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RECENSIONI

CREMONTE

WALTER CREMONTE, COSA RESTA – AGUAPLANO, PASSIGNANO 2018

Walter Cremonte (1947), vive a Perugia, dove ha insegnato in un liceo, occupandosi di letteratura e pubblicando diverse raccolte di versi. La sua poesia spazia da temi personali e sentimenti intimi, – raccontati sempre con estrema delicatezza -, a contenuti di maggiore pregnanza. Con il pudore e l’understatement che caratterizza la sua scrittura e la sua intera esistenza, ha scelto di consegnare i propri versi a brevi sillogi distanziate nel tempo. Cosa resta, edito nel 2018, raccoglie componimenti tratti appunto da plaquette uscite tra il 2001 e il 2016, più due testi inediti. Le prime composizioni riferiscono con amarezza fatti di prevaricante violenza sociale: l’emigrazione, le morti sul lavoro, il carcere. Episodi dolorosi che appaiono tuttavia solo sintomi di un disagio esistenziale più profondo ed esteso, in cui l’essere umano è avvertito come vittima di un’ingiustizia universale ingiustificabile e incomprensibile: la labilità e l’inconsistenza del vivere, la condanna a finire nel nulla. Ne è metafora il papavero raccolto nel campo e messo pietosamente in un vaso, pur sapendo che è destinato a sfiorire, curato “come qualcosa che dura”.

Resistenza, potrebbe essere il leitmotiv che caratterizza queste pagine: resistenza al male, all’infelicità, alla superficialità, alla morte. Cremonte lo afferma con convinzione già nella premessa, concordando con l’opinione diffusa che la poesia non serva a niente: “… forse la poesia non serve, ma è. Necessariamente. Forse non serve (non vale) nel grande supermercato del valore di scambio, dove tutto è merce (anche noi), ma serve (vale) per il valore d’uso che ha, o potrebbe avere… Prefigurando così un altro mondo possibile”.

Il dialogo con la poesia attraversa tutta la raccolta, sia nelle dediche esplicite a poeti amici (Scataglini, Ottaviani), sia nelle citazioni di versi di Dante, Leopardi, Penna, Caproni e nelle eleganti traduzioni di classici latini (Orazio, Lucrezio, Virgilio, Catullo, Marziale). Ma soprattutto sfruttando una sensibilità poetica che travalica la stessa effettiva produzione in versi, e si esprime nella contemplazione della bellezza, nei gesti d’amore trattenuti, in un sorriso “che non si lascia prendere”, in una parola che si smorza sulle labbra per pudore.

Nella mappa geografica puntualmente descritta dall’autore, i rifiuti abbandonati Lungo il Tevere non oscurano il verde incanto dell’erba curva sull’acqua, “i monti azzurrini” sullo sfondo del Trasimeno offrono e negano insieme un significato alla percezione dell’infinito, gli operai di un cimitero celebrano “il loro tempo beato” ridendo incuranti del lutto, un bar chiude sulle illusioni degli avventori, un’autostrada indifferente conduce comunque verso una meta. La luna rimane luminosa nonostante tutto: “Cara luna / perché splendi / così bella / sopra i cumuli / dell’immondizia // così alta, pulita: svelandoti del velo / del cielo / mostri una via d’uscita / forse, ma dove / andiamo, dove / mia cara luna”.

Pur nel contrasto continuo tra bellezza e squallore, gioia e dolore, vita e morte, è comunque lo sguardo stupito e grato di chi scrive a offrire una risposta alle domande eterne sul significato dell’esistere: “Perché il senso / è nel cercare il senso / non nell’averlo trovato”.

La voce sommessa, pudica, del poeta non ha bisogno di esibire i suoi affetti, tantomeno la passione: le basta dire una lunga fedeltà, come quella ai propri morti (il padre Lelio, l’amato figlio Nicola), che continuano a vivere in chi li ricorda: “Potrei dire fumo una sigaretta / o vado sul balcone a guardare / è una bella giornata / perché no // solo che loro non lo / possono fare / non è che ho molto altro da dire”.
Il lettore si sarà già reso conto da queste poche citazioni che Walter Cremonte, anche nel trattare emozioni ed argomenti alti o dolorosi, si serve di un linguaggio colloquiale e umile, di parole consuete e addirittura letterariamente abusate, deciso a evitare qualsiasi ampollosità o preziosismo, smorzando i toni, evitando la retorica. Se parla della compagna di una vita intera, Giovanna, utilizza addirittura una velata ironia: “Ce la facciamo amore / il cielo è così azzurro / così cara la vista al nostro cuore / dell’orto del vicino, del convento / con la campana che accompagna il dolce / vento, non più di tramontana. // Qualche volta (basta non far rumore) / gli accadimenti, gli eventi, il nemico / sonnecchiano un poco / e si respira, dài ce la facciamo”; “Questa è una poesia d’amore / e non puoi farci niente / la devi prendere // è come il tempo / quando il tempo è buono / o quando non è buono // è una poesia d’amore / la devi prendere”.

Il rifiuto dell’assoluto e di una trascendenza mistificatrice, affida a una filosofia della quotidianità l’accettazione tranquilla del reale, testimonianza di un’abitudine che rimane cara e unica per chiunque sappia apprezzarla nella sua nuda verità: “Cosa resta / da fare: / scrivere che la vita è male? // E portare avanti le gambe / una poi l’altra / come alla giostra / ecco che cosa / resta”.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Cosa-resta-Cremonte26 settembre 2022

 

 

 

RECENSIONI

CRISCUOLO

GIORDANO CRISCUOLO, UN FATTO STRANO – ERETICA, BUCCINO (SA) 2023

In una torrida e silenziosa giornata di un luglio “appiccicoso”, il ventisettenne Antonio Maria Volpe – un giovane come ce ne sono tanti, appassionato di musica, gran lavoratore, comunista -, pranza con i genitori alle ore 13,30, bevendo molto vino. Esce in cortile per cercare un po’ di fresco e alle 13,50 padre e madre lo trovano sdraiato sull’amaca, morto. Il medico condotto del paese, subito avvertito del decesso, non crede alla versione fornita dai genitori del ragazzo, ritenendo invece che la sua morte risalga a ben tre ore prima.

