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RECENSIONI

CARVER

RAYMOND CARVER, ORIENTARSI CON LE STELLE ‒ MINIMUM FAX, ROMA 2016

Di Raymond Carver (“il Cechov americano”, secondo una definizione del Guardian di Londra) abbiamo letto, con commozione e stupore, i racconti agili, veloci, ironici e assolutamente privi di retorica, associandoli istintivamente al suo essere un cittadino statunitense nato nel ‘38, vissuto con rabbia e disperazione tra alcol, droga, drammi familiari e povertà nella temperie culturale e artistica che ha contraddistinto l’America del dopoguerra. La sua voce ci è sembrata però distinguersi per una mai del tutto rinnegata, e quasi pudica, ingenuità e tenerezza: soprattutto quando descriveva la morte di un bambino, lo spaesamento adolescenziale, la sofferenza del tradimento, l’abbrutimento delle dipendenze, l’immersione nella natura ‒ con i suoi boschi, i fiumi, il rito disintossicante della pesca.  Riguardo all’etichetta di minimalista, che rifiutava, scrisse: «È difficile essere semplici. La lingua dei miei racconti è quella di cui la gente fa comunemente uso, ma al tempo stesso è una prosa che va sottoposta a un duro lavoro prima che risulti trasparente, cristallina. Questa non è una contraddizione in termini. Arrivo a sottoporre un racconto persino a quindici revisioni. A ogni revisione il racconto cambia. Ma non c’è nulla di automatico; si tratta piuttosto di un processo. Scrivere è un processo di rivelazione».

I temi dei racconti ritornano nelle poesie, che hanno attraversato e accompagnato la sua produzione narrativa, intensificandosi negli anni precedenti la morte, segnati dalla lotta contro il tumore. Versi che a un lettore europeo, abituato alla complessità e alla profondità degli autori più noti del nostro ‘900, possono sembrare troppo facili e immediati, con il loro andamento discorsivo, la minuziosità diaristica, la trasparenza descrittiva, il tono assolutamente disarmato e privo di astuzie linguistiche con cui si offrono a chi legge. Carver non si paluda da poeta-vate, narra con semplicità quello che gli succede, senza pretendere complicità o partecipazione emotiva, che vieta anche a sé stesso: «Lontano, / un altro uomo cresce i miei figli, / e va a letto con mia moglie, con mia moglie».

Chi volesse avvicinarsi alle sue poesie, pubblicate da Minimum Fax, dovrebbe forse prima conoscere qualcosa della narrativa, magari ascoltandone la straordinaria resa interpretativa su Radio3, in Ad alta voce. Si accorgerebbe che l’atmosfera è simile, gli avvenimenti raccontati in prosa e in versi sono i medesimi, come ha scritto la sua compagna Tess Gallagher: «Talvolta, senza provare alcun imbarazzo, Ray si è servito degli stessi avvenimenti o degli stessi momenti di consapevolezza sia nelle poesie che nei racconti. I versi spesso chiariscono un sostrato emotivo o biografico lasciato in ombra nei racconti. ‘Sfruttalo sino in fondo’, diceva. ‘Non lasciare niente da parte per dopo’». Infatti alcune poesie sono veri e propri poemetti narrativi, molto estesi e colloquiali (da non perdere Limonata, Il pittore e il pesce, Voi non sapete che cos’è l’amore, La cabina telefonica, Miracolo, Il portafoglio di mio padre, Chiedigli un po’). Ricalcano i moduli della sua scrittura, con le conclusioni inaspettate e spiazzanti, intese soprattutto ad evitare la retorica, o la descrizione particolareggiata dei gesti, osservati quasi al rallentatore («Risaliamo in macchina per guardare il fumo e il fuoco. Il motore è acceso. Annuso la colla dei modellini sulle mie dita. Lui mi guarda mentre avvicino le dita al naso», «Esci dalla statale a sinistra e / scendi giù dal colle. Arrivato / in fondo, gira ancora a sinistra. / Continua sempre a sinistra»).

Gli argomenti che Raymond Carver tratta nelle sue poesie sono comuni e universali, non si distinguono per particolare originalità. L’amore, innanzi tutto, declinato in tutte le sue sfumature: nostalgia, tenerezza, rabbia, sensualità, dolore: «La chiave l’ho lasciata / nel solito posto. Tu sai dove. / Ricordati di me e di tutto quello che abbiamo fatto insieme», «Torna a casa. Mi senti? / I miei polmoni sono pieni del fumo / della tua assenza», «Mi ha detto che lo sapeva / Merda ho 51 anni e lei ne ha 25 / e siamo innamorati e lei è gelosa / Gesù è bellissimo / ha detto che mi strappava gli occhi se venivo quassù a scopare», «Non ti crucciare il cuore per me, cara. / Tessiamo con il filo che ci è dato», «Seppellì sua moglie, che era morta / disperata. E, disperato, lui / si rifugiò nella veranda, da dove osservava / il sole tramontare e sorgere la luna», «È quella / la casa dove, in piedi sulla soglia, / c’è una donna / con il sole nei / capelli. Quella / che è rimasta in attesa / fino a ora. / La donna che ti ama. / L’unica che può dirti: /’Come mai ci hai messo tanto?’».

Oppure gli affetti familiari: padre madre fratello moglie figli, bloccati nella memoria in un solo gesto o in un’unica frase, riscoperti per caso in una fotografia, posizionati nel loro ambiente abituale: la cucina, l’auto, l’officina («Mio padre è ai fornelli che frigge uova / e cervello. Ma chi ha fame / stamattina?», «Poi non posso fare a meno di lanciare un’altra occhiata / alla foto. Il suo ammiccare, il gran sorriso, / l’inclinazione spavalda della sigaretta», «Comunque sono contento. / Vado in macchina con mio fratello, / beviamo una pinta di Old Crow. / Non abbiamo in mente / nessuna meta, andiamo e basta»).

Le difficoltà economiche e la rivendicazione di una maggiore uguaglianza, insieme al disprezzo per la ricchezza immeritata e ostentata: «Mi licenziavano e poi mi riassumevano di nuovo / facevo il magazziniere da loro a 35 anni / e poi mi hanno sbattuto dentro perché rubavo dolci / So cosa significa ci sono stato», «ho incontrato uomini in galera che avevano più stile / della gente che bazzica i college / e va alle letture di poesia / Sono delle sanguisughe che vengono a vedere / se i calzini del poeta sono sporchi / o se gli puzzano le ascelle / Credetemi io non li deluderò quelli lì».

