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RECENSIONI

CHOMSKY

NOAM CHOMSKY, LE DIECI LEGGI DEL POTERE – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE, 2017

Scrivere oggi di “padroni”, “odio di classe”, “sfruttati”, “dittatura capitalista” può sembrare obsoleto, retaggio malinconico di un’illusoria eredità sessantottesca, roba da patetico pamphlettista   vetero-marxiano.

Se lo fa Noam Chomsky (Filadelfia,1928), linguistafilosofostoricoteorico della comunicazione, con il suo pervicace e sbandierato anarchismo libertario, risulta un po’ più intrigante, in quanto difficile da liquidare come delirio senescente di un arrabbiato e nostalgico hidalgo delle rivoluzioni che furono. Professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, Chomsky è stato il fondatore della grammatica generativo-trasformazionale ‒ oggi messa alquanto in discussione da più cattedre ‒, con alcuni basilari volumi (Syntactic structures, 1957; Language and mind, 1968; The logical structure of linguistic theory, 1975; Language and problems of knowledge, 1988). Ma è stato anche vivacissimo polemista, vox clamans contro l’imperialismo americano (American power and the new mandarins,1969; At war with Asia, 1970; Human rights and american foreign policy,1978), contro l’addomesticamento dei media teso a fabbricare un consenso acritico (Manufacturing consent: the political economy of the mass media, 1988), contro le miopi e corrotte politiche ambientali che stanno portando l’intero pianeta all’autodistruzione.

Queste tesi, provocatorie e impetuose, sono riprese sinteticamente nel volume edito da Ponte alle Grazie, Le dieci leggi del potere, che riporta lo stesso programmatico sottotitolo (Requiem per il sogno americano) del documentario-intervista di Hutchison-Nyks-Scott presente in rete e su Netflix. Il libro si compone di dieci capitoli, corredati ciascuno da un elenco di fonti: brevi estratti da testi di filosofia ed economia, oppure da articoli di giornali, proclami politici, statistiche, degli autori più vari. Si citano Aristotele e Malcolm X, Berlusconi e Bill Clinton, Walt Disney e Mc Donald’s.

In uno stile semplicissimo, paratattico, quasi didascalico, Noam Chomsky ripercorre le motivazioni perverse che hanno condotto la più grande potenza mondiale all’inarrestabile declino etico attuale, all’impasse di immagine del suo profilo di stato-guida agli occhi dell’umanità intera. Sono sostanzialmente ragioni che derivano dalla volontà di concentrare il potere e la ricchezza nelle mani di un’oligarchia finanziaria senza scrupoli, che si appoggia agli interessi delle grandi banche e delle multinazionali, e che per trarre sostanziosi vantaggi economici tende a ridurre gli spazi democratici sia all’interno degli USA sia globalmente. Lo fa plasmando le menti dei consumatori attraverso un bombardamento mediatico mirato, mettendo il silenziatore alle voci critiche, limitando il diritto allo studio, precarizzando il lavoro, privatizzando la sanità. A livello produttivo, penalizza l’industria manifatturiera a vantaggio degli istituti finanziari, delocalizza la manodopera sfruttando lavoratori dei paesi poveri, e ha come unico principio la libertà del mercato e gli interessi delle lobby capitalistiche. Addio solidarietà sociale e tutela degli indifesi, addio sindacalismo e garanzie per la classe operaia, addio all’American Dream di partecipazione democratica di base: e invece sostegno al marketing deregolamentato, alla fabbrica del consenso, alla sostanziale marginalizzazione del popolo, allo spreco consumistico, all’inquinamento ambientale.

Un profeta scomodo, Noam Chomsky, grillo parlante a vuoto in una società che preferisce non ascoltare.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 22 ottobre 2017

 

 

 

RECENSIONI

CIAPPI

SILVIO CIAPPI, L’UOMO CHE NON VOLEVA MORIRE

GABRIELLI EDITORI, S. PIETRO IN CARIANO 2017

 

Se non bastasse il sottotitolo, Storia di un pescatore di anime, già l’allusiva foto di copertina (due reti strappate che pendono da un legno a forma di croce, con le acque immobili di un lago sullo sfondo) sembra voler predisporre il lettore al contenuto e al messaggio di questo intenso racconto-saggio di Silvio Ciappi (Siena, 1965), noto psicoterapeuta e criminologo.

Il Gesù che fuoriesce prepotentemente da queste pagine ha poco di divino, e l’autore sottolinea più volte la propria indifferenza alle interpretazioni ecclesiali, cui contrappone una partecipe ammirazione verso la figura umana del giovane che dalla Galilea percorre a piedi tutta la Palestina, alla ricerca di se stesso e dell’altro. Un “altro” vivo di reale corporeità, fatto di carne e dolori, di fame e desideri, a cui portare la parola che salva. Il trentenne Yešû si circonda di uomini, donne e bambini che hanno la stessa faccia degli uomini, donne e bambini di oggi: sono gli ultimi della terra, i reietti, gli abbandonati, gli esclusi, macchiati di colpe e delitti, oppure sofferenti per tare fisiche. Ma sono anche i ricchi, i farisaici detentori del potere politico e religioso, ugualmente condannati a una cecità che li rende infelici, privi di significati da dare alla propria esistenza. In tutte le persone che seguono Gesù, lo psichiatra-criminologo Silvio Ciappi scorge lo stesso male di vivere dei pazienti o dei carcerati di cui si occupa professionalmente, in Italia o all’estero, nelle sue consulenze per vari organismi internazionali: il male dell’adolescente suicida, dei genitori che uccidono i figli, delle donne stuprate dalle forze paramilitari in Colombia o dell’infanzia costretta a prostituirsi nelle strade del Brasile.

