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BORLENGHI

RICORDO DI ALDO BORLENGHI

Scrivo di Aldo Borlenghi (1913-1976) a più di un anno dalla sua morte, che troppo pochi hanno ricordato, per affetto più verso il docente che verso il poeta. Ho seguito le lezioni di Borlenghi per tre anni, all’ Università Statale di Milano, ho dato con lui due esami: aveva fama di professore severissimo e quasi crudele, caustico e ironico nei confronti degli studenti, che trattava con gelida cordialità, senza mai tentare (se non con i suoi laureandi) approcci più profondi. Scrupoloso nella preparazione delle sue lezioni, non divagava mai; mai si lasciava coinvolgere in polemiche o discussioni che non riguardassero il suo corso. Nonostante il suo passato di antifascista, il suo fiero anticlericalismo, il suo cerebralissimo comunismo, nessun accenno veniva mai fatto alla situazione politica; il movimento studentesco, intervenendo nel suo corso, si trovava di fronte a una muro di indifferenza quando non di aperta ostilità. Ma non era, Borlenghi, un “potente” tra gli accademici. Non lo si poteva definire “barone”. Viveva in una dimensione estranea a ciò che gli accadeva intorno, superiore (con aristocratico disprezzo) a tutto e a tutti, eterea: era, se possibile, uno studioso puro. Ma pure un uomo in qualche modo disarmato e disarmante: e valgano a esempio questi due episodi.
Avvicinandosi a una studentessa che durante le lezioni leggeva il giornale, aveva tentato di rimproverarla, ma dinanzi alla reazione agguerrita di lei, aveva concluso con un timido «Credo che non si possa»; ancora, nel corso di una lezione difficile e noiosa, si era interrotto, e nel suo flebile e arguto toscano «Volevo sincerarmi che proprio nessuno mi ascoltasse». Io, veramente, quella volta lo ascoltavo, ma in realtà non gli importava avere o no studenti, allievi, persone che lo stimassero. La sua attività di poeta fu sempre strettamente collegata con quella di critico, ed entrambe procedettero secondo parametri comuni: meditato rigore di ricerca, severo controllo stilistico e formale, fastidio per gli schemi ideologici e tutti gli incalanamenti dottrinari, puntiglioso e assoluto riferimento alla parola, che veniva analizzata, scomposta e ricomposta, levigata, resa insieme intensa e impalpabile, puro suono. Il primo libro di versi di Borlenghi, che tuttavia fu un poeta precoce, risale al 1943, a un periodo per forza di cose poco attento alla poesia; ma già era stato preceduto dalla pubblicazione della sua tesi su Leopardi. Così, se i suoi versi uscirono ancora in edizioni molto distanziate tra loro (Mondadori 1952, Mondadori 1965: se lasciamo perdere due piccoli volumi a tiratura limitata, nel ’58 e nel ’72), i contributi critici furono invece più frequenti, accompagnando e puntellando la sua attività di insegnante universitario. Argomenti preferiti erano il Tommaseo, Machiavelli, il teatro del ‘500, la novellistica del ‘300, la critica letteraria ottocentesca, e ancora Leopardi. La sue poesie mantengono tuttora la fama e il fascino di una lettura difficile, di una penetrazione quasi impossibile. Ricordo uno splendido attacco: «Rifiuto, ai luoghi, qualunque / incidenza affettiva». Né i luoghi, né le persone o gli amori, né la sua stessa vita assumono una qualche importanza, nell’economia della sua poetica: tutto vale tutto, e di niente e con niente “fa” una poesia: «A che il metallo delle acque / sottometta riflessi / nel nulla della luce e al riparo a lungo / da un salire, a interminabile descrizione di larve, / di un incresparsi che alle tenebre già accosta; / a che, le incrinature sue di un metallo / che primo si cancellerà: di forme / assidue smaterializzata / profondità e non / accecante non correre cieco / e ripetersi e riprodursi».

«Quinta generazione», giugno 1977

RECENSIONI

BORSO

DARIO BORSO, TRE QUADERNETTI INDIANI – EXORMA, ROMA 2019

Nonum prematur in annum, raccomandava Orazio. Ma Dario Borso (filosofo e germanista, uno dei nostri più stimati traduttori dal tedesco) ha moltiplicato per sei il suggerimento del poeta latino. Infatti solo dopo cinquant’anni ha osato far uscire dal cassetto e affidare alle stampe questo libro di viaggi e memorie, Tre quadernetti indiani.

Ventenne, durante un pellegrinaggio laico in India, si era imbattuto per caso al Crown Hotel di Delhi in un coetaneo milanese, Pietro Spiga: entrambi reduci da un altro tour iniziatico negli Stati Uniti, erano partiti insieme alla volta del Nepal. Dario poi, ammalatosi di malaria, era stato ricoverato in ospedale a Calcutta, quindi aveva raggiunto da solo Madras, iniziando a scrivere un resoconto dei suoi inquieti, affascinati, illuminanti itinerari fisici e mentali. Tornato in Italia, aveva chiesto all’amico Pietro di illustrare con disegni a china le sue narrazioni, e tali schizzi (incorniciati in quadri neri ‒ punteggiati, zebrati, stellati, animati da facce paesaggi animali vegetali) sono riprodotti nell’edizione romana di Exorma.

