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RECENSIONI

CECHOV

ANTON CECHOV, UNA SCOMMESSA – ENSEMBLE, MILANO 2017

Uno tra i più famosi racconti di Anton Cechov (che come sempre in questo grandissimo autore mette in luce l’abisso morale che separa saggezza e follia, verità e menzogna, onestà e frode) è stato recentemente riproposto dalle edizioni romane Ensemble. La scommessa è quella pattuita tra un borioso banchiere milionario e un giovane legale, nel corso di una festa in cui tra gli invitati si sviluppa un acceso confronto tra chi è favorevole o contrario alla pena di morte. Il banchiere si pronuncia per la pena capitale, ritenendola meno crudele dell’ergastolo; l’avvocato venticinquenne afferma invece che una detenzione a vita sia comunque preferibile alla morte. Tra i due nasce una sfida che li induce a scommettere temerariamente e in maniera divergente sul loro futuro. Il banchiere promette al giovane due milioni se volontariamente si lascerà rinchiudere per quindici anni in un padiglione sorvegliato nel suo giardino, senza poter mai uscire o ricevere visite, con la sola compagnia di uno strumento musicale e di tutti i libri che vorrà richiedere. L’avvocato accetta la prigionia, più per puntiglio che con la speranza di conquistare una somma mirabolante.

Negli anni legge centinaia di volumi, impara perfettamente sei lingue, approfondisce materie prima trascurate, studiando soprattutto il vangelo e testi di teologia, e comunicando con l’esterno solo attraverso una scarna corrispondenza, ridottasi a nulla col passare del tempo. Il banchiere si tiene informato sulla salute della sua vittima, sicuro che prima o poi debba cedere, implorando la libertà: ma lui stesso arriva a rischiare la propria vita a causa di investimenti sbagliati che lo riducono quasi in miseria. Allo scadere del quindicesimo anno, il milionario caduto in rovina, temendo di dover consegnare al giovane legale gli ultimi due milioni rimastigli, decide di sopprimerlo. Si reca quindi nottetempo nel padiglione e penetra nella cella. Lo trova seduto immobile alla scrivania, pallido, scheletrico, sporco, zitto, davanti a un foglio scritto con grafia minuta. Legge alcune righe che gli paiono farneticanti: «Io disprezzo i vostri libri, disprezzo tutti i beati mondi e la saggezza. Tutto è inconsistente, effimero, diafano e illusorio come un miraggio. Siate pure orgogliosi, saggi e stupendi, ma la morte vi spazzerà dalla faccia della terra allo stesso modo dei topi del sottosuolo, e la vostra progenie, la storia e l’immortalità dei vostri geni geleranno o bruceranno assieme al globo terrestre. Voi avete perso la ragione e non seguite la giusta via. Scambiate la menzogna per la verità e la deformità per la bellezza… Vi stupireste se in seguito a qualche particolare circostanza, sui meli e sugli aranci all’improvviso crescessero rane e lucertole invece che frutti, oppure se le rose emanassero odore di cavalli sudati; così io mi stupisco di voi che avete barattato il cielo con la terra. Io non voglio capirvi. Per dimostrare con i fatti il disprezzo che ho per voi, per quello di cui vivete, rinuncio ai due milioni che un tempo sognavo come si sogna il paradiso e che ora disprezzo. Per privarmi del diritto a essi, uscirò di qui cinque ore prima del termine concordato e in tal modo violerò l’accordo».

Il banchiere, colpito dalle parole lette, in cui intuisce tuttavia una sorta di folle nobiltà, rinuncia all’assassinio progettato e torna nella sua villa, portando con sé la lettera del recluso. Il mattino dopo, cinque ore prima del termine fissato nella scommessa, il giovane esce dalla sua cella, rinunciando al premio concordato, e fa perdere le sue tracce.

 

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https://www.sololibri.net/Una-scommessa-AntoCechov.html            20 febbraio 2018

 

 

 

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CECHOV

ANTON CECHOV, L’UOMO NELL’ASTUCCIO – FALIGI, AOSTA 2016 (ebook)

In questa novella del 1898, quel grande scrutatore di anime e descrittore di vizi e virtù sociali che fu Anton Cechov, narra con più compassione che sarcasmo l’incredibile vicenda di un uomo imbozzolato nelle sue paure e nella sua solitudine, così come viene raccontata da un anziano insegnante di nome Burkin al suo amico Ivan Ivanic dopo una battuta di caccia. I due trascorrono la notte in un fienile, intrattenendosi in varie conversazioni: meditano, tra l’altro, sul motivo che spinge alcune persone a vivere isolate, timorose di frequentare il prossimo, chiuse nel loro guscio «come una lumaca». A Ivanic che ascolta con una certa noia, fumando in silenzio, Burkin descrive con saccente ironia la figura del suo collega Belikov, professore di greco antico: uomo impaurito di tutto, sgomentato dalla realtà, sessuofobo e reazionario. Questo personaggio rattrappito, dal musetto simile a una puzzola, pallido e taciturno, girava anche in estate con parapioggia, soprascarpe, soprabito foderato dal bavero rialzato, occhiali affumicati e cotone nelle orecchie, quasi a volersi difendere da una grave minaccia esterna: chiuso e intabarrato come in un astuccio. Fissato sulle regole da rispettare, temeva qualsiasi minima infrazione o cambiamento, commentando ogni novità con la frase «Purché non succeda poi qualcosa!». Era riuscito, col suo comportamento diffidente e circospetto, a soffocare qualsiasi moto di allegria e slancio vitale sia tra gli allievi sia tra i colleghi, e in tutta la cittadina. Sicché quando improvvisamente si materializzò nella comunità, come un sorprendente miracolo, la vivace sorella di un collega ucraino, Varenka, tanto differente dall’indole e dalle abitudini di lui, la piccola e pettegola società intorno ai due si coalizzò incoraggiando in tutti i modi la loro intimità, nella speranza di indurre L’uomo nell’astuccio a sposare la bella e sensuale giovane donna. Ma proprio quando la vicenda stava per concludersi con un fidanzamento, una impietosa vignetta che li ritraeva denigrando il professore, suscitò la sua reazione furiosa, provocandogli un violento alterco con il futuro cognato. Schernito da Varenka e dall’intera cittadinanza, Belikov si chiuse in casa, si mise a letto e morì dopo un mese. Al suo funerale parteciparono in molti, fingendo compunzione, ma in realtà sentendo una sorta di sollievo. «Seppellire persone come Belikov fa piacere», commenta sarcastico il suo collega Burkin. Il cadavere «dentro la bara aveva un’espressione dolce, gradevole, quasi lieta, come se fosse contento di essere finalmente stato messo dentro un astuccio da cui non sarebbe più uscito. Aveva raggiunto il suo ideale». Ma, suggerisce Cechov attraverso le parole conclusive di Ivan Ivanic, non siamo tutti noi rinchiusi in un astuccio di finzioni, futilità, pregiudizi e timori?