Per recuperare la vicenda terrena di un uomo di duemila anni fa, Ciappi utilizza le pagine del più antico dei quattro Vangeli, l’unico scritto da chi è stato testimone oculare degli eventi narrati: il misterioso ragazzo presente alla cattura di Gesù nell’orto degli ulivi era forse lo stesso seduto accanto al sepolcro vuoto. Era Marco. Un Vangelo particolare, il suo, scarno di parole, privo di commenti, che non racconta la nascita virginale del bambinello, né re magi o presentazioni al Tempio; ci propone subito un Cristo adulto, indocile, dal linguaggio paradossale, che si fa battezzare da Giovanni e cerca i propri discepoli tra i pescatori. Un testo sacro che finisce al capitolo sedicesimo, con tre donne che non trovando più il cadavere del loro Messia nella tomba hanno paura. “Paura” è la parola conclusiva del paragrafo 16, 1-8, e ancora lo sarebbe di tutto il Vangelo marciano, se non fosse stato aggiunto a posteriori il racconto della resurrezione, per motivi di opportunità e di coerenza con gli altri testi evangelici.

Silvio Ciappi rivisita le Scritture a partire dal Midrash ebraico, cita passi dell’antico Testamento, rilegge con grande sensibilità alcune parabole, commenta il Padre Nostro. A questo interesse teologico ed esegetico, spesso fuori dai ranghi dell’ortodossia cattolica, unisce interessi culturali più vasti, nominando filosofi e poeti che hanno nutrito la sua formazione intellettuale: dai classici greci e latini a Eliot, da Rilke a Freud, da Kierkegaard a Nietzsche, da Buber a Ungaretti e Pasolini. Ma soprattutto alterna l’interpretazione del Vangelo di Marco con descrizioni di incontri avuti nella sua esperienza professionale, oppure con riflessioni sul senso del nostro vivere quotidiano inserito negli spazi e nei tempi dilatati della storia e dell’eternità. Ci invita a riflettere sull’importanza della parola e del silenzio, delle assenze e dei distacchi, dell’odio e del perdono, della malattia e della libertà, della meditazione e della solitudine, della persecuzione e della morte. A proposito della quale, L’uomo che non voleva morire, il giovane Yešû tradito processato e crocefisso, ma «che voleva lottare» per tutti, ha lasciato un insegnamento semplice e fondamentale, che Silvio Ciappi fa suo e ci trasmette: «Non siamo soli al mondo, non siamo l’inizio e la fine di tutto… siamo una goccia d’acqua in un mare più vasto… Non c’è nulla al mondo di più sacro che l’umano».

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/uomo-non-voleva-morire-Ciappi.html;     28  marzo 2017

 

RECENSIONI

CIAPPI

SILVIO CIAPPI, ODIO. L’ALTRA FACCIA DEL DOLORE – GIUNTI, FIRENZE 2023

Silvio Ciappi (Siena 1965) è uno dei più noti e stimati criminologi e psicoanalisti italiani. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, che spaziano dai manuali giuridici al romanzo noir, dal saggio spirituale all’inchiesta sociologica fino alla cronaca giudiziaria.

Il suo ultimo volume, Odio (tra qualche mese uscirà sempre da Giunti un reportage sulla delinquenza giovanile metropolitana) indaga le matrici psicologiche dell’odio mediante l’esposizione, in chiave narrativa, di casi clinici e forensi attinti dall’esperienza umana e professionale vissuta per decenni a stretto contatto con chi delinque.

“L’etimologia della parola ‘odio’ si può ricondurre a una radice indoeuropea che significa ‘colpire, ferire, espellere, spingere, respingere’, in cui ricorre il senso del rifiuto, della repulsione e della ferita. Un’altra ipotesi plausibile, invece, sembra ricondurre la parola ‘odio’ al verbo ‘mangiare’, per cui l’odio sarebbe da intendersi come un rodimento intimo. Entrambe le interpretazioni etimologiche mettono in luce l’estrema negatività di questo sentimento, nel primo caso evidenziandone la forza distruttiva verso l’esterno mentre, nel secondo caso, quella autodistruttiva”.

Si odiano gli altri come si odia sé stessi, afferma Ciappi, che nel libro parla della crudeltà associata al piacere di fare del male, e di come la violenza sia il frutto di un condizionamento originario, oltreché di circostanze esistenziali che si sommano e si accumulano sulla ferita primigenia. I sentimenti più feroci (rabbia, rancore, sete di vendetta, disprezzo) sono per lo più “un disperato tentativo di non contattare il proprio dolore, sono il volto dimenticato del dolore” nato da diverse motivazioni (l’abbandono, il tradimento, la colpa, lo svilimento, l’umiliazione), che spetta allo psicologo sviscerare, con uno scavo quasi archeologico nel passato, e al criminologo analizzare scientificamente.