Un mese intero – ottobre ‒, passato girando da una città all’altra (Mamallapuram, Kovalam, Quilon, Alleppey, Cochin, Mahé, Hampi…) a piedi, in treno, in corriera, su ferryboat e barconi; incontrando i personaggi più incredibili provenienti da ogni parte del mondo; ascoltando musica orientale monocorde (“le voci indiane si rincorrono su tempi estenuanti senza mai raggiungersi”); fumando hashish e mangiando funghi allucinogeni, che producono in testa “tante storie sconnesse, come un film muto impazzito”; cibandosi di vivande piccanti e bevendo intrugli alcolici; leggendo e citando brani e poesie occidentali, oppure recuperando miti, leggende, divinità indù (Shiva, Kali, Parvati, Zarathustra, Ganesh, Krishna) indicanti nuove strade da percorrere, nuove mete intellettuali da raggiungere.

A ragione Valerio Magrelli nella prefazione scrive che Borso nel suo diario ha inteso coscientemente privilegiare l’aspetto visivo (e io aggiungerei coloristico) delle descrizioni, con i cieli di volta in volta blu inchiostro, “rosso porpora con increspature giallognole” o “di un grigio fosforescente elettrico”, nubi violacee, lune bianchissime, arcobaleni doppi e fulmini saettanti nel buio. Mare, spiagge, deserti, giardini, templi, città caotiche e affollate. Donne e uomini mezzi nudi o avvolti in vesti variopinte. Frutti (“ananas col suo bel ciuffo verde, una noce di cocco abbronzata ma pelosa, una papaya smunta e allampanata”). Animali minuscoli come le lucciole, zanzare e scarafaggi, o enormi come gli elefanti, e poi anatre, sorci, scimmie, vacche, tigri, capre, cammelli. E un’avventurosa Sylvie francese da amare con dolcezza, s’il vit…

Un turbinio di percezioni, suoni odori visioni che si accavallano, insieme alle parole (“Si sta seguendo un filo, si formula una frase, ed ecco che una parola qualsiasi, anche un avverbio, anche una particella, sale sul palco e chiama altre sorelle a improvvisare”). Eppure, in questo vortice di impressioni, chi narra mantiene non solo un suo stile composto, limpido, curato e quasi classico, ma addirittura rispolvera una propria disposizione meditativa, razionalmente critica, che lo porterà negli anni a insegnare filosofia nelle università milanesi. Così contesta l’ascetica severità di Wittgenstein in favore di una fisicità materiale più esuberante: “Non è detto che su ciò di cui non si può parlare si debba tacere. Si può sempre gridare, pregare, cantare”. Infatti, “certe cose dell’India costringono all’infanzia: la luce che va e viene spesso e volentieri, le ghiacciaie di legno e i furgoni con i blocchi del ghiaccio, i dodge polverosi dalle sponde tremolanti, gli altoparlanti in strada che trasmettono a tutto volume come al cinema parrocchiale nelle domeniche d’estate…”: allora gli anni bambini passati nel paesino veneto tornano alla memoria, insieme all’alito della mamma ritrovato nel giro lento del ventilatore, al parlare svelto di lei e a quello burbero del padre, al negozio da fruttivendolo di famiglia (“‒Mamma, mamma, hanno appeso le ciliegie all’albero! ‒. Finora le avevo viste solo da noi, in bottega”).

La breve postilla finale di Chandra Livia Candiani sottolinea lo sguardo mai giudicante, mai arrogante, con cui Dario Borso si volge all’India, rendendocela com’è: superficie indulgente su cui galleggiare, senza pretendere di scendere in profondità, puntando gli occhi agli orizzonti.

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https://www.sololibri.net/Tre-quadernetti-indiani-Borso.html            18 dicembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

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BOVE

EMMANUEL BOVE, UN PADRE E UNA FIGLIA – IL NUOVO MELANGOLO, GENOVA 1997

Di Emmanuel Bove, importante letterato francese attivo tra le due guerre, si sono cominciati a ripubblicare i romanzi dopo trent’anni di eclissi. Beckett, Rilke, Barthes, Handke hanno dato della sua narrativa giudizi ammirati ed entusiastici, e del testo qui riproposto, Un padre e una figlia, pubblicato a Parigi nel 1928, Max Jacob scrisse “Uno dei più bei libri che conosca”. La trama è esile e facile da riassumere: il protagonista, Antoine About, è – come spesso in Bove – un perdente, un uomo dalle aspirazioni minime e dalle realizzazioni ancora più modeste: “L’aspetto trasandato, poco pulito, l’aria stralunata”.

