Mostra: 251 - 260 of 1.354 RISULTATI
RECENSIONI

CALAMARO

LUCIA CALAMARO, NOSTALGIA DI DIO – EINAUDI, TORINO 2020

L’editore Einaudi, che già in passato ha pubblicato testi teatrali di Lucia Calamaro, propone ora la sceneggiatura della pièce Nostalgia di Dio, presentata a Venezia nel corso della Biennale Teatro nell’estate del 2019, con regia dell’autrice.

Sul palcoscenico agiscono quattro personaggi, uniti tra loro da una rete di rapporti simbiotici e malati, tentando di districarli in una serie di dialoghi e monologhi esplorativi che in realtà finiscono per scavare più a fondo trincee difensive. Francesco e Cecilia sono divorziati, hanno due figli e mantengono una corretta familiarità, pur nella morsa di un’incombente nevrosi e nella diversità delle aspettative: lui (“dubbioso su tutto”) vorrebbe tornare a vivere con la moglie, lei (“antropologa, vitale”) anela a recuperare la propria indipendenza. Francesco ha due cari amici: Alfredo (“prete, esistenzialmente provato”), consacratosi al sacerdozio dopo aver interrotto una giovanile relazione con Cecilia, e Simona, insegnante single assillata dal desiderio di maternità.

Poche e usuali le azioni che movimentano la rappresentazione: una partita a tennis, una cena tra amici, un pellegrinaggio notturno attraverso le chiese di Roma. Intensa e conflittuale invece la dinamica delle relazioni che lega i protagonisti, spingendoli verso un oltre del pensiero, un aldilà della contingenza logistica e temporale, a un passato mitizzato dalla nostalgia e dal rimpianto, a un futuro utopistico e temuto, perché riconosciuto come irrealizzabile. I palleggi sul campo da tennis con cui si apre la prima scena sono un’evidente metafora delle battute (sincopate, ironiche, taglienti) scambiate tra i personaggi. I dialoghi riguardano il nulla, oppure argomenti di notevole spessore culturale: teologia, arte, società diventano terreno di confronto e critica tra i duellanti, o di autoanalisi nel tentativo vano di capire se stessi e gli altri.

Simona, complessata sia dalle sue titubanze affettive, sia dalla propria inadeguatezza intellettuale, si esibisce in discorsi para-filosofici (“lo penso sempre bambino questo nostro Dio…E se avesse avuto il tempo di crescere, Dio, se fosse diventato adulto, c’avrebbe creato? No, non credo proprio che c’avrebbe creato. Dio è rimasto bambino… noi siamo lo sfogo, il capriccio di un Dio bambino. Questo siamo”). Francesco non lesina frecciate rancorose e ricattatorie alla moglie: “Da quando ti sei separata, tu da me, tu, non io da te, sai cosa faccio io? Bevo e faccio sport, ma preferisco bere … Mi piace, mi stordisce. Qualcosa mi perdona quando bevo”). Cecilia è insoddisfatta e nevrotica, ossessionata da ogni rumore che avverte (“io ora sono diversa, ho un’altra dimensione, i pensieri miei, i mondi miei, sto studiando, sto cercando di arrivarci… Ci tengo enormemente al rumore delle cose, al rumore dell’altro, anche al vostro… questo brusio, questo scricchiolare delle sedie… ci tengo e lo cerco, mi interesso”). Il sacerdote Alfredo si interroga sull’inutilità della sua missione (“tutto il giorno fermo ad aspettare che il mondo venga a cercarmi, ma ultimamente il mondo non mi cerca più… Quella creatura lassù è scricchiolante, piena di tarli…. fatta di niente, solo di parole, che se ti c’appoggi traballa”).

Dopo le partitelle a tennis, anche la cena a quattro in casa di Cecilia si rivela occasione di reciproche accuse e ripicche, nella sottile analisi di Francesco: “Guardate che il fatto che tutto il nostro parlare, pensare, interagire sia, nel sottotesto, abitato da parole e quindi giudizi e senso di colpa cattolici non è anodino, qualcosa vorrà dire”. Infine, il pellegrinaggio “cattolico” serale proposto con disinvoltura da Don Alfredo (“Da quant’è che non si fa un po’ di sport tutti e quattro? È una cosa bella, fate finta che facciamo un’escursione tutti insieme, fa team building”), compiuto attraversando una Roma dissestata da buche e calcinacci, invasa da gatti randagi e sorci enormi, assume tratti più sarcastici che mistici persino all’interno delle sette chiese. La ricerca di Dio, di un dio padre-protettore-rifugio, sembra puro pretesto al bisogno di un tepore amicale, al desiderio di sentirsi amati anche nelle proprie fragilità, alla speranza di un nuovo inizio. I quattro protagonisti, consapevoli di non riuscire a evadere dal proprio ruolo, dal proprio ambiente “alto borghese rétro”, si provocano vicendevolmente nel tentativo di leggersi nell’anima, di stanarsi dai propri ripari emotivi, o semplicemente di stringersi affettuosamente in una solidarietà sognata e temuta. Urla, litigi, abbracci, fantasie, imprecazioni e carezze, come in una normale famiglia allargata, rimangono l’unica maniera si sentirsi partecipi ed essenziali nella vita altrui.