Consapevole che nessuna persona può considerarsi immune dal gesto violento, e che non tutti gli assassini sono malvagi di animo (così come non tutti i malvagi diventano assassini), Silvio Ciappi è altrettanto convinto che ciascuno si possa sempre salvare, uscendo da situazioni che appaiono senza scampo. Questo ha appreso dai suoi approfonditi studi di giurisprudenza, psicologia e letteratura, ma anche della propria vicenda personale, a partire dalle inquietudini e ribellioni adolescenziali fino al lavoro quotidiano nei penitenziari del nostro paese, e nelle consulenze internazionali sul narcotraffico, il terrorismo, la mafia. Compito dello psicanalista è quello di “mettere insieme compassione e morale, condanna e comprensione, autore e vittima” per cercare di capire cosa, nella vita di chi si rende colpevole di gravi reati, non ha funzionato, inducendolo a compiere gesti gravidi di conseguenze umane e legali.

Chiamato a supervisioni cliniche presso carceri minorili o comunità di recupero, Ciappi per prima cosa cerca di sintonizzarsi sul piano emozionale con le ferite dei minori, spesso aggressivi nei confronti di compagni ed educatori. Il disagio giovanile, che si può esprimere in molti modi (disturbi dell’alimentazione, ansia da prestazione, azioni pantoclastiche o antisociali) indica un profondo senso di smarrimento originato da storie di vita inenarrabili, da perdita degli affetti, da trascuratezza familiare, sociale e ambientale in contesti degradati e di marginalità, e acuito dal confronto con modelli disfunzionali, dal mito del successo facile e del guadagno repentino. Silvio Ciappi racconta con empatia e commozione – sempre indignandosi, sempre interrogandosi (“Cosa avrei fatto io al loro posto?”) – vicende terribili di giovani immigrate costrette a prostituirsi, ladri, violentatori, psicopatici sessuali, talvolta circuiti da carabinieri corrotti e preti truffatori: un caleidoscopio di esistenze a colori truci, che sputano collera e risentimento, terrore e voglia di vendetta, e solo raramente ansia di redenzione o desiderio di tenerezza.

Nel volume si sofferma a lungo sull’esperienza vissuta accanto al serial killer Donato Bilancia, che nel 1997 in pochi mesi aveva ucciso in maniera efferata diciassette persone. La vita dell’assassino viene minuziosamente ripercorsa dalle origini, durante lunghe conversazioni nella prigione di Padova, nel tentativo di spiegare le motivazioni dei suoi gesti omicidi. Cosa l’aveva portato ad agire in maniera tanto crudele, e a quello che lui stesso definiva “il salto nel vuoto” del crimine? Il puro godimento sadico e afinalistico di uccidere, per cui sceglieva a caso le sue vittime, vendicando così la sua infanzia lacerata da genitori dispotici e maneschi, o forse il dolore per un fratello suicidatosi con il nipotino sotto un treno? Secondo Melanie Klein il disamore patito nei primissimi mesi di vita nel rapporto con la madre o altre figure di accudimento, insegue e segna alcuni individui per tutta la vita, inducendoli a reazioni esasperate nei confronti di coloro da cui si sentono rifiutati. Le sensazioni pericolose, angoscianti e cattive vissute da bambini ritornano nella genesi dell’odio, ed esplodono innescate a volte da futili e imprevedibili motivi. “In psicoanalisi l’atto di uccidere può essere considerato l’atto finale di un livello di aggressività che l’uomo si porta dentro. L’essere umano difficilmente tollera l’idea di non essere stato sufficientemente amato, per cui la mente mette in azione due meccanismi per allontanare il dolore, la scissione e la proiezione, attraverso i quali, ci dice Freud, sputare fuori (Ausstoßung) nel mondo esterno il male, sentendolo come estraneo e nemico”.

Oggi il delitto di sangue ha perso le connotazioni leggendarie del passato, e sembra piuttosto evidenziare le debolezze, le vorticose incapacità di relazionarsi con gli altri di chi lo compie: “Si uccide per un bacio non dato, per un cane che abbaia, per vigliaccheria”, esibendo reazioni smodate e incontrollate a situazioni di quotidiana normalità. Freud scriveva che “discendiamo da una serie lunghissima di generazioni di assassini i quali avevano nel sangue, come forse ancora abbiamo noi stessi, il piacere di uccidere”.

Tra i sentimenti analizzati dall’autore come scatenanti odio, un ruolo di primo piano riveste l’invidia – nella coppia, parentale, comunitaria, sociale –, che ha come obiettivo di sminuire l’altro, cancellandone la malintesa superiorità con voracità distruttiva, al fine di riconquistare un primato messo in discussione dalla presenza dell’avversario (ad-versum, che sta di fronte). Altro impulso che spinge ad annullare le differenze è il conformismo, sfruttato politicamente da ogni potere antidemocratico quando invita all’obbedienza cieca in nome di imperativi categorici superiori, o quello espresso attraverso il branco, inteso come estensione dell’io, che raggiunge picchi di feroce frenesia.