About è un parrucchiere per signora che, dopo aver collezionato vari mestieri, licenziamenti e strategie di mantenimento, riesce ad aprire un suo negozio, a sposarsi, e a intraprendere un’esistenza dignitosa. Ma il suo sentimento ossessivo di inadeguatezza, di inferiorità, di sconfitta lo porta inesorabilmente a vergognarsi di se stesso, del suo lavoro considerato troppo umile, del suo aspetto fisico ordinario. Cerca un riscatto sociale e morale nelle figure della moglie Marthe e della figlia Edmonde, che hanno aspirazioni borghesi e artistiche ben più ambiziose delle sue, e che, pur approfittando della sua estatica ammirazione e sfruttandolo economicamente, finiscono poi per disprezzarlo, tradirlo e abbandonarlo.
Lui si riduce a vivere da solo, con un’anziana domestica che tenta senza successo di concupire e molestare sessualmente; beve, frequenta personaggi equivoci e si lascia andare verso una deriva esistenziale e psichica senza ritorno: “Smagrito, stizzoso, ricurvo, Antoine era un vecchio… Godeva della propria abiezione… Lo evitavano. Alcuni si voltavano al suo passaggio, altri si scostavano come temendo lo scarto di un ubriaco”.

La postfazione al volume di Carlo Alberto Bonadies, che ne ha curato anche la traduzione, è esemplare e approfondita sia nella ricostruzione della tormentata biografia di Emmanuel Bove, sia nell’indagine formale della sua scrittura.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Un-padre-e-una-figlia-Bove.html      14 marzo 2017

 

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BOVE

EMMANUEL BOVE, LA TRAPPOLA – LE MANI, RECCO 1995

Questo romanzo che Emmanuel Bove scrisse nel 1945, poco prima di morire, e che da noi è stato pubblicato solo cinquant’anni dopo, con traduzione e postfazione di Carlo Alberto Bonadies, racconta – in una sospesa atmosfera kafkiana – le vicende allucinate, contorte e indecifrabili di un irrealizzato e pavido giornalista francese, Joseph Bridet, che nel settembre del 1940, dopo alcuni ondeggiamenti ideologici, si scopre oppositore del Maresciallo Petain e della Francia occupata dai nazisti, e cerca un suo personale riscatto e una più dignitosa via di scampo esistenziale nell’adesione al programma di De Gaulle. Tenta quindi di espatriare dall’Inghilterra, per raggiungere di lì il Nord Africa: e ricorre, in questo suo delirante disegno di salvezza, all’aiuto di vecchie conoscenze in realtà inserite politicamente in sordidi giochi di potere, ambizioni frustrate, tradimenti personali e corruzione morale. Irretito inoltre nelle spire di un matrimonio sull’orlo del fallimento, Bridet subisce senza opporre alcuna resistenza l’ingenuità inconcludente della moglie Yolande, sprovveduta preda di avvenimenti più grandi di lei: in un attivismo frenetico, la giovane donna tenta vanamente di salvare il marito dagli arresti e dai processi che si susseguono inspiegabilmente, alternandosi a insperate assoluzioni e a a repentini rilasci, fino all’accusa finale di sovversione e alla tragica condanna. “La trappola” non è un thriller, e nemmeno un pamphlet politico e di denuncia: la narrazione si muove lenta seguendo i passi del protagonista (inizialmente ignari, poi sempre più affannati e angosciati) nei meandri di una burocrazia ottusa e corrotta, tra funzionari incapaci e sadici, poliziotti violenti e ottusi, amicizie rinnegate e una società civile resa egoista, indifferente e sospettosa dal clima bellico. “Preso in una morsa che si stringeva implacabilmente”, Bridet va incontro all’ esecuzione con la dignità e il coraggio che non era riuscito ad avere in tutta la vita.

IBS, 27 luglio 2013

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BOVE

EMMANUEL BOVE, BÉCON LES BRUYÉRES – IL NUOVO MELANGOLO, GENOVA 1999

Di questo breve testo, pubblicato da Emmanuel Bove nel 1927, Peter Handke ebbe a scrivere: “Va assolutamente letto. Descrive una periferia mitica con una scrittura assolutamente modesta. E’ la periferia assoluta”. Di questa “assolutezza” Bove dovette essere del tutto consapevole, al punto da proporre il libro in una collana monografica dedicata alle più interessanti città francesi, e da elevare una località priva di qualsiasi bellezza artistica o naturale a paradigma dell’ordinarietà e dello squallore della banlieue parigina. Già il nome ridicolo di questo quartiere, con un riferimento a fortificazioni e a variopinte vegetazioni, aveva reso Bécon ironicamente famosa tra la popolazione francese. E Bove ne demoliva l’immagine, riducendo la località a una stazioncina confinante con altri paesi, senza una propria individualità, occupata da alveari condominiali di otto piani, strade anonime, senza nemmeno l’ombra delle eriche che le avevano dato il nome. Usando con leggerezza l’arma puntuta dell’ironia, Bove descrisse di Bécon non solo l’immagine topografica, ma anche le abitudini dei suoi abitanti, cortesi ma indifferenti, educati ma rigidi. “Il cittadino di Bécon ama la sua città con discrezione. Ne parla poco, come farebbe un padre severo di un figlio burlone. La tenerezza che gli ispira il suo paese, la dissimula… Come in un principato, sembra che gli abitanti puliscano a turno le strade, assicurino l’ordine e riparino le condutture dell’acqua. E’ tutto l’anno come quando nevica in campagna, e ognuno si sgombra l’uscio di casa.” La stazione era il centro di Bécon, e solo il passaggio dei treni scandiva la monotona vita cittadina, per cui un guasto elettrico risultava il massimo pericolo incombente sul trantran quotidiano. “Tutto a Bécon è onesto e uniforme… E’ una città fragile quanto un essere vivente. Forse morirà tra qualche mese…”. Bove, grande scrittore, è stato cattivo profeta: Bécon vive, si è ingrandita e modernizzata, è diventata “assolutamente” comune.

