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RECENSIONI

DE BENEDETTI

CARLO DE BENEDETTI, RADICALITÀ – SOLFERINO, MILANO 2023

L’Ingegner Carlo De Benedetti ha ricoperto ruoli di grande rilievo nel settore industriale, finanziario, culturale del nostro Paese. Nato a Torino nel 1934, a quarant’anni ha costituito il gruppo C.I.R, è stato amministratore delegato della Fiat e dell’Olivetti, Presidente del Gruppo Editoriale L’Espresso e nel 2020 ha fondato il quotidiano Domani. Già autore in passato di due saggi politici per Mondadori ed Einaudi, ha da poco pubblicato con Solferino un agile e interessante volume, “Radicalità. Il cambiamento che serve all’Italia”, sostenendo la necessità di una decisa trasformazione dell’assetto politico e sociale della nostra nazione.

La prima parte del libro offre un’analisi spietata delle condizioni in cui versa l’Italia, stretta tra la crisi energetica e quella climatica, economicamente sull’orlo della recessione, guidata da una classe politica inadeguata, con vasti strati della popolazione in povertà. La stagnazione, aggravata dalla corruzione dilagante e dalle infiltrazioni mafiose negli apparati dello stato, esige quindi che si operi un cambiamento radicale, ben al di là dei timidi aggiustamenti tattici dell’esistente che vengono proposti dalla prudenza di tutti i partiti. Il giudizio dell’autore sia sul ventennio berlusconiano, sia sui pasticciati governi che l’hanno seguito è severissimo. Implacabile la sua valutazione della condotta del PD: “una compagine dominata da baroni stanchi, generali rimasti senza esercito dopo aver conquistato la borghesia e perduto il popolo… Un partito irriformabile, dilaniato e avvitato nei propri psicodrammi interni anziché proiettato nella soluzione di problemi reali: l’equivalente di una seduta psicoanalitica sul ponte della nave che affonda, senza neanche l’orchestrina”. Ritiene pertanto indispensabile sia la formazione di una classe dirigente che abbia la competenza necessaria a guidare il paese in una contingenza difficile come l’attuale, sia l’irrobustimento di un’opposizione che sappia contrastare il declino democratico cui siamo avviati.

La debacle del socialismo europeo, fatta eccezione per la Spagna, è una realtà incontestabile, sotto gli occhi di tutti. Si impone quindi la nascita di un nuovo socialismo, solidamente ambientalista e orientato in primo luogo a difendere la dignità del lavoro. Salvezza del pianeta e occupazione sono i temi su cui si gioca la partita del futuro. Per ciò che riguarda la nostra nazione, le condizioni da rispettare perché il paese ritrovi le coordinate su cui muoversi sono una nuova legge elettorale per recuperare il concetto di rappresentanza e il ripristino del finanziamento pubblico, onde evitare l’instaurarsi di una pericolosa plutocrazia che garantisca la gestione del potere solo a chi ha i mezzi finanziari per farlo.

Le proposte caldeggiate da De Benedetti per la salvaguardia dell’ambiente sono dettate dal buon senso: fermare il consumo del suolo e l’edificazione selvaggia attraverso la rigenerazione e la riutilizzazione delle costruzioni esistenti, incentivare le energie pulite e l’economia circolare, riqualificare abitazioni e mezzi di trasporto con il risparmio energetico, prendendo esempio dalle leggi e dai controlli più rigidi applicati in Svizzera e nell’Europa del nord.

Dove recuperare le risorse per attuare le riforme? Indirizzando il Pnrr verso progetti mirati di interesse comune, senza vagheggiare inutili e pionieristiche “grandi opere”. A tal fine bisogna ripensare il sistema di tassazione con l’introduzione di una patrimoniale che colpisca i grossi capitali, alzare la tassa di successione e combattere l’evasione fiscale anche attraverso un drastico abbassamento della soglia dei pagamenti in contante, accrescere gli introiti nelle casse comunali commisurando al reddito le multe e le sanzioni stradali. È indispensabile ridistribuire ricchezze e risorse per salvaguardare il potere d’acquisto delle classi più povere, introdurre il salario minimo e adeguare gli stipendi esistenti al costo effettivo della vita, garantendo parità di retribuzione tra donne e uomini.

La politica deve soprattutto accelerare il rinnovamento nel modo di pensare il lavoro e le strutture produttive del nostro paese. Tante sono le proposte suggerite a tale fine: incentivare le persone a specializzarsi e a formarsi, anche introducendo una forma di servizio civile per i giovani; aumentare la competitività nei mercati, sostenere il welfare per appoggiare l’impiego femminile liberandolo dalle cure domestiche, dinamizzare il marketing, promuovere la digitalizzazione e l’innovazione informatica, valorizzare la ricerca universitaria, gestire correttamente lo smart working, motivare la creatività, riscoprire un ruolo più combattivo dei sindacati (l’autore rivolge un commosso ricordo a Luciano Lama e Bruno Trentin),

Il capitalismo non è all’altezza del nuovo mondo che si sta configurando: la svalutazione del dollaro rispetto all’euro, la ridotta competitività nelle esportazioni, l’aumento del costo del debito, l’inflazione, l’aumento dei tassi d’interesse sono fattori che produrranno meno consumi, meno produzione, meno occupazione, e quindi un’inevitabile recessione. In Italia questo stato di cose finirà per aggravare la frattura esistente tra nord e sud, che la proposta dell’autonomia differenziata presentata dall’attuale governo renderà inevitabile. A un quadro economico e finanziario molto critico, si aggiungono le minacce del cambiamento climatico, con la siccità che mette in pericolo la produzione agricola, la guerra in Ucraina e il pericolo di nuove epidemie, al punto che il mondo sembra vacillare sull’orlo di un burrone.