 

https://www.sololibri.net/Nostalgia-di-Dio-Calamaro.html

© Riproduzione riservata         16 dicembre 2020

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CALANDRONE

MARIA GRAZIA CALANDRONE, LA VITA CHIARA – TRANSEUROPA, MASSA 2011

La foto di copertina dell’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone, tutta giocata tra il nero e il marrone, in uno sfondo plumbeo che sembra evocare una tromba d’aria o marina, stride volutamente con il titolo della raccolta: La vita chiara, inciso in caratteri bianchi, per una poesia che da subito si offre invece magmatica, densa, scavata, lontana da qualsiasi leggerezza o ironia. Di non facile e immediata decifrazione, anche se non ermetica, vibrante di un’ansia controllata, tesa in un dolore reso esplicito da immagini violente, da ricorrenti motivi di accesa aggressività, di sconvolgente sopraffazione. Il volume è diviso in quattro sezioni dedicate ai quattro elementi empedoclei, e tutti individuati nella loro sovrumana forza distruttiva, impetuosa. Così per l’acqua il simbolo prescelto è ovviamente il mare, vissuto soprattutto come minaccia nei suoi insondabili abissi o sulla superficie popolata da presenze animali e vegetali specificate con una precisa terminologia biologica, chimica, climatologica: «l’albatro cammina / sull’olio plumbeo dell’acqua, le orche deglutiscono boccate / d’acqua e sciami di alici nelle forme / di calamita e anelli scardinati, pulviscolo / di lische». Acqua inquinata e corruttrice, melmosa e corrosiva, spesso rievocata anche nell’impetuosità assassina dei fiumi, cui il subconscio sofferto dell’autrice torna nella rievocazione ossessiva dell’incubo che ha segnato la sua venuta al mondo. Il fuoco, poi, è cenere e vento, distruzione e annientamento in una sezione in cui la natura non è mai sollievo o consolazione («il gelsomino / colma di fango tenebroso / le corolle», «i sassi / trasportati dai vermi / nella bocca»). Anche le variazioni d’amore ricostruite nei dialoghi con il mistico persiano Hafez rappresentano una sorta di schiavitù di rapporti in cui non si sa chi sia padrone o servo, vittima o carnefice: («sono una piccola catasta di membra / che la sua nudità dovrà pur / calpestare»). E’ lo stesso «amore ammalato» che ritroviamo nella splendida e terribile poesia dedicata a Natasha Kampush e al suo rapitore, in cui la pietà per un sentimento divorante e distruttivo rivendica quasi una sua giustificazione agli occhi del mondo civile e perbene che non potrà mai comprendere. Proprio qui riappare un sintagma che, con una variazione significativa («sotto gli occhi di tutti», «sulla bocca di tutti») è spesso presente nella poesia di Maria Grazia Calandrone: a esibire la teatralità compiaciuta e orgogliosa della sua poesia, ma nello stesso tempo a indicare che il mistero di ogni anima e di ogni gesto rimane sempre, esclusivamente, privato e irraggiungibile  («Non sia esposto il segreto che brucia nell’urna del cuore», recita il titolo di un paragrafo del libro).
Il capitolo più corposo del volume è dedicato alla terra, alla concretezza della storia che invade e violenta la vita dei singoli, distorcendone i percorsi esistenziali, distribuendo macerie e lutti: immagini forti che dipingono scenari ancora una volta drammatici, da declamare sulle scene, con un alto senso della denuncia civile. Quindi Guernica, le stragi di Sant’Anna, rastrellamenti, donne sventrate, eccidi, madri che piangono i figli torturati ( e Maria è ovviamente il nome-icona di una maternità violata e offesa, nel sacrificio eterno di ogni crocifissione innocente). Ma ancora l’ossessione della materia e del corpo si concretizza nella narrazione di episodi di cronaca ambientati in un meridione contadino e superstizioso, abitato da pleniluni e sortilegi, uomini imbestialiti ululanti e donne marchiate da una fisicità lontana da qualsiasi possibilità di riscatto.
Non c’è salvezza, non c’è leggenda o mito, non c’è innocenza: è tutto realtà di tenebra e notte, senza alcuna clemenza, incardinata in una natura impietosa e mai confortante, in una storia che divora inesorabile. Lo stile si adegua, ovviamente, ai contenuti, ignorando quasi provocatoriamente qualsiasi collaudata tradizione letteraria: quindi versi lunghi o lunghissimi, alternati a quinari incisivi e asseverativi – con frequentissimi enjambements, spezzature, interruzioni, ripetizioni-, privi di rime o assonanze, indifferenti a ogni rigidità metrica. Una scrittura personalissima che non conosce tregue o cedimenti, imperativa, forte; nemmeno la sezione finale, dedicata all’aria, si addolcisce in una volatile o delicata armonia, ma rimane concretamente realistica anche nel tratteggiare due personaggi simbolo di spiritualità e sensibilità : Teresa d’Avila e Chopin.
L’estasi della prima sembra tutta concentrata nel voler negare il corpo e la tentazione della materia, ma ad essa e alla «bassezza del marmo» ritorna e si riduce implacabilmente («il mio corpo è bersaglio / e colonna di fuoco / è setaccio / e tamburo»); la dolcezza estenuata dei Preludi e dei Notturni del secondo viene oscurata dalla fatica delle esecuzioni, dalla sanie della tubercolosi, da incubi e visioni animalesche e malate.
Forse un ultimo rilievo o curiosità da evidenziare in questa raccolta dai toni baudelaireiani è la presenza, in quasi ogni poesia, della parola “cuore”, mai in senso immateriale, di anima, bensì in quello corposo e realistico di muscolo anatomico, di interiorità pulsante nell’unica realtà concreta del nostro esistere: il corpo. «Mon coeur mis à nu», appunto.