IBS, 22 agosto 2013

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BRAIDOTTI

ROSI BRAIDOTTI, FUORI SEDE – CASTELVECCHI, ROMA 2021

“Vita allegra di una femminista nomade”, recita il sottotitolo dell’ultimo libro di Rosi Braidotti, ironica e stimolante autobiografia di una delle pensatrici più autorevoli nell’ambito della teoria femminista contemporanea. Nata a Latisana nel 1954, dopo il ginnasio si è trasferita con la famiglia in Australia, laureandosi in filosofia a Canberra. Concluso il dottorato conseguito alla Sorbona, si è trasferita nei Paesi Bassi, dove insegna dal 1988, attualmente in qualità di Distinguished University Professor all’Università di Utrecht e di Direttrice fondatrice del Centre for the Humanities.

Una carriera accademica prestigiosa, che l’ha portata a rivestire importanti ruoli di ricerca a livello internazionale, e a ricevere riconoscimenti e lauree ad honorem in atenei di tutto il mondo. I suoi lavori riguardano i processi di formazione e l’emergere di soggetti sociali nuovi e alternativi, al di là delle categorie socialmente imposte delle rappresentazioni familiari, delle differenze di classe, razza, genere o affiliazione politica. Il suo intento prioritario è la rifondazione di una filosofia non più centrata sul pensiero del maschio bianco occidentale, ma aperta a un nuovo umanesimo cosmopolita, in campi attinenti al femminismo, agli studi etnici e al pensiero post-antropocentrico.

Il volume di cui ci occupiamo, opportunamente intitolato Fuori sede, consta di quattro saggi autobiografici tratti da pubblicazioni precedenti, in cui l’autrice suddivide le tappe fondamentali attraverso cui si è snodata la sua esistenza e la sua riflessione scientifica. Nell’introduzione, Braidotti afferma di sentirsi più a suo agio nell’indagare e raccontare la vita degli altri (vicini e lontani, amici e sconosciuti) piuttosto che la propria: “Io ho l’impressione di mancare a me stessa costantemente, di differire da me”. Ciò che viene ripetutamente e orgogliosamente sottolineato dall’autrice, è la necessità di disidentificarsi da ogni forma di identità autoreferenziale e narcisistica: cosa che le è stata resa più facile dalla propria vicenda di emigrata, dal nomadismo professionale e dal plurilinguismo acquisito, motivando in lei forti spinte egalitarie, femministe, post-nazionaliste e antirazziste.

Così confessa nel primo capitolo: “Quattro passioni fungono da forze motrici dei concetti e degli affetti che strutturano il mio percorso intellettuale: la scrittura, la filosofia, il femminismo e il presente”, e su tali linee portanti si sofferma con motivato fervore. Ci racconta quindi dei 193 quaderni di diario che aggiorna quotidianamente dall’adolescenza, delle prime pubblicazioni su riviste di Women’s Studies, della vita culturale di Parigi (il post-strutturalismo, la psicanalisi, il marxismo), dei maestri francesi – Foucault, Irigaray e Deleuze – che le hanno insegnato quali relazioni di potere operino all’interno del linguaggio. Descrive la carriera universitaria a Utrecht, i due libri di successo che l’hanno fatta conoscere all’intellettualità internazionale (Dissonanze e Soggetto nomade), l’incontro con la sua compagna di vita, Anneke Smelik, nel 1987.

Un intenso attivismo istituzionale ha portato Rosi Braidotti a occuparsi dell’aspetto progettuale di una nuova Europa, capace di superare sovranismi e arroccamenti egemonici, e a intessere rapporti fecondi con le nuove generazioni, ideando programmi di intercambio studentesco tra le varie nazioni.

Chi leggendo rimanesse impressionato dalla vastità delle ricerche dell’autrice, si sentirà ancor più coinvolto dalla narrazione commossa della sua infanzia e adolescenza nella bassa veneto-friulana degli anni ’50-’60, descritta nella terza sezione del volume, Una vita a zig-zag (“Il fatto di essere cresciuta vicino a una frontiera mi ha lasciato in eredità un forte sentimento d’instabilità, oltre che la sensazione netta di poter   vivere molte vite”). Famiglia, collegio, Sanremo, alluvioni, antifascismo, gli scout, i Beatles e Che Guevara, un amato zio prete; poi lo strappo dell’emigrazione forzata in Australia, l’immersione in un’altra lingua, l’indagine filosofica da cui ha preso avvio una brillante carriera di studiosa, i lunghi anni di analisi, l’omosessualità, il grande amore con Annike.