Sulla base di un’attenta analisi dell’attuale situazione geopolitica, De Benedetti azzarda una tragica profezia: l’ineludibile conflitto militare che opporrà Cina e Stati Uniti, probabilmente innescato dalla crisi di Taiwan e poi combattuto per il dominio del Pacifico. “Le mosse americane in Estremo Oriente sono del tutto analoghe a quelle già fatte in Ucraina: addestramento per le truppe locali, mappatura del territorio per capire dove e come offrire sostegno, fornitura di materiali per anticipare le necessità. Si chiama setting the theatre, preparare il terreno”.

C’è spazio ancora per qualche ottimismo? De Benedetti ritiene di sì. L’Italia, che gode di una straordinaria concentrazione di bellezza, cultura e intelligenza, può dare un contributo reale al mondo e alla democrazia, giocando al proprio interno una partita di civiltà per ricostruire uno spazio sociale equo e coeso, rieducando i propri cittadini alla partecipazione politica, valorizzando le virtù e i talenti che possiede e diventando così la testa di ponte del Rinascimento europeo.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 9 marzo 2023

 

RECENSIONI

DE GIOVANNI

LUCIANO DE GIOVANNI, TENTATIVO DI CANTARE UNA NUVOLA

ALL’INSEGNA DEL PESCE D’ORO, MILANO 1993

 

Capita a tutti noi di provare un po’ di commozione ascoltando una musica particolare, o rileggendo una poesia imparata al liceo. A me succede di emozionarmi ogni volta che ridico tra me e me questi semplicissimi sette versi: «Un’ape morta / nell’acqua della grondaia. / Ehi, sorellina! // Sole di gennaio / e cielo azzurro / per l’ape morta / nell’acqua della grondaia». Forse mi intenerisce l’immagine di questo poeta-idraulico-spazzacamino, che ripara le tegole del tetto di una casa sulla riviera ligure, e svuotando la grondaia colma d’acqua trova un’ape annegata. “Ehi, sorellina!”. Quasi stupito, appena addolorato, la sgrida come a dirle “Cosa stai facendo? Svegliati! È inverno, fa freddo, ma c’è il sole e il cielo è limpido. Perché sei morta, allora?”

Un minimo e preziosissimo Cantico delle creature, di francescana umiltà e letizia: come tutte le poesie che ci ha lasciato Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari nel 2001. De Giovanni per tutta la vita ha svolto lavori umili, portalettere dapprima, poi idraulico; abitava con la moglie e due figli in un piccolo appartamento sulle colline della Pigna, nella Sanremo vecchia, vicino al Santuario dell’Assunta. Amando in modo ingenuo e appassionato la poesia, appena poteva si ritagliava uno scampolo di tempo per studiare Lao Tzu, Bashô, Emily Dickinson, Rilke, Eliot, i Vangeli, i grandi del nostro ‘900. Tra di loro, anche Carlo Betocchi (altro maestro dimenticato…), che fu il primo ad accorgersi di lui, presentando alcuni suoi versi sulla rivista Letteratura nel 1956. Così lo descriveva ai lettori: “un poeta che io stimo religioso, che ha diritto alla grazia del suo patire…”, mettendone in luce sensibilità, misura, precisione, in qualche modo derivategli dal suo mestiere di “azzurro stagnino”, riflessivo e solitario nel lavoro, attento alle cose e ai gesti, a contatto sempre con l’acqua: in piedi sui tetti, vicino al cielo, dimentico di se stesso.

«Gli uccelli / possono volare / perché sono / innocenti / non è questione / d’ali», «Due bambini / con due cagnolini / a giocare nel cortile / della grande casa. / A me ch’ero sul tetto / a riparare una gronda / sembravano quattro sassi / caduti in fondo al pozzo», «Non sanno le cicale / perché all’improvviso smettono il loro canto // perché all’improvviso / lo ricominciano», «Ho aiutato una foglia a cadere, / l’ho sfiorata con una carezza / e s’è fatta coraggio, è andata. // Fingeva, poverina, / d’essersi dimenticata / che si deve anche morire».