Ancora la morte, temuta, sospettata, prevista e infine attesa con rassegnazione: «La faccia logora della morte! / La fulminea velocità del passato», «Hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra», «Dammi la mano per un po’. Tienimi la / mia. Così va bene, sì. Stringimela forte. C’era un tempo in cui / pensavamo di avere il tempo dalla nostra. C’era un tempo, c’era / un tempo, / gridano gli uccellini malridotti». Impossibile non emozionarsi davanti al padre di Limonata, che vede il suo ragazzino morto ripescato dal fiume con una gru, e depositato sull’erba davanti ai suoi piedi: «E lui ricorda / la dolcezza, quando la vita era dolce, e dolcemente / gli era stata assegnata quell’altra vita».

In tutto questo (in tutto questo amare e disprezzarsi, bestemmiare e distruggersi, commuoversi e maledire) quello che alla fine rimane come lascito al lettore è un incoraggiamento, quasi una rude pacca sulla spalla, come a dire: siamo sulla stessa barca, soffriamo tutti nella stessa maniera, cerchiamo di resistere.

 

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 5 marzo 2018

 

 

RECENSIONI

CASADEI

ALBERTO CASADEI, LA CRITICA LETTERARIA CONTEMPORANEA – IL MULINO, BOLOGNA 2015

Credo che chiunque ami la letteratura, o si occupi di studi umanistici a qualsiasi livello, dovrebbe acquistare, consultare e conservare nella sua biblioteca questo importante volume di Alberto Casadei (professore ordinario all’Università di Pisa), che in maniera sintetica ma esauriente, e in un linguaggio limpido e accessibile, offre una panoramica articolata delle tendenze attuali della critica letteraria mondiale.
Il volume si suddivide in un’introduzione e quattro capitoli, inframmezzati da dieci essenziali “quadri”, dedicati agli studiosi che nel corso del ‘900 hanno dato il contributo teorico e interpretativo più rilevante al dibattito su linguaggio e letteratura (da N.Frye a W.Benjamin, da M.Bachtin a R.Barthes…). Dopo una breve ma dettagliata esposizione dei caratteri essenziali della critica letteraria ottocentesca, l’autore ci offre una sintesi dei metodi di ermeneutica testuale più rappresentativi e discussi del secolo scorso, dando spazio sia alla critica accademica sia a quella militante, sia alle scuole di pensiero sia ai contributi di singoli scrittori.
Nei tre capitoli iniziali (il quarto, conclusivo, riguarda le novità degli ultimi anni – sospesi tra postmodernità e globalizzazione – e le stimolanti prospettive future, aperte ai contributi delle nuove tecnologie e delle scienze neurocognitive) Casadei propone una distinzione tra critiche incentrate sull’autore, sul testo o sul lettore: scansione ovviamente passibile di frequenti intersezioni e sconfinamenti a seconda dei periodi e delle aree geografiche prese in considerazione.
La prima sezione (L’autore e il mondo) esamina un insieme di fattori non solo testuali, spesso dipendenti dall’autore e dal suo contesto socioculturale, proponendo ricostruzioni di più ampio respiro psicologico, storico, ideologico. Ci si sofferma quindi sulla critica psicanalitica (da Freud a Lacan, citando anche i nostri Lavagetto e Rella), su quella storicistica (Croce, in primis, e poi Russo, Sapegno, Dionisotti) e marxista (Lukàcs e Benjamin, gli italiani Salinari e Muscetta, fino ai recenti Fortini, Cases, Sanguineti), su quella sociologica (da Weber alla Scuola di Francoforte a Pierre Bourdieu). Non vengono trascurate altre correnti, sia di impianto teologico sia di tematiche folkloriche, archetipiche, mitologiche. E qui Casadei si sbilancia nell’affermare che «…è Michail Bachtin lo studioso che ha maggiormente segnato gli ultimi decenni del Novecento, aprendo nuove vie per l’analisi del folklore, dei generi letterari e specialmente del romanzo… e favorendo i rapporti tra scienza e letteratura».

Nella seconda parte (Il testo e/o l’opera) si prendono in considerazione le correnti focalizzate sull’opera in sé: dagli studi di stilistica (Auerbach e Spitzer) a quelli filologici di Contini, Mengaldo e Branca, per poi soffermarsi sui contributi del formalismo (Jakobson e la Scuola di Praga, Šklovskij e Propp), dello strutturalismo e della semiotica, per approdare infine alla Nouvelle critique e a Roland Barthes. Vengono citati anche gli italiani Eco, Corti, Segre, Isella.
Nel terzo capitolo (Il lettore e le culture) si affronta l’approccio al testo più nuovo e controverso, che indaga l’impatto esercitato dall’opera letteraria sul lettore, e viceversa. Perciò l’ermeneutica, attenta alle modalità interpretative da parte di chi legge (Dilthey e Gadamer, Habermas e Ricoeur), fino agli innovativi studi sull’estetica della ricezione della Scuola di Costanza (Jauss, Iser e il nostro Cadioli), per concludere con le eterodosse posizioni del decostruzionismo (Derrida e Bloom) e della misinterpretazione, che rivendicano l’infinita equivocità del testo, la sua continua reinterpretabilità, e la complessità babelica del linguaggio, a cui ci si dovrebbe avvicinare da posizioni relativistiche e pragmatiche: ridando spazio a letture multiculturali anche lontane dai canoni ufficiali.
Il volume di Casadei, tanto stimolante e istruttivo, è arricchito da una articolata ed esaustiva bibliografia.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/La-critica-letteraria.html        8 dicembre 2015

RECENSIONI

CASADEI

ALBERTO CASADEI, POETICHE DELLA CREATIVITA’ – BRUNO MONDADORI, MILANO 2010

La prospettiva attraverso cui Alberto Casadei (docente di letteratura italiana all’Università di Pisa) interpreta la nostra poesia contemporanea in Poetiche della creatività è senz’altro innovativa e originale.
Superato il formalismo degli strutturalisti, che avvicinava i testi con strumenti assolutamente intrinseci al linguaggio, e la lettura più storicistica e sociologica dei cultural studies, come anche quella più interessata allo scandaglio psicanalitico, l’autore propone di esplorare “il versante dell’inventio, ovvero di come il poeta trova, scopre, crea la sua materia del contenuto e dell’espressione, e insieme quella dello stile” a partire dai contenuti inconsci e pre-razionali, senza limitarsi a indagare solo le dimensioni logico-grammaticali della scrittura.
L’attenzione va posta, quindi, anche all’ambito neurologico e percettivo della creatività individuale, sfruttando le ultime conquiste delle scienze cognitive. Attraverso quest’ottica, Alberto Casadei si avvicina alle produzioni di noti poeti e narratori degli ultimi cinquant’anni (Sinisgalli, Anedda, Benedetti, De Angelis, Ranchetti, Magrelli, Tadini: ma soprattutto, e con una più vivace partecipazione emotiva, Amelia Rosselli), sottolineando in ciascuno di loro il legame tra scrittura e pensiero, stile e visione filosofica, significante e disposizione mentale pre-conscia.

