ERRI DE LUCA, BIZZARRIE DELLA PROVVIDENZA – EINAUDI, TORINO 2014

In questo smilzo libretto di versi pubblicato da Einaudi, Erri De Luca si mantiene fedele alla sua vocazione di risentito menestrello fustigatore di ingiustizie e costumi corrotti, di violenze fisiche e morali: «il passato è poetico, / il presente una dissenteria». Il passato da decantare è quello dei profeti, degli illuminati, dei folli di Dio, degli imbizzarriti che sanno discostarsi dalla consuetudine:
«Nelle pagine di questa sezione si narrano comportamenti sgangherati ma provvisti di giustifica sacra». Esploratori del diverso, paladini della gratuità, là dove «la deviazione urgente di un singolo diventa apripista del percorso di tutti gli altri». Figure della Provvidenza, che abbracciano «la sovversiva economia del dono / offerto a spargimento, / restituito a scroscio». Sul dono della profezia visionaria, della poesia inutile ma necessaria, si fonda «l’avvento del gratis, della grazia, / lo spariglio infallibile / su cui si regge il mondo». E il non credente De Luca fa di Gesù il protagonista per eccellenza di questa rivoluzione mite e radicale: «È stato il più precoce latitante». Insieme a lui altre figure-faro dell’Antico Testamento: Abramo, Noè, Davide, Sansone, Giona, da sempre frequentate nella passione per l’ebraico e le Scritture. Che di base è comunque un viscerale amore per la parola, per il vocabolario e per la lingua, come possibilità/necessità di comunicazione, di relazione e riscatto: «l’italiano mio sarto, calzolaio, piccione viaggiatore, / farina del mio grano, / clorofilla che fabbrica la linfa con la luce, / mio mandorlo piantato davanti alla finestra». Negli ultimi trent’anni che l’hanno visto tra i maggiori esponenti della nostra letteratura, Erri De Luca ha costruito un’immagine di sé savonaroliana, imbastita di un’ineliminabile esigenza etica, intesa a denunciare i mali del mondo, ferocemente schierata contro il potere, e alleata «con chi sconta». In questo libro, carcerati, migranti, sconfitti, analfabeti. Cantastorie con la missione di correggere tradizioni menzognere («Allora restauro leggende»), contrabbandiere di verità negate, dalla parte dei “troppi” rifiutati dal mondo occidentale del benessere, pur nella consapevolezza della sua situazione di privilegio («Ma noi stasera qui parliamo di prigione / come sazi che parlano di fame»), De Luca ha praticato sempre una convinta scelta di campo, anche nella descrizione dei luoghi che fanno da sfondo alla sua scrittura: Bosnia, Palestina, bassi di Napoli. Quando si concede qualche leggerezza, lo fa quasi vergognandosene, e tentando sterzate di ironia: come nelle due sole poesie d’amore presenti (simpaticamente divertita quella dedicata al naso di lei, «navigante… nocchiero», infallibile nell’individuare odori), o nella tarantella sarcastica  Viva l’Ita’: «Figaro qua / Figaro là / fegato fri- / tt’e baccalà. / Figaro su / Figaro giù / tricccheballa-/ cche putipù»). I toni prevalenti sono tuttavia quelli narrativo-prosastici, con una propensione evidentemente didascalica, e i termini più utilizzati quelli che evidenziano una mai domata rabbia, una propensione alla violenza verbale, ansiosamente anti-lirica (scannare, raffica, sguainato, scompiglio, dismisura, aggrovigliato, scervellati, asfissiato, scatarro, gracchiare, squaglio aggrumato…), che arriva all’invettiva e alla maledizione: «Sia danno e carie in bocca la sua parola / detta e non tenuta». Per cui persino la definizione di amore risulta inflessibile e perentoria: «Amare è un verbo scatenato. / Non risparmia niente di se stessi». E nel non risparmio di sé è anche questa sorta di testamento, di umile lascito che arriva a negare la propria sopravvivenza: «Ricorda che sei polvere: d’accordo. / Se però posso scegliere di cosa: / non dell’oro, non della conchiglia, / ma polvere di gesso / di una parola appena cancellata / dalla superficie di lavagna».

 

«Poesia» n.284, giugno 2014