A Luciano De Giovanni (molto riservato nei rapporti con gli altri, quasi intimidito e forse timoroso di dover rivelare sia le sue ristrettezze economiche sia gli scarsi studi che aveva portato a termine) piaceva camminare nei boschi, lungo le stradine di campagna, fiancheggiando i torrenti, in silenzio, mostrando una coscienza anticipatamente ecologica. Un suo critico e mentore fedele, Stefano Verdino, così scriveva di lui: “Stupisce la frontalità della sua poesia, vale a dire il suo essere costantemente canto e voce della natura, nelle sue misure più lineari ed elementari”. Il mare, il bosco, la montagna, le foglie sono elementi presenti soprattutto nelle prime esili raccolte, e già preludono a un rapporto intenso con la spiritualità e il divino, non chiesastico ‒ ovviamente ‒, ma vivo nell’attesa stupita di una epifania prodigiosa: «Il miracolo consueto della foglia / al quale non prestiamo attenzione / e non ci meraviglia / in cerca come siamo / del miracolo», «Il sentiero che rasenta i castagni / e trattiene gli odori / degli arbusti che attraversa / tu non sai dove va dove porta / potresti non imboccarlo mai più / potresti non averlo trovato / eppure proprio te ha cercato», «Lamentandosi / il mare / cerca rifugio / tra gli scogli // non c’è pace / per chi è / immenso», «Mammelle gonfie di pioggia / è diventato il cielo, / desolate onde / rovinano sulla scogliera, / delle verdi colline / avviluppate di nebbia / niente si sa: // ‒ Soffri, / terra madre?».

Anche l’atmosfera domestica (la casa, la moglie, i bambini) rientrava a pieno diritto nell’universo poetico di De Giovanni, raccontata con un lessico scarno e volutamente impoverito, privo di ricercatezze e neologismi, quasi che l’arredamento linguistico e mentale dovesse per onestà riflettere quello modesto dell’abitazione, teneramente intiepidito degli affetti familiari: «Venitela a vedere la mia bambina / in questo mattino di miracoli / saltellare tra le zolle dell’orto: / i raggi del sole la seguono. // Si china e muta ogni cosa / in preziosissime gemme / fa un lieve cenno alla terra / e subito nasce una rosa», «Il mio, lì nella culla, / dorme gonfio di latte, / il destino e gli eventi / ancora non l’hanno destato. // Un giorno si metterà la cravatta / frettoloso, / dirà ‒ al diavolo tutti ‒ sbattendo la porta», «Presto non sarà più anonimo / questo pezzo di terra, / ci farò una casa / e un pergolato di vigna. // … In un momento di dolcezza / diventerà del tutto diverso / e la sedia a sdraio / vicino alla finestra / si gonfierà di vento», «Ho fatto un sogno strano: / ero un albero in un prato / e tu un nido sopra il mio ramo».

Questa sua propensione alla solitudine e alla meditazione lo avvicinava a una versificazione leggera, a descrizioni delicatamente tratteggiate, che sembrano ereditare la levità elegante della poesia orientale, il desiderio di fondersi con l’innocenza del tutto: «Dolci sono le more / i rovi sono spinosi // per bere alla sorgente / si deve prima raggiungerla / ma anche la sorgente / ha faticato / e anche il rovo», «Penso / che il paradiso / sia ciascuno di noi / quando dimentica / il suo nome», «Ero andato / al torrente / per leggere / Ciuangzè // ma non ci fu / niente da leggere / il torrente era / Ciangzuè».

I rapporti sociali lo lasciavano indifferente, quando non lo infastidivano: anche questo motivo contribuì al suo isolamento letterario, per quanto ci siano stati intellettuali e critici che apprezzarono e incoraggiarono la sua produzione (i già citati Betocchi e Verdino, ma poi Baldacci, Caproni, Lagorio, Chiappelli), che ottenne premi e riconoscimenti editoriali, con pubblicazioni in plaquette e finalmente, nel 1993, nell’antologia milanese di Scheiwiller Tentativo di cantare una nuvola. La sua rude scorza ligure sapeva a volte manifestarsi in toni più risentiti e scabri: «Diranno che fui pessimo operaio / e un pessimo padre di famiglia, / un pessimo uomo d’affari / e un pessimo poeta / Io me ne starò vergognoso / nella mia fossa sicura / e penserò che dopotutto / ero in un pessimo mondo”, “Io poi / quando sarete andati / e avrò sparecchiato / e lavato i piatti / e tolte le cicche / dai portaceneri // mi sdraierò per terra / e guarderò dal basso / questo mondo inutile / ancora sporco di chiasso”.

Era comunque sempre la vena meditativa e malinconica a prevalere, soprattutto negli ultimi anni di vita, in cui più stringente divenne il rapporto con la fede cattolica, vissuta con devozione popolare, ma assolutamente non bigotta: «Benedetto sia il tuo nome / anche se non lo conosciamo, / noi che nulla possiamo / oltre il limite della parola. // Benedetto per le umili cose / armoniose che hai creato. / Benedetto per i colori // che instancabile tracci nell’aria / per il profumo che varia / nella rosa, nella viola», «Ho osato chiamare il divino / con la parola Signore, / il nome dolcissimo / di quando ero bambino // ho osato dividere / il suo pane e il suo vino, / abbandonarmi leggero / a un dolcissimo sogno / quasi dimenticato: // Signore, mio bisogno».