Le fantasie ossessive e i comportamenti devianti analizzati da Ciappi nel suo lavoro di psicanalista riguardano persone di età, cultura e provenienza sociale differente: si tratta di feticisti, seduttori, traditori, pedofili, masochisti, necrofili, sadici, pornografi, autolesionisti, ricattatori, narcisisti, isterici, che presentano sintomi di assenza o eccesso di emotività, e chiedono di essere in primo luogo ascoltati e poi aiutati a superare i loro traumi, per venire accettati da se stessi e dalla società che li ospita, dove tutto (lavoro, casa, famiglia, emozioni) viene regolato e tenuto sotto controllo secondo parametri funzionali al mantenimento dello status quo.

Silvio Ciappi racconta con sincerità e modestia anche le proprie ferite, gli inciampi professionali, le difficoltà familiari, i problemi di salute, ma afferma di sentirsi comunque soddisfatto e realizzato quando nel suo delicato e difficile lavoro quotidiano riesce a “evitare il male con piccole dosi di bene praticabile”. Cosa che dovremmo fare tutti, mettendo in discussione noi stessi, le nostre fragilità, sapendo che la tentazione di odiare è presente in chiunque abbia sofferto. Tuttavia dalla sofferenza non nascono solamente sentimenti negativi, poiché attraversando il dolore possono manifestarsi occasioni e doti socialmente fruttuose e individualmente gratificanti: creatività, amore per la bellezza, voglia di riscatto, altruismo.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 30 novembre 2024

 

 

RECENSIONI

CIMATTI

FELICE CIMATTI, SGUARDI ANIMALI – MIMESIS, MILANO 2018

Felice Cimatti (Roma, 1959) si occupa di filosofia, psicanalisi, linguaggio, realtà e sovra-realtà, con un occhio attento anche al mondo non umano. Insegna all’Università della Calabria, e conduce su Rai Radio 3 la trasmissione Uomini e profeti.

In Sguardi animali indaga il concetto di animalità, partendo dal commento di vecchie fotografie in bianco e nero acquistate su bancarelle di robivecchi, in cui il non-umano si accompagna all’umano: personaggi anonimi di ogni età, sesso, condizione sociale posano distrattamente o narcisisticamente, insieme a gatti, cani, cavalli del tutto indifferenti all’obiettivo che li immortala. Oltre alle numerose immagini di sconosciuti, nel libro edito da Mimesis sono presenti scatti di volti famosi, da Mastroianni a Hemingway, quadri celebri, paesaggi e nature morte, collegati tra loro dalla presenza di dettagli estranianti e inattesi, che hanno la funzione di turbare chi guarda, proponendo qualcosa di inafferrabile, di non facilmente razionalizzabile. Questo particolare inquietante è appunto l’animalità dell’oggetto rappresentato, corpo vivo, edificio, albero, ombra che “spezza la composizione e il progetto iniziale” di chi ha scattato la fotografia, lasciando apparire “il mostro”, che nella sua etimologia latina indica il prodigio, l’eccezionalità. Il movimento è bloccato: sul sorriso di una ragazza, su un cagnolino immobile, su una mano o una gamba sbucanti dal margine, su un movimento impedito.

“La fotografia è un luogo esemplare dell’animalità, come apparizione improvvisa e spesso anche sgradita di quell’elemento vitale, animale appunto, del mondo che nessun preesistente quadro concettuale riesce a contenere. Perché l’animalità disturba, proprio come la vita disturba, perché è novità e sorpresa”.

Per animali di solito intendiamo quelli domestici, e addomesticati, quasi umanizzati, a cui attribuiamo dei diritti e concediamo la nostra attenzione morale. Ma gli animali “altri” (una talpa, una zanzara, un ragno, un’ameba, un microbo) li sentiamo allo stesso modo portatori di desideri e intenzioni, e quindi di prerogative di difesa legale, o invece l’idea di animale rimane in qualche modo allegorica, non incarnata, solo pensata? “Un animale è sempre un discorso sull’animale, sia scientifico che mitico, realistico o fantastico, effettivo o immaginario”.

Per Cimatti, l’animale è un ente linguistico, è “vita catturata dal linguaggio”. Allora, l’animalità riguarda i non-umani e gli umani, soggetti e oggetti, attivi e passivi, tutti i corpi materiali che “possono fare qualcosa nel mondo”. Anche un sasso è un corpo, agli occhi di un gatto: “Vedere il mondo dal punto di vista dei corpi, non da quello del soggetto, dell’homo loquax, questa è l’animalità… Si tratta di permettere all’animalità di apparire… semplicemente di apparire”, senza essere categorizzata. L’animalità esprime una lacerazione che rende visibile il mondo, in cui il soggetto diventa oggetto senza cessare di essere soggetto. Anche l’uomo pertanto diviene animale, è visto all’interno di un mondo di intensità pure, aldilà di ogni significato, e “al di qua della distinzione tra conscio e inconscio, fra razionale e irrazionale, fra parola e silenzio… L’animalità non vuole né pensa nulla, non desidera né rimpiange nulla, non manca di nulla”.

