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RECENSIONI

DE SIMONE

ANNA DE SIMONE, CASE DI POETI – MAURO PAGLIAI EDITORE, FIRENZE 2012

In questo originale, commosso e commovente volume, Anna De Simone offre al lettore il ritratto di sessanta poeti novecenteschi, italiani e stranieri, famosissimi o quasi ignoti al grande pubblico, con i loro omaggi alle case che hanno abitato, confondendosi nelle loro atmosfere, nelle loro ombre e luminosità accecanti, negli sfarzi e negli squallori: case dell’ infanzia e della maturità, di lutti e di nascite, di amori e di abbandoni. L’autrice ci presenta ogni poeta non solo nella curata bio-bibliografia finale, ma soprattutto attraverso una serie di ritratti fotografici di volti e ambienti che bene colgono la loro particolare domesticità, incorniciandoli in versi e prose che sempre rimandano alle stanze vissute: «I luoghi mentali sono diventati luoghi reali e viceversa, capaci di offrire scenari ogni volta inediti su situazioni, vicende interiori e brandelli di storie perdute…nella convinzione che le case dei poeti esercitino un grande fascino sui lettori, e qualche volta diventino, come la poesia, un corrimano, un rifugio o un sogno da sognare quando la quotidianità diventa incomprensibile o insopportabile».

Allora, di un poeta del focolare come Pascoli, accanto alle foto del giardino, dello studio e della casa natale, la didascalia propone, tra gli altri, questi versi: «io, la mia patria or è dove si vive: / gli altri son poco lungi, in cimitero». E della bellissima e malinconica Achmatova: «Sotto l’icona un liso tappetino, / dentro la fresca stanza è sceso il buio». Di Wislawa Szymborska: «A destra c’è la mia casa, che conosco da ogni lato, / insieme ai suoi scalini e all’entrata, / e dentro accadono storie non dipinte»». Dello sperimentalismo di un poeta ancorato alle sue campagne come Zanzotto godiamo questo incipit: «Del mio ritorno scintillano i vetri / ed i pomi di casa mia, / le colline sono per prime  / al traguardo madido dei cieli», e di Montale la notissima chiusa: «Tu non ricordi la casa di questa/ mia sera. Ed io non so chi va e chi resta»

 

«Leggendaria» n. 103, gennaio 2014

RECENSIONI

DE SIMONE

ANNA DE SIMONE, LEOPARDI A TRIESTE CON VIRGILIO GIOTTI – INTERLINEA, NOVARA 2015

Far rivivere Giacomo Leopardi a Trieste? C’è riuscito Virgilio Giotti (1885-1957), poeta di “sommessa, ritrosa e assoluta grandezza”, secondo Claudio Magris; “vittima silenziosa, non mai arreso, non mai piegato”, secondo Pier Paolo Pasolini. In un prezioso e attento volume, quasi devotamente ammirato nei riguardi della voce pacata, sobria, ma consapevole dei propri mezzi di questo schivo e trascurato autore, Anna De Simone ci accompagna alla riscoperta di una città raccontata in dialetto, con uno stile che sembra cullarsi nell’eco dei canti leopardiani. Lo fa commentando temi e toni dei versi di Giotti, e confrontandoli con i temi e i toni dell’illustre recanatese: non imitato, ma assimilato nel profondo e fatto proprio, forse perché (come scrisse Biagio Marin) lo sentiva a lui “consustanziale”. La finezza della curatrice del volume è consistita, oltreché nel commento puntuale e sensibile di ogni composizione, nel proporre al lettore fotocopia di molte pagine del volume dei Canti leopardiani di proprietà di Giotti, da lui postillate con grafia minuta, sottolineate a matita, evidentemente studiate con passione.

Per inquadrare l’uomo, prima ancora del poeta, è necessario rendere conto a sommi capi della sua dolorosa e difficile esistenza, trascorsa tra lutti, persecuzioni politiche e una dignitosa ma ostinata povertà. Nato a Trieste nel 1885 da famiglia di origini austriache (il suo vero cognome era Schönbeck), da ragazzo studiò pittura, e per tutta la vita frequentò ambienti artistici. Fuggito in Toscana per sottrarsi alla leva militare, sposò qui una studentessa moscovita, da cui ebbe tre figli. Negli anni ’20 tornò a Trieste, trovando un modesto impiego comunale. Pubblicò le prime poesie su riviste e in plaquette, ottenendo giudizi lusinghieri da Montale, Pasolini e altri importanti critici. I tre figli conobbero a vario titolo la persecuzione fascista, e furono obbligati al confino al sud; i due maschi morirono in Russia, durante la guerra. Altre gravi perdite familiari, e tristi vicissitudini economiche, rattristarono gli ultimi anni della sua vita, fino alla malattia cardiaca che lo uccise settantaduenne.