Se si cercano gli scritti di Luciano De Giovanni, non si trova in pratica più nulla nelle librerie online: probabilmente solo l’ultima pubblicazione, un romanzo autobiografico composto di brevi capitoli rievocanti situazioni, persone, abitudini e paesaggi del passato, in un confronto impietoso con la più arida contemporaneità. Oltre a ciò, del “poeta stagnino” di Sanremo rimane in pochi lettori una vaga eco dei versi, forse troppo tenue e gentile per farsi strada nel frastuono indifferenziato che ci circonda.

 

© Riproduzione riservata                  «La poesia e lo spirito», 29 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DE GREGORIO

ANNA ELISA DE GREGORIO, DOPO TANTO ESILIO – RAFFAELLI, RIMINI 2012

Con questo titolo suggestivo (come non ricordare la candida supplica del  Salve Regina, che impetra consolazione dopo le sofferenze «della nostra malandata vita»?), Anna Elisa De Gregorio pubblica un elegante volume di versi, scandito in tre sezioni composte da un centinaio di poesie, tutte individuate da un titolo, spesso allusivo, a volte esplicativo, sempre acutamente incalzante.
Nella sua appassionata introduzione, Davide Rondoni parla, a proposito di questi versi, di «finissima auscultazione» e di «poesia obbediente… poesia udienza». Da subito infatti balza agli occhi del lettore questa disponibilità attenta e umile, partecipe ed empatica dell’autrice all’osservazione della vita in tutti i suoi aspetti: dalla descrizione vigile della natura, alla condivisione solidale con la sofferenza di chi vive ai margini della società, alla meditazione più filosofica sul senso dell’esistenza (il «paradosso dell’eternità»). La sensibilità della poetessa è orientata soprattutto verso la rappresentazione di due età particolari degli esseri umani, due età entrambe estranee al processo produttivo, al calcolo interessato dei vantaggi economici o carrieristici: l’adolescenza e la vecchiaia. Gli anni in cui ci si affaccia alla vita, in cui si è ancora capaci di perdersi dietro a un sogno («Belle le ragazze che canticchiano / al mare con le gambe lucidate / dalla crema, gli occhiali a camuffare / pensieri»), e gli anni ultimi, malinconici, in cui invece cade qualsiasi illusione. E’ il mondo e la quotidianità degli anziani che Anna Elisa De Gregorio esplora con maggiore e percettiva adesione: «Un corpo sperduto nell’alzheimer», «i vecchi vanno a pulire i ricordi dall’inverno», «Educati a non chiedere una cipolla al vicino, / ci riconosciamo dalle piante alla finestra», «Nelle case ingrigite dei soliti / anziani dove la noia è rotta / dalle pale di un ventilatore». La poetessa si commuove nel seguire il pensionato che va alla posta, si fa compagnia con un gatto o un cane, progetta il pranzo in solitudine e «fa il conto di chi non ha incontrato»: oppure il vecchio signore che raccoglie i sassi, o l’ex boxeur che si butta sotto il treno. Compito del poeta è prestare attenzione ai sentimenti, ai gesti, agli oggetti cui gli altri non badano: «nel mio esercizio di osservazione / assegnato come compito a scuola», l’autrice ubbidisce a un imperativo di «necessaria accoglienza» del tutto, a partire dalle cose minime («Nel migliore dei modi possibili / cureremo la ciotola del cane») per arrivare all’impegno culturale più elevato. Quindi, lo studio e il confronto con altre voci poetiche (da Bashō a Mark Strand, da Michele Sovente a Borges alla Szimborska), con l’arte (la Pietà Rondanini), con il cinema (Tarkovskij, Olmi, e Casablanca). Ma anche lo sguardo affettuoso alla sua città di mare («Città di mattina città d’estate»), con i suoi treni, il cimitero, le spiagge, le periferie desolate; o ad altre città (Venezia, Roma), e ad altre sofferte, scandalose, realtà di miseria e immigrazione. La natura, raccontata soprattutto nell’ultima sezione del volume, è assolutamente consolante nel tripudio della sua ricca vegetazione (salici, viburni, olivi, cachi, pini, gelsomini, ciliegi, crisantemi, trifogli, ginestre, violaciocche: «Fiori stretti ai rami, insetti viola / lucidi di pioggia, alberi di Giuda: / ci accompagnano in fila sui viottoli,  / intorno a loro aureole di nebbia»), con la constatazione che la patria di un poeta è sempre l’ovunque del mondo: «E allora l’unica mia terra è ovunque / trovi parole e lingua per dirle, / mio basso continuo e precaria tenda». In questo suo stile piano, narrativo, colloquiale, eppure aperto a diverse sperimentazioni compositive (gli haiku e i tanka manifestano una loro lieve eleganza), Anna Elisa De Gregorio offre al lettore una ricca varietà di temi e atmosfere, consapevole che le parole di un poeta sempre «rimandano luce».

