimenti più grandi di lei: in un attivismo frenetico, la giovane donna tenta vanamente di salvare il marito dagli arresti e dai processi che si susseguono inspiegabilmente, alternandosi a insperate assoluzioni e a a repentini rilasci, fino all’accusa finale di sovversione e alla tragica condanna. “La trappola” non è un thriller, e nemmeno un pamphlet politico e di denuncia: la narrazione si muove lenta seguendo i passi del protagonista (inizialmente ignari, poi sempre più affannati e angosciati) nei meandri di una burocrazia ottusa e corrotta, tra funzionari incapaci e sadici, poliziotti violenti e ottusi, amicizie rinnegate e una società civile resa egoista, indifferente e sospettosa dal clima bellico. “Preso in una morsa che si stringeva implacabilmente”, Bridet va incontro all’ esecuzione con la dignità e il coraggio che non era riuscito ad avere in tutta la vita.

IBS, 27 luglio 2013

RECENSIONI

BOVE

EMMANUEL BOVE, BÉCON LES BRUYÉRES – IL NUOVO MELANGOLO, GENOVA 1999

Di questo breve testo, pubblicato da Emmanuel Bove nel 1927, Peter Handke ebbe a scrivere: “Va assolutamente letto. Descrive una periferia mitica con una scrittura assolutamente modesta. E’ la periferia assoluta”. Di questa “assolutezza” Bove dovette essere del tutto consapevole, al punto da proporre il libro in una collana monografica dedicata alle più interessanti città francesi, e da elevare una località priva di qualsiasi bellezza artistica o naturale a paradigma dell’ordinarietà e dello squallore della banlieue parigina. Già il nome ridicolo di questo quartiere, con un riferimento a fortificazioni e a variopinte vegetazioni, aveva reso Bécon ironicamente famosa tra la popolazione francese. E Bove ne demoliva l’immagine, riducendo la località a una stazioncina confinante con altri paesi, senza una propria individualità, occupata da alveari condominiali di otto piani, strade anonime, senza nemmeno l’ombra delle eriche che le avevano dato il nome. Usando con leggerezza l’arma puntuta dell’ironia, Bove descrisse di Bécon non solo l’immagine topografica, ma anche le abitudini dei suoi abitanti, cortesi ma indifferenti, educati ma rigidi. “Il cittadino di Bécon ama la sua città con discrezione. Ne parla poco, come farebbe un padre severo di un figlio burlone. La tenerezza che gli ispira il suo paese, la dissimula… Come in un principato, sembra che gli abitanti puliscano a turno le strade, assicurino l’ordine e riparino le condutture dell’acqua. E’ tutto l’anno come quando nevica in campagna, e ognuno si sgombra l’uscio di casa.” La stazione era il centro di Bécon, e solo il passaggio dei treni scandiva la monotona vita cittadina, per cui un guasto elettrico risultava il massimo pericolo incombente sul trantran quotidiano. “Tutto a Bécon è onesto e uniforme… E’ una città fragile quanto un essere vivente. Forse morirà tra qualche mese…”. Bove, grande scrittore, è stato cattivo profeta: Bécon vive, si è ingrandita e modernizzata, è diventata “assolutamente” comune.

IBS, 22 agosto 2013

RECENSIONI

BRAIDOTTI

ROSI BRAIDOTTI, FUORI SEDE – CASTELVECCHI, ROMA 2021

“Vita allegra di una femminista nomade”, recita il sottotitolo dell’ultimo libro di Rosi Braidotti, ironica e stimolante autobiografia di una delle pensatrici più autorevoli nell’ambito della teoria femminista contemporanea. Nata a Latisana nel 1954, dopo il ginnasio si è trasferita con la famiglia in Australia, laureandosi in filosofia a Canberra. Concluso il dottorato conseguito alla Sorbona, si è trasferita nei Paesi Bassi, dove insegna dal 1988, attualmente in qualità di Distinguished University Professor all’Università di Utrecht e di Direttrice fondatrice del Centre for the Humanities.

Una carriera accademica prestigiosa, che l’ha portata a rivestire importanti ruoli di ricerca a livello internazionale, e a ricevere riconoscimenti e lauree ad honorem in atenei di tutto il mondo. I suoi lavori riguardano i processi di formazione e l’emergere di soggetti sociali nuovi e alternativi, al di là delle categorie socialmente imposte delle rappresentazioni familiari, delle differenze di classe, razza, genere o affiliazione politica. Il suo intento prioritario è la rifondazione di una filosofia non più centrata sul pensiero del maschio bianco occidentale, ma aperta a un nuovo umanesimo cosmopolita, in campi attinenti al femminismo, agli studi etnici e al pensiero post-antropocentrico.