Se, come si dice, il destino di una persona è il suo carattere, Rosi Braidotti ha dimostrato nella sua esistenza raccontata in Fuori sede, non solo un temperamento risoluto, perseverante e anticonformista, ma anche un’indole simpaticamente ironica e apertamente gioiosa, come possiamo arguire già dall’espressione sorridente e fiduciosa del ritratto in copertina, che pare invitarci ad affrontare “le sfide epocali che ci aspettano con solenne e   insolente leggerezza”.

 

© Riproduzione riservata               21 dicembre 2021

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BRE

SILVIA BRE, LE CAMPANE – EINAUDI, TORINO 2022

Più denso e concentrato, più meditato formalmente e ricco di tensioni emotive di quanto non siano le ultime pubblicazioni apparse nell’einaudiana collana bianca di poesia, l’esile volume di versi di Silvia Bre (Bergamo, 1953), pluripremiata poeta e traduttrice soprattutto dall’inglese, si presta a svariate intuizioni critiche. A partire dal titolo, Le campane, che nel rimando a un’immagine tradizionalmente benevola e innocua, quasi da sagra paesana, stride sia con i temi inquietanti, sia con l’ordito linguistico oscuro, avviluppato, del testo.

Costante è il richiamo al senso dell’udito, nell’inventario dei termini ad esso connessi (suono, canto, silenzio, ascolto, voce, orecchio, corda vocale, musica, note, rintocco, ritmo, cori, assoli, rumore, mugolio, rimbombo…). Altrettanto presente l’organo della vista, con i fulminei passaggi tra buio e luce, splendore ed eclissi, trasparenza e opacità. Il contrasto, visivo e uditivo, ha una sua motivazione nella presenza-assenza, vicinanza-lontananza, fatticità-astrattezza del mondo che ci ospita, e da cui siamo contemporaneamente espulsi verso spazi interplanetari abissali, verso tempi oscillanti tra passato remoto e futuro insondabile, con scarsa evidenza del momento presente.

Così, nelle grotte di Chauvet, le pitture parietali risalenti al Paleolitico, primo esempio al mondo di arte preistorica, si propongono come battesimo dell’atto gratuito, di apertura all’eterno. “È l’origine”, elementare desiderio di oltrepassare i limiti della finitezza materiale, proiettandosi in un altrove disincarnato: istintuale, arcaico germe di poesia. La storia si definisce appunto nella consapevolezza di quanto ci ha preceduto e di quanto ci sopravviverà: “discendere da loro / in un destino // nel fumo // negli spazi // essere stati il futuro di qualcuno”.

Dal passato millenario in cui si muoveva l’homo sapiens, alla relatività einsteiniana, fino alla proiezione di un antropocene sconosciuto, in questo rincorrersi delle epoche indifferenti a chi le abita, si schiude uno spiraglio di consistenza umana, il pensiero primordiale della creazione poetica: “Anche ora s’incrina una fessura / tutto il cosmo che passa è / metallo fuso, un ritratto tanto uguale a qualcosa / che mi esalta, creare un gorgo e poi esserne inclusa”. La voce della poesia è sempre testimoniale, “porta incisa una malora / e una resurrezione astrusa”, “l’ambizione incendiaria” di lasciare un segno: “Mi si dica, lo chiedo in ginocchio, / dica qualcuno in tempo che c’è una figura, un’ombra / un gesto di pietà da offrire a un altro / a chiunque, e qualcuno lo ha fatto o lo farà / in un tempo astrale senza saperlo”. Tra la consapevolezza della fragilità della parola, della sua probabile inutilità, e la speranza di servire (a qualcosa, a qualcuno: pronomi indefiniti che si ripetono, proprio a rimarcare l’assenza di un destinatario esplicito), si pone la figura del poeta, presenza gratuita e misconosciuta, ma forse salvifica: “Non sono mai nessuno i poeti – / nel vuoto dell’amore, dai vuoti di memoria / pugnalano in lingue il lontano. / Poi l’aurora”. Dicono cose artificiose, eppure indicano una necessità: “tu, meraviglia, / perché ti riconosco, sbandieri / che divampa su tutto, il ritmo antico del tutto”.

Le campane, dunque, diventano metafora di un annuncio di verità, che solo la parola poetica può formulare. È un appello, sebbene monco, imperfetto, che non ha il rilievo e il prestigio della parola politica o filosofica: si accontenta del suono: “dillo trionfando che non ci sei, non hai cuore, / è un’altra l’unità da pronunciare, ebete, / e non sai quale, non sai farlo”; “da qui si scorge la belva che esiste per sparire / e guarda in verticale, riempie di salti, di verbo / il frammezzo tra sole e terra, la cogli nell’arco siderale / che è l’amore sfinito per i giorni, / nell’opera che resta inconclusa a fissare l’eterno”.

Silvia Bre nella sua scrittura compressa, elusiva e allusiva, ammette con impudenza la propria difficoltà di farsi ponte tra l’essere e il dire, nonostante sappia servirsi anche di stratagemmi tradizionali, come rime, anafore, endiadi, metonimie, ecc. Rimane enigmatica persino quando si misura con il concreto, con il “mosaico di dolore” dei migranti morti affogati, o della sua città natale, Bergamo, devastata dalla pandemia.