Così può dare, attraverso l’analisi della poesia rosselliana, e addentrandosi acutamente nei territori dell’oscurità poetica, questa calzante ed empatica definizione della poetessa morta suicida nel 1996: “L’inventio di Amelia Rosselli evita i rischi sia del totale non-senso, sia del narcisismo del gioco linguistico autoreferenziale, perché nasce da una spasmodica ricerca dei dati essenziali: la sua poesia è quasi una manifestazione infinitamente ribadita di come si sono modificate le profondità cognitive di un essere umano che ha introiettato inconsciamente l’abnorme plausibilità della sparizione e del crollo improvviso di ogni punto di riferimento”.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Poetiche-creativita-Casadei.html   26 settembre 2016

RECENSIONI

CASATI

ANGELO CASATI, LE PAURE CHE CI ABITANO– ROMENA, AREZZO 2011

Quante e quali sono le paure che abitano i nostri cuori, e ci chiudono al mondo, ci paralizzano, limitandoci nelle nostre espressioni, nei comportamenti, nella stessa adesione al semplice esistere?
Don Angelo Casati ne elenca undici, e a ciascuna di esse dedica riflessioni di «tenerezza e fermezza», come suggerisce la partecipe presentazione di Rosa Siciliano. Sono paure ataviche e accecanti, come quella di vivere o di morire. La prima ci blocca nell’affanno quotidiano, quando ci dimentichiamo che Dio si occupa di noi, ha cura delle nostre giornate ansimanti («il preoccuparsi è segno di stoltezza: puoi forse aggiungere un’ora sola alla tua vita?») Mentre dovremmo «ritornare a incantarci per l’oltre, per il volto che abita le cose e le fa dono… L’incantamento viene da un indugio, da una capacità di sostare… la fretta che ci consuma è parente stretta della voracità…» La seconda paura, che ha le sembianze dell’angoscia heideggeriana, e ha avvinto per poco lo stesso Gesù nel Getsemani, è la paura di morire, di non essere più, di finire con l’ultimo sospiro esalato. Per vincerla dobbiamo lasciare «lungo la strada il pomposo mantello dell’egoismo e indossare quello della compassione… L’amore non sta in una tomba, ha passi di vento…» Le parole delicate e convinte di Don Casati sanno rivestirsi di poesia, e infatti ogni capitolo del suo libro si apre con dei versi, che non hanno nulla della falsa bonomia di cui sono animate spesso le poesie religiose: sono drammatici e scabri, lontani da ogni retorica. Se dunque «neanche la morte, all’apparenza così vincente su tutto e tutti, può cantare vittoria sull’amore, ne esce sconfitta», ecco che ognuno di noi ha un motivo in più per non cedere alle altre paure: dell’inedito, dell’altro, di amare, di essere liberi, di pensare, dell’insicurezza. L’invito pressante dell’autore è a saper osare, innamorandoci della nostra libertà: dobbiamo sconfinare da noi stessi, imparare a essere visionari, superando le barriere delle architetture interne ed esterne ai nostri cuori. È questa libertà che il potere (anche quello ecclesiastico! aggiunge coraggiosamente Don Casati) teme: «meglio avere vassalli obbedienti, accoliti del nulla, esecutori plaudenti, meglio una massa pilotabile e acclamante che un popolo maturo di pensanti e resistenti». Ma il volume affronta e demolisce anche timori meno scontati, come quelli della mitezza e della fragilità, «nella stagione dell’urlo» che viviamo e in cui «incenerire l’altro sembra ormai il sogno estremo». Eppure, il rabbi di Nazaret ( che è entrato a Gerusalemme su un umile asinello, che ha lavato i piedi ai discepoli…) ha promesso che saranno i miti ad ereditare la terra, cosa che spesso dimenticano anche le gerarchie della Chiesa: «Quando una chiesa dimenticò il grembiule e indossò le modalità dell’impero, cancellò dal mondo la notizia buona, divenne ovvietà sulla terra… fino a una sacrilega identificazione con le esibizioni, i riti, le macchinazioni del potere».

Ritrovare coraggio, quindi, e dolcezza consapevole: fidarsi di un Dio che è guida e tenerezza, amare la bellezza come anche la mancanza di bellezza, la luce come le ombre, il volto dell’altro anche quando è deturpato dalla povertà o dall’errore, fare «opera di detronizzazione dentro di sé». E amare con pudore e discrezione, senza invadenza, senza usurpare e travalicare i confini dell’anima altrui : «Anche nell’amore più forte e appassionato, riconosci la distanza». Vincere le paure per vivere più pienamente, più consapevolmente, il nostro mestiere di uomini e donne, con l’umiltà di affidarci a chi ci travalica e ci invita a superare i confini.
Un libro molto intenso, questo di Don Angelo Casati, da meditare e condividere con chi ci è vicino e possibilmente anche con chi è lontano da noi. Senza paura.

 

«Mosaico di pace», settembre 2011

RECENSIONI

CASATI

ANGELO CASATI, “IN RICORDO DI LEI” – QIQAJON, BOSE 2024

Le edizioni Qiqajon della Comunità di Bose pubblicano nella collana Sentieri di senso un libriccino di venti pagine, In ricordo di lei, trascrizione di una relazione che Don Angelo Casati (Milano 1931) aveva tenuto nel maggio 2013 presso l’hospice Madonna dell’Uliveto ad Albinea (RE).

Don Angelo nella sua lunga vita di presbitero ha sempre lasciato in chi ha avuto occasione di conoscerlo (anche in me, non credente, nel limitato scambio epistolare intrattenuto anni fa) tracce indelebili del suo carattere dolce e benevolo, profondo e umile, insieme alla testimonianza limpida di una fede vissuta con assoluta coerenza e appassionato rigore, ma senza servilismi verso il potere ecclesiastico, e in polemica con un cattolicesimo di rappresentanza.

Innamorato della poesia, e poeta lui stesso, mantiene anche in questo testo uno stile elegante e sobrio, celebrando con ammirata considerazione il gesto della donna che a Betania cosparge di profumo la testa e i piedi di Gesù, asciugandoli con i suoi capelli. Ne parlano tutti e quattro i Vangeli (in particolare quello di Marco: 14, 1-11), incastonando l’episodio nei giorni bui precedenti la Passione, tra il complotto dei sacerdoti e il tradimento di Giuda. L’atto di affettuosa dedizione di Maria viene criticato dagli astanti e dai discepoli, sia perché ritenuto uno spreco di preziose essenze, sia perché la figura stessa della donna appariva moralmente discutibile. Gesù la difende: “Lasciatela stare. Perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me”.