Il volume di cui ci occupiamo, opportunamente intitolato Fuori sede, consta di quattro saggi autobiografici tratti da pubblicazioni precedenti, in cui l’autrice suddivide le tappe fondamentali attraverso cui si è snodata la sua esistenza e la sua riflessione scientifica. Nell’introduzione, Braidotti afferma di sentirsi più a suo agio nell’indagare e raccontare la vita degli altri (vicini e lontani, amici e sconosciuti) piuttosto che la propria: “Io ho l’impressione di mancare a me stessa costantemente, di differire da me”. Ciò che viene ripetutamente e orgogliosamente sottolineato dall’autrice, è la necessità di disidentificarsi da ogni forma di identità autoreferenziale e narcisistica: cosa che le è stata resa più facile dalla propria vicenda di emigrata, dal nomadismo professionale e dal plurilinguismo acquisito, motivando in lei forti spinte egalitarie, femministe, post-nazionaliste e antirazziste.

Così confessa nel primo capitolo: “Quattro passioni fungono da forze motrici dei concetti e degli affetti che strutturano il mio percorso intellettuale: la scrittura, la filosofia, il femminismo e il presente”, e su tali linee portanti si sofferma con motivato fervore. Ci racconta quindi dei 193 quaderni di diario che aggiorna quotidianamente dall’adolescenza, delle prime pubblicazioni su riviste di Women’s Studies, della vita culturale di Parigi (il post-strutturalismo, la psicanalisi, il marxismo), dei maestri francesi – Foucault, Irigaray e Deleuze – che le hanno insegnato quali relazioni di potere operino all’interno del linguaggio. Descrive la carriera universitaria a Utrecht, i due libri di successo che l’hanno fatta conoscere all’intellettualità internazionale (Dissonanze e Soggetto nomade), l’incontro con la sua compagna di vita, Anneke Smelik, nel 1987.

Un intenso attivismo istituzionale ha portato Rosi Braidotti a occuparsi dell’aspetto progettuale di una nuova Europa, capace di superare sovranismi e arroccamenti egemonici, e a intessere rapporti fecondi con le nuove generazioni, ideando programmi di intercambio studentesco tra le varie nazioni.

Chi leggendo rimanesse impressionato dalla vastità delle ricerche dell’autrice, si sentirà ancor più coinvolto dalla narrazione commossa della sua infanzia e adolescenza nella bassa veneto-friulana degli anni ’50-’60, descritta nella terza sezione del volume, Una vita a zig-zag (“Il fatto di essere cresciuta vicino a una frontiera mi ha lasciato in eredità un forte sentimento d’instabilità, oltre che la sensazione netta di poter   vivere molte vite”). Famiglia, collegio, Sanremo, alluvioni, antifascismo, gli scout, i Beatles e Che Guevara, un amato zio prete; poi lo strappo dell’emigrazione forzata in Australia, l’immersione in un’altra lingua, l’indagine filosofica da cui ha preso avvio una brillante carriera di studiosa, i lunghi anni di analisi, l’omosessualità, il grande amore con Annike.

Se, come si dice, il destino di una persona è il suo carattere, Rosi Braidotti ha dimostrato nella sua esistenza raccontata in Fuori sede, non solo un temperamento risoluto, perseverante e anticonformista, ma anche un’indole simpaticamente ironica e apertamente gioiosa, come possiamo arguire già dall’espressione sorridente e fiduciosa del ritratto in copertina, che pare invitarci ad affrontare “le sfide epocali che ci aspettano con solenne e   insolente leggerezza”.

 

© Riproduzione riservata               21 dicembre 2021

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RECENSIONI

BRE

SILVIA BRE, LE CAMPANE – EINAUDI, TORINO 2022

Più denso e concentrato, più meditato formalmente e ricco di tensioni emotive di quanto non siano le ultime pubblicazioni apparse nell’einaudiana collana bianca di poesia, l’esile volume di versi di Silvia Bre (Bergamo, 1953), pluripremiata poeta e traduttrice soprattutto dall’inglese, si presta a svariate intuizioni critiche. A partire dal titolo, Le campane, che nel rimando a un’immagine tradizionalmente benevola e innocua, quasi da sagra paesana, stride sia con i temi inquietanti, sia con l’ordito linguistico oscuro, avviluppato, del testo.