Questo la premessa di Un fatto strano, romanzo breve di Giordano Criscuolo, scrittore ed editore salernitano, alla sua settima prova narrativa. In seguito i personaggi in scena si moltiplicano, tutti presentati con nome cognome ruolo mansione: la nonna, quattro amici, la cassiera di un supermercato, una vicina di casa, un hacker anarchico, due carabinieri. E la vicenda si complica, tramutandosi da spiacevole e doloroso resoconto della morte precoce di un individuo giovane e sano, in un ingarbugliato e insospettabile caso di cronaca nera.

Con un tono ironicamente sornione, uno stile conciso e puntuale che può ricordare il Camilleri dei primi gialli di successo (ma senza l’eccedenza dei suoi dialettismi), l’autore analizza i fatti scandendoli nel loro precipitoso incalzarsi, e addirittura registrandoli nella successione di minuti e ore, sulla falsariga di un verbale di polizia. La parodia del giallo d’azione con contorni mafiosi diventa sarcasticamente surreale, nell’insensata ricostruzione degli avvenimenti.

Gli amici testimoniano di essersi intrattenuti al bar con Antonio dalle 11,15 alle 11,45 parlando di “stronzate”, la cassiera del supermercato racconta di averlo visto entrare in negozio alle 11,50, per uscirne subito dopo con aria malinconica e smarrita. Il rientro a casa del giovane, avvenuto precisamente alle 13,10, segnala un vuoto di 80 minuti su cui le indagini riescono a imbastire solo supposizioni. A questo punto entrano in gioco due misteriosi uomini in nero con occhiali scuri, una sorta di “Man in Black” strapaesani, che si introducono nella casa del morto, entrando di soppiatto nella sua stanza e rubando un diario. Alle 14,24 i due uomini in nero vengono ammazzati per strada da altri due uomini in t-shirt e calzoncini corti, che appropriatisi del diario, lo consegnano alle 14,40 al capo-cupola locale, il quale dopo averne ridicolizzato il contenuto, lo brucia.

Spetta al giovane e biondo hacker Francesco Barba Micillo, amico fraterno di Antonio, offrire la reale versione dello svolgersi degli accadimenti: “So tutto”, esordisce. Ed è un tutto, quello che narra, fatto di divagazioni, censure, turbamenti, tra i cui balbettamenti distorti si delinea una storia torbida di mafia, vendette di paese, scambi di persona, trasferimenti di denaro, omicidi reali e morti virtuali.

Francesco e Antonio a quindici anni avevano trascorso una vacanza in Puglia insieme ad altri amici, incontrando un gruppo di ragazze sarde con cui avevano stretto amicizia. Antonio si era innamorato di Caterina, figlia di un boss dell’isola, che dalla nave che la riportava a casa era stata gettata in mare da due sicari assoldati da un potente nemico del padre. Del delitto era stato accusato il fidanzatino Antonio, che in un susseguirsi di minacce e ricatti durati più di un decennio, avrebbe dovuto lui pure essere eliminato. Spetterà al lettore, senz’altro incuriosito dalla rocambolesca vicenda, scoprirne l’inaspettata e imprevedibile conclusione, con il sottinteso ammonimento etico.

Il romanzo di Giordano Criscuolo, in cui vero e falso si sovrappongono confondendosi e smentendosi vicendevolmente, si situa nella scia delle commedie del teatro greco e romano da Aristofane a Plauto e Terenzio, poi riprese da quello cinquecentesco di Machiavelli e Bibbiena, dalla commedia dell’arte seicentesca fino al settecento goldoniano, là dove improvvise agnizioni, rapimenti, sotterfugi, burle e menzogne sortiscono l’effetto di svelare la corruzione dei costumi, la violenza e i soprusi del potere, l’ingiustizia sociale. Così infatti il protagonista definisce la trama, nell’ epilogo conclusivo: “una farsa portata in scena da gente piccola e da altra gente un po’ più grossa. Quando il sipario cala, mentre seduti tra il pubblico sembra che qualcosa ci sfugga e vorremmo chiederne di più al vicino, la gente piccola rimane sul palco a pulire, quella più grossa va per locali a brindare. Quelli come noi sono piccoli pesci in un mare di squali e i piccoli pesci vengono sempre mangiati dagli squali e dai pescatori”.

Ma per sfuggire ai pescecani si può (si deve!), scombinare le carte, inventare stratagemmi, e soprattutto sbeffeggiare i colpevoli: “una risata vi seppellirà”, si diceva in tempi più coraggiosi dei nostri.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net    3 dicembre 2023

 

 

 

 

 

 

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CRISOSTOMIDIS GATTI

PAOLA CRISOSTOMIDIS GATTI, L’IMPERFEZIONE DELLA SOLITUDINE – ENSEMBLE, ROMA 2021

Con una prefazione di Giorgio Linguaglossa, Paola Crisostomidis Gatti ha pubblicato il suo secondo volume di poesia: L’imperfezione della solitudine.  La solitudine di cui scrive è tutta femminile, raccontata in versi semplici, talvolta inframmezzati da espressioni prosastiche, e risolti in scelte lessicali desuete o facilmente comunicative.