 

«Poesia» n.266, dicembre 2011

RECENSIONI

CALANDRONE

MARIA GRAZIA CALANDRONE, SULLA BOCCA DI TUTTI – CROCETTI, MILANO 2011

Un libro importante, denso e profondo, di una poesia che scava se stessa alla ricerca della verità, ultima o approssimativa, di una parola -comunque- che sia rivelatrice d’altro, e accompagni lettore e poeta, insieme, verso un approdo di conoscenza e di riconoscenza, di indagine e di perdono. Poesia radicata nel dolore, che è di tutti, della natura, del mondo e della storia. Una storia che ci precede («gli scomparsi», tanto citati in questi versi: dai primi abitanti della terra ai soldati con le corazze dello stesso argento del cielo, dai genitori suicidi alle vittime di ogni violenza); una storia illuminata da flash improvvisi, incubi e allucinazioni : paesi sterminati dai nazisti, stragi e attentati, macerie, mutilazioni. Partendo dai sacrifici animali dei riti antichi per arrivare all’undici settembre, descritto con analiticità quasi scientifica, a evitare qualsiasi retorica o abuso di commozione, nel cemento e nel piombo che si sgretolano insieme al sangue, all’amianto e alle travi («proiettili di corpi fusi»), secondo leggi fisiche immutabili: «come chiariva Galileo», «poveri corpi fatti di paura / primordiale, un gesto come avere gettato il pane». Non c’è traccia di innocenza, in questi versi: sentimenti e corpi vengono disarticolati con asciutta compunzione, con anatomica precisione. Non troviamo sguardi, carezze, capelli: la fisicità è fatta di crani, tendini, vertebre, viscere, atlanti cerebrali, e la nudità della sostanza di cui siamo composti ci condanna senza scampo a un destino di annullamento, di silenzio eterno: «Siamo l’effetto di un contratto / provvisorio tra la materia e il nulla». Non si può certo parlare di freddezza, per queste poesie così severamente e tranquillamente disperate; esse esprimono una loro sacralità però quasi paganeggiante, lontanissime dal tono umile e solidale della letteratura religiosa. Vibrano orgogliosamente di una voce perentoria, declamata, alta e severa, del tutto laica, nonostante i numerosi riferimenti evangelici, e le sentenze latine che richiamano a una lontana patristica riecheggiata esclusivamente per la sua nobile e altera ascendenza culturale. Poesia visionaria e misteriosa, ma estranea al sentimento del fantastico e dell’immaginoso: invece concreta e dura nel dichiarare ed esibire l’ingiustizia di una condanna alla mortalità, alla sofferenza: «in mute cuciture prenatali / tra bordi di lesioni provocate / da uno sgomento / sproporzionato alla fragilità del corpo», «il castigo ci colpisce senza / intelligenza e / all’improvviso spacca l’armatura». C’è insomma questa amara consapevolezza del nostro comune destino, di noi piccoli episodi transeunti nella indifferente e grandiosa vicenda universale: «Siamo depositi di li- / mature / a passeggio tra gli alberi di questo bosco. Nessun / dolore, siamo bellissime / composizioni / di rovine del mondo / quando era perfetto». La presenza del “noi” è una costante, mai progettuale, mai gioiosa o affratellante : «Siamo una compagine di vento / un canneto di carne lapidata / un fluttuare canoro di risorti», e a questo senso sconfortato di disfacimento della materia, la poetessa può e sa opporre solo la potenza inclemente dei suoi versi: «tutto questo apparente incorruttibile / verde sarà fieno, alimento, latte / di nuovo carne che si disfa / e carcassa / lisca / saturnale. / Io più di questo non potevo fare per mettere argine a questa / fine».

 

«Leggere Donna» n.155, giugno 2012

RECENSIONI

CALANDRONE

MARIA GRAZIA CALANDRONE, L’INFINITO MÉLO – LUCA SOSSELLA, BOLOGNA 2011

“Ho scritto un romanzetto in dieci notti flamboyant”, confessa l’autrice nell’interessante postfazione allo “pseudoromanzo”, come altrimenti viene definito questo piccolo volume. Ma in realtà del romanzo ha tutti gli ingredienti:protagonista e deuteroprotagonista, scrittura spesso iperbolica e comunque molto consapevole di sé, finale imprevisto e scoppiettante. Voce narrante è una pittrice over 40, sposata, con un figlio: si immagina della buona borghesia romana, con le giuste relazioni mondane e culturali che al suo ruolo competono. Questa pittrice assolutamente convinta delle sue doti artistiche e del sacro fuoco ispiratore che la possiede ha un tema pittorico fondante: dipinge mele,”simboli della bellezza e della disobbedienza”. Donna dalla cultura vastissima e raffinata, si vede improvvisamente sconvolgere l’esistenza dall’arrivo di un giovanissimo, e si immagina aitante, artista, “Ludo”, come lei affetto da una “disdicevole ossessione estetica”. Inizia tra i due un rapporto intensissimo, fatto di una “cocciuta adorazione” da parte di lui, di una quasi materna e gratificata attenzione da parte di lei. Che comincia a ritrarlo con trasporto emotivo, a scambiare con lui letture, film, viaggi, ” in un rapporto privo in terra di definizione non terapeutica”. Un travaso di anime, che arriva fino allo sconfinamento nei sogni di entrambi, ll’estasi, alla sublimazione del corpo. Fino al brusco risveglio, quando il giovane Ludo si accompagna a un’altra donna, una ballerina in età, e tra le due mature pigmalione scoppia un diverbio fatto di male parole, aggressioni volgari, odio senza freni. Un duello che si perpetua nei mesi, e che travalica con livore anche in pubblico, lasciando il lettore divertito o annoiato, a chiedersi il perché di tale depauperato e un po’ isterico, privatissimo, finale. Per fortuna il libro è corredato da un cd, recitato con maestria dall’autrice, che raccoglie poesie edite e inedite, e una toccante narrazione autobiografica. Vale la pena comprarlo giusto per ascoltare questa prova.