 

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https://www.sololibri.net/L-uomo-nell-astuccio-Anton-Cechov.html           22 febbraio 2018

 

 

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CECHOV

ANTON ČECHOV, IL MONACO NERO – ZOOM FELTRINELLI, MILANO 2015

“Il professor Andrej Vasilij Kovrin era sovraffaticato e aveva un esaurimento nervoso”. Così inizia il superbo racconto di Anton Čechov, con una frase lapidaria che in poche parole racchiude il destino del personaggio: uno studioso di filosofia stanco ed esaurito, facile preda, quindi, di morbose fantasie ed allucinazioni. Kovrin dunque, depresso e indebolito, seguendo il consiglio del suo medico si trasferisce in campagna per l’estate, presso una cara famiglia che frequentava già dall’infanzia, i Pasockij, proprietari di molta terra, di una grande villa e di un giardino lussurioso. Un giardino ricco di ogni specie di coloratissimi fiori e alberi, vivacemente animato dalla presenza di animali e contadini, che lasciava sempre in chi vi passeggiava un’impressione di serenità e gioia di vivere. Nella casa vivevano un vecchio e irascibile signore, Egor Semënyj, e sua figlia Tanja, “debole, loquace esserino”, che Kovrin ricordava bambina, ed ora ritrova adulta e incantevole. “Il meraviglioso presente e l’impressione del passato che si ridestava in lui si fondevano; e l’anima si sentiva troppo colma, ma felice”.

Un pomeriggio, ritrovandosi solo con Tanja, il professore le narra la leggenda di un monaco nero che mille anni fa, vagando solitario in un deserto orientale, si rendeva contemporaneamente visibile – come un miraggio – in diversi altri punti del globo e del cielo. “Lo vedevano ora in Africa, ora in Spagna, ora in India, ora nell’estremo Nord… Finalmente uscì dai confini dell’atmosfera terrestre, e ora vaga per tutto l’universo senza mai incontrare le condizioni che potrebbero farlo svanire”. Secondo una sinistra profezia, il monaco, essendo trascorso esattamente un millennio da allora, sarebbe tornato tra poco a rendersi manifesto agli uomini. Vedendo Tanja turbata dal racconto, Kovrin si allontana verso il fiume, percorrendo un sentiero tra i campi, quando viene investito da una turbine di vento che presto si trasforma in un’alta colonna, rivelando le sembianze di un monaco vestito di nero, dal volto pallido e magro, con le mani incrociate sul petto, che gli rivolge un sorriso sinistro per poi allontanarsi tra le nubi. Colpito ma non impressionato dalla visione, il professore torna nella sua stanza e alla vita quotidiana con i suoi amici, padre e figlia Pasockij, affiatati ma perpetuamente in tensione tra di loro, e decide di dichiarare il suo amore a Tanja. Tuttavia, il giorno dopo, il monaco nero gli si ripresenta, sedendosi a fianco sulla stessa panchina, e gli comunica un messaggio ultraterreno, con l’apparenza di un’investitura: “Sei uno dei pochi che a ragione si chiamano eletti di Dio. Tu servi la verità eterna. I tuoi pensieri, i tuoi propositi, la tua straordinaria cultura e tutta la tua vita recano su di sé un’impronta divina, celeste, poiché sono consacrati al razionale e al sublime, cioè a ciò che è eterno.”

A questo punto Krovin, considerandosi servitore di un principio superiore, un predestinato che avrebbe reso l’umanità migliore, si sente esaltato nel suo amor proprio, orgoglioso di sé e delle ricerche che torna ad affrontare con rinnovata passione, intensificando nel contempo gli incontri e le discussioni col fantasma del monaco, da cui trae incoraggiamento e beneficio. Dopo le nozze, i suoi deliri e le allucinazioni si intensificano, e i parenti decidono di farlo curare psichicamente. Una volta guarito, tuttavia, il professore si rende conto di aver perso slancio e gioia di vivere, e ogni entusiasmo per gli studi, essendo rientrato nel “gregge dei mediocri”. Čechov accompagna il protagonista in questo ritorno alla normalità con la descrizione del lento appassirsi della natura circostante, e con l’intristita consunzione dei rapporti familiari. “Come furono fortunati Buddha e Maometto o Shakespeare che i buoni parenti e i medici non li avessero curati dall’estasi e dall’ispirazione!”.

L’eccitazione della mente malata di Krovin, la sciocca ansia di primeggiare, l’applicazione smodata allo studio per raggiungere ruoli accademici di prestigio, lo porteranno a scelte distruttive per sé e per la sua famiglia, che il grande autore russo mette in rilievo con malinconica amarezza.

 

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https://www.sololibri.net/Il-monaco-nero-cechov.html                     10 ottobre 2018

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CELA

CAMILO JOSÉ CELA, LA FAMIGLIA DI PASCUAL DUARTE – UTOPIA, MILANO 2020

Camilo José Cela nacque in Galizia nel 1916, morì a Madrid nel 2002.  Aveva combattuto nella Guerra civile spagnola a fianco dei nazionalisti, e una volta tornato alla vita civile si era dedicato al giornalismo e a diversi lavori impiegatizi. Membro dell’Accademia Reale Spagnola, entrò nel Guinness dei primati per la quantità di onorificenze ricevute. Nella sua carriera letteraria, Cela sperimentò diversi stili di scrittura, aderendo a differenti correnti letterarie (dall’esistenzialismo all’espressionismo, dal realismo al surrealismo fantastico), sempre all’insegna di una coraggiosa ricerca sperimentale, in grado di affrontare le tematiche più complesse: superstizione, magia, erotismo, malattie mentali, rivendicazioni sociali, povertà, fanatismo religioso.

Nel 1942 il suo romanzo La famiglia di Pascal Duarte conobbe un notevole successo di pubblico, meritando anche una considerevole attenzione da parte della critica. Oggi viene riproposto dalla giovane casa editrice milanese Utopia, nella traduzione di Salvatore Battaglia, con una realizzazione grafica raffinata e accattivante.

La narrazione è preceduta da una “Nota”, in cui un anonimo trascrittore afferma di aver trovato un fascicolo di fogli scomposti abbandonato in una farmacia di Almendralejo, e di essersi limitato a ricomporne e poi a copiarne le pagine squadernate, censurando i particolari più crudi. L’autore del diario e protagonista del racconto (assunto a esempio da non seguire) si firmava col nome di Pascal Duarte, e aveva vergato le sue memorie mentre era recluso nel Carcere di Badajoz per aver aderito impulsivamente al “troppo male” insegnatogli dalla vita.

Pascual Duarte accusava il destino cieco e maligno di essere responsabile del baratro morale in cui era sprofondato, in parte assolvendosi dai delitti commessi: “Io, signore, non sono cattivo, sebbene non mi manchino le ragioni per esserlo. Tutti i mortali si nasce di una stessa pelle e tuttavia, mentre andiamo crescendo, il destino si compiace di modellarci variamente come se fossimo di cera e ci obbliga per diverse vie alla stessa meta: la morte. Ci sono uomini ai quali si ordina di camminare sulla via dei fiori e uomini a cui s’impone di trascinarsi per la via dei cardi e dei rovi”. Nato cinquantacinque anni prima in un “villaggio caldo e soleggiato, assai ricco di ulivi e di maiali”, Pascal viveva con i genitori e i fratelli, e in seguito con le due mogli, in una casupola sporca e maleodorante: lavorava saltuariamente, andava a caccia, pescava anguille. Abituato dall’infanzia a un’esistenza rozza, priva di affetti e ambizioni, il suo cuore si era indurito sull’esempio di quello dei genitori: la madre ubriacona e manesca, il padre delinquente e violento. Gli episodi dei suoi primi anni di vita (elencati saltando “dall’inizio alla fine e dalla fine all’inizio come una cavalletta inseguita”), vengono raccontati con pacata e fatalistica accettazione, anche quando si manifestano in tutta la loro odiosa brutalità. La nascita inattesa della sorella Rosario, cresciuta ribelle e ladruncola, quella di un fratello menomato, la fine grottesca e crudele del padre, il matrimonio tormentato con la prima moglie Lola, i figli abortiti o morti in culla: tutto concorre a creare il Pascal un senso di frustrazione misto a rancore e rabbia, che tende a sfogare con furia cieca su persone e animali innocenti: “Chissà che non fosse scritto nella divina memoria che la sventura doveva essere il mio unico cammino, la sola traccia lungo la quale dovevano trascorrere i miei tristi giorni!”, “Le più grandi tragedie degli uomini sembrano giungere come all’insaputa, con il loro passo di lupo guardingo, per coglierci con il loro morso subitaneo e preciso come quello dello scorpione”.