Attraverso la voce di cinque figure di donne appartenute alla storia, al mito, alla letteratura (Désirée Clary, Medea, Euridice, Saffo, Giovanna d’Arco), l’autrice racconta di sé, delle sue malinconie e degli abbandoni patiti, di rancori e rassegnazione, del desiderio non solo sentimentale della vicinanza di un uomo. Ogni sezione è introdotta da un’epigrafe di poetesse famose, segnate da uno stesso destino di sofferenza: Antonia Pozzi, Sylvia Plath, Elsa Morante, Emily Dickinson, Elisabeth Barrett Browning, a indicare come in ogni epoca moltissimi destini femminili troppo spesso siano stati segnati da egoismi e incomprensioni maschili. L’imperfezione citata nel titolo, intesa nel senso di mancanza e omissione, va letta come appartenente a entrambe le due metà del mondo, sebbene quella femminile troppo spesso abbia dovuto “soccombere alla volontà di potenza della   civiltà antropocentrica”, come scrive Linguaglossa.

Le cinque eroine che Paola Crisostomidis Gatti ha scelto come simbolo di una sottovalutazione storica della capacità oblativa tipicamente muliebre, sono indicate ciascuna da una facoltà che le rappresenta: unicità, gelosia, assenza, rassegnazione, universalità. Se all’eccentrica regina di Svezia Desirée Clary l’autrice fa pronunciare parole che hanno la durezza di una sentenza di morte (“La lontananza è l’ultima salvezza”, “Vorresti amore, ingoi dolore”), a una Medea assassina dei propri figli perché ossessionata dai tradimenti del marito non resta che ammettere la propria sconfitta come madre e moglie: “Il mio viaggio è cadere ancora”. In Euridice riportata in vita e di nuovo condannata da un Orfeo distratto, l’autrice riconosce qualcosa di sé stessa: “contando i più e i meno del vivere / hai azzerato la somma / con un intervallo di saluti”, “noi siamo ancora qui / con le tue corde e le mie assenze, / dentro un bar di incontri last minute”. Saffo implora attenzione concreta e vitale dall’amato/a: “Non voglio essere poesia / voglio essere carne, sesso, sudore”, “Respiro poesia per abbreviare distanze”, mentre la pulzella d’Orléans nella rinuncia a un ruolo bellicoso riscopre la dolcezza della natura benedicente: “Ho tolto la corazza e l’ho stesa al sole”.

Paola Crisostomidis Gatti è nata a Messina, ma ha vissuto in diverse città italiane. Attualmente si divide tra Roma e Firenze. Articolista freelance e blogger, cura rubriche di poesia sul blog «RMagazine.it». Nel 2017 è uscita la sua prima raccolta poetica: Istanti lunghi come coltelli (Giuliano Ladolfi­ Editore).

 

© Riproduzione riservata              3 novembre 2021

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RECENSIONI

CUCCHI

MAURIZIO CUCCHI, PARADOSSALMENTE E CON AFFANNO – EINAUDI, TORINO 2017

Un doppio ritratto, quello che Maurizio Cucchi tratteggia nelle pagine del volume appena uscito da Einaudi, Paradossalmente e con affanno: e come tale, segnato sia dalle sfumature indulgenti sia dalle severe incisioni di cui si nutre qualsiasi auto-rappresentazione pubblica. Il corpus più esteso del libro condensa quattro sezioni poetiche (e una prosa di turbata atmosfera kafkiana) scritte tra il 1963 e il 1969, e riproposte con lo sguardo affettuosamente complice di chi ricorda il ragazzo che è stato, e desidera recuperarne l’immagine «per incontrarlo ancora». Un Maurizio ventenne, intimidito e a disagio nel mondo, che si rifugia nelle biblioteche per immergersi nelle narrazioni e nei versi degli autori più ammirati, tentando di muovere i primi passi nella scrittura. Inclemente la severità con cui il giovane poeta si ritrae, nel suo «campo arido», «in un groviglio di ombre»: «Cuoci in pentola / giovine dabbene», «A passo felpato / sgattaiola dall’uscio», «E ora / ricomposto il quadro fioco che tu completi / abbottonati la giacca. // … Vedo bene / che hai saputo cancellare / l’ultima impronta di sicurezza / e privo di fascino / levando un poco lo sguardo / capisci», «(La giacca non consente a me un andare disinvolto. / La malinconia / il senso di frustrazione malmenano i miei malcerti / desideri di sorriso)».

Deluso da se stesso (dal proprio «volto assurdo assorto», dal suo «occhio furtivo», dalla sua riconosciuta «ironia fasulla»), il protagonista sembra oscillare tra l’attesa di una rivelatrice palingenesi, di un riscatto sociale o di una definitiva condanna e, al contrario, la volontà di una ribellione violenta, di una reazione esasperata che lo liberi dalla stagnazione in cui teme di affondare: «Finalmente potrò soddisfare il mio bisogno / e munirmi di fucile a due canne. / Partirò alla caccia per le vie della città / brulicanti già di vittime innocenti. // Anch’io potrò dunque perseguire / con la modestia e la prudenza / che sempre mi contraddistinguono / la più faticosa escalation / uccidendo qua e là ma senza prevaricare». Erano anni di guerriglia sociale, di rabbia repressa o esplicita contro le istituzioni più paludate (familiari, culturali e politiche), di provocazioni morali, di inquietudini sessuali. Anni in cui nascevano sperimentazioni artistiche e letterarie di rottura nei confronti della tradizione: ma il giovane Cucchi pare assediato più dal proprio privato che dalla Storia, più introflesso nei suoi nodi irrisolti che proiettato in un futuro di speranza: «Aspetto che un soffio gelido / si trasformi in spiffero / ed entri dalla porta chiusa / che mi vengano a pescare / con l’amo o con la mosca / o con la dinamite».