IBS, 9 giugno 2011

RECENSIONI

CAMINOLI

FRANCESCA CAMINOLI, DIALOGO DEI RAGAZZI MORTI – JACA BOOK, MILANO 2018

Francesca Caminoli (Lecco 1948) è vissuta a Milano fino ai trentaquattro anni, lavorando come giornalista per il Corriere dell’Informazione, e partecipando attivamente alla vita cittadina, allora ricca di fermenti e di propositi di cambiamento. Trasferitasi in Toscana con il marito e i figli, ha continuato il suo impegno civile in favore delle situazioni di povertà, disagio culturale, oppressione politica. Nel 1999 pubblicò presso Jaca Book Il giorno di Najram, reportage sulla guerra in Serbia; a questo primo libro seguirono per la stessa casa editrice altri volumi, tutti incentrati su temi sociali. La sua opera più struggente è stata Viaggio in Requiem (2010), che racconta un percorso compiuto in Puglia sulle tracce del figlio Guido, pittore, suicida a 30 anni: un ritorno al privato più doloroso, ma sempre con l’intenzione esplicita di comunicare agli altri una vicenda personale che sapesse farsi insegnamento per tutti.

Da poco Francesca Caminoli ha firmato un romanzo, Dialogo dei ragazzi morti, che ha il sapore di una favola, di un’invenzione fantastica polifonica, animata da diversi personaggi, umani e celesti, e ambientata nei luoghi più disparati della terra, degli inferi e di un leggendario eliso. Si tratta ancora di un omaggio al figlio, una sorta di varie scene ad incastro, in cui l’autrice-mamma utilizza sette racconti scritti da Guido per introdurre altrettanti viaggi metaforici dell’anima.

Sei ragazzi e una ragazza, tutti indicati da un numero cardinale, dall’uno al sette, si ritrovano in un altrove idilliaco, sulle rive di un lago, immersi in un’atmosfera sospesa e rarefatta, ma asettica e monotona. Sono tutti amici, con storie di solidarietà e inquietudini simili, che nelle loro brevi esistenze si erano interessati alla musica e all’arte, nel tentativo di creare momenti di aggregazione comunitari, occupando edifici dismessi per ricavarne centri sociali. Nel giro di pochi anni, le loro vite mortali si erano concluse tragicamente, alcune per morte volontaria, altre per tragici incidenti. Questi ragazzi-fantasma decidono di uscire dal loro limbo sovrannaturale per portare la recuperata voglia di vita là dove è carente nell’universo: “Inventiamoci qualcosa…rompiamo gli schemi. Volevamo cambiare il mondo laggiù e non ci siamo riusciti. Proviamo a farla qui la nostra rivoluzione”. Gli squarci narrativi scritti da Guido (brevi, impressionistici, immaginosi) immettono in altrettanti viaggi verso differenti ambienti terrestri (deserti e vulcani, Parigi e Firenze, Sudamerica e India), a incontrare le persone più emarginate e disperate, vaganti tra miseria e trasgressione, droga e inquinamento, amore e violenza.

Qual è il messaggio di queste giovani ombre, la loro utopia di riscatto? Si tratta di sette persone che hanno vissuto con una “sensibilità dilatata… senza pelle”, assumendosi empaticamente l’angoscia del vivere altrui, quasi catalizzatori del male e del dolore di tutti.  Attraverso “percorsi indecifrabili”, dall’aldilà vogliono riscattare la sofferenza patita e inferta, facendo riscoprire la gioia a chi è rimasto nel mondo, e vaga confuso, rabbioso, senza meta. Nei loro viaggi si interrogano e interrogano vecchi, bambini, donne abitanti nelle latitudini e nelle condizioni più estreme, sui valori morali e sulle ingiustizie, sui desideri e sugli imperscrutabili disegni divini, nel generoso tentativo di convertire i viventi al bene a alla felicità. Ci riescono, alla fine della favola? Forse solo per un breve momento, in cui tutto viene illuminato da variopinti arcobaleni spruzzati con bombolette spray sui muri delle fabbriche, nelle metropolitane, sui marciapiedi di squallide periferie, che improvvisamente risplendono in un’atmosfera benevola e purificata.

 

© Riproduzione riservata    

https://www.sololibri.net/Dialogo-dei-ragazzi-morti Caminoli.html    26 luglio 2018