Da qui parte il commento intenso e commosso di Don Casati, che subito prende le difese della donna, e più in generale di altre figure femminili del Vangelo, contro la durezza e l’ipocrisia del pensiero maschile. Sarebbe fuori luogo parlare di femminismo per la posizione assunta dall’autore, sebbene ormai si sia imposta una teologia critica – ampiamente condivisa in vari livelli del cattolicesimo – nei riguardi di una Chiesa tradizionalmente sessista. L’atto di Maria verrà sempre ricordato per la sua tenerezza e gratuità, in opposizione alla mentalità mercantile degli uomini che si scandalizzano per il prezzo del vaso di alabastro frantumato e del prezioso contenuto sprecato: ma il profumo riempie di dolcezza la stanza, e addolcisce la malinconia di Gesù. È un atto “bello”, e di bellezza il mondo, così appiattito sul grigiore dei sentimenti e sul possesso economico, ha sempre avuto e ha tuttora bisogno. Anche nella Chiesa.

“Alle spalle abbiamo stagioni della chiesa, e ancora non sono finite, in cui la bellezza è stata inseguita, per appannamento di memoria o per vile interesse, nei colori delle vesti, nei volti truccati, nella pomposità dei riti, nella corposità degli apparati, nello scambio dei favori, nell’amicizia dei potenti: teatralità vuote, coreografie senz’anima, istituzioni in estinzione di Spirito, casa colma di cose ma senza bellezza, senza bellezza di vangelo”.

Un altro gesto “bello” è quello compiuto dalla vedova povera che offre al tesoro del tempio tutto quello che possiede, una sola moneta, e la sua generosità ha per Gesù più valore delle donazioni dei ricchi (Mc 12,41-44). Due donne, la vedova e Maria, “pure di cuore” perché donne “della totalità”, che nel dare tutto sono diventate vangelo vero.

Per Don Angelo Casati il compito dei cristiani di oggi è quello di detronizzare il vuoto che si è insediato in alto, portando in luce i gesti nascosti, che nella loro semplice generosità vincono sull’arroganza volgare di chi vuole imporre pubblicamente il proprio dominio basato su compromessi e prevaricazioni.

 

© Riproduzione riservata          «SoloLibri», 7 dicembre 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

CASATI

ANGELO CASATI, E NON AVERE OCCHI SPENTI – QIQAJON, BOSE 2021

“Don Angelo è un flauto, si lascia suonare da tutto e da tutti e si ascoltano racconti meravigliosi da quel vuoto di sé che è il suo cuore. Ha frasi incandescenti eppure miti, fuochi di sdegno eppure luminosi, ha ombre che fanno più vera la luce. Come fa? Con la compassione…”. Così Chandra Candiani nella lunga e affettuosa prefazione al libro di poesie di don Angelo Casati esprime la sua stima di poeta ai versi di un religioso come lei poeta.

Angelo Casati (Milano 1931) è presbitero della diocesi milanese, e ancora oggi ultranovantenne scrive e pubblica toccanti omelie settimanali nel suo blog Sulla soglia. Ha al suo attivo molte pubblicazioni che spaziano dalla poesia a commenti evangelici, da riflessioni spirituali su vari eventi della vita a veri e propri saggi, usciti per diverse case editrici (Cittadella, Romena, Paoline, Servitium, Àncora, Il Saggiatore…). Il volume edito da Qiqajon con il titolo E non avere occhi spenti comprende quasi duecento poesie tratte da venti brevi raccolte, composte tra il 2005 e il 2018 nel raccoglimento dei monasteri di Bose e Concenedo, nella sua dimora al centro di Milano e durante alcuni viaggi europei.

“Uomo non arreso” e innamorato di Dio, è a Dio che dedica versi struggenti di dedizione e preghiera, al Signore dei cieli e della terra che nel suo silenzio ascolta e accompagna, Padre creatore di bellezza, Padre che protegge e perdona: “Né so / se mi segui o mi precedi / impalpabile come questa ombra”, “E io non so darti nomi, / ma ti guardo, Signore”, “Oso chiederti per grazia / che sia tu, Signore, / la luce segreta / dei mie occhi impoveriti // … Tu a ridare senso al non senso, / tu luce dei miei occhi, o Dio”, “Porto veglia di occhi e stupore / per te, o Dio, / che vai convocando / fili d’erba e polvere di stelle”, fino all’implorazione: “Se tu scendessi, Signore!”

E c’è il Figlio, “profeta di Nazaret” che povero tra i poveri, entra con umiltà in Gerusalemme in groppa a un asino, ma sa anche brandire “la sua frusta / infuocata / dello zelo, a rovesciare / bancarelle e mercati”, e piomba “nel tempio terrore / per occhi / inveleniti di scribi e farisei”.

Lo stesso zelo, la stessa indignazione che anima don Angelo, persona mite e dolcissima, ma incapace di trattenere la sua riprovazione di fronte alle ingiustizie del mondo, alle guerre, alle stragi dei migranti in mare – “stupro di umanità”–, e all’indifferenza colpevole della politica e della Chiesa. Allora il suo tono di voce si inasprisce, nelle due lunghe composizioni Caritas in veritate e Rito e menzogna, in cui biasima “l’ingordigia dei grandi”, la loro vana pusillanimità: “Poi ho sentito / volti truccati / declamare intenzioni / sempre intenzioni / solo intenzioni, / salvi solo / i loro interessi”, esprimendo amarezza in una lunga litania: “Hanno abbassato i monti, / l’hanno chiamata religione. / Hanno impoverito l’orizzonte, / l’hanno chiamata fede. / Hanno spento i sentimenti, / l’hanno chiamata ascesi. / Hanno svuotato il comandamento, / l’hanno chiamata morale. // … Hanno zittito le coscienze, / l’hanno chiamata ubbidienza. / Hanno mummificato i riti, / l’hanno chiamata divina liturgia. / Hanno ucciso i profeti, / l’hanno chiamata ortodossia…”

Sempre si pone a fianco degli ultimi, degli sfruttati, degli inascoltati, di chi non ha potere, nell’ abbraccio fraterno e pietoso agli “umili / cancellati / dalla terra”, “Brusìo / degli umili della terra / che dalla soglia / ancora non osano / lo sguardo al cielo”, sapendosi egli stesso un privilegiato rispetto ai senzatetto, di cui scansa i corpi sdraiati tra le coperte rientrando nella sua casa protetta e calda. L’aspirazione più vera che anima la poesia di don Angelo Casati è quello di farsi cantore delle piccole cose, dei lampioni spenti e delle panchine vuote, degli oggetti senza valore, come il ciottolo grigionero che serve per tenere aperta la porta della chiesa, di corvi gracchianti, di foglie e fiori: “Vorrei cantare / per poco di voce / la campanula bianca…// vado odorando / e fremo e ascolto”.