Giustamente nella quarta di copertina del volume einaudiano si sottolinea questo incrocio di sguardi tra mitezza e impeto, questo strabismo esistenziale e formale tra novità e conservazione, che viene ulteriormente evidenziato dalla seconda parte del libro, nella silloge prosimetra intitolata La sciostra. Qui il poeta, ormai famoso e legittimamente sicuro dei propri mezzi espressivi, è ancora scisso, non tanto caratterialmente, quanto ideologicamente, tra presente e passato, nostalgia e rinuncia, adesione e rifiuto. Richiamandosi a un suo vecchio personaggio di nome Giuseppe (per gli amici “El Pinìn”), alter-ego popolare «con un bisogno crescente di viva frugalità, di ritrovata manualità a contatto diretto con le cose… Forse un solitario», Cucchi confessa la sua necessità di concretezza, di gestualità elementare, e anche di bellezza naturale, in un «mondo quasi arcaico, e quasi senza tempo». Un mondo fatto di materiali contadini: «arnesi di lavoro, bustine di sementi, / il setaccio, qualche cassetta, barattoli incrostati…», e poi sterpaglie, orti, carriole, tetti di lamiera, sedie bianche di metallo scrostato. Cerca quindi nelle sue passeggiate milanesi un approdo innocente, in periferia, lungo il Naviglio, lontano «dai luoghi delle decisioni»; forse una cascina, o meglio: una sciostra, come viene definito in dialetto un magazzino in disuso, dove fermarsi «senza nessuna volontà di senso», a godere la pace campestre, l’odore dell’erba, l’acqua verde cupo del canale. Scoprendosi «minimale e individuo», rifiuta la massificazione economica che ci rende tutti «ottusi, scossi / dalla sacra idiozia della moneta», e in pochi versi piani, classicamente oraziani, rivela un’unica ambizione: «Una sciostra, forse, / fra canne e sterpaglie, antico / magazzino di legna, calce e tegole, / e mia residuale dimora felice».

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/Paradossalmente-affanno-Cucchi.html             31 luglio 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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CUCCHI

MAURIZIO CUCCHI, L’INDIFFERENZA DELL’ASSASSINO – GUANDA, MILANO 2012

Non appartiene alla categoria dei gialli, quest’ultimo romanzo di Maurizio Cucchi, che anzi sul genere poliziesco aveva lungamente polemizzato in una diatriba radiofonica con Carlo Lucarelli. Anche in queste pagine stigmatizza le mode editoriali che allettano lettori sempre più affamati di storie truci e omicidi irrisolti, così come irride a “quegli psicologisti ambulanti che girano per le tivù a pontificare sui fatti di sangue, a gratificare il pubblico di ovvietà, campandoci sopra come dei divetti, come cialtroni subintellettuali alla moda”. Altri sono gli interessi che hanno spinto Cucchi a ricostruire la vicenda criminale di Antonio Boggia, autore di quattro omicidi nella Milano ottocentesca, ultimo condannato a morte nell’aprile del 1862. In primo luogo una comprensibile curiosità nei riguardi della psiche malata dell’assassino, di cui ripercorre l’ambiente familiare e lavorativo, i loschi traffici e le ambigue frequentazioni: seguendolo nelle sue passeggiate senza meta, e le consolatorie sbronze nei “trani” dell’epoca; spostandosi poi da Porta Ticinese a Torino, dal lago di Como alla Brianza, documentandosi negli archivi e nelle librerie antiquarie, leggendo gli atti del processo, visitando i torbidi luoghi in cui si svolsero i fatti. E così facendo approfondisce l’interesse primario della sua narrazione: la rivisitazione della sua amata Milano in “una realtà preautomobilistica”, e l’affettuosa ricostruzione storica del prediletto secolo XIX, con la sua “sobrietà austera”, “l’inquietudine romantica” e una cultura in grado di mostrare “una conoscenza diretta e personale, in proprio, delle cose e del mondo”, meno turbata dalla sovraesposizione mediatica di quella attuale. La prosa di Cucchi è piana e discorsiva, lontana da ambizioni linguistiche innovative, e talvolta indulge a osservazioni moralistiche alquanto scontate e retoriche.

IBS, 27 agosto 2012

RECENSIONI

CUCCHI

MAURIZIO CUCCHI, LA TRAVERSATA DI MILANO – MONDADORI, MILANO 2011

Questa del poeta Maurizio Cucchi è davvero una lunga traversata, compiuta materialmente a piedi, e mentalmente e sentimentalmente attraverso una serie di visioni, ricordi, cognizioni che riemergono alla coscienza dell’autore e alla incuriosita consapevolezza del lettore. Di cui Cucchi sa stimolare sapientemente lo stupore e la partecipe simpatia. Milano,quindi, la più europea e vitale delle città italiane: esplorata nei suoi mille volti e luoghi, in storie ufficiali e memorie personali, in minuziose ricostruzioni storiche e ammirate celebrazioni artistiche. Cucchi se ne fa cantore e paladino, così confessando: “Soffro ogni volta che sento parlare male della mia città. Soffro perché me ne considero un modesto dettaglio, come la panchina di un parco, il bancone di un bar, o il sedile di un tram”. Milano descritta nelle sue basiliche, nei parchi, nelle poche piazze, nei molti musei, negli impianti sportivi: Milano che ha anche un lago e una montagna (l’Idroscalo e il Monte Stella), per quanto artificiali. Una metropoli dalle estese, malinconiche ma a modo loro affascinanti periferie: Bovisa, Barona, Niguarda, Affori. Luoghi – ovunque, luoghi-non luoghi, li definisce il poeta, in cui “deliziarci di squallore”, ma dove lui respira ancora “un’aria di tranvieri e di nonno, di paste della festa e di messe ascoltate sulla porta…”. Soprattutto una Milano della gente, gente umile e sconosciuta come la sartina Ninin o il ladruncolo Carletto; ma anche di tantissimi personaggi illustri, che l’hanno amata e celebrata con la loro arte: da Leonardo a Stendhal, da Parini a Carlo Porta a Manzoni, dagli Scapigliati a Alberto Savinio, da Strehler ai tanti poeti contemporanei. Il più citato, Vittorio Sereni, e accanto a lui Raboni, Giudici, De Angelis, Lamarque: stranamente viene dimenticata Alda Merini, così come sono ridimensionati nella loro pittoresca artificiosità i suoi Navigli. La Milano più amata e raccontata dal poeta Cucchi ha “una bellezza che non aggredisce”, e che è quasi un dovere di tutti saper riscoprire.