 

«Leggendaria» n. 101, settembre 2013

RECENSIONI

de KERCKHOVE

DERRICK DE KERCKHOVE, LA RETE CI RENDERA’ STUPIDI? – CASTELVECCHI, ROMA 2016

Due parole sull’autore di La rete ci renderà stupidi?, un piccolo e intrigante saggio, dal titolo provocatorio: Derrick de Kerckhove (1944) è un sociologo belga naturalizzato canadese che oggi, dopo una lunga carriera scientifica a Toronto, insegna anche all’Università Federico II di Napoli. Autore di numerose pubblicazioni specialistiche, è stato tra i primi ad analizzare il rapporto tra media digitali e neuroscienze.
Strenuo difensore e fan della “mente futura”, è convinto che la rete arriverà a modificare radicalmente il modo di pensare degli esseri umani, e che questo succederà in tempi brevi, su scala planetaria, con effetti più positivi che negativi. Analizzando questi ultimi, Derrick de Kerckhove ammette che l’utilizzo di Internet, Facebook e Twitter potranno provocare un depotenziamento della memoria a breve termine, della capacità di concentrazione, del desiderio di riflessione profonda, e soprattutto della volontà di coltivare i rapporti interpersonali dal vivo. «La vita virtuale è più sviluppata di quella reale».

Ma ritiene che questi aspetti sfavorevoli, indotti dall’uso dei nuovi media, saranno ampiamente compensati dallo sviluppo della flessibilità neurale dei nostri cervelli, da una maggiore disponibilità verso il cambiamento e lo scambio collaborativo, dall’aumento dell’autonomia personale e dell’autostima, da una più generalizzata e democratica creatività, da una riduzione dei costi di accesso all’informazione. E in particolare dalla realizzazione di un’infinita memoria universale di dati, informazioni, contatti che potranno favorire il sorgere di nuove forme di democrazia diretta e un maggiore controllo sulla gestione del potere.
Insomma, ci aspetta «un rovesciamento epocale», un nuovo Rinascimento destinato a cambiare in meglio e in modo inevitabile la cultura mondiale, la struttura delle società, il pensiero di ogni individuo.
Non avendo più necessità di ricordare, perché qualsiasi dato sarà a portata di computer, ecco che la memoria si posizionerà fuori dalla mente, creando uno spazio maggiore per inventare e usare la nostra intelligenza. La quale diventerà più connettiva, più sintetica e veloce.

Il presente diventa assoluto, con Twitter, condivisibile in tempo reale a ogni distanza, con tutti: e l’intelligenza si fa globale, collettiva, massificata. L’individualità, la meditazione personale, il silenzio si riveleranno dei lussi elitari e superati. L’intimità diverrà pubblica, e se ciò comporterà il rischio di un controllo totale del mercato sui consumatori e della creazione di un consenso politico generale – in grado di azzittire qualsiasi spirito critico – sarà un male minore rispetto al possesso comune del sapere digitale.
Il libro, con la sua trasmissione lineare delle informazioni (dall’inizio alla fine) si rivelerà obsoleto, nei confronti della linkabilità (termine orrendo!) e dell’agilità dei percorsi visuali (un’immagine vale mille parole): la lettura rallenta il tempo, esige pazienza e speculazione, «è lo strumento in cui la parola si ferma, mentre tutto il resto è parola che vola». Destinata al declino, come tutto ciò che è privato, statico, identitario rispetto al pubblico, dinamico, esportabile ovunque e comunque. Peccato!

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/rete-stupidi-De-Kerckhove.html       1 giugno 2016

 

 

