SILVIO CIAPPI, ODIO. L’ALTRA FACCIA DEL DOLORE – GIUNTI, FIRENZE 2023
Silvio Ciappi (Siena 1965) è uno dei più noti e stimati criminologi e psicoanalisti italiani. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, che spaziano dai manuali giuridici al romanzo noir, dal saggio spirituale all’inchiesta sociologica fino alla cronaca giudiziaria.
Il suo ultimo volume, Odio (tra qualche mese uscirà sempre da Giunti un reportage sulla delinquenza giovanile metropolitana) indaga le matrici psicologiche dell’odio mediante l’esposizione, in chiave narrativa, di casi clinici e forensi attinti dall’esperienza umana e professionale vissuta per decenni a stretto contatto con chi delinque.
“L’etimologia della parola ‘odio’ si può ricondurre a una radice indoeuropea che significa ‘colpire, ferire, espellere, spingere, respingere’, in cui ricorre il senso del rifiuto, della repulsione e della ferita. Un’altra ipotesi plausibile, invece, sembra ricondurre la parola ‘odio’ al verbo ‘mangiare’, per cui l’odio sarebbe da intendersi come un rodimento intimo. Entrambe le interpretazioni etimologiche mettono in luce l’estrema negatività di questo sentimento, nel primo caso evidenziandone la forza distruttiva verso l’esterno mentre, nel secondo caso, quella autodistruttiva”.
Si odiano gli altri come si odia sé stessi, afferma Ciappi, che nel libro parla della crudeltà associata al piacere di fare del male, e di come la violenza sia il frutto di un condizionamento originario, oltreché di circostanze esistenziali che si sommano e si accumulano sulla ferita primigenia. I sentimenti più feroci (rabbia, rancore, sete di vendetta, disprezzo) sono per lo più “un disperato tentativo di non contattare il proprio dolore, sono il volto dimenticato del dolore” nato da diverse motivazioni (l’abbandono, il tradimento, la colpa, lo svilimento, l’umiliazione), che spetta allo psicologo sviscerare, con uno scavo quasi archeologico nel passato, e al criminologo analizzare scientificamente.
Consapevole che nessuna persona può considerarsi immune dal gesto violento, e che non tutti gli assassini sono malvagi di animo (così come non tutti i malvagi diventano assassini), Silvio Ciappi è altrettanto convinto che ciascuno si possa sempre salvare, uscendo da situazioni che appaiono senza scampo. Questo ha appreso dai suoi approfonditi studi di giurisprudenza, psicologia e letteratura, ma anche della propria vicenda personale, a partire dalle inquietudini e ribellioni adolescenziali fino al lavoro quotidiano nei penitenziari del nostro paese, e nelle consulenze internazionali sul narcotraffico, il terrorismo, la mafia. Compito dello psicanalista è quello di “mettere insieme compassione e morale, condanna e comprensione, autore e vittima” per cercare di capire cosa, nella vita di chi si rende colpevole di gravi reati, non ha funzionato, inducendolo a compiere gesti gravidi di conseguenze umane e legali.
Chiamato a supervisioni cliniche presso carceri minorili o comunità di recupero, Ciappi per prima cosa cerca di sintonizzarsi sul piano emozionale con le ferite dei minori, spesso aggressivi nei confronti di compagni ed educatori. Il disagio giovanile, che si può esprimere in molti modi (disturbi dell’alimentazione, ansia da prestazione, azioni pantoclastiche o antisociali) indica un profondo senso di smarrimento originato da storie di vita inenarrabili, da perdita degli affetti, da trascuratezza familiare, sociale e ambientale in contesti degradati e di marginalità, e acuito dal confronto con modelli disfunzionali, dal mito del successo facile e del guadagno repentino. Silvio Ciappi racconta con empatia e commozione – sempre indignandosi, sempre interrogandosi (“Cosa avrei fatto io al loro posto?”) – vicende terribili di giovani immigrate costrette a prostituirsi, ladri, violentatori, psicopatici sessuali, talvolta circuiti da carabinieri corrotti e preti truffatori: un caleidoscopio di esistenze a colori truci, che sputano collera e risentimento, terrore e voglia di vendetta, e solo raramente ansia di redenzione o desiderio di tenerezza.