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CAMON

FERDINANDO CAMON, LA MIA STIRPE – GARZANTI, MILANO 2012

Nel 1978 Ferdinando Camon aveva pubblicato  Un altare per la madre, romanzo epico e tenerissimo che concludeva “il ciclo degli ultimi”, fondendo abilmente storia privata e pubblica nell’omaggio commosso e riconoscente alla figura materna. Oggi torna, con questo bel volume edito da Garzanti, su quegli stessi temi, rivisitati con uguale e partecipe emozione, ma con una più matura e sottilmente ironica visione di ciò che in questi trent’anni siamo riusciti a raggiungere, o a perdere, come collettività. E in uno stile più sciolto e leggero che nelle precedenti prove. Questa volta il punto di partenza, sempre radicato nella vicenda della famiglia originaria dell’autore, è la malattia del padre, colpito da ictus e privato della facoltà di parlare. Intorno alla sua stanza d’ospedale si radunano i figli ormai maturi, e tutti in qualche modo estranei. Soprattutto ha tralignato lo scrittore, allontanandosi dalla civiltà contadina che l’ha partorito e cresciuto, dai suoi valori eterni e soffocanti, guadagnando in consapevolezza e forse in infelicità. Eppure al capezzale del padre, il figlio diventato intellettuale, opinionista, narratore premiato e tradotto in tutto il mondo si ritrova a considerare le sue origini come ancora fondanti e vive, fertili e castranti insieme: sente la colpa di aver tradito e l’orgoglio di aver osato percorrere nuove strade, rinunciando a tradizioni millenarie, ma anche a superstizioni ottuse, a insensibilità nei riguardi del mondo naturale e animale. Nel padre morente rivede i suoi lineamenti, quelli dei suoi figli e dei nipoti, le stesse abitudini fisiche e malattie che si tramandano da generazioni. «È come se il suo corpo ricalcasse il mio corpo che ricalca un altro corpo…E’ senso della stirpe, che in dialetto si dice razza…» Ripercorre quindi la storia del nonno, soldato nella prima guerra mondiale e estratto vivo per miracolo da una valanga: la sua fede obbediente alla patria e alla casa reale, che in queste pagine il nipote scrittore stigmatizza con sarcasmo e sacrosanta indignazione, ridicolizzando la figura mediocre di Vittorio Emanuele IV. Ripercorre anche la storia del padre, lui pure combattente nella seconda guerra mondiale, di cui era riuscito a evitare il fronte iniettandosi nel ginocchio acqua infetta. Il padre rivisitato nei suoi anni giovani, nel fidanzamento con la madre «cussì bella» e venerata come una madonna la domenica, in chiesa, nei pochi incontri precedenti il matrimonio. Nonno e padre avevano fatto entrambi un voto, mai mantenuto: quello di andare a Roma in pellegrinaggio dal Papa, in atto di riconoscenza e di sottomissione. Tocca al figlio scrittore, ora, rispondere a quella chiamata: al suo cattolicesimo mai rinnegato, ma certo più annacquato e critico di quello dei parenti contadini. Il papa tedesco lo convoca insieme a 250 artisti internazionali cui viene demandata la trasmissione del messaggio cristiano nel mondo: onore e onere. Orgoglio, trepidazione animano Camon che si sente eletto e trascurato contemporaneamente, quando intuisce che la sistemazione degli invitati dipende dalla loro rilevanza mediatica: ai primi posti nella Cappella Sistina, più vicini al Pontefice e sotto lo sguardo paralizzante e potente del Cristo michelangiolesco sono i cantanti, gli attori di commedie volgarotte, il regista freudiano, il tenore cieco. Eppure lui, ironico e contrito, si genuflette di fronte al Vicario di Cristo, offre alla sua benedizione le fotografie del nonno e del padre che nasconde sotto la camicia, a implorare un viatico per tutta la sua famiglia: antenati e discendenti, i due figli lontani, i nipotini così diversi e così uguali a chi li ha preceduti nel sangue e nei pensieri. Le ultime pagine del romanzo, divertenti e intenerite, raccontano un viaggio in treno verso Venezia con le bambine del figlio, docente universitario in un’altra città: i loro discorsi ingenui e modernamente smaliziati insieme, la loro visione del mondo multietnico in cui stanno crescendo e la loro irriverente religiosità, tanto diversa da quella del Veneto arcaico da cui vantano le radici. Nipotine tuttavia così simili nel profilo e nei gesti inconsapevoli alla bisnonna analfabeta, la madre di Camon «cussì bella». Destini differenti, un’unica stirpe.

«incroci on line» 11 giugno 2014

RECENSIONI

CAMON

FERDINANDO CAMON, UN ALTARE PER LA MADRE – GARZANTI, MILANO 1978

Ferdinando Camon ha scritto il suo quarto romanzo che, riallacciandosi a Il quinto stato (1970) e a La vita eterna, viene a concludere la trilogia del “ciclo degli ultimi” dedicata al mondo contadino della campagna padovana, mondo da cui lo stesso Camon proviene. E’ un libro sofferto, scritto e riscritto continuamente per tre anni, che prende spunto da una dolorosa circostanza autobiografica, la morte della madre, per intessere un lamento che è insieme elegia, preghiera, testimonianza. Il ricordo della madre, come esce da un susseguirsi di squarci, di immagini (lei che ride portandosi una mano sul cuore, lei che cerca di parlare in italiano, lei che si incipria prima di andare a messa: questi sono i ricordi più personali, quelli più individuali. In altri gesti, la madre sembra ripetere quelli propri di tutte le contadine: nel risparmiare su tutto, nel lavorare fino allo stremo, nella discrezione di chi rimane ultimo, diventa una figura esemplare, tipica dell’ambiente in cui vive); questo ricordo dovrebbe quindi essere il filo conduttore di tutta la narrazione. In realtà mi sembra che il motivo fondamentale sia la resa dei conti che il figlio tenta di fare con se stesso: tutto il romanzo è infatti un interrogarsi sulla morte e sulla vita (indicativo è il brevissimo, gnomico capitolo XII), sul mondo contadino che è stato abbandonato e sembra finire del tutto con la morte della madre, e sulla propria sradicatezza, quindi, sia dalla cultura dei campi, sia da quella della città. Di fronte a una civiltà contadina, che è cultura perché è creazione di mito e religione, l’inurbato si sente “espropriato” della sua dimensione più vera. Questo è il primo romanzo che Camon scrive in prima persona, ma riesce a parlare di sé solamente come “figlio”: della madre, certo, e anche del padre che pure è una figura straordinaria – ma soprattutto di un ambiente. Di una terra, di una gente, di una religione. Questo è infatti un romanzo cristiano: non direi nemmeno religioso, ma proprio cristiano. L’atmosfera è quella delle funzioni, delle processioni, dove non c’è posto se non per l’obbedienza, il rispetto, la fede, a volte l’esaltazione: «Se ciascuno avesse vissuto come vuole la società, che vita vergognosa avrebbe avuto. Cristo c’è, ed è ineguagliabile. Se non ci fosse Lui, vivere sarebbe un’insulsa pazzia».

È soprattutto un romanzo, l’abbiamo visto, contadino: e non, come si poteva dire per gli altri libri di Camon, perché ci sia contrapposizione polemica con il mondo borghese. Qui il mondo contadino diventa assoluto, non c’è più nemmeno il confronto con altre società, e l’immersione in esso diviene totale, tutta emotiva. La storia della morte della madre, che è una storia privata, diviene storia corale, oggettivamente partecipata da tutta la comunità contadina: l’altare che il padre aveva costruito in suo ricordo, diventa l’altare della chiesa del paese, e la madre ne risulta in qualche modo santificata. L’estraneità finisce per essere anche un’estraneità culturale nello stesso stile adottato da Camon: vengono abbandonati i vari registri usati nelle opere precedenti, e anche gli strumenti interpretativi più colti, quali la psicanalisi, la sociologia. La scrittura è tesa, concisa, lontana dagli sperimentalismi di La vita eterna o di Occidente, in qualche punto addirittura faticosa. Perché pensata in dialetto: «Scrivo queste cose in italiano, cioè le traduco in un’altra lingua. Colui che non gli è permesso di usare la propria lingua non può essere felice e sentirsi libero. Più scrivo, più mi lego. Questo sarà un libro breve, perché in fondo non è che un’epigrafe».