IBS, 30 marzo 2011

RECENSIONI

CURI

UMBERTO CURI, PARLARE CON DIO. UN’INDAGINE TRA FILOSOFIA E TEOLOGIA

BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2024

 

In un passaggio del Crizia (107 c-d) Platone afferma che poiché non sappiamo nulla di preciso degli argomenti celesti e divini, ci riteniamo soddisfatti che vengano esposti anche con una piccola parte di verosimiglianza, accontentandoci “di un chiaroscuro indistinto e ingannevole”. Più di due mila anni dopo, Heidegger considera teologia e filosofia due scienze opposte, in quanto la prima si basa su una rivelazione indiscussa e indiscutibile, mentre la seconda si costituisce come ricerca e disquisizione delle basi dell’essere. La teologia afferma una verità, la filosofia ne mette in discussione i presupposti. Ma davvero esiste un solo modo di parlare di Dio, aderendo alle indicazioni della teologia, o se ne può trattare in maniera più complessa? Se lo chiede Umberto Curi, Professore emerito di Storia della Filosofia all’Università di Padova, nel suo volume più recente, Parlare con Dio, edito da Bollati Boringhieri.

A partire dalla ricostruzione della consegna delle Tavole della Legge da Yhwh a Mosè sul Sinai (un dialogo, e non un monologo!), l’autore commenta l’interpretazione tradizionale delle parole e dei silenzi intercorsi tra Dio e le creature, tenendo conto delle inesattezze delle varie traduzioni, dei fraintendimenti involontari o tendenziosi, dalle tesi manipolatorie determinate dai diversi culti religiosi. Nell’impossibilità di accedere alla definitiva verità del testo, “le dieci parole assomigliano più a coloro che le ricevono, piuttosto che a colui che le avrebbe pronunciate; ricalcano dunque i limiti di chi dovrebbe metterle in pratica, più che l’onnipotenza di chi le avrebbe originariamente formulate”.

Anche del libro di Giobbe si possono dare diverse letture. Il protagonista, “persona perfetta e retta, fedele a Dio e nemico del male” ma tormentato da sofferenze crudeli e immeritate, viene quasi sempre esibito come eroe della fede, simbolo di paziente e umile accettazione, mentre si ridimensiona la ribellione espressa dal suo grido di protesta e di accusa, che chiama in causa il Supremo come dispensatore di ingiustizie e dolori. La replica di Yhwh, che riduce l’uomo alla sua irrilevanza di fronte alla grandiosità del creato e all’incomprensibilità dei disegni divini, sancisce l’assoluta e ingiudicabile superiorità di Dio, mettendo a tacere la vittima, che proprio nell’atto finale di obbedienza si vedrà ricompensata dei mali patiti. Giobbe non parla di Dio, ma parla a Dio, spalancando il rapporto con il totalmente altro dall’essere umano. Nell’innovativa esegesi di Kierkegaard non viene ridotto a simbolo di rassegnazione (“Il Signore ha dato e il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”), ma va rivalutato proprio per la sua coraggiosa contesa con il Creatore, che preannuncia il messaggio cristiano, opposto alla logica retributiva tra colpa e pena insita nell’ortodossia religiosa giudaica, e invece foriero di un possibile superamento del dolore grazie alla misericordia divina.

Il silenzio con cui Giobbe mette fine alla sua protesta, è altro dal silenzio fedele e adempiente di Abramo, più di lui eroe della fede in quanto nella sua totale obbedienza, nella sua disposizione all’ascolto (“eccomi!”, ripetuto tre volte a un richiamo difficile da accettare), esprime l’accettazione totale di quello che non riesce a comprendere: la fede inizia là dove finisce la ragione, “la fede altro non è che credere nell’assurdo, accettare il paradosso, convivere con l’angoscia, subire la persecuzione”. Fede come timore e tremore, secondo Kierkegaard; secondo San Paolo “prova di cose che non si vedono”. Con i due personaggi veterotestamentarie di Giobbe e di Abramo si entra in una nuova teologia, più prossima a quella evangelica, in cui l’uomo si pone di fronte a Dio, gli parla e gli ubbidisce, pur senza riuscire a comprenderlo. Prefiguratori del Cristo, Giobbe e Abramo si muovono già nella disposizione etica peculiare del Nuovo Testamento.