Costante è il richiamo al senso dell’udito, nell’inventario dei termini ad esso connessi (suono, canto, silenzio, ascolto, voce, orecchio, corda vocale, musica, note, rintocco, ritmo, cori, assoli, rumore, mugolio, rimbombo…). Altrettanto presente l’organo della vista, con i fulminei passaggi tra buio e luce, splendore ed eclissi, trasparenza e opacità. Il contrasto, visivo e uditivo, ha una sua motivazione nella presenza-assenza, vicinanza-lontananza, fatticità-astrattezza del mondo che ci ospita, e da cui siamo contemporaneamente espulsi verso spazi interplanetari abissali, verso tempi oscillanti tra passato remoto e futuro insondabile, con scarsa evidenza del momento presente.

Così, nelle grotte di Chauvet, le pitture parietali risalenti al Paleolitico, primo esempio al mondo di arte preistorica, si propongono come battesimo dell’atto gratuito, di apertura all’eterno. “È l’origine”, elementare desiderio di oltrepassare i limiti della finitezza materiale, proiettandosi in un altrove disincarnato: istintuale, arcaico germe di poesia. La storia si definisce appunto nella consapevolezza di quanto ci ha preceduto e di quanto ci sopravviverà: “discendere da loro / in un destino // nel fumo // negli spazi // essere stati il futuro di qualcuno”.

Dal passato millenario in cui si muoveva l’homo sapiens, alla relatività einsteiniana, fino alla proiezione di un antropocene sconosciuto, in questo rincorrersi delle epoche indifferenti a chi le abita, si schiude uno spiraglio di consistenza umana, il pensiero primordiale della creazione poetica: “Anche ora s’incrina una fessura / tutto il cosmo che passa è / metallo fuso, un ritratto tanto uguale a qualcosa / che mi esalta, creare un gorgo e poi esserne inclusa”. La voce della poesia è sempre testimoniale, “porta incisa una malora / e una resurrezione astrusa”, “l’ambizione incendiaria” di lasciare un segno: “Mi si dica, lo chiedo in ginocchio, / dica qualcuno in tempo che c’è una figura, un’ombra / un gesto di pietà da offrire a un altro / a chiunque, e qualcuno lo ha fatto o lo farà / in un tempo astrale senza saperlo”. Tra la consapevolezza della fragilità della parola, della sua probabile inutilità, e la speranza di servire (a qualcosa, a qualcuno: pronomi indefiniti che si ripetono, proprio a rimarcare l’assenza di un destinatario esplicito), si pone la figura del poeta, presenza gratuita e misconosciuta, ma forse salvifica: “Non sono mai nessuno i poeti – / nel vuoto dell’amore, dai vuoti di memoria / pugnalano in lingue il lontano. / Poi l’aurora”. Dicono cose artificiose, eppure indicano una necessità: “tu, meraviglia, / perché ti riconosco, sbandieri / che divampa su tutto, il ritmo antico del tutto”.

Le campane, dunque, diventano metafora di un annuncio di verità, che solo la parola poetica può formulare. È un appello, sebbene monco, imperfetto, che non ha il rilievo e il prestigio della parola politica o filosofica: si accontenta del suono: “dillo trionfando che non ci sei, non hai cuore, / è un’altra l’unità da pronunciare, ebete, / e non sai quale, non sai farlo”; “da qui si scorge la belva che esiste per sparire / e guarda in verticale, riempie di salti, di verbo / il frammezzo tra sole e terra, la cogli nell’arco siderale / che è l’amore sfinito per i giorni, / nell’opera che resta inconclusa a fissare l’eterno”.

Silvia Bre nella sua scrittura compressa, elusiva e allusiva, ammette con impudenza la propria difficoltà di farsi ponte tra l’essere e il dire, nonostante sappia servirsi anche di stratagemmi tradizionali, come rime, anafore, endiadi, metonimie, ecc. Rimane enigmatica persino quando si misura con il concreto, con il “mosaico di dolore” dei migranti morti affogati, o della sua città natale, Bergamo, devastata dalla pandemia.

L’oscurità eraclitea del divenire fa di lei una messaggera del transeunte, “profeta dell’inaccessibile con la voce di cera”, la cui misteriosa verità va sviscerata, sgomitolata, per scongiurare che il rintocco lontano delle campane sia un funereo presagio del nulla a venire.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 1 marzo 2022

 

 

 

 

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