L’oscurità eraclitea del divenire fa di lei una messaggera del transeunte, “profeta dell’inaccessibile con la voce di cera”, la cui misteriosa verità va sviscerata, sgomitolata, per scongiurare che il rintocco lontano delle campane sia un funereo presagio del nulla a venire.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 1 marzo 2022

 

 

 

 

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BROCK

GEOFFREY BROCK, CONFLUENZE – ELLIOT, ROMA 2021

Le edizioni romane Elliot hanno pubblicato, con la cura del poeta Paolo Febbraro e testo originale a fronte, il volume di versi Confluenze di Geoffrey Brock, tradotto da Damiano Abeni, Moira Egan e dallo stesso Febbraro. Brock (Atlanta,1964) è docente universitario, traduttore e autore di due premiati volumi di poesia, oltreché di numerosi saggi letterari.

La sua è una poesia limpida, facilmente “percorribile” e insieme autorevole, nutrita di sapienza antica e di maestria formale, come suggerisce il prefatore. Poesia descrittiva, di luoghi e di persone, che prende spunto da episodi marginali come da esperienze fondanti del passato, o da posti visitati turisticamente (un cimitero di guerra, un’antica necropoli, la spiaggia vicino a Roma, il Messico) ritrovati con nostalgia nella memoria. Ma anche da brani letti casualmente o studiati con accanimento, opere liriche, documenti storici, trattati di ornitologia, quadri famosi, sogni che si confondono con la realtà: tutto quello, insomma, che nutre la quotidianità di qualsiasi individuo, filtrato dalla coscienza emotiva e scalfibile del poeta. I ricordi, come i sogni, gli incubi, le associazioni fantastiche, sfociano in qualcos’altro che non è, o non è più, la realtà: una verità riformulata, quando i dati concreti possono rivelarsi minacciosi, nella loro appurabile spietatezza. La fidanzata infedele non è tornata indietro pentita, ma si è felicemente risposata; una particolare battaglia tra i Sioux e i soldati bianchi non è mai stata combattuta; lo splendido animale apparso nel bosco a due osservatori spaventati (“annidati come / cucchiai in un cassetto di coltelli”) era forse un fantasma…

“Parlando sommessamente, Brock è in ascolto delle ondulazioni armoniche e degli ultrasuoni che le sue voci, i suoi luoghi producono”, commenta Febbraro. Una voce volutamente smorzata, quella con il poeta americano cui si esprime, lontana da ogni stentorea sicurezza, persino nell’indignazione della denuncia politica, nelle rivisitazioni mitologiche, nelle ricostruzioni epiche. Come lui stesso scrive in una delicata composizione, La stanza al piano di sopra, in cui confessa di tendere l’orecchio con trepidazione per captare i rumori provenienti dall’appartamento dei vicini, testimonianza di presenze umane: “Ed è così / che in me è cresciuta l’assuefazione / al silenzio: al telefono parlo sommessamente, / levo l’audio alla TV”.

Per Brock tutto diventa passibile di poesia, anche l’avvenimento più banale e prosaico: una cena offerta da un facoltoso compagno d’università, la partita a frisbee giocata in un gelido pomeriggio a Filadelfia, il picchio alla finestra del soggiorno, una donna anziana che legge al parco, lo spazzolino da denti. Tanto più, quindi, gli incontri carichi di affettività, come quello con la vecchia madre, in una delle poesie più belle del volume (Viale Per sempre): “Ho incontrato mia madre, sfiorita, / l’altra notte in un sogno febbrile, / soprabito nero come terriccio, / la chioma un bluastro senile. // Dapprima non la riconobbi, / gli anni ebbero il sopravvento: / la spina dorsale mutata a virgola, / ed ogni passo più lento. // … Offrii il braccio a quella donna, / ma lei mi volse un volto sdegnato: / ‘Cos’è che ora ti riporta / alla strada in cui sei nato?’ // La bocca le si chiuse di scatto / come la lama di un pescatore, / il viso mutò in quello di mia figlia, / mia figlia mutò in mia moglie, // e tutte cantavano ‘Happy Birthday’ / come fece Marilyn al Presidente, / e il loro soprabito si schiuse, / e io sentii di cadere nel niente. // Chiunque fosse ora mi stava baciando, / le labbra sulle mie come ghiaccio. / Mi risvegliai in un mare di sudore – / da solo, in fiamme, diaccio”.

Il sentimento prevalente è quello della perdita, il pensiero accorato e pungente riguardo a ciò che non è più recuperabile: l’infanzia, un amore giovane, una casa abbandonata. “Il passato – ecco dove troverai il tuo paradiso. // … Qualunque cosa ora ti sia di fronte / non sarà stato un paradiso finché non è perduto”.