Il mondo borghese che ha sempre snobbato la civiltà degli ultimi, il quinto stato dei “fuori storia”, si vede una volta tanto snobbato: il libro è scritto rispettando fedelmente la struttura mentale del contadino, in una lingua che viene solo presa a prestito dalla cultura borghese, per poter costruire un altare di parole che testimoni la vita della madre anche a chi è estraneo al mondo di lei.

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 13 aprile 1978

RECENSIONI

CAMPANA

NADIA CAMPANA, VISIONE POSTUMA – VERSO LA MENTE, RAFFAELLI EDITORE, RIMINI 2014

Di Nadia Campana (Cesena,1954Milano,1985) l’editore riminese Raffaelli ha pubblicato nel 2014 due volumi: Visione postuma e Verso la mente. Il primo (curato da Milo De Angelis, Emi Rabuffetti e Giovanni Turci) raccoglie testi critici rimasti a lungo inediti, talvolta incompleti o allo stato di abbozzo: registrando gli interessi letterari della poetessa romagnola, essi rivelano la sua ricettiva empatia soprattutto nei riguardi della scrittura femminile. Infatti, se le brevi recensioni finali sono dedicate ad alcune letture, spettacoli teatrali ed esperienze didattiche compiute negli anni ’80, è soprattutto nei saggi iniziali che si esprime la sua straordinaria competenza critica nei riguardi della parola poetica delle donne.

Se per poesia si deve intendere (come afferma nel testo che dà il titolo al libro, Visione postuma) il discrimine “tra mondo interpretato e assenza del mondo”, comprensione del caos da trattenere in “una misura stretta”, conoscenza che aumenta “il dolore come esercizio” con “furibondi attacchi di malinconia”, e infine “sfracellamento contro gli scogli del quotidiano”, è specificamente nella scrittura femminile che Nadia avverte la possibilità originaria di un’autoesclusione, non solo dalla vita concreta, ma addirittura dal proprio corpo, per una sorta di dissoluzione del desiderio quando questo si scontra con la banalità del reale, e produce stanchezza, “voglia di essere inerti… precoce invecchiamento”.

Nei due testi dedicati a Emily Dickinson, di rara perspicacia interpretativa e introspezione psicologica, si mette in luce essenzialmente la rivoluzione linguistica effettuata dalla poetessa americana, la sua invenzione di un nuovo inglese, di una inedita sintassi espressa nell’utilizzo della concisione, di un ritmo musicale rapido, e di elementi linguistici inediti, che Nadia Campana da esperta traduttrice ben sapeva individuare (predilezione del congiuntivo, arcaismi, tecnicismi, voci dialettali, accelerazioni e pause, soppressione di congiunzioni-pronomi-ausiliari, sostantivazione del verbo, scambio soggetto-oggetto, fusione di metri diversi, sostituzione della punteggiatura con la lineetta…). Una rivoluzione linguistica pagata dalla Dickinson con la sua eccentricità rispetto al mondo, con la devianza dai valori comunemente accettati nel puritanesimo ottocentesco del New England. “La sua goffaggine svela l’estraneità al commercio mondano e una sordità a ogni luogo comune. Ella rifiuta di sostenere la funzione di civiltà che alle donne è sempre stata affidata: quella di seguire le inclinazioni emotive, le regole amorose e cosiddette naturali… sceglie di essere un’asceta”. Orgogliosa della propria “posizione di monade, l’unica cosa che la salda alla storia è la parola”, intuita come luogo di indipendenza e di pace, di autonomia differenziante, di consapevole ribellione alla vacuità della chiacchiera invadente. Una poesia, quella dickinsoniana, lontana dalla fisicità dei fatti, dalla fenomenicità, dal fascino dell’incontro partecipato con gli altri, e invece tutta protesa verso la vertigine della riflessione, dell’intelligenza delle cose, nella conquista di significati cruciali capaci di oltrepassare psicologia e morale: “La scrittura al posto del corpo, un pezzo di carta al posto di un’emozione toccabile, mostrata”. Nadia Campana polemizza violentemente contro una critica votata al pettegolezzo, tendente a ridurre Emily Dickinson alla sua biografia, e a descriverla come “una figuretta inerme, schiacciata sotto il peso di una vita vuota, di una nevrosi che la costringeva nella sua cameretta a rimuginare e a rifiutare in contatto col mondo se non attraverso bigliettini fatti passare sotto la porta”. Tale meschinità da rotocalco si intromette nelle vite private in modo ammiccante e indiscreto, insinuando che la verità di un poeta vada cercata al di fuori della sua poesia. “Il mito di un poeta-donna spesso finisce col far passare in secondo piano i valori letterari e l’indagine critica si risolve in una ricerca di disastri emotivi di cui la poesia non sarebbe che una citazione”.