La parola chiave, davvero rivoluzionaria, del Vangelo, diventa “misericordia”, mai contemplata dalla legge giudaica. Umberto Curi ne introduce il concetto commentando il brano delle Beatitudini riportato in Mt. 5, 3-12 e in Lc 6, 20-26, conosciuto come il “discorso della montagna” (quante montagne, simbolo di ascesi spirituale, nella Bibbia: Sinai, Or, Ermon, Carmelo, Libano, Tabor, Garizim, Sion, Getsemani, Golgota…). Generalmente considerato come l’antitesi neotestamentaria al Decalogo, espressione dell’etica cristiana più elevata rispetto al formalismo legalitario della morale veterotestamentaria, esso indica un rovesciamento di grande portata eversiva della gerarchia dei valori dominanti nella storia umana: mitezza contro violenza, umiltà contro superbia, sobrietà contro ricchezza, misericordia contro intransigenza. Gesù definisce beati coloro che sono agli antipodi di ciò che abitualmente viene stimato essere importante. Soprattutto beati sono i misericordiosi, che vengono ricompensati non con un premio futuro ma con il riconoscimento attuale della misericordia a loro destinata dal Signore: “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia” (Mt 5,7).

Curi cita in particolare due episodi dei Vangeli in cui la misericordia esprime empatia, pietà e compassione per l’infelicità o gli errori dell’altro: la parabola del buon Samaritano (Lc 10,37) e la difesa dell’adultera (Gv 8, 1-11). Il buon Samaritano è un “fuori casta”, un uomo senza identità, un pagano che soccorre il viandante ferito trovato per strada, mentre prima di lui un sacerdote e un levita gli avevano negato qualsiasi assistenza. Il discorso che Gesù rivolge alla donna adultera (“neppure io ti condanno”) annulla l’ineludibile corrispondenza veterotestamentaria tra colpa e pena, opponendo al castigo la sovrabbondanza della misericordia divina.

Non sarà irrilevante notare come l’autore citi, a suffragare le sue tesi, testimonianze filosofiche e letterarie che spaziano dai presocratici ai classici greci e latini fino a Heidegger, da Sant’Agostino a Derrida, da Kierkegaard a Cacciari, ripercorrendo attraverso un’esegesi approfondita e sapiente tutte le Sacre Scritture, a partire da Genesi per arrivare all’Apocalisse.

La riflessione sul tempo, dalle accezioni più antiche (aión, chrónos, kairós per i greci) si modifica sostanzialmente con il cristianesimo: non più eternità, divenire, occasione, bensì compimento, irriducibile alle categorie del prima e del dopo. Tempo come ciò che già è, dispiegato e manifesto dinanzi a noi, presente che si fa storia. Per il cristiano, responsabilità del restare in attesa che si manifesti ciò che era nascosto: apocalissi significa appunto rivelazione, svelamento.

Negli ultimi due capitoli del volume, Umberto Curi si misura con le domande fondamentali dell’esistenza, indagando il perché del dolore, dell’ingiustizia, del male, attraverso la figura di Cristo, che ha rivoluzionato non solo il concetto di tempo, dandogli una prospettiva di riscatto, ma anche quella dei singoli destini mortali, aprendo loro la possibilità di spezzare, attraverso il perdono e la misericordia, la condizione fallimentare della colpa e della condanna. Le pagine dedicate alla Passione di Gesù nel Getsemani affrontano la sua sofferenza di creatura, la paura e il dubbio, la delusione dell’abbandono e del tradimento, l’estrema solitudine: aspetti angosciosi di un umanissimo tormento che la parola non riesce completamente a rendere, nella sua univocità e asciuttezza. Più duttili ed espressive risultano le arti: pittura, musica, cinema.

Utilizzando le proprie competenze di studioso non solo di filosofia, ma anche di estetica, Curi compie un interessante excursus sulle varie modalità con cui le arti hanno affrontato il mistero della Croce e della morte del Deus patibilis che soffre, ma nella sofferenza assume su di sé il peccato del mondo e lo espia, salvandolo ed elevandolo nell’infinito celeste. Vengono citati quindi “Il compianto sul Cristo morto” di Giotto, che – al pari degli altri capolavori di Botticelli, Perugino, Signorelli, Mantegna sullo stesso tema – non trova alcuna rispondenza nella narrazione evangelica. Tra i film, l’autore commenta criticamente quelli di Mel Gibson e di Pasolini, entrambi poco fedeli all’austera e composta descrizione degli evangelisti. Solo nella Passione secondo Matteo di Bach, Curi riesce a trovare un intenso afflato religioso che rimanda alla trascendenza dell’evento più irrappresentabile del Nuovo Testamento.

A conclusione dell’indagine filosofica e teologica proposta dal volume, Curi ritorna sul quesito iniziale: “È possibile rappresentare Dio senza rappresentarlo? È possibile far luogo all’eccedenza senza sanare l’eccedenza riportandola a normalità? Si può dire ciò che per definizione è l’indicibile?”

La domanda su quale sia il rapporto fra fede e ragione, tra credenti e non credenti, e se sia possibile un dialogo paritario tra posizioni tanto differenti, trova forse una risposta nell’esigenza di cercare la verità in maniera aperta e problematica, senza illudersi di possederla per sempre. Rimane il silenzio, come possibilità o scelta estrema per avvicinarsi a Dio, disposizione all’ascolto in attesa che Lui parli: “Nella triangolazione fra il silenzio come ascolto, il tempo come cancellazione del divenire e l’ascesi come esercizio, si condensa il monito a ricercare la verità nel ritorno alla propria interiorità”.

 

© Riproduzione riservata                     «Gli Stati Generali», 2 luglio 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

CUTOLO-GARUFI

CAROLINA CUTOLO-SERGIO GARUFI, LUI SA PERCHÉ – ISBN, 2014

Essere riconoscenti verso chi ci ha aiutato, incoraggiato, favorito in qualche maniera, è cosa buona e giusta. Tuttavia nei ringraziamenti eccessivi e ridondanti si finisce spesso per risultare inopportuni, retorici, talvolta addirittura ipocriti. Due scrittori, Carolina Cutolo e Sergio Garufi, hanno pubblicato qualche anno fa una divertente antologia che presenta una galleria di omaggi resi dagli autori italiani degli ultimi vent’anni agli editori, ai consulenti, agli amici, ai parenti ‒  talvolta anche ai detrattori ‒ in conclusione dei loro libri.