La poesia di Geoffrey Brock non nasconde nulla, è percettiva, dichiarativa, non lascia spazio al lettore per una interpretazione personale del testo, anche quando si stempera in aloni onirici. In questa sua trasparenza oggettivata si accomuna alla quasi totalità della poesia americana degli ultimi cinquant’anni, differenziandosene tuttavia per una cura levigata dello schema stilistico, lontano dallo spontaneismo e dall’improvvisazione. L’utilizzo sapiente delle rime e di una metrica composta hanno fatto parlare alcuni critici di formalismo. In realtà Brock aderisce in maniera consapevole e meditata più che a tradizioni obsolete, all’equilibrio rispettoso che debbono avere le parole quando si incastonano nel ricamo elegante della composizione poetica: all’interno di argini collaudati, come giustamente suggerisce Paolo Febbraro, senza strabordare.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net › Confluenze-Geoffrey-Brock                                               28  marzo 2021

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BROGI

DANIELA BROGI, LO SPAZIO DELLE DONNE – EINAUDI, TORINO 2022

Quello a cui Daniela Brogi (docente di Letteratura Contemporanea presso l’Università per Stranieri di Siena), allude nel saggio einaudiano Lo spazio delle donne, può risultare risaputo e scontato. Che la cultura femminile sia stata per millenni assente dalla considerazione e dal riconoscimento pubblico, che la tradizione patriarcale e monologica abbia “oscurato, silenziato, internato” il lavoro materiale e creativo dell’altra metà del cielo, è un concetto acquisito e assodato. Le donne sono state addestrate a non avere talento, ad accettarsi supinamente in ruoli definiti dall’universo di pensiero e di pratica maschile. Continuare a ribadire tale indiscutibile affermazione potrebbe risultare addirittura controproducente, nella sua monotona e lamentosa ripetitività.

Brogi sceglie quindi una tattica operativa diversa, più intelligentemente proficua, proponendo un’indagine sulla produzione culturale femminile attraverso una prospettiva meno consueta, analizzata attraverso il termine chiave di “spazio”, inteso come campo di espressione e verifica delle identità. Spazio occupato dalla fisicità delle donne, dal loro operare concreto e quotidiano, dalla loro narrativa, soprattutto per ciò che riguarda gli ultimi due secoli. Prevalentemente rinchiuse in ambienti limitati e separati dal mondo esterno – salottini, cucine, camere da letto, orti, collegi, monasteri –, sono rimaste bloccate in complessi di insicurezza e sfiducia.

Dalla stanza tutta per sé reclamata da Virginia Woolf al “pezzetto di giardino” conquistato da Sibilla Aleramo, dallo studio reclamato da Alice Munro al tinello di Grazia Deledda, ecco che “la domanda di spazio, come dispositivo fisico e simbolico di un riconoscimento sociale” indica l’esigenza di possedere un luogo proprio, dove potersi riconoscere in quanto soggetti liberi dal dominio esercitato sui loro corpi. Gli spazi destinati alle donne hanno funzionato per migliaia di anni come “cifra di un destino imposto”, che le ha costrette a vivere in “recinti di minorità”, fuori dai campi professionali pubblici.

Cosa fare, quindi, e come reagire per recuperare la visibilità e l’identificazione sottratte al mondo femminile, per farne emergere capacità e ingegni inabissati? Daniela Brogi propone di cambiare linguaggi e prospettive, sfruttando qualsiasi interstizio che permetta forme diverse di espressione, mappando tutte le occasioni in cui si professi cultura e si elaborino strategie di intervento politico, occupando ambiti istituzionali trascurati, riscoprendo la sapienza e il coraggio di autrici dimenticate, utilizzando attivamente ogni “fuori campo” alternativo, multietnico, extra-generazionale.

Si tratta, in fondo, di trovare il coraggio di “dispatriarcarsi”, e di assumere uno sguardo su se stesse autonomo da quello maschile (quante letterate e artiste si sono mimetizzate dietro a uno pseudonimo, o al cognome del marito…), con la coscienza di essere brave senza doversene vergognare. Si deve rileggere la storia delle donne sia relativamente allo spazio che non hanno avuto, sia a quello che hanno affettivamente avuto, ma che “è stato reso invisibile, irrilevante, dimenticabile, o persino caricaturale”. Eccole, allora, le tante eccezionali scrittrici che Brogi elenca, invitando a rileggerle tutte, riguadagnandone la complessità attraverso le competenze e i codici necessari, forniti soprattutto dalle lenti dell’ottica femminista. Tra le italiane, per non limitarsi alle conclamate Morante e Ginzburg, si citano Serao, Negri, Percoto, Banti, Masino, Campo, Guiducci, Livi, Romano, d’Eramo, Passerini…

Riflettendo sulla scrittura e la creatività delle donne, Daniela Brogi individua le problematiche che hanno reso difficile l’emergere delle loro potenzialità. Il tempo che esse dedicano a se stesse è da sempre vissuto come strappato ad altro, a urgenze familiari e domestiche più pressanti, e quindi vissuto con sensi di colpa, se non addirittura come un tradimento. Lo stesso luogo delimitato in cui possono lavorare artisticamente nasce da una situazione artificiale, perché costruito apposta, e in seguito a una scelta personale volontaria: “Scrivere significa collocarsi in uno spazio di autorevolezza e credibilità, anche narrativa, dove non era affatto scontato o naturale trovarsi”.