Travolto da un crescendo di umiliazioni e di tragedie familiari, Pascal Duarte si arrende al fato avverso, concorrendo volontariamente alla propria rovina: da uomo mite e sfortunato (“un mansueto agnello, atterrito e aizzato dalla vita”, lo aveva definito il cappellano del carcere), si trasforma in rabbioso assassino, cercando nella vendetta una rivalsa sulle ingiustizie e angherie subite. Il contrasto tra le azioni efferate del protagonista e il tono composto, rassegnato, addirittura garbato con cui vengono descritte, costituisce la cifra narrativa più originale nel romanzo.

Camilo José Cela tratteggia la dolente umanità dei suoi personaggi con indulgente e solidale comprensione, come ha giustamente sottolineato la motivazione del premio Nobel attribuitogli nel 1989, lodando la sua “prosa ricca ed intensa, che con la pietà trattenuta forma una visione mutevole della vulnerabilità dell’uomo”.

© Riproduzione riservata                9 ottobre 2020

https://www.sololibri.net/La-famiglia-Pascual-Duarte-Jose-Cela.html

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CELADA BALLANTI

ROBERTO CELADA BALLANTI – MEMORIA, AUTOBIOGRAFIA, ALTERITÀ

MIMESIS, MILANO 2024

 

Roberto Celada Ballanti, Professore Ordinario di Filosofia all’Università di Genova, ha pubblicato presso Mimesis il saggio Memoria, Autobiografia, Alterità nella collana diretta da Duccio Demetrio e Stefano Raimondi Quaderni di Anghiari, che raccoglie strumenti per la formazione, sia in campo autobiografico che biografico. Il testo è la rielaborazione di una conferenza tenuta il 29 settembre 2023 al 25° Festival dell’autobiografia organizzato dalla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Con il sottotitolo Dalla sapienza delle Muse all’infinito nulla dell’uomo contemporaneo, indaga in undici densi capitoli (corredati da un ricco apparato di note) in che modo il racconto autobiografico che recupera la memoria personale e collettiva abbia saputo e sappia intrecciare le linee di passato-presente-futuro, sprofondando nel tempo delle origini e risalendo all’oggi.

Già gli autori delle epigrafi introduttive al volume (Platone, Goethe, Blanchot, Pessoa) indicano quanto Celada Ballanti spazi nella sua ricerca dall’antichità al mondo attuale, dalla filosofia alla letteratura, prendendo in esame anche il mito, i testi religiosi e la storiografia classica.

Memoria, autobiografia e alterità si intrecciano indissolubilmente nel percorso storico e teoretico offerto dall’autore: perché autos-bios-graphein, scrivere della propria vita, è anche scrivere dell’heteron

– dell’altro –, che comunque interviene a incidere in ogni esistenza, modulandola, arricchendola, solcandola di “intermittenze, fratture, strappi, pieghe, interstizi di tenebra”. Siamo fatti del linguaggio che abbiamo ricevuto, della cultura ereditata, e delle esperienze man mano vissute: l’apporto del fuori da noi è innegabile, auto-biografia è in fondo sempre etero-biografia. A partire da questo assunto, Celada Ballanti ricompone le tracce della memoria culturale che ci ha forgiato, nel rapporto con il divino dell’universo greco ed ebraico-cristiano, con l’interiorità personale del primo cattolicesimo, con gli avvenimenti storici antichi e contemporanei, con la problematica relazionalità affettiva dell’oggi, nella volontà di dare “senso al non-senso della nostra opacità originaria, per trasformare il caos in cosmo”.

Le Muse, figlie di Mnemosyne dea della memoria, sono divinità della voce, del racconto e del mythos, che secondo Esiodo narra “ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu”, il tempo eterno delle origini: la comparsa delle Muse significa quindi la nascita della parola, del sogno, del ricordo, del canto, al di là delle barriere temporali. Il legame tra divino e umano viene espresso attraverso di loro nella poesia, mediatrice tra cielo e terra, rivelazione del mistero e rapporto con l’alterità. Da qui, dal canto delle Muse è iniziato un sapere dell’altro che si è prolungato nella scrittura, nella filosofia e nella teologia, propiziando l’avvento dell’autobiografia come conoscenza di sé. Un’esplorazione che tuttavia non è mai limpida e lineare, ma include spazi di oscurità, di non detto e non dicibile, di silenzio e di segreto impronunciabile. Solo la parola poetica è in grado di schiudere la notte e illuminarla, senza imporsi, sottraendosi al senso nella propria chiara innocenza, come suggerisce Celan: “La poésie ne s’impose plus, elle s’expose”. La parola del poeta ispirata dalle Muse è parola originaria che riporta all’essenza del dire, smarrito nei linguaggi quotidiani, futili e ridondanti: nella sua natura magico-religiosa la poesia svela il mistero dell’indecifrabile, facendolo accadere. Per questo il canto delle Muse inquieta, perché richiama a un’essenzialità che rivela l’assenza di significato del parlare consueto, abusato. L’evocazione dell’origine divina e misteriosa della parola, con il richiamo a un’alterità indistruttibile, rimane intatta anche nella scrittura autobiografica, quando un autore scandagliando incontra l’altro, quando sollecitando un ricordo schiude l’abisso del suo “continente interiore”, e ne svela il segreto.

Al canto delle Muse, trasmesso oralmente, è conseguito con uguale desiderio di sconfinamento il sapere dei filosofi greci, comunicato utilizzando la scrittura alfabetica: ricerca della verità, spiegazione razionale di ciò che nel mito veniva esperito emotivamente, poeticamente. Mito e filosofia sono i primi due cardini su cui si radica l’esperienza comunicativa dell’autobiografia. Il terzo fondamento che occorre citare sono i testi sacri. Troviamo in Abramo, visitato dalla voce di Dio, e nella protesta sofferente di Giobbe, l’antecedente biblico delle Confessioni di Agostino: confessione come uscita da sé e dalla propria ferita (“domanda, grido, lamento, invocazione”), e rivelazione dell’altro. Con le Confessioni agostiniane nasce la scrittura autobiografica che conosciamo, siglata anche da Montaigne e Rousseau, in cui il soggetto che racconta fa del suo io una singolarità storica, vicenda inserita nel divenire temporale. Pur conservando tracce del pensiero pagano e cristiano antecedente, qui la novità assoluta consiste nella saldatura attuata tra universale e singolare nella parola confessante, che assume dignità filosofica e teologica perché redenta dall’incarnazione di Cristo, trasformante l’orizzontalità della situazione umana nella verticalità del rapporto con Dio.