Il mistero è ovunque (“Ora so che mistero / non è assenza di luce”), e va celebrato sia nel candore della neve sia nel fango delle pozzanghere, perché l’essere umano deve imparare a “crepitare di mistero”, accogliendone con gratitudine il messaggio segreto: “Tu indugia / e adora ogni cammino. / Sosta ad ogni torrente / e tocca il nuovo / dell’acqua. E canta / il Dio delle infinite sorgenti”, “A noi tocca in sorte / andare / con passo lento e leggero / in un abbraccio / di nebbie avvolgenti / e trattenere sospeso / il respiro”.

Anche la sua Milano caotica, “quadrilatero della moda”, fatta di “asfalto e silenzi”, di semafori annoiati, di “brulicare di voci / in una pizzeria”, si presta a descrizioni piene di affetto, perché in tutto si può scorgere l’impronta benedicente dell’Eterno: “Palpita quasi irreale / tra casa e casa / stretto nella via / il silenzio d’agosto. / Solo un tram / strattona lontano / quasi urlasse disagio / per contenimento in rotaie, / imbrigliato per destino / nei percorsi di sempre”.

Addirittura nella sua vecchiaia, con l’inevitabile accumulo di infermità, don Angelo scorge un segno della presenza divina: “Perdo pezzi di voce e di occhi, / di memoria e di cuore. / Dietro / alle spalle tu ti chini / e raccogli”, “A me è dato / per grazia / carico d’anni / incantarmi”. Ecco, l’incanto! Forse è questa la misura che tutta comprende lo spirito religioso dell’uomo e del sacerdote, animando il suo “desiderio di sconfinare” per evadere dall’angustia dell’io, “in anelito di nascondimento / quasi in fuga / da vuota esibizione”.

Nella grandiosità della natura, nello splendore che si offre con gratuità allo sguardo, si può trovare finalmente una rispondenza al proprio desiderio di infinito. Sono le montagne, con le loro cime rocciose o nevose, con i boschi che fingono impenetrabilità ma poi si aprono in radure confortanti; sono gli uccelli con i canti e le impennate in voli improvvisi; il vento che spira dove vuole, come scrive il Vangelo di Giovanni; l’acqua, la sorella acqua cantata da San Francesco, fresca, pura, dissetante; il silenzio, in cui ci si immerge per ritrovarsi nel profondo. La ricchezza delle citazioni ne dà ampia dimostrazione: “Inseguo sospeso nella sera / le piste / leggere del vento”, “arabeschi sonori / di uccelli / nell’ombra dei boschi, / che adoro”, “Cede il passo la fontana / a una striscia di luna / briciola di silenzio, occhi di pudore, / a veglia dal cielo”, “Lo scintillio dell’acqua / che nell’angolo in ombra / si butta e ributta, fremendo, / mai uguale, ma nuova / per ogni assetato”, “Là dove muore l’orizzonte / e sfuma il cumulo grigio / delle brume autunnali / sgusciano e galleggiano / come rapite da estasi di cielo / catene di cime innevate”, “Sul sentiero / ancora mi abbevera / profumo / nero dei boschi”, “In un cielo di ghiaccio / vive l’attesa / del grande silenzio”, “Minuscole nubi / striate d’argento / si accucciano tenere / alle cime dei monti, / si staccano lente / quasi senza partire / col passo sospeso / di chi ora rallenta. / A salutare”.

Bisogna “non avere occhi spenti” per riuscire a penetrare la bellezza. Bisogna tacere per saper ascoltare quello che il silenzio ha da dire. E camminare leggeri, sospesi, senza premere passi pesanti, senza offendere con gesti e parole che feriscano quello che ci circonda, di umano e non umano. “Sospeso” è l’aggettivo a cui don Angelo Casati ricorre più spesso nelle sue poesie: il suo cuore è sospeso, come il respiro, come la parola, in una esitazione discreta che lascia spazio all’espressione dell’altro da sé, e alla voce gentile della poesia.

 

© Riproduzione riservata    «La Poesia e lo Spirito», 27 gennaio 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CASELLI

ROBERTO CASELLI, STORIA DEL BLUES – HOEPLI, MILANO 2020, pp. 338

La nuova edizione del volume Storia del Blues di Roberto Caselli, pubblicato con successo di vendite nel 2016, risulta arricchita di un’originale sezione dedicata alla produzione e diffusione italiana di questo genere musicale. Caselli è nome noto e stimato nel mondo della radiofonia e della letteratura specialistica: giornalista e critico, autore di numerose pubblicazioni (sul rock, sul jazz, sulla canzone italiana e su singoli interpreti, da Leonard Cohen a Jim Morrison, da Joan Baez a Paolo Conte), ha diretto diverse riviste ed è voce storica di Radio Popolare.

Il corposo volume illustrato edito da Hoepli consta di nove sezioni, suddivise in capitoli riassuntivi corredati non solo di vari box riportanti aneddoti, curiosità, citazioni, ritratti, commenti ai testi, suggerimenti discografici, bibliografici e cinematografici, ma anche di un’accurata datazione degli eventi fondamentali di ogni periodo storico preso in considerazione.

La scansione cronologica suggerita da Caselli offre la possibilità di seguire al meglio il percorso esistenziale di una musica che, nata dalla sofferenza e da secoli di repressione e schiavitù, è diventata veicolo di emozioni universali, in un viaggio entusiasmante che ha toccato luoghi, stili, interpreti diversi: “Il blues non è solo tristezza, è anche contrapposizione, piacere della trasgressione e dell’ironia con cui il nero si fa beffa dell’uomo bianco giocando sul suo stesso terreno”.

L’etimologia del nome sembra derivare, nella sua accezione più semplice, dal verbo “to be blue” (essere triste), ma potrebbe essersi in seguito arricchito di una sfumatura superstiziosa per la diffusa credenza negli spiriti maligni, quei blue devils che provocavano malattie, persecuzioni, morte. La musica del diavolo, come veniva comunemente definita, era considerata empia e dissacratoria perché non devotamente sottomessa ai dettami della Bibbia.

Il volume parte quindi da Mama Africa, capitolo che indaga le radici etniche da cui il blues ha tratto linfa originaria, per arrivare alla deportazione degli schiavi in America nel 1600 e al loro impiego come raccoglitori di cotone nelle piantagioni del Sud. Nato come canto di lavoro per accompagnare i movimenti cadenzati nei campi, questo genere musicale fu la prima forma culturale condivisa degli afroamericani; era caratterizzato da una struttura antifonale di dodici battute, e utilizzava inizialmente soprattutto la voce umana, in seguito strumenti a corda (chitarre, banjo) e armoniche a bocca, quindi ottoni e pianoforte.