RECENSIONI

DE LUCA

ERRI DE LUCA, BIZZARRIE DELLA PROVVIDENZA – EINAUDI, TORINO 2014

In questo smilzo libretto di versi pubblicato da Einaudi, Erri De Luca si mantiene fedele alla sua vocazione di risentito menestrello fustigatore di ingiustizie e costumi corrotti, di violenze fisiche e morali: «il passato è poetico, / il presente una dissenteria». Il passato da decantare è quello dei profeti, degli illuminati, dei folli di Dio, degli imbizzarriti che sanno discostarsi dalla consuetudine:
«Nelle pagine di questa sezione si narrano comportamenti sgangherati ma provvisti di giustifica sacra». Esploratori del diverso, paladini della gratuità, là dove «la deviazione urgente di un singolo diventa apripista del percorso di tutti gli altri». Figure della Provvidenza, che abbracciano «la sovversiva economia del dono / offerto a spargimento, / restituito a scroscio». Sul dono della profezia visionaria, della poesia inutile ma necessaria, si fonda «l’avvento del gratis, della grazia, / lo spariglio infallibile / su cui si regge il mondo». E il non credente De Luca fa di Gesù il protagonista per eccellenza di questa rivoluzione mite e radicale: «È stato il più precoce latitante». Insieme a lui altre figure-faro dell’Antico Testamento: Abramo, Noè, Davide, Sansone, Giona, da sempre frequentate nella passione per l’ebraico e le Scritture. Che di base è comunque un viscerale amore per la parola, per il vocabolario e per la lingua, come possibilità/necessità di comunicazione, di relazione e riscatto: «l’italiano mio sarto, calzolaio, piccione viaggiatore, / farina del mio grano, / clorofilla che fabbrica la linfa con la luce, / mio mandorlo piantato davanti alla finestra». Negli ultimi trent’anni che l’hanno visto tra i maggiori esponenti della nostra letteratura, Erri De Luca ha costruito un’immagine di sé savonaroliana, imbastita di un’ineliminabile esigenza etica, intesa a denunciare i mali del mondo, ferocemente schierata contro il potere, e alleata «con chi sconta». In questo libro, carcerati, migranti, sconfitti, analfabeti. Cantastorie con la missione di correggere tradizioni menzognere («Allora restauro leggende»), contrabbandiere di verità negate, dalla parte dei “troppi” rifiutati dal mondo occidentale del benessere, pur nella consapevolezza della sua situazione di privilegio («Ma noi stasera qui parliamo di prigione / come sazi che parlano di fame»), De Luca ha praticato sempre una convinta scelta di campo, anche nella descrizione dei luoghi che fanno da sfondo alla sua scrittura: Bosnia, Palestina, bassi di Napoli. Quando si concede qualche leggerezza, lo fa quasi vergognandosene, e tentando sterzate di ironia: come nelle due sole poesie d’amore presenti (simpaticamente divertita quella dedicata al naso di lei, «navigante… nocchiero», infallibile nell’individuare odori), o nella tarantella sarcastica  Viva l’Ita’: «Figaro qua / Figaro là / fegato fri- / tt’e baccalà. / Figaro su / Figaro giù / tricccheballa-/ cche putipù»). I toni prevalenti sono tuttavia quelli narrativo-prosastici, con una propensione evidentemente didascalica, e i termini più utilizzati quelli che evidenziano una mai domata rabbia, una propensione alla violenza verbale, ansiosamente anti-lirica (scannare, raffica, sguainato, scompiglio, dismisura, aggrovigliato, scervellati, asfissiato, scatarro, gracchiare, squaglio aggrumato…), che arriva all’invettiva e alla maledizione: «Sia danno e carie in bocca la sua parola / detta e non tenuta». Per cui persino la definizione di amore risulta inflessibile e perentoria: «Amare è un verbo scatenato. / Non risparmia niente di se stessi». E nel non risparmio di sé è anche questa sorta di testamento, di umile lascito che arriva a negare la propria sopravvivenza: «Ricorda che sei polvere: d’accordo. / Se però posso scegliere di cosa: / non dell’oro, non della conchiglia, / ma polvere di gesso / di una parola appena cancellata / dalla superficie di lavagna».

 

«Poesia» n.284, giugno 2014

RECENSIONI

DE LUCA

ERRI DE LUCA,  NON ORA, NON QUI – FELTRINELLI, MILANO 1989

Capita sempre più raramente di imbattersi in bei libri, intensi, che graffiano o comunque lasciano una traccia di sé su chi legge: in genere l’industria editoriale ci propina prodotti ben confezionati e ben digeribili, ma altrettanto facilmente eliminabili dalla memoria e dalla biblioteca. Non è questo il caso di Non ora, non qui, opera prima di Erri De Luca, quarantenne nato a Napoli e residente a Roma. A raccontarne la trama sottile si rischia di scivolare nello scontato, e di darne all’eventuale lettore un’interpretazione non accattivante: è infatti la storia di un’infanzia (e quante ne abbiamo lette?), di un difficile rapporto con la madre (ancora!…) e con l’ambiente. Ma è anche un libro in cui la letteratura supera se stessa, usa tutte le sue metafore e le sue abilità più raffinate per negarsi come tale, e ridursi a grido, a verità dolorosa. E’ una confessione e un atto d’accusa, una preghiera d’amore e una condanna.
Il protagonista ormai adulto rilegge la sua storia attraverso alcune fotografie dell’infanzia, ritrovate, ristampate, osservate con nuova spietata acutezza. Si rivede bambino, «più assorto che quieto»», orgoglioso fino alla testardaggine, di una emotività esasperata: si scopre dietro ai genitori e alla sorella, chiudere sempre in ritardo di alcuni passi il gruppo familiare, durante la temuta passeggiata domenicale; oppure ostinato di fronte alla finestra della cucina, mentre oppone un silenzio dignitoso a una punizione immeritata; o ancora mentre ascolta il profluvio di parole che tutti gli rovesciano addosso, a lui, balbuziente, «l’interlocutore preferito, il muto, l’imbuto». Il rapporto preferenziale è quello con la madre, giocato in un’intesa a volte epidermica e ovvia, a volte profonda e crudele. La mamma (mai descritta, se non nella schiena diritta, nei capelli improvvisamente accorciati per parere più vecchia, in una severità che si intuisce eccessiva perfino nei confronti di se stessa) cerca nel figlio una rispondenza addirittura fisica alle sue sofferenze. Ha l’abitudine di raccontare al bambino «le cose brutte del mondo», provocando in lui un’immedesimazione localizzata nella carne. Lui risponde ai desideri inconsci di lei, diviene l’eco delle sue rinunce, il riflesso delle sue mortificazioni, impara ad annullarsi. Non c’è gioia, non c’è abbandono in quest’infanzia, ma un sorvegliarsi attento, un rigoroso trattenersi, sempre.
Non ora, non qui è il ritornello che la madre oppone a ogni minimo scarto dalla regola; «non ho fatto niente, non l’ho fatto apposta» è invece la risposta automatica del figlio, obbligato a scusarsi di vivere. Unici sprazzi di felicità, di naturalezza fisica, sono la presenza di una domestica selvatica e istintiva, e le nuotate in mare con un amico molto amato e tragicamente perso.
Il vicolo, il porto, la scuola arrivano alla sensibilità del protagonista sempre attutiti, a volte stralunati, attraverso uno specchio deformante perché fissato a distanza ravvicinata, quasi abolita. La madre stessa è bloccata in una serie di istantanee per forza di cose poco realistiche, allucinate: e il rapporto tra i due soffre di una vitrea incomunicabilità, evidenziata nella metafora del reiterato incontro attraverso il finestrino del tram.
Una prosa lirica, in cui l’arte narrativa ha poco agio di mostrarsi, raggrumata com’è in nodi di vita incapaci di sciogliersi in finzione formale. Si esce da questa lettura feriti, turbati come sempre davanti allo spettacolo di una sofferenza gratuita; ma più leggeri, con gli occhi più attenti.