Il volume Lui sa perché è suddiviso in vari capitoli che raggruppano i diversi tipi di scrittori a seconda della metodologia usata nell’esprimere la loro gratitudine: ci sono tra loro nomi noti, dimenticati, semi-sconosciuti e famosissimi (Gazzola, Bajani, Gamberale, Valerio, Baricco, Genovesi, Lucarelli, Gruber, Faletti, Moccia, Giordano, Piperno, Agnello Hornby, Di Stefano, Malvaldi, Veladiano, Siti, Volo, Veronesi…), premi Strega e premi Campiello, che vengono catalogati sotto le categorie di vendicativi, esibizionisti, egocentrici, adulatori, encomiastici, nostalgici, aulici, allusivi, eccetera. Alcuni di loro sentono la necessità di spiegare ai lettori nelle note finali il processo creativo seguito nella composizione dell’opera, dilungandosi sull’architettura della stessa e sulle difficoltà incontrate (Massimo Gramellini, Licia Troisi, Giuseppina Torregrossa…), altri vantano amicizie e protezioni very important (Fausto Brizzi: «A Giorgio Faletti, l’uomo più talentuoso che conosco»; Giuseppe Cattozzella. «Grazie a Roberto Saviano, per avermi detto, in un momento per me delicato: ‘mi raccomando, scrivi’»; Roberto Saviano: «Ringrazio Daria Bignardi, che mi chiede di scrivere, scrivere» …), altri ancora esprimono riconoscenza ai mostri sacri di ogni epoca ed arte, eccelsi ispiratori del loro lavoro.

In molti si dicono grati ai genitori, ai partner, ai figli, ai datori di lavoro e agli animali domestici che li hanno accompagnati, sopportati, supportati, consolati nelle lunghe e faticose ore di applicazione alla scrivania. Oppure ricordano con rimpianto e nostalgia maestri, professori, padri spirituali, e persino chi li ha rifocillati e viziati con impagabili preziosità culinarie. Ci sono poi i minacciosi e i vendicativi (Alessandro D’Avenia: «Ringrazio anche chi ha criticato il mio primo libro»; Melissa P.: «E poi ringrazio tutti coloro che mi odiano, perché è grazie a loro che io mi amo di più»; Francesco Marocco: «A chi mi ha detto di smetterla di scrivere e di trovarmi un lavoro vero»). Si aggiungono gli ispirati e i poetici, gli incazzati, i cauti e riservati, gli indecisi, i dubbiosi, i rancorosi, i grati a tutti e specialmente ai lettori. Infine, i misteriosi: quelli che ringraziano ma senza specificare il motivo, che deve rimanere segretissimo: ‘Ringrazio Tizio, lui sa perché’, ‘Chiedo venia a Caia, lei sa perché’, ‘Sono grato a Tizio e Caia, loro sanno la ragione per cui’. E noi lettori rimaniamo con questa inesaudibile curiosità di conoscere a quanto ammonti il debito contratto dall’autore in questione.

Il curatore dell’antologia, Sergio Garufi, si dice convinto che «la lunghezza delle liste di ringraziamento è sempre inversamente proporzionale al valore dell’opera», mentre Stefano Bartezzaghi, nella sua spiritosa e intelligente prefazione, afferma che il ringraziamento finale serve all’autore in primo luogo per aggiungere ancora qualcosa su di sé, in una sorta di falsamente modesta autopromozione: «Il ringraziamento diventa così la passerella, stretta, precaria e un po’ patetica, fra chi parla nel libro e chi parlerà del libro, e fuori dal libro: l’autore restituito al suo corpo, ai suoi abiti e alla sua pettinatura¸ la persona in carne e ossa  che, pubblicato il libro, dovrà inseguire e conseguire la propria ‘visibilità’. Non quella del libro, quella della persona che l’ha scritto». In effetti, leggendo tutte queste esagerate manifestazioni di riconoscenza, impariamo qualcosa in più sullo scrittore che ringrazia, e quasi niente sul ringraziato.

 

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ittps://www.sololibri.net/Lui-sa-perche-Cutolo-Garufi.html              19 ottobre 2018

RECENSIONI

CVETAEVA

MARINA CVETAEVA, A RAINER MARIA RILKE NELLE SUE MANI – PASSIGLI, FIRENZE 2012

Chi ama la poesia non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo libro, che raccoglie testimonianze del rapporto che ha unito due tra i maggiori scrittori della prima metà del 900: Marina Cvetaeva e Rainer Maria Rilke. Che non si sono mai conosciuti personalmente, ma che – come succede alle grandi anime- hanno saputo incontrarsi e arricchirsi spiritualmente sia nel rapporto epistolare sia nella lettura reciproca e ammirata della loro produzione poetica. Boris Pasternak, amico di entrambi, favorì la loro conoscenza, invitando Rilke a spedire alla Cvataeva i suoi libri nel maggio del 26: i due si scambiarono in pochi mesi quindici lettere in tedesco («vertigini liriche, dove c’è spazio per l’intesa totale», scrive la curatrice del volume Marilena Rea), fino alla morte di lui, avvenuta per leucemia in un sanatorio svizzero il 29 dicembre dello stesso anno. Il baratro che questo lutto provocò nei cuori e nei pensieri della poetessa russa, il suo sentirsi improvvisamente orfana e vedova di un’amicizia straordinaria ed esaltante, trovò una sua consolante espressione in una «potente ondata creativa», concretizzatasi nella realizzazione di due poemi (Lettera per l’anno nuovo e Poema dell’aria) e nella prosa di La tua morte, tutti composti nei primi mesi del 1927.
Come trovare riparo al dolore, come recuperare memoria e speranza, se non nella composta bellezza dei versi? «Bisognerà pure avere altro: altalena, ramo, / cavallo, fune – salto // più in alto!» , e ancora: «All’estremo scadere del tempo / ci sarò io- occhio di chiarore», scriveva Marina in una profetica e preveggente illuminazione poetica, appena iniziata la corrispondenza con Rilke. E poi, dopo averlo perso: «Se lo sguardo tuo s’è fatto notte / allora la vita non è vita, la morte non è morte», «Buon luogo nuovo, Rainer, azzurro, Rainer!», «Gloria a te che la breccia / hai aperto: più non peso».
Marina Cvetaeva si uccise nel 1941.

