PAUL CELAN, L’ANTOLOGIA ITALIANA – NOTTETEMPO, MILANO 2020

Con introduzione e cura di Dario Borso, Nottetempo ha pubblicato L’antologia italiana, proponendo ai lettori quarantotto composizioni di Paul Celan, secondo un ordine indicato dallo stesso autore più di sessant’anni fa. Celan, nato da famiglia ebrea nel 1920 a Czernowitz in Bucovina (allora territorio annesso alla Romania, oggi parte dell’Ucraina), ebbe un’esistenza tormentata da persecuzioni, esili e malattie psichiche: rinchiuso nei due campi di lavoro di Tăbărăşti e Fälticeni, dopo aver perso i genitori catturati dai nazisti, si trasferì prima a Bucarest, poi a Vienna e infine a Parigi, dove morì nel 1970 gettandosi nella Senna.

Poeta celebrato per la profondità concettuale e la densità lessicale dei versi, contestato per l’oscuro e respingente ermetismo stilistico, poco frequentato per l’ombrosità del carattere, progettò in totale autonomia un’unica scelta antologica della sua produzione, ed è appunto la silloge da lui suggerita che oggi viene pubblicata nella traduzione di Borso.

Fu nell’aprile del 1964 che Celan, giunto a Milano per una conferenza al Goethe Institut (rivelatasi quanto mai ostica per il pubblico presente), incontrò poi Vittorio Sereni, direttore letterario della Mondadori, per concordare la pubblicazione di un volume nella collana de Lo Specchio. La casa editrice aveva contattato Celan nel 1961, dopo il conferimento del prestigioso premio Büchner, ma da subito la trattativa si era arenata sulla scelta del traduttore. Scartati Marianello Marianelli e Giuseppe Bevilacqua, nella primavera del 1963 Sereni aveva indicato il nome di Ferruccio Masini. Anche l’opzione di quest’ultimo si rivelò inadeguata per vistose divergenze interpretative, e quindi l’iniziativa mondadoriana venne abbandonata, per essere recuperata solo sei anni dopo la morte di Celan, senza tenere più conto delle sue indicazioni.

Dario Borso ricostruisce fatti e antefatti che accompagnarono l’impegno editoriale del poeta in Italia, attraverso le testimonianze di chi lo aveva incontrato in quell’occasione: il direttore del Goethe Institut, Vittorio Sereni e Ida Porena, che l’aveva accompagnato in una visita alla necropoli di Cerveteri, per lui rivelatasi motivo di grande turbamento. Una coinvolgente relazione amorosa con un’attrice svedese, gli incontri con intellettuali del calibro di Jean Starobinski e Heinrich Böll, l’accusa di plagio rivoltagli dalla vedova di un amico scrittore, le devastanti cure psichiatriche e i ricoveri in clinica, avevano contribuito a minare il già precario equilibrio mentale del poeta, inducendolo alla tragica scelta finale.

Nel volume edito da Nottetempo possiamo ritrovare i titoli più noti (Der Sand aus den Urnen, Corona, Todesfuge, Nachts, Psalm, Mandorla, Anabasis, In der Luft), tratti da quattro raccolte uscite tra il 1952 e il 1963 (Papavero e memoria, Di soglia in soglia, Grata di parole, La rosa di nessuno).

Sono versi connotati da un’angosciosa visionarietà, espressa in ritmi franti e concitati, con tonalità cupe e risentite, rese più accese dalla memoria inorridita dello sterminio nazista: “Latte nero dell’alba lo beviamo di sera / lo beviamo a mezzodì e al mattino lo beviamo di notte / beviamo e beviamo / scaviamo una fossa nell’aria lì non si sta stretti… // … Grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco / grida archeggiate più scuri i violini così salirete come fumo nell’aria / così avrete una tomba tra le nuvole lì non si sta stretti”, “Scavavano e scavavano, così trascorreva / il loro giorno, la loro notte. E non lodavano Dio / che, così udirono, voleva tutto ciò, / che, così udirono, sapeva tutto ciò”.

Il presagio della morte aleggia in ogni poesia, e pervade qualsiasi aspetto dell’esistenza, scandita dall’implacabilità del tempo che passa: “È tempo che la pietra si decida a fiorire, / che all’inquietudine batta un cuore. / È tempo che sia tempo. // È tempo”, “Venne, venne. / Venne una parola, venne, / venne attraverso la notte, / voleva far luce, voleva far luce. // Cenere. / Cenere, cenere. / Notte. / Notte-e-notte”.

Nemmeno tra creature simili, sottoposte alla stessa violenza, si instaurano sentimenti di fiducia, solidarietà, amicizia: “Stanno divisi nel mondo, / ciascuno con la sua notte, / ciascuno con la sua morte, / scontrosi, a testa nuda, / brinati / di prossimità e distanza”, “Ci sarà un ciglio, / volto in dentro nella roccia, / temprato di non-pianto, / il più fine degli aghi. // Davanti a voi compie l’opera / come se, essendoci pietra, ancora esistessero fratelli”.

Anche le donne amate, la moglie Gisèle, assumono sembianze minacciose, mentre intorno a loro si muovono allucinate visioni di coltelli, tombe, nubi, lampi, polvere e sabbia: “Ti batte il tamburo di muschio e di amaro vello pubico; / con alluce purulento dipinge nella sabbia il tuo sopracciglio. / Più lungo lo traccia di quant’era, e il rosso del tuo labbro”, “Io come un vento notturno sostavo nel grembo venale di tua sorella; / i tuoi capelli pendevano sopra noi dall’albero, però non eri lì”.

La natura incombe ostile, rispecchiando indifferente la crudeltà del mondo; cielo terra mare non offrono riparo, e anzi si oppongono a qualsiasi richiesta di consolazione: “Secco, insabbiato il letto alle tue spalle, ricoperta di giunchi / la sua ora, sopra, / accanto all’astro, i lattei / meandri parlottano nel limo, dattero di mare, / sotto, algoso, si apre all’azzurro, un arbusto / di caducità, bello, / saluta la tua memoria”, “Il tavolo ondeggia su e giù per le ore, / il vento riempie i calici, / il mare rotola il cibo fin qui: / l’occhio errante, l’orecchio in tempesta, / il pesce e il serpe”, “Una ruota, lenta, / gira da sé, i raggi / rampicano / rampicano su campo nerastro, la notte / non abbisogna di stelle, in nessun luogo / si chiede di te”.

E infine Dio stesso è risucchiato nel vuoto della negazione e del rifiuto: “Ci gettò la tua immagine negli occhi, Signore. / Occhi e bocca stan così aperti e vuoti, Signore. / Abbiamo bevuto, Signore. / Il sangue e l’immagine ch’era nel sangue, Signore. // Prega, Signore. / Siamo vicini”, “Nessuno ci plasma più da terra e argilla, / nessuno scongiura la nostra polvere. / Nessuno. // Lodato tu sia, Nessuno. Per te noi vogliamo / fiorire. / Verso / te. // Un niente / eravamo, siamo, / resteremo, fiorendo: / la rosa di niente, / di Nessuno”.

Poeta del grido strozzato, della mano che annaspa, della fuga nel buio, Paul Celan ha saputo esprimere lo smarrimento di chi pone testardamente la stessa domanda sul perché del male, pur sapendo di non poter ricevere risposta.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 17 novembre 2020