Sia nei canti di lavoro, sia in quelli di protesta e nei gospel religiosi, si rincorrevano gli stessi temi indicanti paura, stanchezza fisica, preghiera, affetti familiari, nostalgia, ribellione.   Con l’elezione di Lincoln, la fine della guerra di secessione (1865) e l’abolizione della schiavitù non ebbero tuttavia termine le persecuzioni razziali né lo sfruttamento dei neri nei lavori più pesanti, e il blues continuò a costituire una valvola di sfogo, imponendosi con orgogliose rivendicazioni di autonomia creativa. Negli anni ’20 fu caratterizzato dalla prepotente presenza di grandi interpreti femminili (Mamie Smith, Ma Rainey, Ida Cox e Bessie Smith), affermandosi lentamente come fenomeno di spettacolo e business redditizio. Film, musical, stazioni radio diffusero nuovi stili (classic, country, ballata), capaci di proporre temi sociali, spunti di cronaca, fantasie erotiche o puro divertissement, ricco di doppi sensi e battute scurrili. Le grandi migrazioni verso il nord lungo la Highway 61 che collegava New Orleans al Canada favorirono il diffondersi del blues verso Memphis, Chicago, Detroit, e improvvisamente queste metropoli divennero casse di risonanza di eccezionali artisti, come Robert Johnson, John Hurt, Fred McDowell. Texas, Lousiana, Kansas, California diedero impulso a suoni più vigorosi, attraverso contaminazioni con il jazz e lo swing, e con l’elettrificazione della chitarra: presto al blues si aprirono le porte dell’ufficialità, con esibizioni nei night club più esclusivi e in teatri prestigiosi.

Musica nera per eccellenza (B.B. King scriveva “Ho sempre sostenuto che suonare il blues è come essere neri due volte”), nella seconda metà del ’900 trovò epigoni bianchi tra gli interpreti del free jazz, del rock e del bebop. Eric Clapton, i Rolling Stones, Janis Joplin e lo stesso Bob Dylan hanno sempre dichiarato il loro debito nei confronti del blues, inglobando in esso elementi tradizionali e rinnovandoli con nuovi ritmi e strumentazioni.

Gli ultimi capitoli del libro di Roberto Caselli sono dedicati agli impulsi arrivati di rimbalzo negli States dall’Europa, al declino dell’interesse del pubblico occidentale negli anni ’90 e quindi a una recente rivitalizzazione capace di riproporre lo spirito originale della “musica del diavolo”, con tecniche strumentali spesso esasperate. Sdoganato anche da noi, molte sono le band e i solisti che si affermano oggi con un loro seguito di pubblico, appoggiati dal fiorire di festival e pubblicazioni specialistiche che ne sottolineano il meritevole valore. Tra gli interpreti italiani più rimarchevoli vengono citati Fabio Treves, Roberto Ciotti, Maurizio Angeletti, Guido Toffoletti, Rudy Rotta, Maurizio Pugno, Laura Fedele. Max De Bernardi & Veronica Sbergia. Amy Winehouse, con acuta sensibilità, ebbe a dire di questa musica dell’anima: “Ogni situazione di difficoltà è una canzone blues che attende di essere scritta”.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 14 gennaio 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ROBERTO CASELLI, STORIA DEL BLUES – HOEPLI, MILANO 2020

 

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DAVIDE CASELLI, ESPERTI. COME STUDIARLI E PERCHÉ – IL MULINO, BOLOGNA 2020

Eccoli lì, gli esperti: ce li ritroviamo davanti a tutte le ore del giorno in ogni canale televisivo, ascoltiamo i loro sagaci interventi attraverso qualsiasi stazione radio, leggiamo le loro allarmanti previsioni su quotidiani e riviste più o meno specializzate. Sono antropologi, astrologi, climatologi, criminologi, dietologi, grafologi, massmediologi, narratologi, paesologi, psicologi, parapsicologi, politologi, semiologi, ufologi (in rigoroso ordine alfabetico). Oggi soprattutto imperversano con implacabile presenzialismo batteriologi, infettivologi, virologi. Qualcuno di loro, spesso lautamente remunerato, ha candidamente ammesso il proprio narcisismo, altri – presi da delirante senso di onnipotenza – si improvvisano soloni ferrati in ogni scibile umano: tuttologi. Astrofisici che discettano di oncologia, medici che offrono il loro illuminato parere sul fenomeno mafioso, giuristi che dissertano di teologia. Perché ne abbiamo tanto bisogno? Perché li ascoltiamo con umile reverenza, seguendo docilmente i loro consigli, suggerimenti, imperiosi diktat, demandando alla loro decantata professionalità e scientificità i nostri comportamenti, addirittura le nostre idee?

Davide Caselli (Milano, 1981) ha pubblicato per Il Mulino un dotto e documentato volume (Esperti, Come studiarli e perché) in cui analizza la complessa relazione esistente tra chi riveste l’ambito ruolo di esperto e il mondo politico-sociale-amministrativo-finanziario-culturale in cui è inserito.

Partendo dalla propria decennale esperienza di operatore sociale in un quartiere periferico di Milano, con l’incarico di segnalare e assistere situazioni di disagio e povertà nelle classi popolari, Caselli ha condotto la sua ricerca di dottorato in sociologia su vari progetti di coesione sociale e sui piani di sviluppo del welfare nel territorio lombardo, misurando il gap esistente tra il lavoro svolto empiricamente sul campo e i saperi ufficialmente riconosciuti in ambito pubblico, affidati a consulenti e ricercatori specializzati, i cosiddetti “esperti”. Le analisi tecniche, la definizione e la valutazione di strumenti operativi, i progetti e gli studi di fattibilità venivano e vengono tuttora scritti, monitorati e valutati dagli stessi enti e consulenti che definiscono le linee guida, il gergo settoriale e i bandi di concorso dei principali finanziatori, pubblici e privati, escludendo di fatto da sovvenzioni, convegni, ricerche universitarie i cittadini attivi nel terzo settore su base volontaria.

In questo scenario di crescente professionalizzazione, a chi spetta il compito dell’analisi critica del rapporto tra conoscenza e azione, tra sapere e potere “alla luce della progressiva affermazione globale del modello di accumulazione neoliberista a trazione finanziaria”? Sono interrogativi su cui da perlomeno due secoli si interroga la scienza sociale, a partire dai suoi fondatori (Comte, Marx, Durkheim, Weber) per arrivare ai loro epigoni contemporanei (Hacking, Bauman, Foucault, Eyal, Bourdieu, fino ai più emotivamente carismatici Danilo Dolci e Paulo Freire).