Agostino confessa a Dio ciò che Dio sa già da sempre di lui, testimoniando l’evento della grazia e l’impossibilità della padronanza di sé, in una pratica di spoliazione che lo invera e ricapitola in una verità più grande, poiché è Dio che lo agisce e conosce nella sua interiorità più intima (“interior intimo meo et superior summo meo”). Così il soggetto agostiniano si identifica solo perdendosi in un’apertura infinita di sé, destrutturandosi e svuotandosi, arrendendosi a un’alterità che lo eccede e a cui si consegna nella sua povertà e “indecenza” di singolo, però salvata dall’intervento divino.

Sarà Montaigne nei suoi Saggi a scrivere la prima autobiografia secolarizzata della modernità, in cui il Dio cristiano evapora dall’orizzonte umano, permettendo all’uomo di circoscrivere il suo spazio come esperienza, mentre crolla la dipendenza da modelli e autorità costituite e si apre la strada alle rivoluzionarie teorie scientifiche di Cartesio, Galileo, Newton. La denuncia delle guerre di religione, delle crudeltà compiute in nome della fede in cui non c’è alcuna traccia di divinità, fa crollare ogni credenza nelle metafisiche, ontologie e teologie del passato, sostituite dal dubbio radicale nel guidare la ragione. In conseguenza di ciò, si universalizza l’idea del singolare, del ritorno dell’uomo in se stesso, fuori dalla scena del sacro: “Ogni uomo porta la forma intera dell’umana condizione”.

Anche Rousseau ribadisce nelle sue Confessioni la consapevolezza della propria unicità di individuo, deciso a emanciparsi dai pregiudizi sociali che lo soffocano in un’autodifesa polemica e indignata contro le contraddizioni e la sopraffazione delle istituzioni. La sua autobiografia diventa un atto relazionale in cui l’altro è chiamato come semplice testimone: espropriato della propria verità interiore, Rousseau esplora l’abisso della sua anima, relegando al rango di spettatori e non più interlocutori gli altri e Dio stesso. La sua esperienza diretta della degradazione umana e delle contraddizioni sociali lo rende accusatore impietoso dell’ingiustizia umana, proprio attraverso la ricostruzione autobiografica, ripresa ossessivamente anche in opere posteriori nel cui inestricabile labirinto finirà per smarrirsi.

Roberto Celada Bellanti conclude la sua disamina della scrittura di sé affrontando la Lettera al padre di Franz Kafka. Si tratta di una lettera mai inviata a un padre “spettrale”, come quello di Amleto, un padre assente che non può ricevere la confessione né può perdonare. L’asimmetria all’interno del colloquio è totale: il figlio si autoaccusa dando voce al padre, facendosi parlare dal padre; è sopraffatto, invaso, svuotato da lui: “Nei miei scritti parlavo di Te, sfogavo sulla carta quello che non potevo sfogare sul Tuo petto”. La figura paterna si trasfigura nel Tribunale del Processo e nella Legge del Castello. Anche la lettera al padre, dunque, è una scrittura dell’altro: autobiografia come etero-biografia. Scrive Celada Ballanti: “L’ingombro paterno è totale. Ma la fuoriuscita da sé, l’estasi, qui, non è verso il canto delle Muse o il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, e poi il Dio cristiano, non è la grazia di Agostino, e neppure sono gli altri contro cui si scaglia l’indignazione di Rousseau, ma è verso il Nulla. È un’estasi, quella kafkiana, del Nulla”. È lo stesso nihil che domina il nichilismo contemporaneo, il niente di senso e di valore della creatura di fronte alla trascendenza senza volto e senza nome che la domina e la schiaccia. Tuttavia Kafka riesce a trasfigurare il niente di sé attraverso la scrittura letteraria, percorrendo un cammino di ricerca verso un altrove che non è da nessuna parte. Sarà appunto l’esigenza di scrivere a diventare autonoma rispetto alla soggettività personale, nel suo essere altro dalla biografia.

La scrittura autobiografica è quindi parola naufragante, racconto dell’incontro impossibile con l’io, fantasma, spettro inconoscibile che faceva dire a Goethe nel Faust: “Definisci te stesso, è già un enigma”. Si scrive per questo, alla fine: per trasfigurare e trasfigurarsi.

 

«Gli Stati Generali», 10 giugno 2025

 

 

RECENSIONI

CELAN

PAUL CELAN, LA SABBIA DELLE URNE – EINAUDI, TORINO 2016

L’editore Suhrkamp riuscì a pubblicare solamente nel 2003 la raccolta Der Sand aus der Urnen con cui Paul Celan, nato nel 1920 a Czernowitz in Bucovina (allora territorio annesso alla Romania), aveva esordito come poeta in lingua tedesca. Il volume, ora proposto per la prima volta in Italia da Einaudi con una superba traduzione di Dario Borso, ebbe vita travagliata. Raccoglie versi scritti tra il 1941 e il 1948 lungo le «vie traverse» che Celan si trovò a percorrere nella sua difficile esistenza: dalla città natale ai due lager in cui fu rinchiuso (Tăbărăşti e Fälticeni), poi a Bucarest, a Vienna e infine a Parigi, dove si era trasferito nel 1947, e dove si suicidò nel 1970. Oggi ci viene presentato suddiviso in tre sezioni – Alle porte, Papavero e memoria, Fuga di morte -, e con una ricca appendice di testi espunti dalla prima edizione del 1948. Ma inizialmente, e nelle intenzioni dell’autore, consisteva di 48 poesie pubblicate in 500 copie numerate dall’editore viennese Sexl, mai distribuite perché contenenti troppi refusi. La raccolta fu in seguito rimaneggiata, cambiò titolo, e rifluì in diversi lavori successivi.

Lo stile di questi versi giovanili è meno frammentato e spigoloso di quello più tardo e tipicamente celaniano, riflette atmosfere non così ossessive e angoscianti, e risente nella sonorità di qualche eco rilkiana. Soprattutto nella prima parte ci troviamo di fronte a diciassette composizioni bucovine, scritte tra il 1941 e il 1943, che esprimono nel loro tono sospeso, quasi favolistico, il miraggio di un oltre da raggiungere, superando il dato fisico e concreto di qualsiasi violenza imposta dalla storia o dalla natura. Silenzio, fragilità, sogno, lontananza, ombra, vaghezza sembrano volersi opporre alla compattezza impenetrabile del reale. I corpi sono descritti attraverso particolari secondari (sopracciglia, guance, spalle; da memorizzare un verso splendido: «a me la spalla rimase sola, perché portò». Il peso che isola, il dolore che opprime…). L’ambiente è prevalentemente boschivo, con alberi che si animano interagendo con la fantasia del poeta, definiti con precisione botanica mista a stupore religioso. Il clima è umido, piovoso o nevoso sempre, ma avvolgente, materno: «Ti manca il cielo col migrare degli uccelli? / Fa’ che la pietra sia la nube, io la gru».