La riflessione teorica di Felice Cimatti si situa tra indagine psicanalitica e problematicità filosofica, ma nel commento delicato e sensibile alle immagini fotografiche sfiora l’impalpabile grazia della poesia.

 

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Sguardi-animali-Cimatti    28 dicembre 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CLAIR

JEAN CLAIR, BREVE STORIA DELL’ARTE MODERNA – SKIRA, MILANO 2011

Il critico d’arte francese Jean Clair da anni porta avanti una sua coraggiosa, e soprattutto anticonformista, denuncia del declino e dell’imbarbarimento dell’arte contemporanea: critica che alcuni hanno voluto leggere come reazionaria.
In Breve storia dell’arte moderna, questo breve saggio pubblicato da Skira, definisce in primo luogo quali siano i confini cronologici in cui situare l’arte del ’900: dal 1905 (fauvisme, protocubismo, espressionismo e astrattismo: cioè tutte le forme di pittura che facevano i conti con la liberazione dell’inconscio e attingevano alla sfera dell’invisibile e dell’immateriale) al 1968, anno in cui una grande rivolta libertaria sancì in tutto il mondo la distruzione delle regole che garantivano una qualche eternità all’opera d’arte.

Nei primi settant’anni del XX secolo pittura, scultura e architettura si erano confrontate assiduamente e proficuamente con la scienza e la filosofia, nutrendosene e arricchendo il proprio spessore creativo.
Da allora, si è iniziato a snobbare la norma, la tradizione, l’insegnamento, la tecnica e la manualità: oggi tutto diviene arte, ogni gesto si autoproclama artistico. Jean Clair oppone a questo “totalitarismo degli imbecilli” il ritorno alla creazione delle forme rispetto alla “produzione di immagini”, secondo cui “il cosiddetto artista dovrà sorbirsi corsi di strategia, di marketing… ma non riceverà nessuna formazione specifica nel suo mestiere né nelle tecniche per praticarlo”.

Si salvano da questa mercificazone desolante solo pittori come Lucien Freud, Balthus, Szafran, Zoran Music, molto e giustamente amati dal pubblico (nota per l’editore: Music è morto nel 2005!). Artisti che nascono nel solco di una tradizione e di una temperie culturale, che sanno sfruttare e far fruttificare. È necessario, secondo Jean Clair, che oggi si abbia l’umiltà di tornare a studiare, ripercorrendo la storia dell’arte dalle origini, per non soccombere a quell’estetica del disgusto che sembra aver preso il posto dell’estetica del gusto, dominante dal 1750 al 1970.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/storia-arte-moderna-Clair.html      1 settembre 2016

RECENSIONI

CLARE

JOHN CLARE, L’OLMO CADUTO – MEDUSA, MILANO 2021

L’olmo caduto, antologia pubblicata dalle edizioni Medusa, raccoglie una sessantina di poesie di John Clare tratte da sette diverse raccolte, uscite tra il 1820 e il 1864. Nato nel 1793 nel villaggio di Helpston, nella contea del Cambridgeshire, John Clare proveniva da una famiglia di contadini, contadino egli stesso. Autodidatta, lettore onnivoro, iniziò a scrivere da ragazzo. Conobbe già con il suo primo libro di versi, ispirato al mondo rurale, un grande successo di pubblico: commuoveva la sua sensibilità quasi infantile verso l’ambiente naturale, e incuriosiva i lettori la sua scrittura istintiva, priva di ricercatezze formali, basata su di un lessico semplice e una sintassi elementare, densa di espressioni dialettali.

Clare non ebbe vita facile, provato da difficoltà economiche e lutti familiari, continue pressioni e censure editoriali, stati depressivi e allucinatori che lo portarono all’internamento in manicomio poco più che quarantenne, fino alla morte avvenuta nel 1864. Nonostante fosse continuamente minacciata dalle tormentose vicende private, la sua poesia fu tra i contemporanei più popolare di quella di Wordsworth, Keats e Coleridge, venne recitata e musicata nei teatri londinesi alla moda, conobbe estimatori tra gli intellettuali più in vista. Etichettato come “The Peasant Poet”, o “The Green Man”, fu in un primo momento la peculiarità della sua storia personale ad attirare tanta attenzione sulla sua produzione letteraria. Che da un’iniziale interesse rivolto empaticamente agli animali e alla vegetazione, affrontò nella maturità temi più impegnativi, sia socialmente sia esteticamente, fino alla misteriosa enigmaticità dei versi visionari scritti nella clinica psichiatrica in cui fu rinchiuso per 23 anni.

Se oggi certa critica tende ad accreditarlo come poeta ecologista, il suo interesse per la natura non esprimeva in realtà alcuna polemica nei confronti della nascente urbanizzazione e industrializzazione; era piuttosto sincero amore per la terra e per l’innocenza dei suoi abitanti non-umani: tutti i tipi di uccelli, le talpe, i ricci, i conigli, le piante e i fiori che rendono il paesaggio più gentile.

