MARTA CARTABIA-ADOLFO CERETTI, UN’ALTRA STORIA INIZIA QUI – BOMPIANI, MILANO 2020

Marta Cartabia, costituzionalista e giurista, e Adolfo Ceretti, criminologo, entrambi docenti universitari, hanno scritto un saggio dal titolo augurale, aperto a un futuro generosamente propositivo: Un’altra storia inizia qui. Quale storia, dunque? E “qui” dove?

La storia è quella che riguarda sessantamila persone rinchiuse nelle carceri italiane: storia che può diventare “altra” a partire da un “qui” di ripartenza, educativa e socializzante. Il sottotitolo del volume, La giustizia come ricomposizione, pare infatti auspicare una giustizia capace di promuovere i valori della convivenza civile, ricucendo i rapporti interpersonali invece di reciderli.

Le riflessioni degli autori si articolano in due interventi – tenuti nel marzo di quest’anno al Centro Carlo Maria Martini – che prendono le mosse proprio dalla testimonianza profondamente umana ed empatica del Cardinale, il quale, facendo ingresso nella Diocesi milanese il 10 febbraio 1980, e passando davanti a San Vittore, promise a se stesso di dedicare a coloro che vi erano segregati la prima visita pastorale. Prima delle molte succedutesi nei 22 anni del suo mandato arcivescovile.

Adolfo Ceretti arricchisce il proprio dotto contributo non solo con le considerazioni filosofiche di Hume, Simmel, Rorty, Shklar, Ricoeur, ma appunto con le riflessioni che Martini maturò sulla pena detentiva e sulle condizioni di vita nelle prigioni. Le sue meditazioni tendevano in primo luogo a incoraggiare una giustizia non puramente punitiva ed emarginante, ma semmai riparativa, in grado di riequilibrare anche la relazione tra vittime e rei.

In una visione profetica, nutrita di profonda sensibilità e cultura teologica, Martini indicava come legittima e necessaria l’opposizione ai delitti e all’illegalità, rifiutando tuttavia con forza ogni ritorsione vendicativa, e ogni espressione di crudeltà nella detenzione. Affermando che nessuna persona va identificata totalmente nel reato commesso, sottolineava il dovere di concedere a chiunque la possibilità di un riscatto, il diritto a un confronto e al dialogo. Invitava inoltre a valutare il peso delle corresponsabilità sociali nella genesi della criminalità, spesso generata da condizioni culturali, economiche ed educative depauperate. Particolare fu ad esempio la disponibilità dimostrata dal Cardinale verso i protagonisti della lotta armata negli anni ’70 e ’80, attraverso l’ascolto delle loro confessioni, da cui emergevano sia ammissioni di responsabilità, sia pentimento e volontà di riparare alle colpe commesse e al dolore provocato.

Marta Cartabia approfondisce le tematiche suggerite dal collega Ceretti con rafforzata, partecipe finezza, testimoniando la sua affinità con le tesi di carità evangelica di Carlo Maria Martini. Citando il versetto di Matteo 25,43 “Ero in carcere e mi avete visitato”, sottolinea la pregnanza umana e religiosa del verbo visitare, cui l’alto prelato attribuiva il significato biblico di incontro, cura e soccorso, al quale mai si era sottratto: “Il carcere è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio dove emergono tutte le contraddizioni e le sofferenze di una società malata”.

Da qualche anno, alcuni giudici della Corte Costituzionale visitano i luoghi di reclusione, facendo proprio l’invito di Martini a valutare le esperienze personali dei detenuti, nella necessità di superare la visione retributiva della giustizia (a lungo condivisa anche dal cristianesimo, nella condanna del peccatore al castigo dell’inferno) attraverso quella di redenzione, in un cammino evolutivo e riformatore della correzione. Due i capisaldi della riflessione martiniana: la dignità della persona, e la costruzione di un sistema penitenziario efficace, in grado di tutelare la sicurezza dei cittadini e di ripristinare l’armonia dei rapporti sociali.

“L’uomo non è bestia da domare… mostro da abbattere, parassita da uccidere”, scriveva il Cardinale nel 2003. In accordo con le sue indicazioni, il sistema giuridico italiano sta sviluppando il concetto di pena come cammino graduale, flessibile e individuale di ciascun detenuto, in un processo di riabilitazione e risocializzazione, e nella prospettiva futura di un superamento del carcere come unico rimedio del male. Già Michel Foucault, nel saggio Sorvegliare e punire del 1976, affermava che la restrizione carceraria, “non è in grado di diminuire il tasso di criminalità e anzi tende a incentivare la recidiva”. Nessuna ritorsione vendicativa della collettività nei riguardi del reo, quindi, ma come indicava Carlo Maria Martini “riconoscimento e riconciliazione”: riconoscimento del male compiuto e ammissione delle responsabilità da parte del colpevole, riconciliazione per ricostruire i legami spezzati dall’agire iniquo.

Marta Cartabia, nel suo excursus culturale sui concetti di colpa, condanna, perdono, si rifà sia alla Bibbia sia ai tragici greci e alla Commedia dantesca, per arrivare ai maggiori pensatori del ’900: Buber, Guardini, Calamandrei, Ricoeur. E conclude con le parole di Papa Francesco: “Si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”.

Parole che sento di poter condividere personalmente, avendo una figlia che da anni insegna nel carcere di massima sicurezza di Opera: dai suoi resoconti sulla sofferenza di cui è quotidianamente testimone intuisco quanto siano necessari radicali interventi di riforma del nostro sistema giudiziario e penitenziario.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 26 ottobre 2020