La seconda sezione, più surreale ed estraniante già dal titolo, Papavero e memoria, è la più corposa, e comprende versi scritti tra il 1944 e il 1948 in Romania, a Vienna e a Parigi. I colori si fanno più cupi, il freddo più intenso, prevalgono le notti e le nubi oscurano il cielo in molte poesie (Wolken, Regenwolken, Gewölk, Wolkenwagen). Nel buio lampeggiano lame, coltelli, pugnali, spade; gli occhi dei viventi sono sbarrati, minacciosi o testimoni impauriti in un crescendo di ansioso smarrimento: «Sottratti all’estate sono i cuori: / la frutta, che ti si maturò al crepuscolo, issata / alle torri dentate / dell’aria. Sopra merli di cenere. / Nel grembo lupesco del dio». Qui la scrittura preannuncia la cifra stilistica più tipica di Celan, la sua visionarietà angosciosa, l’annaspo balbettante della parola. Il testo finale, Todesfuge, con il lapidario ossimoro iniziale (Schwarze milch), costituisce forse la più famosa poesia di Celan, implacabile e inorridita denuncia dell’orrore dei lager.

La selezione scrupolosa delle poesie presenti nell’Appendice e le curatissime note che riportano data di composizione e varianti di ogni testo, documentano l’attenzione con cui il volume è stato allestito. Infine, la traduzione di Dario Borso sa rendere egregiamente il ritmo franto dei versi e la loro densità lessicale, anche nell’intensa singolarità dei neologismi e dei vocaboli desueti proposti (imbluisce, avviticchi, abbuia, verdefoglia, imbrunenti, falbi, chiarostellare, colchico, ingialla, eufrasia, almanacca, aquilegie, mezereo, ambrette, gittagi…).

«Poesia» n. 317, luglio 2016

RECENSIONI

CELAN

PAUL CELAN, L’ANTOLOGIA ITALIANA – NOTTETEMPO, MILANO 2020

Con introduzione e cura di Dario Borso, Nottetempo ha pubblicato L’antologia italiana, proponendo ai lettori quarantotto composizioni di Paul Celan, secondo un ordine indicato dallo stesso autore più di sessant’anni fa. Celan, nato da famiglia ebrea nel 1920 a Czernowitz in Bucovina (allora territorio annesso alla Romania, oggi parte dell’Ucraina), ebbe un’esistenza tormentata da persecuzioni, esili e malattie psichiche: rinchiuso nei due campi di lavoro di Tăbărăşti e Fälticeni, dopo aver perso i genitori catturati dai nazisti, si trasferì prima a Bucarest, poi a Vienna e infine a Parigi, dove morì nel 1970 gettandosi nella Senna.

Poeta celebrato per la profondità concettuale e la densità lessicale dei versi, contestato per l’oscuro e respingente ermetismo stilistico, poco frequentato per l’ombrosità del carattere, progettò in totale autonomia un’unica scelta antologica della sua produzione, ed è appunto la silloge da lui suggerita che oggi viene pubblicata nella traduzione di Borso.

Fu nell’aprile del 1964 che Celan, giunto a Milano per una conferenza al Goethe Institut (rivelatasi quanto mai ostica per il pubblico presente), incontrò poi Vittorio Sereni, direttore letterario della Mondadori, per concordare la pubblicazione di un volume nella collana de Lo Specchio. La casa editrice aveva contattato Celan nel 1961, dopo il conferimento del prestigioso premio Büchner, ma da subito la trattativa si era arenata sulla scelta del traduttore. Scartati Marianello Marianelli e Giuseppe Bevilacqua, nella primavera del 1963 Sereni aveva indicato il nome di Ferruccio Masini. Anche l’opzione di quest’ultimo si rivelò inadeguata per vistose divergenze interpretative, e quindi l’iniziativa mondadoriana venne abbandonata, per essere recuperata solo sei anni dopo la morte di Celan, senza tenere più conto delle sue indicazioni.

Dario Borso ricostruisce fatti e antefatti che accompagnarono l’impegno editoriale del poeta in Italia, attraverso le testimonianze di chi lo aveva incontrato in quell’occasione: il direttore del Goethe Institut, Vittorio Sereni e Ida Porena, che l’aveva accompagnato in una visita alla necropoli di Cerveteri, per lui rivelatasi motivo di grande turbamento. Una coinvolgente relazione amorosa con un’attrice svedese, gli incontri con intellettuali del calibro di Jean Starobinski e Heinrich Böll, l’accusa di plagio rivoltagli dalla vedova di un amico scrittore, le devastanti cure psichiatriche e i ricoveri in clinica, avevano contribuito a minare il già precario equilibrio mentale del poeta, inducendolo alla tragica scelta finale.

Nel volume edito da Nottetempo possiamo ritrovare i titoli più noti (Der Sand aus den Urnen, Corona, Todesfuge, Nachts, Psalm, Mandorla, Anabasis, In der Luft), tratti da quattro raccolte uscite tra il 1952 e il 1963 (Papavero e memoria, Di soglia in soglia, Grata di parole, La rosa di nessuno).

Sono versi connotati da un’angosciosa visionarietà, espressa in ritmi franti e concitati, con tonalità cupe e risentite, rese più accese dalla memoria inorridita dello sterminio nazista: “Latte nero dell’alba lo beviamo di sera / lo beviamo a mezzodì e al mattino lo beviamo di notte / beviamo e beviamo / scaviamo una fossa nell’aria lì non si sta stretti… // … Grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco / grida archeggiate più scuri i violini così salirete come fumo nell’aria / così avrete una tomba tra le nuvole lì non si sta stretti”, “Scavavano e scavavano, così trascorreva / il loro giorno, la loro notte. E non lodavano Dio / che, così udirono, voleva tutto ciò, / che, così udirono, sapeva tutto ciò”.

Il presagio della morte aleggia in ogni poesia, e pervade qualsiasi aspetto dell’esistenza, scandita dall’implacabilità del tempo che passa: “È tempo che la pietra si decida a fiorire, / che all’inquietudine batta un cuore. / È tempo che sia tempo. // È tempo”, “Venne, venne. / Venne una parola, venne, / venne attraverso la notte, / voleva far luce, voleva far luce. // Cenere. / Cenere, cenere. / Notte. / Notte-e-notte”.

Nemmeno tra creature simili, sottoposte alla stessa violenza, si instaurano sentimenti di fiducia, solidarietà, amicizia: “Stanno divisi nel mondo, / ciascuno con la sua notte, / ciascuno con la sua morte, / scontrosi, a testa nuda, / brinati / di prossimità e distanza”, “Ci sarà un ciglio, / volto in dentro nella roccia, / temprato di non-pianto, / il più fine degli aghi. // Davanti a voi compie l’opera / come se, essendoci pietra, ancora esistessero fratelli”.

Anche le donne amate, la moglie Gisèle, assumono sembianze minacciose, mentre intorno a loro si muovono allucinate visioni di coltelli, tombe, nubi, lampi, polvere e sabbia: “Ti batte il tamburo di muschio e di amaro vello pubico; / con alluce purulento dipinge nella sabbia il tuo sopracciglio. / Più lungo lo traccia di quant’era, e il rosso del tuo labbro”, “Io come un vento notturno sostavo nel grembo venale di tua sorella; / i tuoi capelli pendevano sopra noi dall’albero, però non eri lì”.