“Benvenuta pallida primula! Spunti tra / il morto fogliame di frassini e querce /… quanto la tua presenza fa più bella la terra”, “Nel basso di siepi e mura al riparo dal vento / i moscerini si radunano in sciami per giocare”, “Le api si lisciano le zampette passandole tra le ali / e osano piccoli voli ove il bucaneve lascia pendere / le campanule d’argento”, “Le timide lepri dismesse le paure del giorno / Sulla stradina s’impolverano danzano e giocano”, “Amo vedere le vizze felci della brughiera antica / Mischiare le crespe foglie a ginestrone ed erica / Mentre dal lago deserto il vecchio airone / Parte lento battendo l’ala malinconica”.

Piante e animali, fenomeni atmosferici e stagni patiscono, nei versi di Clare, gli stessi sentimenti degli uomini: paura e gioia, ansia di libertà e ferocia, imperturbabilità e irruenza. Ogni cosa risponde al richiamo eterno e insopprimibile della sopravvivenza, della riproduzione fisica, del desiderio appagante, e il poeta ribellandosi alla violenza di chi turba la semplice autenticità dell’esistere, soffre per l’abbattimento di un olmo, per la macellazione di un bue, per lo squartamento di un tasso. I bambini che escono da scuola correndo, i braccianti nei campi, le belle ragazze da spiare di nascosto, il trapassare delle stagioni; ma anche la solitudine, il silenzio, la morte stessa: ogni cosa per lui è degna di venire raccontata con meraviglia e gratitudine. L’ultima composizione del volume è una vera dichiarazione d’amore per ciò che ci circonda: “Tutto in natura è sentimento – boschi campi rivi / Sono vita eterna – e in silenzio / Parlano di felicità inaccessibili ai libri”.

John Clare ha suscitato l’ammirazione di poeti come Dylan Thomas, John Ashbery, Seamus Heaney, che l’hanno ritenuto degno di venire menzionato tra i grandi della letteratura inglese. Per questo l’elegante antologia proposta da Medusa ha reso un prezioso favore ai lettori italiani, per la maggior parte ignari della sua esistenza.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 16 settembre 2021

 

RECENSIONI

CLAUDEL

PAUL CLAUDEL, L’ANNUNCIO A MARIA – RIZZOLI, MILANO 2001

Di uno dei maggiori autori cattolici del novecento, Paul Claudel (1868-1955), questo testo teatrale scritto nel 1912 rimane forse ancora il lavoro più noto. Si tratta di un dramma in quattro atti, ambientato nel tardo medioevo, in cui agiscono sei personaggi legati tra loro da vincoli familiari o affettivi. Il padre-patriarca, Anna Vercors, tanto religioso da abbandonare per anni il suo ruolo di capofamiglia per fare un pellegrinaggio in Terrasanta; la madre Elisabetta, piuttosto meschina nella mentalità e nei comportamenti; le due figlie: la dolcissima, bella e ingenua Violaine e l’invidiosa e caparbia Mara, che finirà per uccidere la sorella per gelosia. Poi c’è un fidanzato conteso, Giacomo, e un artigiano di nobili sentimenti che si ammala di lebbra per guarire insperatamente grazie alla sua fede. L’intreccio che si sviluppa tra i protagonisti si anima di improvvise rivelazioni e incredibili colpi di scena: morti e resurrezioni, miracoli e tradimenti, amori e ribellioni, tutti raccontati con entusiastico fervore, ma anche con il didascalismo e la sentenziosità che sempre contraddistingue la scrittura dei convertiti quando ambiscono a convertire i lettori. Don Luigi Giussani ha scritto la prefazione all’opera in termini di assoluto ed estatico rapimento: «… la più bella scena d’amore che sia mai stata scritta… una delle opere più grandi che siano state scritte nel Novecento… Queste pagine contengono l’ideale di tutto… Questo dramma è pieno di corrispondenze, di simmetrie; non c’è una parola che non corrisponda a un’altra dopo; è bellezza senza fine». Per concludere: «L’Annuncio a Maria è l’invito a stare al proprio posto nel mondo e questo non può non passare attraverso la croce, ma dalla croce alla risurrezione, non nell’aldilà, ma qui». A un occhio laico, tuttavia, il lavoro oggi appare datato e piuttosto farraginoso. Persino un cattolico come Carlo Bo scriveva nel 1936 a proposito di Claudel: «I suoi testi sono come delle preghiere lontane e inutili».