Nel volume si sofferma a lungo sull’esperienza vissuta accanto al serial killer Donato Bilancia, che nel 1997 in pochi mesi aveva ucciso in maniera efferata diciassette persone. La vita dell’assassino viene minuziosamente ripercorsa dalle origini, durante lunghe conversazioni nella prigione di Padova, nel tentativo di spiegare le motivazioni dei suoi gesti omicidi. Cosa l’aveva portato ad agire in maniera tanto crudele, e a quello che lui stesso definiva “il salto nel vuoto” del crimine? Il puro godimento sadico e afinalistico di uccidere, per cui sceglieva a caso le sue vittime, vendicando così la sua infanzia lacerata da genitori dispotici e maneschi, o forse il dolore per un fratello suicidatosi con il nipotino sotto un treno? Secondo Melanie Klein il disamore patito nei primissimi mesi di vita nel rapporto con la madre o altre figure di accudimento, insegue e segna alcuni individui per tutta la vita, inducendoli a reazioni esasperate nei confronti di coloro da cui si sentono rifiutati. Le sensazioni pericolose, angoscianti e cattive vissute da bambini ritornano nella genesi dell’odio, ed esplodono innescate a volte da futili e imprevedibili motivi. “In psicoanalisi l’atto di uccidere può essere considerato l’atto finale di un livello di aggressività che l’uomo si porta dentro. L’essere umano difficilmente tollera l’idea di non essere stato sufficientemente amato, per cui la mente mette in azione due meccanismi per allontanare il dolore, la scissione e la proiezione, attraverso i quali, ci dice Freud, sputare fuori (Ausstoßung) nel mondo esterno il male, sentendolo come estraneo e nemico”.
Oggi il delitto di sangue ha perso le connotazioni leggendarie del passato, e sembra piuttosto evidenziare le debolezze, le vorticose incapacità di relazionarsi con gli altri di chi lo compie: “Si uccide per un bacio non dato, per un cane che abbaia, per vigliaccheria”, esibendo reazioni smodate e incontrollate a situazioni di quotidiana normalità. Freud scriveva che “discendiamo da una serie lunghissima di generazioni di assassini i quali avevano nel sangue, come forse ancora abbiamo noi stessi, il piacere di uccidere”.
Tra i sentimenti analizzati dall’autore come scatenanti odio, un ruolo di primo piano riveste l’invidia – nella coppia, parentale, comunitaria, sociale –, che ha come obiettivo di sminuire l’altro, cancellandone la malintesa superiorità con voracità distruttiva, al fine di riconquistare un primato messo in discussione dalla presenza dell’avversario (ad-versum, che sta di fronte). Altro impulso che spinge ad annullare le differenze è il conformismo, sfruttato politicamente da ogni potere antidemocratico quando invita all’obbedienza cieca in nome di imperativi categorici superiori, o quello espresso attraverso il branco, inteso come estensione dell’io, che raggiunge picchi di feroce frenesia.
Le fantasie ossessive e i comportamenti devianti analizzati da Ciappi nel suo lavoro di psicanalista riguardano persone di età, cultura e provenienza sociale differente: si tratta di feticisti, seduttori, traditori, pedofili, masochisti, necrofili, sadici, pornografi, autolesionisti, ricattatori, narcisisti, isterici, che presentano sintomi di assenza o eccesso di emotività, e chiedono di essere in primo luogo ascoltati e poi aiutati a superare i loro traumi, per venire accettati da se stessi e dalla società che li ospita, dove tutto (lavoro, casa, famiglia, emozioni) viene regolato e tenuto sotto controllo secondo parametri funzionali al mantenimento dello status quo.
Silvio Ciappi racconta con sincerità e modestia anche le proprie ferite, gli inciampi professionali, le difficoltà familiari, i problemi di salute, ma afferma di sentirsi comunque soddisfatto e realizzato quando nel suo delicato e difficile lavoro quotidiano riesce a “evitare il male con piccole dosi di bene praticabile”. Cosa che dovremmo fare tutti, mettendo in discussione noi stessi, le nostre fragilità, sapendo che la tentazione di odiare è presente in chiunque abbia sofferto. Tuttavia dalla sofferenza non nascono solamente sentimenti negativi, poiché attraversando il dolore possono manifestarsi occasioni e doti socialmente fruttuose e individualmente gratificanti: creatività, amore per la bellezza, voglia di riscatto, altruismo.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 30 novembre 2024
ITALO ALIGHIERO CHIUSANO, KONRADIN – SAN PAOLO, MILANO 2013
Questa biografia di Corradino di Svevia scritta da Italo Alighiero Chiusano ha l’ampio respiro di un’opera di invenzione e di poesia, pur nella sua fedeltà ai dati storici. Le pagine iniziali di Konradin (San Paolo Edizioni, 2013) si aprono su un ragazzo quattordicenne che vive, cresce, soffre nell’attesa di chissà quale nebuloso e sconvolgente avvenimento futuro: lontano dalla madre, che si è risposata e vive a Milano, Konrad è affidato alla sorveglianza dei due zii materni, Ludovico (violento e ottuso) ed Enrico (subdolo e vile), in un tetro castello della Baviera.
Corradino è l’ultimo erede della stirpe sveva: figlio di Corrado IV, nipote di quel Manfredi «biondo e bello» di cui scrisse Dante, viene educato nel mito della sua antica casata, con il miraggio che sappia meritatamente riportarla ai fasti trascorsi. Va quindi a caccia, compie esercizi ginnici, gioca a scacchi, studia le lingue classiche, presiede diete di principi: è un apprendista imperatore. Ha in effetti i capelli biondi e gli occhi azzurri degli avi, mani lunghe ed energiche «da futuro re», ma è anche un giovane appena sbocciato all’adolescenza, con i turbamenti propri di chi teme l’abbandono dell’infanzia.