La natura incombe ostile, rispecchiando indifferente la crudeltà del mondo; cielo terra mare non offrono riparo, e anzi si oppongono a qualsiasi richiesta di consolazione: “Secco, insabbiato il letto alle tue spalle, ricoperta di giunchi / la sua ora, sopra, / accanto all’astro, i lattei / meandri parlottano nel limo, dattero di mare, / sotto, algoso, si apre all’azzurro, un arbusto / di caducità, bello, / saluta la tua memoria”, “Il tavolo ondeggia su e giù per le ore, / il vento riempie i calici, / il mare rotola il cibo fin qui: / l’occhio errante, l’orecchio in tempesta, / il pesce e il serpe”, “Una ruota, lenta, / gira da sé, i raggi / rampicano / rampicano su campo nerastro, la notte / non abbisogna di stelle, in nessun luogo / si chiede di te”.

E infine Dio stesso è risucchiato nel vuoto della negazione e del rifiuto: “Ci gettò la tua immagine negli occhi, Signore. / Occhi e bocca stan così aperti e vuoti, Signore. / Abbiamo bevuto, Signore. / Il sangue e l’immagine ch’era nel sangue, Signore. // Prega, Signore. / Siamo vicini”, “Nessuno ci plasma più da terra e argilla, / nessuno scongiura la nostra polvere. / Nessuno. // Lodato tu sia, Nessuno. Per te noi vogliamo / fiorire. / Verso / te. // Un niente / eravamo, siamo, / resteremo, fiorendo: / la rosa di niente, / di Nessuno”.

Poeta del grido strozzato, della mano che annaspa, della fuga nel buio, Paul Celan ha saputo esprimere lo smarrimento di chi pone testardamente la stessa domanda sul perché del male, pur sapendo di non poter ricevere risposta.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 17 novembre 2020

 

 

 

 

RECENSIONI

CELAN-SACHS

PAUL CELAN, NELLY SACHS, CORRISPONDENZA – GIUNTINA, FIRENZE 2018

Trent’anni di differenza dividevano i due poeti ebrei Nelly Sachs (1891-1970) e Paul Celan (1920-1970), accomunati però da un’uguale tragica sofferenza patita durante le persecuzioni naziste, nell’esilio e nella malattia mentale. L’editrice Giuntina pubblica ora per la prima volta integralmente, (con illustrazioni, un ricco apparato di note e un puntuale confronto biografico), la loro corrispondenza, così come è andata svolgendosi tra il 1954 e il 1969.

Nelly Sachs, premio Nobel per la letteratura nel 1968, si era rifugiata con la madre a Stoccolma, scampando così fortunosamente dal trasferimento in un lager. Nella città svedese aveva trovato una certa solidarietà intellettuale, riuscendo a pubblicare alcuni volumi di versi: la notorietà non l’aveva tuttavia messa al riparo da frequenti crisi psichiche e dagli internamenti in diverse cliniche. Celan, abbandonata la Romania, aveva trovato ospitalità nella capitale francese: “Tra Parigi e Stoccolma passa il meridiano del dolore e della consolazione”, scriveva in un messaggio Nelly, sottolineando con forza il legame affettivo, di reciproca confidenza, ammirazione e sostegno, nato tra i due poeti. Che risulta evidente già dalle intestazioni delle lettere: “Caro poeta, caro essere umano… Caro amico… Caro fratello… Caro poeta dalle profondità meravigliose… Poeta benedetto… Paul caro… Caro Paul Celan, benedetto da Bach e da Hölderlin… Mia amata famiglia…”, esordiva Nelly. “Gentile, stimatissima signora… Cara, sinceramente ammirata… Mia cara, mia buona Nelly!… Cara, buona, felice Nelly…”, le faceva eco Paul.

I due si scambiavano poesie, giudizi critici, incoraggiamenti, confidandosi speranze, paure e delusioni. L’incubo della guerra e della Shoah era ancora per entrambi vivissimo e straziante, così come il timore per l’antisemitismo sempre manifesto e minaccioso: “Questo spettrale e muto non-ancora, questo ancor più spettrale, più muto, non-più, e di-nuovo, e nel frattempo l’imprevedibile, già domani, già oggi… O mondo / Noi ti accusiamo!… Sento che il demone che ti funesta – che funesta anche me… La rete oscura…”, denunciava Celan. “Ma quante morti dobbiamo morire, finché non viene quella giusta… Io sono fuori, inginocchiata sulla soglia, carica di lacrime e di polvere… Ogni giorno la perfidia entra nella mia casa, ogni giorno, mi creda. Cos’altro dovremo affrontare, noi ebrei?… Spero di superare tutta la sofferenza che ancora mi aspetta, oppure di trovare una quieta morte liberatrice, desidero tanto raggiungere i miei cari defunti… questo mio periodo buio… nella mia disperazione, nel pieno di quel viaggio agli inferi…”, rispondeva Nelly Sachs, sprofondando lentamente nell’abisso psicotico.

Eppure, pur nella comune disperazione e nel delirio persecutorio, tutti e due riuscivano ad aggrapparsi alla certezza salvifica e consolatoria della parola poetica, al “segreto che sommessamente si dischiude… un mezzo per salvare il respiro dal soffocamento… Vive in me con ogni mio respiro la fede in un’attività cui siamo stati chiamati: impregnare di dolore la polvere, darle un’anima… Sento l’energia della luce che fa scaturire la musica dalle pietre… Questi sono i raggi invisibili che ci sostengono…” (Nelly); “C’è chi cerca il tuo sguardo – mandalo, quello sguardo, mandalo ancora all’aperto, consegnagli le tue parole vere, le tue parole liberatrici, affidati a lui, affida a noi, tuoi compagni di vita, della tua vita, questo sguardo, fai in modo che noi, già liberi, diventiamo i più liberi in assoluto, facci stare ritti, con te, nella luce!” (Paul).

I due poeti arrivarono finalmente ad incontrarsi, nel 1960, prima a Zurigo e poi a Parigi, parlando “del troppo, del troppo poco… della luce che offusca, di cose ebraiche, di Dio”. Sopravvissero in qualche modo a se stessi e al dolore per un ulteriore decennio. La morte li colse lontani, lui nella Senna a Parigi, lei in un letto di ospedale a Stoccolma, nel 1970. L’ultimo biglietto di Paul Celan augurava: “Tante cose liete, cara Nelly, tanta luce!”

 

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https://www.sololibri.net/Corrispondenza-Celan-Sachs.html         2 luglio 2018

 

 

 

RECENSIONI

CENDRARS

BLAISE CENDRARS, RESURREZIONI A NEW YORK – IGNAZIO PAPPALARDO, ROMA 2025

L’editore Ignazio Pappalardo pubblica il poemetto di Blaise Cendrars Resurrezioni a New York, con testo francese a fronte e prefazione del Cardinale Gianfranco Ravasi. Tradotto per la prima volta in italiano nell’elegante versione di Ottavia Pojaghi Bettoni, e arricchito dalle otto storiche tavole originali del pioniere del Graphic Novel Frans Masereel, il testo racconta un Venerdì Santo vissuto dal poeta francese nei quartieri della Grande Mela, tra vagabondi e ladruncoli, suonatori ambulanti e prostitute, personaggi tormentati dall’ansia di una ricerca interiore, oppure disperatamente rassegnati a una deriva.