Gli esperti, legittimati nella loro operatività da criteri extra-scientifici ed extra-intellettuali, in cui sembra prevalere il know how sul know why, sono perlopiù rappresentati da categorie professionali o singoli individui scelti in base a una competenza pratica e a un agire sociale spesso non canonicamente definito o istituzionalizzato, ma connesso con una rete di clienti, strumenti, assetti sociali in grado di riconoscerli come produttori di saperi specifici e articolati. Essi si muovono tra una dimensione cognitiva e una normativa, tra conoscenza della società e capacità di orientarne l’agire, tra descrizione della realtà e prescrizione “di ciò che la realtà deve continuare a essere o deve diventare, e del modo in cui ciascuno deve contribuire   a riprodurla o a modificarla”. Per nulla imparziali e oggettivi, quindi, gli esperti tendono a incoraggiare “forme di produzione, diffusione e applicazione del sapere segnate dalla chiusura elitaria e dal monopolio professionale”, riproducendo rapporti di potere sotto l’apparente neutralità della competenza professionale.

Il libro di Davide Caselli, corredato da una ricchissima bibliografia, si articola in cinque capitoli introdotti da brani di diario, interviste, spunti di cronaca relativi ai nuclei tematici individuati, riguardanti non solo il welfare milanese, ma il più vasto panorama nazionale dell’economia, del lavoro, del mercato, dell’istruzione, della medicina, della cultura. Sulla base di tali considerazioni, l’autore auspica l’avvio di forme alternative e democratiche di elaborazione e trasmissione della conoscenza, onde evitare il pericolo che i “non esperti” vengano espropriati delle loro abilità, interessi, culture diverse, attraverso la squalificazione esercitata dagli “esperti”, al punto da venire delegittimati all’impegno, privati del diritto alla visibilità e confinati in ruoli d’azione marginali.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 22 agosto 2021

 

 

 

 

 

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ROBERTO CASELLI, LEONARD COHEN – HOEPLI, MILANO 2021

Fedele a un’antica e radicata passione, Roberto Caselli (giornalista, critico musicale, voce storica di Radio Popolare) ha pubblicato un nuovo, documentato, esauriente volume sul cantautore e poeta canadese Leonard Cohen (1934-2016). Già nel 2014 Caselli aveva dedicato un libro di successo al commento dei suoi testi (Leonard Cohen, Hallelujiah), convinto che meritassero di venire analizzati nei loro molteplici significati – culturali, simbolici, psicanalitici. L’intera produzione del celebre songwriter veniva vagliata nelle sue fonti e negli esiti letterari e musicali.

In questo nuovo lavoro (Leonard Cohen. Quasi come un blues), Caselli ne approfondisce in maniera particolareggiata non solo l’attività artistica, ma tutta la vicenda biografica, dalla nascita avvenuta nell’esclusivo quartiere di Westmount a Montreal, in un’agiata famiglia ebrea di origine russa, all’inquieta adolescenza, trascorsa tra le prime seduzioni della musica e della poesia, del sesso e della spiritualità. Quindi i contatti con il mondo accademico progressista canadese, l’esodo londinese e il battesimo letterario, il fascino esercitato dalla figura carismatica di Bob Dylan, la trasgressione del periodo newyorkese, vissuta accanto a personaggi di grande rilievo intellettuale degli anni ’60.

Caselli si sofferma in particolare sulle vicissitudini sentimentali di Leonard Cohen, dalla prima coinvolgente convivenza con la norvegese Marianne Ihlen nell’isola greca di Idra, ad altre numerose e intense relazioni: con Jony Mitchell, con Suzanne Elrod, madre dei suoi figli, incontrata nella chiesa di Scientology, e poi ancora con Dominique Issermann, Rebecca De Mornay e Anjani Thomas: grandi passioni vissute tra reciproci tormenti e gelosie, raccontate con malinconia e struggimento in canzoni che hanno fatto sognare milioni di fans. Tutte queste donne bellissime, intelligenti e innamorate, non sono riuscite tuttavia a distogliere il genio canadese dalla sua vocazione per la scrittura, espressa sia in testi narrativi e poetici, sia in musica. “Più volte i suoi biografi si sono soffermati sul concetto di lavoro come elemento essenziale e prioritario della sua vita, come requisito assoluto entro cui incanalare ogni forma di circostanza, sia essa amorosa, sociale o politica… Cohen è convinto che quando l’amore diventa totalizzante paralizzi, irretisca e impedisca alla creatività di manifestarsi in tutta la sua forza dirompente, creando frustrazione e disarmonia”. Il sesso, invece, rimase sempre per lui esperienza di crescita personale e apertura mentale, insieme all’uso di droghe e allo studio di discipline quali il misticismo orientale, le sacre scritture, la psicanalisi freudiana. Qualsiasi arricchimento di conoscenza veniva trasmesso e rielaborato nei romanzi, nelle poesie, nelle canzoni.

Tra i suoi pezzi migliori, il più famoso e coverizzato rimane l’ispirato gospel Hallelujah, troppo spesso frainteso in senso esclusivamente religioso, quando invece l’intenzione che ha guidato Cohen in ogni ambito espressivo è stata quella di celebrare l’esistenza umana in tutti i suoi aspetti, materiali e spirituali, alla ricerca di un significato che illuminasse il proprio percorso esistenziale.

In questo senso, l’incontro con Joshu Sasakiroshi e la pratica Zen, che nel 1993 lo condussero a un ritiro monacale di sei anni a Mount Baldy, con l’assunzione di una nuova identità e di un nuovo nome (Jikan, “il silenzioso”), lo aiutarono a superare prove drammatiche, come la truffa subita da parte della sua manager Kelley Linch, e ad approdare a una più composta saggezza, con l’accettazione matura del bene e del male riservatigli dalla quotidianità. Agli ultimi quattro album, pubblicati dopo aver ripreso più che settantenne a esibirsi in tournee internazionali per ristabilire le sue finanze disastrate, Cohen affidò il proprio testamento spirituale, ancora una volta pervaso di erotismo e ansia metafisica, ma nutrito anche di interessi per i problemi sociali, la corruzione politica e i disastri ecologici, riscoprendo nell’abbandono fiducioso al disegno divino una nuova e corroborante vitalità.

Il volume firmato da Roberto Caselli consta di dieci capitoli tematici illustrati da un’ampia rassegna fotografica, attestante luoghi, amicizie, amori, concerti e il successo planetario del protagonista. È corredato di utili quadri sintetici che scandiscono la cronologia degli avvenimenti biografici principali, e raccoglie testimonianze, citazioni, commenti ai testi, discografia e bibliografia: una chicca da non perdere per gli estimatori dello straordinario songwriter di Montreal.

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Leonard-Cohen-Caselli    16 novembre 2021

 

 

 

 

 

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ROBERTO CASELLI, LA STORIA DELLA BLACK MUSIC – HOEPLI, MILANO 2024

 

L’ultima autorevole e documentata pubblicazione di Roberto Caselli riguarda La storia della black music, edita da Hoepli come tutti i precedenti volumi dell’autore.