IBS, 27 aprile 2016

RECENSIONI

CLEIS

FRANCA CLEIS, LA PIRAMIDE DI PESCHE DELLA SAGGIA REGGITRICE  – LUCIANA TUFANI, FERRARA, 2007

Franca Cleis, scrittrice e studiosa di storia del femminismo, cofondatrice degli Archivi Riuniti delle Donne Ticino, che diresse per molti anni, ha dedicato e dedica tuttora la sua esistenza alla ricerca, alla diffusione e alla difesa della cultura femminile nel suo paese. Cinque anni fa ha pubblicato per le edizioni Tufani un volume sulla vita e il pensiero di una straordinaria donna dell’ottocento, Angelica Cioccari-Solichon, affermata pedagogista e divulgatrice scientifica, attivista politica e emancipazionista, descrivendone con ammirata partecipazione il coraggioso e anticonformista impegno in favore dello sviluppo intellettuale e professionale delle donne. Angelica Solichon nacque a Milano nel 1827, crebbe a Zurigo e morì nel 1912 nel Canton Ticino, ma visse anche a Palermo e a Napoli, all’epoca del colera, seguendo il marito medico Carlo Cioccari, e lavorando con dedizione al suo fianco in favore della classi meno abbienti. Fu maestra d’avanguardia, e fautrice di numerose iniziative didattiche rivoluzionarie per l’epoca, autrice tra l’altro nel 1855 del primo libro di testo di economia domestica  L’amica di casa, che conobbe larga diffusione sia in Svizzera sia in Italia. A questa eccezionale figura di donna, Franca Cleis dedica questo documentatissimo volume, arricchito di una ricca bibliografia e di numerose testimonianze della pubblicistica coeva, che si offre al lettore suddiviso in due parti. La prima sezione, letteraria e d’invenzione dell’autrice, è animata poeticamente dalla rivisitazione empatica dei tempi e dei luoghi in cui visse e si prodigò Angelica Solichon.

«Ariosa ed emozionale, la scrittura evoca scenari intimi, domestici, familiari, con grande vitalità sensoriale – il profumo della pagnotta, il sapore dei vròcculi arriminati, la squisitezza della piramide di pesche, la linfa di annoso castagno- che permea anche il racconto dei momenti pubblici, ufficiali», come ben commenta nella sua prefazione la Professoressa e storica Emma Scaramuzza. La seconda parte del libro affronta invece, con scrupolo documentaristico e stile oggettivo, non solo la biografia ufficiale della Solichon, ma anche aspetti e questioni sociali e politiche significative della storia ticinese e italiana tra Otto e Novecento.
Un lavoro accurato e documentato, questo di Franca Cleis, che ha avuto il pregio di far conoscere oggi a un pubblico più vasto l’illuminante e generosa esperienza intellettuale e di vita di una precorritrice delle istanze femministe di uguaglianza e sviluppo: lavoro a cui Franca si è dedicata con disinteressata passione, riuscendo addirittura a impedire lo smantellamento della tomba di Angelica, e salvandone così anche l’unica immagine fotografica rimastaci, e restituitaci in questa sua importante e vitale ricerca.

 

«Leggendaria» n. 94, luglio 2012

RECENSIONI

COCTEAU

JEAN COCTEAU, IL CAMMINO DI UN POETA – ARCHINTO, MILANO 2015

Questo ultimo (e postumo) libro di Jean Cocteau vide la luce in Germania (paese che il poeta riteneva più ricettivo della Francia, «con il suo retaggio filosofico, metafisico e metapsichico») nel 1953, e solo oggi l’editrice Archinto ce lo propone con un’esaustiva prefazione di David Gullentops. Non propriamente un’autobiografia, né un libro di memorie: piuttosto, una serie di illuminanti considerazioni sull’esistenza, sull’arte, sulla creazione di chi ha fatto della poesia la sua missione. A partire da una rivendicazione esplicita al diritto di invenzione e ricostruzione fantastica della propria vicenda umana: «Il poeta cammina avvolto da una nebbia di inesattezza, di parole mal comunicate, di atti che non ha commesso, di leggende». Chi scrive è destinato a non essere compreso dai lettori («Anche se la gente lo legge, essa è attratta solo da quel che le sembra corrispondere a ciò che prova. Non lo legge. Si legge. Non lo guarda. Si guarda.»; «Quel che accade nell’anima di un poeta è lontano e incredibile»), è individualista ed eretico («Io sono un anacronismo. Un uomo libero»), si allontana da ogni norma, «si accanisce a disobbedire», sempre in cerca di «un vero che non è quello degli altri». Cocteau racconta la sua nascita nel 1889 nel Seine-et -Oise «da una famiglia semplice e amabile», segnata da «un misto di conformismo e anticonformismo», e subito modifica o censura alcuni eventi biografici fondamentali, come il suicidio del padre. Si sofferma sulle amicizie parigine degli anni ’20, sugli incontri arricchenti (con Stravinskij, Picasso, Radiguet, Satie, Proust, Rodin, Maritain, Apollinaire, Jacob, Modigliani, Cendrars, Poulenc), e su quelli più conflittuali con Gide o Mauriac. Da tutti loro assorbe «un’audacia interna invisibile», che lo fa «correre più veloce della bellezza» e gli insegna «quell’insulto alle abitudini senza il quale l’arte ristagna e resta un gioco». Da allora Jean Cocteau entra «in lotta contro se stesso e contro gli altri», ma solamente con l’intento di raggiungere un unico scopo, quello che ogni artista si deve prefiggere: arrivare a comprendere «l’estremo di sé», le proprie ossessioni, ma anche il proprio inesauribile e imperdonabile desiderio di felicità e di amore, immodificabile come ogni destino. L’arte con cui si confronta non è solo quella della scrittura: umilmente impara a tentare le vie sconosciute della pittura, della cinematografia, del teatro, e addirittura della fabbricazione artigianale di arazzi. Perché misurarsi con la creazione significa annullarsi a favore della propria opera, farsi sacerdoti di una possessione e di un’energia irrazionale simile all’inconscio desiderio erotico, collezionare «le più grandi ingiurie e i più grandi elogi», ben sapendo però che «la libertà trova sempre la sua ricompensa».