Quale disastro emotivo avrebbe allora portato un’altra grande artista, Marina Cvetaeva, al suicidio? In due saggi Nadia esplora ‒ con un’immedesimazione quasi presaga della propria drammatica scelta finale ‒ il dolore e l’amore che hanno animato e reso eterni i versi della poetessa russa, nella cui morte volontaria sembra iscritto il destino ineluttabile di chi si getta “contro le cose, fuori dall’adeguamento e dalla registrazione, per toccarle con l’incandescenza”. La dedizione generosa e appassionata con cui Marina Cvetaeva interiorizzava ogni altro da sé aveva qualcosa della sacralità del sacrificio, dell’abnegazione di un’offerta che sa annullarsi, non essendo più desiderio o possesso, ma tenerezza, affetto, fratellanza, sym-patheia priva di qualsiasi opacità. “La sua scrittura, come la figura tragica del saltimbanco di Zarathustra, compie un ultimo volteggio nel vuoto, come un ultimo dono, senza richiesta di contraccambio né tantomeno di ammirazione o pietà. È già oltre, nel territorio puro dell’aria che le darà nuovamente la forza di uscire dalla deriva del mondo privato e di abbandonarsi a una forza sorgiva”. Forse non è improprio ricordare che Nadia Campana scelse anche lei, il 6 giugno del 1985, un salto nel vuoto, cercando l’infinito.  E sul tema del suicidio, proprio in questi due testi si sofferma con parole che hanno la durezza e la trasparenza del quarzo: “Il suicidio è l’atto di cancellazione del passato, quando il ricordo non si dà se non sotto le forme del fallimento e della stanchezza. C’è una stanchezza anche dell’essere tristi: allora il racconto della sofferenza non trova più dichiarazioni d’amore, fiabe, immagini, se non quella della migrazione nel più puro territorio dell’anima. L’itinerario della mente alla perfezione si svolge ora nella fuga verso la dimora di ciò che non ha forma, di ciò che è semplicemente schiarito e che non deve più misurare il peso dell’avvilimento. Là tutto può essere perfetto, bello, elevato. L’immaginazione non incontrerà alcun ostacolo e il sogno sarà onnipotente e senza difetto”. Nostalgia di un passato irrecuperabile, malinconia per un futuro che si teme, logoramento del presente, estraneità alla “mascherata” del mondo. Cvetaeva nel suo biglietto di addio scrisse: “Come si dice, / l’incidente è chiuso. //… Con la vita ora sono pari”.

Nadia Campana in una poesia sembra farle eco: “Avendo già avuto a che fare / con la resa, scelgo / le processioni del riposo”. La sua produzione poetica, quantitativamente esigua, è stata raccolta, con un’interessante introduzione di Milo De Angelis, in Verso la mente; qui si ribadiscono sia l’esigenza di un lavoro assiduo di rinnovamento del linguaggio, sia il continuo richiamo alla morte, temi presenti anche nei saggi critici che abbiamo esaminato (“già veduto già rotolato / già rimandato il corpo sospeso / tra le rocce lacerato”, “è il tempo di arrendersi al contagio / covato dalle solitudini / disarmarsi per le ferite”). Stilisticamente, questi versi franti e fortemente caratterizzati da simbologie, possono ricordare lo sperimentalismo di Amelia Rosselli, le invenzioni lessicali di Antonio Porta, l’autobiografismo scomposto di Sylvia Plath o di Anne Sexton: “poesia del contrasto”, la definisce De Angelis, perché nei temi si alternano caldo e freddo, nero e bianco, esuberanza e tristezza, sogno e verità, mito e cronaca familiare. Affiorano qua e là colori vivaci, campi assolati, acque di torrenti e mari, uccelli e altri animali, presenze giovani e vocianti; eppure ogni immagine ritorna quasi strozzata da un’invincibile angoscia, un’implacabile e minacciosa inquietudine.

Sempre ricompare quindi l’aspirazione al tiepido riparo di un approdo, all’affettuosità di un abbraccio protettivo: forse quello del padre, perduto nell’adolescenza per un incidente sul lavoro, o quello di un “eroe mattutino e chiaro”: “Per te, io ti, io te sono / che mi contiene nel tremante ricorso / del tuo silenzio vienimi incontro / orizzonte e allarga esso”, “l’estate occupa tutto lo spazio / come te / e lì io ti chiuderò”, “io vengo a farmi in te / vuoto fedele”, “pregavi le cose che davo / se volevo bere / le gobbe dell’oceano / si rifugiavano sotto le tue braccia / quando il sole se ne andò mi nascondesti”. In una delle ultime composizioni antologizzate, la previsione luttuosa si fa infine scongiuro e preghiera: “il più lento morire dei pulviscoli / capogiro / che occupa molto / mi sento sparire continua / i fianchi trionfano in gara / balzano contro i fondi inermi / nella fretta / neve giovane e sonno resta / dicono scendi mitezza / venissi a temperare la sete”.

I due ritratti fotografici nelle quarte di copertina (entrambi di Giovanni Turci, curatore dei volumi) ci mostrano una Nadia bella e dolce, con i capelli scuri a caschetto e la frangia che le copre la fronte, un pullover a collo alto e una lunga collana bianca. Nella foto più intensa, la giovane donna guarda l’obiettivo con un sorriso sospeso tra timidezza e ironia, quasi rivolgendosi a noi lettori per chiederci: “Avete capito qualcosa del mistero della poesia e della vita? E di me, avete capito qualcosa?”

 

© Riproduzione riservata                    «Nazione Indiana», 3 aprile 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CAMPETTI