Caselli, giornalista, critico musicale e voce storica di Radio Popolare, ha al suo attivo lunghe collaborazioni con quotidiani, giornali specializzati, enciclopedie e siti web. È stato direttore della rivista Hi Folks! e del mensile musicale Jam. Tra i suoi numerosi libri che spaziano tra rock, blues e musica d’autore vanno citati il saggio Hallelujah sui testi di Leonard Cohen, La storia del bluesJim MorrisonStoria della canzone italianaLa storia del rock in Italia.

In questo lavoro (che ha richiesto due anni di studio e indagini storiografiche, insieme a traduzioni e commenti dei testi), viene analizzata l’evoluzione della musica afroamericana a partire dalle sue origini, cioè dalla deportazione dei neri dall’Africa in America, per arrivare alle ultime espressioni artistiche del rap e del trap. Una potente esplosione di creatività e versatilità, che nel corso del ’900 i discografici bianchi hanno cercato di annacquare, trasformandone la potenza deflagrante in prodotti più gradevoli e commerciali, meno politicamente pericolosi.

Caselli apre il suo excursus esplorativo affrontando il tema del colonialismo, che ha determinato la diaspora africana e l’istituzione dello schiavismo da parte delle potenze europee. La sofferenza di milioni di neri, costretti ad abbandonare il proprio continente, si espresse musicalmente nello spiritual, dando voce all’angoscia, alla tristezza e alla rabbia successivamente incanalate in una ribellione sociale collettiva, che trovava rispondenza e consolazione nelle vicende bibliche, dal tormentato cammino percorso dal popolo ebraico per arrivare alla terra promessa, fino alle pagine evangeliche che promettono un riscatto e un premio celeste. Lo spiritual si nutriva non solo di accenti religiosi cristiani, ma manteneva tracce di culti animistici africani, e addirittura celava nei testi indicazioni di vie di fuga da seguire per raggiungere gli stati antischiavisti del nord e il Canada.

Allo stesso modo, altri generi musicali furono successivamente in grado di traghettare aspirazioni, proteste e lotte della popolazione nera, e Roberto Caselli mette in luce soprattutto questo aspetto sovversivo, rivoluzionario, ideologico, veicolato da testi e ritmi. Contemporaneamente, vengono riletti i momenti cruciali della storia americana in maniera critica e antiretorica, a partire dalle intenzioni non del tutto libertarie, democratiche e antirazziste della guerra civile, passando attraverso i drammatici linciaggi e la nascita del Ku Klux Klan, il proibizionismo, la grande depressione, il maccartismo, i movimenti per i diritti civili, le marce pacifiste. La protesta dei neri si radicalizzava, fino a trasformarsi in lotta aperta alle istituzioni, con Malcom X, il Black Power, le Black Panthers, Angela Davis.

Ci furono coraggiose figure di spicco nella letteratura, nel teatro e nell’arte che appoggiarono la lotta contro ogni discriminazione razziale (Langston Hughes, Lawrence Beitler, e poi grandi scrittori come Caldwell, Faulkner, O’Connor, Kerouac, Ginsberg): a tutti loro viene dedicata un’approfondita scheda informativa.

La narrazione di Caselli segue i momenti più rilevanti dello sviluppo della black music, offrendo un esaustivo repertorio dei vari stili susseguitisi in due secoli di storia, partendo appunto dai canti di lavoro, dagli spiritual e dai blues del Delta e di Chicago, per spingersi fino al jazz, allo swing, al bebop, al R&B e al soul, e arrivare infine alle ultime espressioni della discomusic, dell’hip hop e del trap. Vengono raccontate le vite e le esecuzioni eccezionali di artisti famosissimi e meno noti (Odetta, Bessie Smith, Robert Johnson, Muddy Waters, James Brown, Otis Redding, Billie Holiday, Charlie Parker, Nina Simone, Isaac Hayes, Tupac, Run DMC, Beyoncé, Dr. Dre, per fare solo alcuni nomi), attraverso il commento dei loro album, la descrizione di concerti, festival e raduni, i percorsi biografici, le dipendenze, le inimicizie e le persecuzioni, gli amori e i lutti.

La nascita del rock’n’roll negli anni ’50 prese avvio proprio dal misto di eccitazione e rozzezza che costituiva la sostanza grezza della black music, assumendo da subito un carattere oppositivo alla cultura ufficiale, che venne presto associato alla delinquenza. Il pubblico adulto bianco, spaventato dalla sua forza trasgressiva, diresse la discografia verso una commercializzazione blanda del fenomeno, che dopo i rocker della prima ora, propose interpreti più docili e sentimentali come Pat Boone, Gene Pitney, Neil Sedaka, Paul Anka. A questa edulcorazione si oppose la commistione del rock con il blues e il soul proposta da Otis Redding, Aretha Franklin, Wilson Pickett, James Brown.

Con il tramonto delle utopie rivoluzionarie subentrò un periodo di riflusso, in cui la disco music segnò un ritorno al privato, con una ricerca ossessiva del piacere e del divertimento, celebrato dai disk jockey che imponevano i gusti da seguire. Nei ghetti resisteva il funky, mentre dalla vicina Giamaica arrivava il reggae con l’esaltante figura di Bob Marley. A partire dagli anni ’80 dalle periferie newyorkesi più disastrate si fece largo un nuovo movimento culturale articolato non solo musicalmente, ma anche sul fronte della danza (break dance) e del          writing (graffiti).

A questi ultimi decenni della black music, Caselli dedica particolare attenzione, soffermandosi sugli sviluppi del fenomeno hip hop e del rap che ben presto uscirono dai confini del Bronx per conquistare il mondo intero, ed evolvendosi poi nel trap, subito sedotto dal richiamo del successo e della ricchezza economica. Solo con la nascita del movimento “Black Lives Matter” nuovi rapper tornarono ad attivare un rifiuto consapevole del consumismo capitalista: una presa di posizione coraggiosa che si affiancò alle lotte che i giovani neri ingaggiavano per far riconoscere i propri diritti sociali e politici in un’America che continua tuttora a marginalizzarli.

Le otto sezioni del libro di Roberto Caselli, suddivise in cinque capitoli arricchiti da schede informative e da un ricco repertorio iconografico, offrono la possibilità di accedere utilizzando i QR code a canzoni riferite a ogni argomento trattato, e a un ulteriore “extended book” di approfondimento bibliografico e letterario.

La storia della black music è un volume accattivante non solo per l’esposizione formale, chiara e concisa, ma anche per la vivacità tipografica e la ricchezza delle illustrazioni, dei manifesti colorati, dei titoli e degli slogan riportati nella loro enunciazione originale. La commossa prefazione del cantante e deejay americano Ronnie Jones, da molti anni residente in Italia, ribadisce l’importanza avuta dalla musica nera nella ricostruzione orgogliosa dell’identità del popolo afroamericano, sottolineando l’abisso di sofferenza e di ingiusti soprusi patiti per secoli.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 15 giugno 2024