 

«Leggere Donna» n.157, dicembre 2012

RECENSIONI

CVETAEVA

MARINA CVETAEVA, SETTE POEMI – EINAUDI, TORINO 2019

Introdotti da un accurato e appassionato saggio della curatrice Paola Ferretti, sono da poco usciti per Einaudi Sette Poemi di Marina Cvetaeva, che la poetessa compose durante i primi anni del suo esilio dalla Russia. La scelta di oltrepassare la misura ristretta della lirica breve, fu determinata dall’esigenza di arricchire la materia del suo canto attraverso l’esplorazione temporale del passato (con apporti di temi folkloristici e fiabeschi), del presente (traendo spunto dalla cronaca caotica, febbrile e violenta di quegli anni), e di un futuro proiettato in una visione più utopica e spirituale. Il filo collante che aggrega i vari motivi presenti nelle sette composizioni è comunque quello della ossessione amorosa, talvolta più pensata che vissuta, più desiderata che osata, come nel rapporto intenso con Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke, o con altri giovani letterati, entusiasticamente idealizzati. Sullo sfondo di questo sentimento dominante risalta la presenza fisica degli ambienti, quelli naturali (la montagna, il mare, l’aria, il cosmo) e quelli urbani e domestici (le scale, le stanze).

«Con dirupi e tornanti si avventava / di sotto ai piedi, la Montagna. // Con fiere grinfie di titano / ‒ con le conifere, gli arbusti ‒ / l’orlo arpionava, la Montagna», «Coralli di granchi, leggi: gusci. / Gioca il mare, chi gioca – è grullo. // … Giochiamo, allora / a conchiglie», «Dalle imposte verrà l’indizio? / Stanza allestita a precipizio, / sul fondo grigio – bianco sporco, / stanza minuta, stanza brogliaccio», «Scaffale? Caso. Stampella? Caso. / Caso pure quello spauracchio / di poltrona. Sterpume e seccume ‒ / bosco d’ottobre bello e buono!».

Come si evince dai versi riportati, il tono di questi poemi è concitato, esaltato, oracolare e insieme frantumato in un respiro ansioso, sottolineato dai continui punti interrogativi ed esclamativi, quasi la poetessa cercasse in sé e in chi legge o ascolta conferme e risposte a domande lanciate nel vuoto, con la speranza di una realizzazione del desiderio o con l’angoscia di una sofferenza inutilmente repressa. Esponente di spicco del simbolismo russo, in un primo momento vicina all’energica oratoria di Majakovskij, poi rivolta a una riflessione più controllata ma sempre audacemente innovativa, Marina Cvetaeva utilizzò nei Poemi un linguaggio di grande forza espressiva, basato sull’uso della metafora, della ripetizione e della negazione, con un’originale e accorta attenzione agli effetti fonici e all’ordito sonoro dei versi, all’impiego di rime provocatoriamente facili e di costruzioni sintattiche disorientanti.

Nata a Mosca nel 1892, figlia di un filologo e di una musicista, crebbe in un ambiente colto e raffinato, iniziando prestissimo a scrivere versi. Nel 1911 sposò uno studente di filosofia, Sergej Efron, che arruolatosi allo scoppio della rivoluzione nella Guardia Bianca, fu in seguito coinvolto in atti di terrorismo, per venire infine imprigionato e fucilato come traditore nel 1941. Con il marito e i figli era emigrata dapprima a Praga, quindi a Berlino e a Parigi, per poi tornare in Unione Sovietica nel 1939. Qui visse per altri due anni tormentata da problemi economici, dalla censura stalinista e dall’ostilità degli intellettuali di regime: difficoltà dolorose che la indussero a togliersi la vita, impiccandosi il 31 agosto 1941 all’ingresso dell’izba che aveva affittato nel villaggio di Elabuga. Nel suo Poema della fine si avvertiva già il presentimento della morte ineluttabile e liberatoria: «Casa, ovvero; da casa via, / dentro la notte. / (A chi dirò / la mia mestizia, la sventura, / l’orrore, più che gelo verde? … )  // … Non si deve, dunque. / Non si deve, allora. / Piangere non si deve. // … Con cocente sangue / si paga – non si piange. // … Il corpo c’era, vivere voleva. / Non vuole vivere, ora. // … E via, dentro i flutti cavi / di tenebra – cadenzato, ricurvo ‒ / senza far motto, senza scia – / come affonda un vascello».

Così scrive Paola Ferretti nell’importante introduzione a questo volume di Marina Cvetaeva, «I Poemi degli anni Venti traboccano di reciproche risonanze, vibrano degli stessi, elettrici impulsi, dominati come sono dalla volontà di oltrepassare le barriere della finzione per generare accadimenti e incontri palpabili, porre riparo a eventi già occorsi, istituire orizzonti inediti».

 

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/Sette-poemi-Cvetaeva.html       3 maggio 2019