 

«L’Arena», 25 gennaio 1990

RECENSIONI

DE LUCA

ERRI DE LUCA, TU NON C’ERI – DANTE & DESCARTES, NAPOLI 2010

Il rapporto con i propri genitori è da sempre, e per sempre, il più vincolante e definitivo: quello da cui non ci si libera mai, che può diventare incubo e recriminazione, alimento e provvidenza, pentimento e rimorso. Erri De Luca in questo volumetto, pubblicato da un piccolo editore napoletano, e arricchito da sei foto delle Dolomiti -aspre e seducenti insieme- affronta in due tempi e in due modi diversi la relazione tormentante tra un figlio e suo padre.

La prima parte di Tu non c’eri è definita “scrittura per scene”, quasi un dialogo teatrale, in cui un quarantenne si appresta a una solitaria arrampicata in montagna, confrontandosi col fantasma del padre che l’ha rifiutato. Un padre problematico, asciutto anche nel nome “lo chiamavano il Grisso, perché era appena più in carne di un grissino” con un passato fatto di lotta di classe e di prigionia per motivi politici. Un padre che l’ha volutamente tenuto lontano sia dalla sua vita sia dalla sua morte, dal suo credo rivoluzionario come dalle sue scelte sentimentali e di lavoro.
Il figlio gli rinfaccia la sua mancata paternità, la sua totale assenza: “due pezzi isolati che non sono riusciti a dirsi niente”. E si inventa una scalata con lui, dietro a una sua irraggiungibile traccia, solo alla fine riconciliandosi con il passato di entrambi: nell’annuncio che al bambino che sta per nascergli darà il nome del nonno. Le ultime pagine di “Tu non c’eri” sono invece dedicate a una rivisitazione, non più immaginaria ma reale, che Erri De Luca fa del suo concreto essere stato figlio: “Mio padre non fu assente. Mi ha cresciuto in una stanza ispessita dai libri… Mi parlava in italiano… Tra noi l’assenza fu opera mia”. E di quella sua giovanile ribellione, del suo polemico allontanamento non chiede perdono, non si rammarica. Ma lo constata con malinconica accettazione: “Tra noi è andata come doveva: succede di finire sparse anche alle schegge di una scalpellatura”.

 

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www.sololibri.net/Tu-non-c-eri-Erri-De-Luca.html;      10 agosto 2016

RECENSIONI

DE LUCA

ERRI DE LUCA, I PESCI NON CHIUDONO GLI OCCHI – FELTRINELLI, MILANO 2011

La storia del bambino che Erri De Luca è stato, cinquant’anni fa, «un bambino viziato dall’isolamento», in un’estate lontana che improvvisamente lo ha messo a confronto con tutto ciò che è “altro da sé”. Di conseguenza un libro tutto costruito sulle dicotomie e i contrasti: infanzia e età adulta, innocenza e consapevolezza , violenza e mitezza, sensibilità e ottusità, cultura e ignoranza, città e mare, Italia e America, maschio e femmina.

Ovviamente l’autore sta sempre dalla parte di chi deve crescere e scegliere, e sceglie coraggiosamente la cosa giusta: quindi la madre che resta nella sua terra d’origine rispetto al padre che tenta un’emigrazione sospetta di fuga, i pescatori rudi ma buoni di fronte ai borghesi urbani, il mare e il sole limpidi in contrasto con le oscurità imputridite di una città corrotta, studenti-operai-muratori in rivolta contro borghesia e forze dell’ordine alleati nella repressione. Ma soprattutto il ragazzino Erri, taciturno e serissimo, impegnato nella lettura e nelle parole crociate, che si sa opporre a tre bulletti sopraffatori lasciandosi malmenare brutalmente, ma rinunciando a denunciarli. E che si confronta con un’adolescente settentrionale in vacanza sulla stessa spiaggia, come lui impegnata e riflessiva, già consapevole di cosa è etico e cosa no, attenta all’uso delle parole (e i dialoghi tra i due bambini hanno qualcosa di surreale e intellettualmente ricostruito: «L’amore … non è una serenata al balcone, somiglia a una mareggiata di libeccio, strapazza il mare sopra, e sotto lo rimescola»). Un “amore pulcino” tra i due, che li fa crescere e li separa. Con squarci di descrizione lirica decisamente potenti, ma anche, come sempre nei libri di quest’autore, con un autocompiacimento eccessivo sia della propria scrittura sia della propria esistenza, vissuta esclusivamente nei luoghi giusti, con le scelte giuste, con i sentimenti giusti. “Exegi monumentum aere perennius”.