Cendrars – nato a La Chaux-de-Fonds nel 1887 e morto a Parigi nel 1961 dopo una vita errabonda e avventurosa votata all’arte e ai viaggi – fu narratore, poeta, giornalista, combattente nella Prima Guerra Mondiale dove perse una mano, reclutato poi come reporter nella Legione Straniera. Aderì fin dagli inizî ai movimenti di avanguardia letteraria, con un’attenzione particolare al disagio sociale e all’insubordinazione politica.

Les Pâques à New York uscì una prima volta in rivista nel 1912, ed ebbe in seguito diverse riedizioni in Francia: il poeta lo aveva dedicato alla giovane Agnès (nome allusivamente riferito all’agnus pasquale) che aveva conosciuto a Neuchâtel, cui dedicò anche altri scritti, rimanendone a lungo innamorato, nonostante fosse divenuta moglie di suo fratello Georges. Il poemetto, scandito in distici, con dominanza del verso lungo alessandrino e l’uso frequente di rime e assonanze, fece conoscere e apprezzare il giovane artista svizzero nel vivace ambiente letterario parigino del primo ’900, mettendone in luce la sensibilità venata di inquietudine, intellettuale e religiosa, e il senso di inappartenenza rispetto alle convenzioni collettive.

Blaise Cendrars, pseudonimo di Frédéric Louis Sauser, si era imbarcato per New York nel novembre del 1911, e vi si era soffermato fino all’estate successiva, vivendo in squallide stanze di alberghi, peregrinando per le strade della metropoli, affamato e privo di amicizie. Leggenda vuole che il Venerdì Santo abbia ascoltato La Création di Haydn in una chiesa presbiteriana, e tornato nella sua stanza, abbia iniziato a comporre di getto Les Pâques, revisionato successivamente al rientro in patria. Il testo si apre con la riflessione sofferta degli episodi della Passione, riletti in un “vecchio libro”, e si rivolge direttamente a Cristo: “Non ho mai pregato quando ero un bambino, // Eppure stasera penso a Voi con timore”. Da laico, da miscredente, il poeta avverte la presenza divina dietro la porta della sua camera, e ne rimane turbato: “Siete Voi, è Dio, sono io, – è l’Eterno”.

Per incontrare Cristo crocefisso, deriso e insanguinato, scende nei bassifondi della città, “La schiena inarcata, il cuore increspato, lo spirito febbrile”. Ripercorre col pensiero le chiese e i conventi visitati in Europa, i quadri e gli affreschi religiosi che più l’hanno coinvolto emotivamente, e chiede a Dio di essere sollevato dall’angoscia, come fece Gesù nel Getsemani: “Fate, Signore, che il mio viso appoggiato tra le mie mani / Lasci cadere la maschera d’angoscia che mi attanaglia. // Sono triste e ammalato; forse a causa Vostra, / Forse a causa di un altro. Forse a causa Vostra”.

La sua infelicità rispecchia quella dei poveri che affollano i marciapiedi di New York, gli immigrati sulle banchine del porto, la folla “parcheggiata, stipata, come bestiame, negli ospizi”, i “popoli addolorati”, tra cui i fuggitivi ebrei che brulicano nei ghetti, le prostitute che “inzuppano il loro vizio indurito” nel rhum, i musicisti di strada, i cinesi nei bar dai gradini lerci. Per tutti loro –vagabondi, ladri, ubriaconi – Cendrars implora la pietà e il soccorso del Signore, ma senza celare la sua indignazione verso gli sfruttatori contemporanei: “Coloro che scacciaste dal tempio con la Vostra frusta, / Flagellano i passanti con una manciata di misfatti. // … Signore, la Banca illuminata è come una cassaforte, / Dove si è coagulato il Sangue della Vostra morte”.

Nella metropoli emblema di modernità e ricchezza mondiale, nessuno ricorda la Pasqua di Resurrezione: non suonano le campane, dai portoni delle chiese non escono canti e preghiere, le ombre si fanno minacciose. Allo spuntare dell’alba, il poeta torna immalinconito e stanco nella stanza d’albergo “nuda come un sepolcro”, mentre “Una folla sudata per la febbre dell’oro / Si spinge e si precipita in lunghe gallerie. / / Torbido, nel groviglio ovattato dei tetti, / Il sole, è il Vostro Volto sporco di sputi”. La sua amarezza esplode in una sferzante denuncia: “Signore, niente è cambiato da quando non siete più Re. / Il Male si è fatto una stampella della Vostra Croce”.
Nella prefazione, il Cardinale Ravasi sottolinea come la Pasqua dei giorni nostri abbia perso ancora più significato di quella descritta da Blaise Cendrars, ridotta a riti superficiali nelle famiglie, o ad altri pretesti per viaggi di puro stordimento ed evasione.

Un plauso sincero va attribuito alla giovane casa editrice Ignazio Pappalardo, che è riuscita, con questo e con i precedenti volumi pubblicati, a confezionare un prodotto raffinato e curatissimo, ricco di note e approfondimenti, completato da icastiche illustrazioni a colori e dal testo in lingua a fronte.

 

© Riproduzione riservata        «SoloLibri», 21 febbraio 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CENI

ALESSANDRO CENI, 77 – HELICON, AREZZO 2019

 74 poesie edite + 3 inedite: settantasette sono le poesie raccolte nell’auto-antologia di Alessandro Ceni, poeta-pittore-traduttore nato a Firenze nel 1957. Ceni ha vinto numerosi premi letterari, esposto i suoi quadri in note gallerie, e tradotto classici anglo-americani per le più importanti case editrici italiane: ma vive appartato ed estraneo a conventicole culturali nella vecchia casa di famiglia a Pian dei Giullari, sulle colline fiorentine; sposato, con due figli. Nei suoi versi alcuni critici hanno voluto leggere l’influenza della poetica di Walt Whitman e di Dylan Thomas: in realtà, la sua scrittura mantiene un’impronta originale e fedele a se stessa da più di trent’anni, e sostanzialmente atipica nel panorama letterario italiano.

Settantasette si presenta come una raccolta acquatica, erbosa, ventosa, avendo per lo più come sfondo un ambiente fatto appunto di fiumi e torrenti, di prati e piante, di elementi atmosferici e cosmologici. Ma non è certo un sentimento panico di immersione nella natura quello che contraddistingue l’atteggiamento del poeta, poco incline alla nostalgia retorica verso la genuinità idilliaca della vita campestre. Piuttosto, l’aspetto che caratterizza la sua posizione di osservatore distaccato e disincantato dell’ambiente circostante è l’interesse per la storia, la geografia, le scienze naturali, che viene espresso attraverso l’esibizione di una terminologia specifica, fatta di vocaboli tecnici o desueti, emergenti da una tessitura linguistica destabilizzante, quasi provocatoria.

Ne è un esempio, subito in apertura, l’attacco della prima poesia, I campi davanti: “Voltatoti, / le rovine fumanti / il pìare lento / il risolversi in un soffio del tarassaco: // revelle / stacca a forza / distoglie in altra parte: // la cupola del fieno / la portula che vi si apre / che ne camuffa un’altra / dove un flamine cieco ti tasta”.

