EDITH BRUCK, TI LASCIO DORMIRE – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2019

Sessant’anni di amore hanno unito la scrittrice Edith Bruck al poeta e regista Nelo Risi, e Ti lascio dormire è il commovente racconto che ne dà una lucida, sincera e affettuosa testimonianza.

Edith Bruck, nata nel 1932 in un’umile famiglia di ebrei ungheresi, ai confini della Slovacchia, ultima di sei figli, ha attraversato il ’900 scontando sulla sua pelle tutti le discriminazioni e le sofferenze impartitele dalle drammatiche vicende del secolo. Come ha scritto in un suo verso, “Nascere per caso nascere donna nascere povera nascere ebrea è troppo in una sola vita”: deportata a tredici anni ad Aushwitz, è stata in seguito trasferita in altri quattro campi di concentramento, fino a venire liberata nel 1945 dal lager di Bergen-Belsen, dopo lo sterminio di buona parte dei suoi familiari. In seguito a un periodo trascorso in Israele, nel vano tentativo di recuperare le proprie radici ebraiche, si è trasferita a Roma, dove vive tuttora, dedicandosi alla scrittura.

Autrice di numerosi e premiati romanzi – documentazioni sofferte della Shoah -, ha sceneggiato e diretto tre film e svolto attività teatrale, televisiva e giornalistica, sempre impegnandosi in coraggiose campagne di sensibilizzazione sui problemi dell’antisemitismo, del pacifismo e delle ingiustizie sociali.

Il suo lungo sodalizio sentimentale e artistico con Nelo Risi, scomparso nel 2015 dopo una dolorosa malattia neurodegenerativa, ha costituito terreno fertile per numerose e commosse rivisitazioni narrative. Appunto quest’ultima opera letteraria è il resoconto di un’amicizia amorosa, di una fiduciosa solidarietà che ha unito due esseri umani, due artisti, in una convivenza complice e valorizzante, in cui reciprocamente e alternativamente hanno tamponato o riacutizzato le loro ferite, smussato gli spigoli, alleggerito tensioni: capaci anche di allegria, di scoperte quotidiane, di amicizie, letture, viaggi condivisi.

Edith alterna le sue memorie di infanzia tragica e poverissima, con i ricordi feroci dei campi di concentramento, e li puntella con i versi dei poeti ungheresi amati e tradotti per il pubblico italiano, con quelli di Nelo, con la corrispondenza conservata dagli anni del fidanzamento (si chiamavano vicendevolmente Munzilo e Munzila, Nano e Nana). Rievoca gli ultimi anni trascorsi con il marito ammalato, vegliato giorno e notte insieme alla fedele governante Olga: il momento della morte, le ore convulse del funerale, e la silenziosa solitudine che ne è seguita.

Del marito tratteggia un ritratto ammirato: lo descrive intellettualmente (ateo, laico, freudiano), moralmente (schivo, onesto, riservato, poco interessato al denaro e al successo), fisicamente (asciutto e agile come un ragazzo); a lui che era il suo tutto (“lingua patria famiglia padre e madre”) raccontava la persecuzione patita dai nazisti, le piaghe inguaribili dell’anima, il rancore ancora insopprimibile, cercando conforto e comprensione. Teme ora, rimasta sola, di averlo ossessionato con la propria inquieta malinconia e con la narrazione delle vessazioni subite: “Ah caro, caro, episodi simili ne hai sentiti da me anche troppi, buttati sulle tue fragili spalle, sul cuore e sulla mente indignati per l’assoluto della barbarie umana… Ero troppo per te, dicevi”.

Ma quegli sfoghi quotidiani, quel troppo di sofferenza veniva mitigato dalla ricchezza del lavoro comune, dalle frequentazioni intelligenti con personalità dell’arte e della cultura, dai film e dai libri goduti insieme. E dalla dedizione, materna e filiale insieme, con cui lei – moglie attenta e discreta – lo accarezzava la mattina, quando svegliandosi presto, gli ripeteva “Ti lascio dormire”.

 

© Riproduzione riservata        9 giugno 2020

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