LORIS CAMPETTI, MA COME FANNO GLI OPERAI – MANNI, SAN CESARIO DI LECCE 2018

In questa interessante inchiesta sulla condizione operaia nelle fabbriche del Nord Italia, Loris Campetti (per quarant’anni redattore de Il Manifesto) indaga le ragioni che hanno portato i lavoratori dell’industria non solo a una indubbia precarietà occupazionale ed economica, ma anche a una marginalizzazione del loro ruolo culturale, sia nella società sia all’interno dei partiti che tradizionalmente li rappresentavano.
Campetti in Ma come fanno gli operai ha raccolto decine di testimonianze tra giovani e meno giovani, specializzati e generici, rassegnati o rabbiosi, in stabilimenti in crisi come in aziende modello e competitive (dalla Luxottica alla Fincantieri, dalla Brembo alla Beretta, dall’Agusta all’Aermacchi, dalla Maserati all’ex Pininfarina), evidenziando come il disagio dei salariati stia aumentando a livello individuale e collettivo.
Di ognuna delle aziende visitate traccia le origini e gli sviluppi, elencandone le varie sedi sparse nel mondo, il numero delle maestranze, gli sbocchi del mercato, i risultati tecnologici raggiunti.
Pur nella differenza dei casi citati, appare simile la situazione economica degli intervistati, tra coloro che vantano lauree scientifiche, come tra gli informatici e i progettisti meccanici: uno stipendio mensile che si aggira dai 1300 ai 1800 euro, un premio di produzione annuale che in genere non supera i 5000 euro, nessuna copertura sanitaria, scarse possibilità di carriera, pressanti richieste di mobilità all’interno dei reparti. Comune è anche la disposizione ideologica, molto critica nei riguardi della politica renziana e del PD, rancorosa verso il jobs act, la riforma Fornero, la cancellazione dell’articolo 18; propensa invece alla novità rappresentata dal M5S, e sensibile all’insofferenza leghista per l’immigrazione. Si avverte tra i lavoratori un’omologazione al pensiero dominante, un individualismo crescente e il venire meno della solidarietà di categoria: il compagno di squadra viene spesso percepito come un minaccioso rivale, l’extracomunitario come un corpo estraneo eccessivamente tutelato. Il sindacato è vissuto in genere come un apparato burocratico indifferente ai reali bisogni degli operai, proiettato invece verso la negoziazione politica e parlamentare, con l’unica eccezione per l’agire concreto e fattivo della Fiom.
Gli esempi offerti da Loris Campetti sono numerosi e vari: dai dipendenti delle Coop emiliane fallite e finite in tribunale, ai rider di Foodora che consegnano la pizza o la spesa a domicilio, arruolati con un sms e pagati a cottimo; dagli elicotteristi di Finmeccanica super-specializzati al personale garantito dal welfare d’eccezione della Luxottica, fino al cassaintegrato cinquantenne e alla facchina con preparazione universitaria che hanno visto crollare l’utopia cooperativa a Reggio Emilia.
Emblematico è il racconto del ventunenne Federico, operaio interinale del weekend (inchiodato alla catena di montaggio solo di sabato e domenica, senza diritto alla mensa e agli straordinari) alla Brembo (BG), leader mondiale dei sistemi frenanti. Federico frequenta l’università a Milano, sogna di diventare ingegnere musicale, di specializzarsi a Londra per poi emigrare negli USA o in Canada, ma accetta una sottoccupazione per motivi di pura convenienza e sopravvivenza. Nessun giovane condivide più la simbiosi con la fabbrica, l’amore viscerale per il marchio dell’azienda nutrito dai genitori e dai nonni: i ragazzi lavorano per vivere, e non viceversa, delegando i propri momenti di felicità al tempo libero, ai viaggi, alla musica, all’amore.
Il volume si conclude con alcune considerazioni amare e perplesse sul mondo del lavoro così come si presenta oggi, e sulle sue prospettive future. Attualmente l’ideologia del mercato e del profitto ha sostituito l’ideale di mutualità e solidarietà, inteso come strumento trasformativo della società; salute, anzianità e sicurezza sul posto di lavoro non sono più garantiti; la competizione tra occupati, sottooccupati e disoccupati anima risentimenti; le assunzioni sono perlopiù a termine; l’attenzione ai consumatori ha prevalso su quella dovuta ai produttori, e la politica si è consegnata a un neoliberalismo sfrenato.
«L’insicurezza produce paura e la paura può diventare il catalizzatore di una guerra tra poveri», cioè tra personale assunto a tempo indeterminato e nuovi schiavi. Un progetto collettivo di cambiamento può sorgere forse da un diverso modello di sviluppo, dalla sensibilizzazione individuale ai diritti di tutti i lavoratori, dalla rinascita consapevole delle organizzazioni sindacali.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/Ma-come-fanno-gli-operai-Campetti.html          18 aprile 2018

RECENSIONI

CAMPO

AAVV, CRISTINA CAMPO. SUL PENSARE POETICO – FEERIA, FIRENZE 2011

Secondo l’editore di questa antologia di saggi che dieci studiosi hanno dedicato a Cristina Campo, «nei convulsi anni di autocelebrazioni narcisistiche in cui viviamo, ci sta di fronte con una sorprendente e sia pur impervia esemplarità» la figura di questa sensibilissima, colta, vulnerabile poetessa e intellettuale bolognese, vissuta a lungo sia a Firenze sia a Roma. Guido Ceronetti la definì «filatrice dell’inesprimibile», «trappista della perfezione», protagonista di un «umbratile, filtrato viaggio nell’esistenza» che la portò a indagare i percorsi segreti dell’anima, attraverso lo studio appassionato della mistica e della liturgia orientale e ortodossa, la frequentazione di letture spirituali (da Eckhart a Silesius a Simone Weil) e dei più importanti poeti e filosofi a lei contemporanei (Luzi, Merini, Alvaro, Zolla, Emo), l’interesse per la musica e la fiaba, ma anche l’impegno civile nei riguardi di tutti gli avvenimenti politici, culturali e religiosi della sua epoca. Il volume esplora con analitico rigore i vari aspetti della produzione letteraria di Cristina Campo: dal suo ricchissimo epistolario (1942-1976), definito dalla studiosa Maria Pertile «residuo dell’assoluto», alla sua empatia nei riguardi degli ultimi e dei fragili, alla devozione verso la letteratura intesa quasi come pratica religiosa, fino alla sua biografia vissuta all’insegna della riservatezza e della discrezione, che la portò ad affermare severamente: «Che nulla traspaia dell’intimo cuore, nulla sia noto di noi che il sorriso».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014