Il lessico tratto dalla botanica e dalla zoologia è sconcertante nella sua insolita sovrabbondanza: vegetali e animali costituiscono una sorta di bizzarra enciclopedia dell’inusuale. Tarassaco pappo pungitopo polmonaria racemo austorio loppa gluma esperidio boaria accompagnano i più usuali pruni gelsi frumento rosmarino arance e limoni. Volatili dai nomi stravaganti (frusoni ossifraghe ardeidi) si associano ai più domestici corvi, gabbiani, rondini, cigni, oche.

Da cosa è definito il paesaggio della poesia di Alessandro Ceni? Dall’acqua, intanto, elemento mobile e inafferrabile, amico-nemico, minaccioso e salvifico (“Lascia che il fiume sciolta in te la zavorra della speranza / si volga a controllare gli scalmi / e discenda le numerose anse del suo andare, che moltiplichi, / sgomiti, macini sassi stesi ed erbe insane; cose, tutte / facilmente immaginabili”, “acqua desolata / amata soltanto dal silenzio delle piante, / dai gesti e suoni d’un solitario animale”). Dalla luna, più del sole misteriosa ed evocativa, resa pertanto classicamente, leopardianamente (“Luna, luna, immobile luna nella mente”, “l’eterna e sconfortata luna”, “una luna acidula e mezzana d’amori”). Da boschi, campi e rocce (“gli erbari ronzanti e i minuti insetti estivi”, “l’erba che si rialza nelle impronte, / lo sbandare della pineta”, “agri argini / acuminati di gialle fruste / di fossi sannuti e balze e pruni e gelsi”). Tutto un repertorio naturale a cui si oppongono descrizioni perimetrali di case, paesi, città, cimiteri, ospedali, ricoveri per indigenti: costruzioni umane, insomma, e per questo impenetrabili e ostili.

Naturale e artificiale sono intesi come antipodi concettuali, alla stessa maniera in cui si contrastano e compenetrano passato e presente: preistoria, medioevo, risorgimento, guerre mondiali, viaggi astrali… Come le epoche storiche, anche i luoghi geografici si intersecano e sovrappongono, indefiniti e mitici: la Valle dello Scesta (con i suoi calanchi, torrenti, dirupi) sfida gli altopiani del Nord America, le tombe etrusche affiancano i “fabbricati isolati” delle periferie industriali, le navi spaziali sorvolano Auschwitz.

Analizzando poi l’elemento antropico nei versi di settantasette, notiamo che non esiste reciproca benevolenza tra uomo e natura, tra uomo e uomo, tra uomo e Dio. Piuttosto rintracciamo gesti assassini, ostilità mortali e celesti, indicanti ferocia o indifferente sadismo, impermeabili al sentimento della pietà: “Là c’è una donna, che con la mano / si spande le lacrime sul volto; / con quelle stesse dita che lo conobbero / e che durante la notte desiderarono ucciderlo”, “Possa colui che sposta i confini / annientare cielo e mare / cancellare i tuoi passi nel ritorno, / possa perderti, schiacciarti sul promontorio”, “viene a massacrarci un odio / abbassata la guardia / spento il lume”, “Non dico, no, torna a casa / e picchia tua madre, dico: / torna a casa e guarda tua madre / come se volessi farlo; meglio, / come se l’avessi fatto”, “ di qua / tutto è infelice e indigesto, / gli uomini vanno servi, le donne prostitute, i bambini / vomitano densi liquidi verdi e cacano nero”, “Quindi sia lode agli uomini che non dichiarano il / proprio amore / e non perdonano e sono spietati / e strappano gli occhi dei fanciulli”.

Un cielo senza dio, quello di Alessandro Ceni, in cui “Non vi si distende la grazia di nessun Signore”, «perché se una divinità esiste, è un Dio che “mangia con le mani”, cannibalesco, onnivoro, crudele, da cui l’essere umano non viene soccorso e benedetto, ma è tenuto lontano, se non addirittura respinto.

Il “tu” così spesso presente nei versi di Ceni sembra indicare un’apertura alla conoscenza, un incoraggiamento, un invito, ma in realtà è rivolto più a se stesso che ad altri, con un frequente scambio di soggetto all’interno della medesima composizione, di maschile improvvisamente mutato in femminile, di singolari moltiplicati in plurali, come a dire che l’individualità non è più difendibile, nella sua illusoria apparenza; non c’è più nessun io, nessun tu, si è ovunque e in nessun posto, eternamente spaesati: “la mente altrove e lo spirito sempre”.

La resistenza che i contenuti manifestano nei riguardi di una comprensione solidale e garbata dell’esistente è ribadita anche dalla struttura formale dei versi di questa raccolta, in cui si dispiega un ricchissimo repertorio di figure retoriche (analogie, iperbati, anafore, anacoluti, sinestesie) che contribuiscono a rendere ancora più irta una sintassi di per sé già frammentata e contorta.

Anche i frequenti e spiazzanti neologismi e arcaismi (incanna, cannicciati, infemminirsi, slontanano, sovrassalati, sbrezzano, avverdite, pacciume, ghiareti, storre), contribuiscono a rendere straniante il messaggio del poeta. Mentre la ripetizione di vocaboli, avverbi o aggettivi, spessissimo a tre a tre, ottiene di cadenzare il ritmo della poesia in un respiro più lento: “e balze e pruni e gelsi; per dune / forre stagni; ad angoli anime animali; la foglia, l’ala, il vento; tra / aria e aria e aria; il marmo il granito il cinabro; cieco sordo invalido; il bue il maiale l’oca; resta resta resta; non / ricordo non ricordo non / ricordo; schizzi emissioni flussi; e frusci e sussurri e sospiri; incolmabile e adorata e vuota; nell’orto nella vigna nell’agro; corsi d’acqua, strade, siepi …”. Questa strategia formale viene ripresa anche in articolazioni di verseggiatura più ampie: Il canto delle balene: “com’è possibile possibile / possibile che tu ti esprima esprima esprima con / parole comprensibili da noi da noi da noi / che ti abbiamo tolto e ritolto dalla vita / dalla vita con le sue parole?”; Nella valle dello Scesta: “concludersi in una continua scia tra le foglie / o perpetua macellazione tra le foglie / o fortore di bestia inferma tra le foglie / o rapido slaccio di cintura tra le foglie”; Forma: “io ti saluto mentre la porta si chiude / mentre la porta scorrevole dell’ascensore si chiude / mentre la portiera della macchina si chiude”.

Considerando che l’autore utilizza poco la punteggiatura (fatto salvo il punto fermo a conclusione di ogni composizione), e pochissimo la rima, sembra ipotizzabile che la formula della reiterazione venga sfruttata con finalità quasi musicali, echeggianti la canzone popolare, folclorica, magari – parodisticamente ‒ lo stornello toscano che tanto si adatterebbe alle immagini campestri e alle leggende tradizionali evocate dai suoi versi (non è un caso che a lui si debba la curatela di Fiabe irlandesi e Fiabe africane per l’editore Bulgarini)

Una poesia difficile, in qualche caso addirittura respingente, questa di Alessandro Ceni, perché non consolatoria e volutamente esasperata. Ma densa, intricante, visionaria, e persino metafisica nel suo avvampante descrittivismo concettuale.

© Riproduzione riservata                     «Il Pickwick», 2 marzo 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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