Proprio a causa “del silenziamento, oscuramento, inabissamento, estirpazione e perfino istupidimento delle donne praticato per secoli dalla cultura patriarcale”, la produzione artistica femminile non sempre è riuscita a raggiungere i livelli linguistici, espressivi e contenutistici richiesti dai canoni di valore letterario riconosciuto, e ha occupato un ruolo marginale in termini di merito; parlare di memorie autobiografiche, amori delusi, tormentosi rapporti familiari, disagio del corpo ha troppo spesso relegato tali argomenti in ranghi estranei alla rilevanza formale, svalutandoli in modo pregiudiziale.

Le donne hanno così finito per interiorizzare come debolezza strutturale e incapacità personale una reale condizione di svantaggio e di minorità sistemica, derivata da radicate e ininterrotte ingiustizie sociali, da asimmetrie legali, politiche, ideologiche.

Daniela Brogi termina la sua riflessione sull’autorevolezza e il prestigio negati alle donne auspicando che possano essere riconosciuti e riconquistati, nella nostra contemporaneità abitata da tante pluralità differenti, a cui è più che mai necessaria una cultura democratica del rispetto, dell’inclusione e della considerazione delle voci femminili.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 22 marzo 2022

RECENSIONI

BRUCK

EDITH BRUCK, TI LASCIO DORMIRE – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2019

Sessant’anni di amore hanno unito la scrittrice Edith Bruck al poeta e regista Nelo Risi, e Ti lascio dormire è il commovente racconto che ne dà una lucida, sincera e affettuosa testimonianza.

Edith Bruck, nata nel 1932 in un’umile famiglia di ebrei ungheresi, ai confini della Slovacchia, ultima di sei figli, ha attraversato il ’900 scontando sulla sua pelle tutti le discriminazioni e le sofferenze impartitele dalle drammatiche vicende del secolo. Come ha scritto in un suo verso, “Nascere per caso nascere donna nascere povera nascere ebrea è troppo in una sola vita”: deportata a tredici anni ad Aushwitz, è stata in seguito trasferita in altri quattro campi di concentramento, fino a venire liberata nel 1945 dal lager di Bergen-Belsen, dopo lo sterminio di buona parte dei suoi familiari. In seguito a un periodo trascorso in Israele, nel vano tentativo di recuperare le proprie radici ebraiche, si è trasferita a Roma, dove vive tuttora, dedicandosi alla scrittura.

Autrice di numerosi e premiati romanzi – documentazioni sofferte della Shoah -, ha sceneggiato e diretto tre film e svolto attività teatrale, televisiva e giornalistica, sempre impegnandosi in coraggiose campagne di sensibilizzazione sui problemi dell’antisemitismo, del pacifismo e delle ingiustizie sociali.

Il suo lungo sodalizio sentimentale e artistico con Nelo Risi, scomparso nel 2015 dopo una dolorosa malattia neurodegenerativa, ha costituito terreno fertile per numerose e commosse rivisitazioni narrative. Appunto quest’ultima opera letteraria è il resoconto di un’amicizia amorosa, di una fiduciosa solidarietà che ha unito due esseri umani, due artisti, in una convivenza complice e valorizzante, in cui reciprocamente e alternativamente hanno tamponato o riacutizzato le loro ferite, smussato gli spigoli, alleggerito tensioni: capaci anche di allegria, di scoperte quotidiane, di amicizie, letture, viaggi condivisi.

Edith alterna le sue memorie di infanzia tragica e poverissima, con i ricordi feroci dei campi di concentramento, e li puntella con i versi dei poeti ungheresi amati e tradotti per il pubblico italiano, con quelli di Nelo, con la corrispondenza conservata dagli anni del fidanzamento (si chiamavano vicendevolmente Munzilo e Munzila, Nano e Nana). Rievoca gli ultimi anni trascorsi con il marito ammalato, vegliato giorno e notte insieme alla fedele governante Olga: il momento della morte, le ore convulse del funerale, e la silenziosa solitudine che ne è seguita.

Del marito tratteggia un ritratto ammirato: lo descrive intellettualmente (ateo, laico, freudiano), moralmente (schivo, onesto, riservato, poco interessato al denaro e al successo), fisicamente (asciutto e agile come un ragazzo); a lui che era il suo tutto (“lingua patria famiglia padre e madre”) raccontava la persecuzione patita dai nazisti, le piaghe inguaribili dell’anima, il rancore ancora insopprimibile, cercando conforto e comprensione. Teme ora, rimasta sola, di averlo ossessionato con la propria inquieta malinconia e con la narrazione delle vessazioni subite: “Ah caro, caro, episodi simili ne hai sentiti da me anche troppi, buttati sulle tue fragili spalle, sul cuore e sulla mente indignati per l’assoluto della barbarie umana… Ero troppo per te, dicevi”.

Ma quegli sfoghi quotidiani, quel troppo di sofferenza veniva mitigato dalla ricchezza del lavoro comune, dalle frequentazioni intelligenti con personalità dell’arte e della cultura, dai film e dai libri goduti insieme. E dalla dedizione, materna e filiale insieme, con cui lei – moglie attenta e discreta – lo accarezzava la mattina, quando svegliandosi presto, gli ripeteva “Ti lascio dormire”.

 

© Riproduzione riservata        9 giugno 2020

https://www.sololibri.net/Ti-lascio-dormire-Bruck.html

 

 

 

 

 

 

 

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