Patisce la lontananza dalla madre, cui scrive lettere rancorose e appassionate, lasciando che l’amore spesso si tramuti in odio e sadico livore. Ama la pelle grinzosa della vecchia nutrice Marfrida, che sola gli ha dato le carezze e i baci negati alla sua infanzia dorata e solitaria. Si tormenta nel desiderio del corpo femminile, e nell’altro contrastante ma esaltato proposito di purezza e castità. Ha già molto sofferto, episodi oscuri e tragici come l’uxoricidio dello zio Ludovico, o un tentativo di avvelenamento messo in atto nei suoi confronti da Manfredi, hanno marchiato profondamente la sua psicologia, portata naturalmente alla malinconia e alla riflessione. Non si ribella neppure al sopruso di un matrimonio combinato con Sofia di Landsberg, sconosciuta bimbetta di otto anni, e con rassegnata amarezza così ne scrive alla madre: «…non so nemmeno se assomigli più a un corvo o a una angelo, se ha il nasino ossuto o carnoso, la voce che graffia o che accarezza…E sì, madre, che prendevo molto sul serio il matrimonio, e volevo fare del mio, quando che fosse – ma non certo così presto – una cosa bella, vorrei quasi dire un’opera d’arte. Vale, mater, vale. E tantissime grazie».
Sarà il nonno, Federico II redivivo, comparsogli davanti come deus ex machina e prezioso alter ego della coscienza, a scuoterlo dalla sua remissività, a provocarlo con le sue posizioni irridenti, con le sue violenze arroganti: il ragazzo Corradino protesta, sbraita, gli si oppone, ma alla fine agisce. Nei momenti cruciali delle scelte, Federico II appare al nipote, barbuto e poderoso, scrutandolo col suo unico occhio di un azzurro intenso: da tutti creduto sepolto, ma in realtà scampato alla morte con un sotterfugio, è tornato, vecchio ma indomito, per cercare nell’erede qualcosa di se stesso e richiamarlo all’impegno dovuto al suo nome.
I due svevi si fronteggiano in un continuo duello di idee e atteggiamenti: l’uno miscredente, carnale, feroce, l’altro pio, casto, tenero. Corradino è scisso tra ribellione e obbedienza: «Vorrei staccarmi con la mente da Federico che in parte amo affascinato, in parte (temo maggiore) aborro come una continua violenza a tutto ciò che sono».
Eppure l’avo Federico riconosce nel ragazzo troppo sensibile, troppo capace di leggergli nel pensiero, come tutti «i destinati a morte precoce», il continuatore della missione sveva di conquista: «Decidi, Konrad, se dello Stato vuoi essere il reggitore o solo un bell’ornamento. Se la prima cosa, impara ad amare la durezza». E Corradino decide. Convoca la Dieta di Augusta e scende in Italia, a quindici anni, capo di un esercito che sogna di contendere al papa e a Carlo d’Angiò le terre che erano state degli Svevi.
La storia è nota: colpito dall’anatema papale, Corradino si ferma a Verona, Pavia, Pisa, Siena, raccogliendo vittorie e sconfitte, trionfi e tradimenti, fino alla defezione di molti principi tedeschi che l’avevano accompagnato.
Chiusano si muove in queste vicende con eleganza e fedeltà alla verità storica, regalandoci di suo non pochi personaggi e situazioni compiutamente credibili e riusciti. Come la figura di Lale, sposa vera seppure illegittima di Corradino, che il nonno gli ha donato in uno slancio di affetto sincero e di calcolo opportunistico, e che poi fa avvelenare per paura che distolga il nipote dai suoi doveri di futuro sovrano. Chiusano, sempre più a suo agio nella descrizione di caratteri e momenti delicati, ha agio in questa storia d’amore di rivelare tutte le sue doti di fine indagatore dei turbamenti adolescenziali, di pudori ed esaltazioni che mantengono sempre qualcosa di sacro e incorruttibile, a spregio di qualsiasi volgarità.
Privo della sua Lale, Corradino affronta con adulto coraggio e dignitosa compostezza sia la tragica battaglia di Tagliacozzo, sia la imprevista sconfitta, quindi il processo farsa e la decapitazione, dopo aver rifiutato la demoniaca tentazione offertagli dal nonno di una salvezza solitaria, di un tradimento meschino. E in queste ultime pagine, il sacrificio senz’altro cristiano, quasi messianico di Corradino, viene riconosciuto nella sua nobiltà anche dal nonno, Imperatore Federico II di Svevia: «Sei molto, moltissimo diverso da me… però, sei uno Svevo anche tu… Vai in tutt’altra direzione, ma anche tu voli alto… di te anche i semplici serberanno ricordo».
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www.sololibri.net/Konradin-Italo-Alighiero-Chiusano.html 22 novembre 2015