IBS, 16 ottobre 2011

RECENSIONI

DE LUCA

ERRI DE LUCA, NOCCIOLO D’OLIVO – EMP, PADOVA 2010

Erri De Luca raccoglie qui «pensieri scompagnati» dedicati alle Sacre Scritture, che da sempre frequenta con accesa, quotidiana dedizione, confrontandosi in un appassionato corpo a corpo con la lingua ebraica. E sembra proprio questa lingua, più che la Parola di Dio in sé, a catalizzare il suo desiderio di interprete, il suo interesse viscerale di lettore: «Posso dire di essere un molestatore di quelle parole, di non lasciarle in pace, di tornare indietro da loro con un pugno di cenere calda». E ancora: «Leggere la scrittura sacra, leggerla piano, sentire il proprio fiato…».

Il suo è un ammirato omaggio a «questa antica lingua destinata a un piccolo popolo separato dagli altri», lingua da far rivivere perché «l’ebraico delle scritture sacre porta un vocabolario magro, poco più di cinquemila vocaboli. Questa scarsità contiene un’intensità di senso che spesso si perde nelle traduzioni,quando un singolo verbo ebraico viene smembrato in diversi sinonimi…». Allora confessa: «Leggere scritture sacre è obbedire a una precedenza dell’ascolto. Inauguro i miei risvegli con un pugno di versi, così che il giro del giorno piglia un filo d’inizio. Posso poi pure sbandare per il resto delle ore dietro alle minuzie del da farsi: intanto ho trattenuto per me una caparra di parole dure, un nocciolo d’olivo da rigirare in bocca».  E non é l’unica confessione che De Luca fa al lettore: nell’ introduzione ammette di non essere credente, di «essere accampato fuori dalle mura». Due sono «gli inciampi» che gli impediscono di aderire alla fede: l’incapacità di pregare e quella di perdonare o essere perdonato.

Ma nei brani che compongono le due sezioni di questo libro, in cui senz’altro vibrano con maggiore intensità quelli dedicati a Genesi, si avverte una sorta di rassegnata nostalgia verso chi sa attendere, sa cercare un rifugio, sa affidarsi, o nutre il «sentimento furioso» di Caino, il suo desiderio di «essere anche lui appassionatamente amato da Dio».

 

IBS, 16 marzo 2011

RECENSIONI

DE LUCA

ERRI DE LUCA, E DISSE – FELTRINELLI, MILANO 2011

Dopo quasi vent’anni dalla traduzione di Esodo/Nomi, Erri De Luca torna ad occuparsi del secondo libro della Bibbia, in un volume che rivisita l’ascensione di Mosè sul Sinai, e la manifestazione divina attraverso le tavole della Legge. In realtà, gli excursus in altri testi delle Sacre Scitture sono numerosi: soprattutto sono citati episodi di Genesi, Deuteronomio, Isaia, Salmi e del Vangelo stesso.

Ma senz’altro il protagonista principale del libro rimane Mosè, nel suo corpo a corpo con l’Assoluto. Mosè, scampato da una strage di neonati: in lui si concentra un resto salvato,l’energia dei mancati… una folla di bambini..». Mosè primo scalatore, che «con l’ultimo passo di salita toccava l’estremità dove la terra smette e inizia il cielo. Una cima raggiunta è il bordo di confine tra il finito e l’immenso». Mosè che non riesce a reggere alla visione, torna al campo svuotato, «un nocciolo spolpato», privo di senno e di parola, e viene accudito amorevolmente, pungolato nei ricordi dal fratello Aronne. Ed ecco allora che davanti al suo popolo incredulo, timoroso e spazientito nel deserto riesce a farsi interprete, a leggere le parole infuocate del suo innominabile Dio, incise da un dito scalpellino sulla muraglia rocciosa: «Io sono Adonài (Iod) tuo Elohìm». Dirette a un “tu” maschile, perché agli uomini era destinato il compito terrificante di tramandare, di interpretare. I dieci comandamenti sono resi da De Luca al futuro: «Onorerai,non ammazzerai, non ruberai», e la sua lingua di traduttore è aspra e scolpita come l’ebraico con cui si cimenta. La sua prosa non conosce indulgenze, morbidezze: è severa ed essenziale come le storie che propone al lettore. Innamorato dell’ebraico, ma da esso escluso: «Dell’ebraismo condivido il viaggio, non l’arrivo. Non in terra promessa, la mia residenza è in margine all’accampamento… Non mi accosto all’altare,alle preghiere…».

La nostalgia degli esuli, dei proscritti è pari alla loro sconfinata dedizione.

 

IBS, 22 marzo 2011