«succedeoggi», 7 aprile 2015

RECENSIONI

COHEN

ALBERT COHEN, IL LIBRO DI MIA MADRE – RIZZOLI, MILANO 2008

Quante madri nella letteratura di ogni Paese: madri scolpite in versi memorabili, o a cui sono dedicati libri interi (da noi, per citarne alcuni, Camon, De Luca, Sanvitale, Celati; in Austria l’indimenticabile Handke di  Infelicità senza desideri, quasi che gli autori – tutti gli autori – venissero presi a un certo punto della loro vita dall’invincibile necessità di raccontarsi dalle viscere, dal tremendo e ricattante groviglio di passioni che è la nascita, con la pretesa scandalosa di scandagliare il più assoluto dei rapporti. Raramente tuttavia ci è capitato di leggere in precedenza un tale esaltato o dolente omaggio alla propria madre quale quello scritto da Albert Cohen nel ’54, e ripubblicato in Italia da Rizzoli nel 2008 : Il libro di mia madre, titolo essenziale ed esclusivo per un amore essenziale ed esclusivo.
Albert Cohen è un classico della letteratura francese contemporanea, conosciuto e ammirato nel nostro paese solo dopo la tardiva ma fondamentale traduzione di Bella del Signore: un narratore lirico, composto e raffinato sulla pagina quanto dilaniato e pungente nello spirito. Scomparve nel 1981 dopo una lunga e affermata esistenza di scrittore e diplomatico. La presenza femminile che viene delineata dal libro è quella di una piccola donna ebrea, rotondetta e regale, «goffa e maestosa», capace di dedicare non solo la sua stessa esistenza, ma anche l’annullamento della propria personalità ai suoi due unici amori, il marito e il figlio. Il marito sposato per obbedienza e servito con timoroso, biblico rispetto («Il vero amore, vuoi che te lo dica? È l’abitudine, è invecchiare insieme»); il figlio, ineguagliabile capolavoro, in cui si annulla con totale e appagata dedizione.
A lui bambino fa trovare, prima di andarsene al lavoro, accanto alla tazza di caffellatte avvolta in panni di lana, «un disegnino rassicurante che sostituiva il suo bacio». Alla scapestrata leggerezza di lui adolescente sacrifica gioielli di famiglia, per consentirgli la grandiosità di uno spreco borioso. All’università lo segue da lontano, con trepide preghiere, intimidita e orgogliosa che frequenti la facoltà di legge ginevrina, ammirata da tutto ciò che è svizzero. E quando finalmente il figlio diventa adulto e sempre più importante, attende per un anno intero che lui la inviti presso di sé per due settimane, condiscendente e distratto, infastidito dagli impacci di lei, dalla sua inadeguatezza culturale, dai suoi patetici cappellini e dai vestiti rivoltati per l’occasione.
Con la crudele sfrontatezza del più forte, il figlio fa e disfa programmi di vita e di giornata per misurare sull’incondizionata approvazione della madre la sua fedeltà docile ed innamorata. Ingrato e indifferente come tutti i figli, gioisce di sollievo quando lei se ne va, immagonita ma convinta del naturale destino di solitudine che l’aspetta. Solo alla morte di lei diventa consapevole di ciò che ha avuto e di quello che ha perso: allora la malinconia si fa strazio, la memoria struggimento, il bene goduto senso di colpa. Infantilmente, ma con testardaggine, supplica il ritorno di questa madre ignorante, che chiedeva al figlio scrittore di suggerirle un modello per i biglietti di condoglianze («Ma non ci mettere delle parole profonde perché sennò si capisce che non è roba mia»); della madre golosa, convinta che lo zucchero non facesse ingrassare perché «mettilo nell’acqua, vedrai che scompare!»; della madre disordinata, che costretta a sistemare in un raccoglitore impostole dal figlio le carte domestiche, infilava le ricevute dell’affitto sotto la lettera F, perché «ragazzo mio bisognerà metterci pur qualcosa sotto questa benedetta F, e poi in affitto non ci sono forse due F?»

Il figlio cerca un riscatto al suo egoismo giovanile nelle parole, rende eterna nei gesti materni recuperati «Gli inutili e graziosi colpetti artistici col cucchiaio di legno sulle polpette», la sua «Gerusalemme vivente, arrivata da un’antica Canaan», che come tutti «È venuta, non ci ha capito niente, se ne è andata», ed ora è lì, «imbronciata nella sua terra malinconica», morta ma vittoriosa perché mai più trascurata, mai dimenticata.«Nessun figlio sa veramente che sua madre morirà e tutti i figli si arrabbiano e si spazientiscono con le loro madri, quei pazzi così presto puniti».

 

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www.sololibri.net/Il-libro-di-mia-madre-Albert-Cohen.html       10 dicembre 2015

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