Il triestino di Virgilio Giotti è un dialetto particolare, che come hanno messo in luce importanti studiosi quali Gianfranco Contini e Franco Brevini, non ha nulla di “veramente vernacolare”, non fa concessioni “al colore locale o all’agiografia municipale”, mantenendo invece un certo rigore letterario, di cultura classicheggiante e confronto assiduo con la tradizione poetica italiana (Leopardi, appunto, ma anche Pascoli e Di Giacomo) e straniera (dai lirici greci, ai cinesi, fino a Rilke). Bisogna infatti considerare che Trieste è città friulana, di una regione ai confini, che ha assorbito nei secoli influenze culturali e linguistiche austriache e slave, modellando il suo dialetto secondo un ritmo più scabro rispetto alla melodiosità cantilenante del Veneto. Quest’ultimo zona di pianure, fiumi placidi e lagune, mentre la terra giuliana è mare, bora, alture, secchezza carsica. Virgilio Giotti nella sua scrittura si è misurato con pochi, assidui, temi: la casa, la natura, l’amore, la famiglia, la morte e il dolore. Sono i temi universali della poesia, ma da lui mai affrontati di petto, semmai sfiorati con un pudore che cercava di evitare la retorica, soprattutto nelle chiusure improvvise e smorzate. Il mito della casa, per chi ne aveva perdute tante (distrutte dalla guerra, da frane, o abbandonate per trasferimenti obbligati e sfratti), condensava in sé il senso degli affetti, del tepore familiare, della confidenza e del raccoglimento, simboleggiato essenzialmente dalla solidità della tavola da pranzo («la tola con la tovàia bianca»), intorno a cui riunire i propri cari: «Su la tola / la tovàia la splendi, che la iera / zénere diventada; e el vin bevudo / con ti insieme ga el bon savor de prima», «Mi gavevo ‘na casa; / ‘desso no’ la go più; / ‘desso vivo per strada, / in sto paese qua», «E tornarà la casa ciara, come / prima: saremo indrio felizi; sì, / sì, no’ se vero? O per sempre infelizi / diventeremo, pòvari fra i pòvari», «Davero mi me sento / solo con ti, mia casa. Co te torno, ogni volta / i mii oci i te basa, // Te torno come el sposo / che torna de la sposa, / che nel su’ sol, via i cruzzi, / beato el se riposa. // Rivo suso, mia casa, / e ‘pena che son drento / stanchezza e mal de gambe / i sparissi. Me sento / de colpo calai i ani / e san».

Tra le pareti della casa-rifugio continuano a vivere, nel ricordo, i vecchi genitori (“i veci che ‘speta la morte” sono un’altra costante nella narrazione poetica di Giotti), le tre sorelle precocemente scomparse; e la moglie, i figli piccoli (“i fioi, i pici, i putei”), poi cresciuti e allontanati dalla guerra e in guerra uccisi, la figlia con i nipotini adorati. «E stemo insieme, e tuti / insieme spassegiemo; / e se metemo in tola / e magnemo e bevemo // pulito, e se vardemo / un co’ l’altro nel viso; / e in pase se parlemo: e semo in paradiso».

Il paradiso giottiano è colorato, per lo più azzurro e verde, avendo per sfondo il mare o la campagna intorno a Trieste, osservati con meraviglia e gratitudine, quasi fossero un miracolo quotidiano offerto a chi guarda, e descritti con limpidi tratti impressionistici: «Mar e campagna che se ga incontrà! / Diese minuti de felizità / par mi!», «Dismontà del tranvai / son ’rivà in paradiso. / Ma cossa, cossa mai / xe nato ogi, diseme, / in ‘sto canton de mondo? // Ziel, muri, àlbori, monte, / tuto ‘na maravea! / Se go due oci in fronte / son contento de viver, / d’esser ancor al mondo…», «se vedi, come un zigo / picio e alegro, tre o quatro // maciete de colori: bianco, rosa, zaleto, zelestin. Un careto / de gelati se vedi!”; “me go sintì, dormindo, / ‘torno la primavera. / Me la insognavo, e iera / quel sogno come un senso // del zeleste, del rosa / d’un sol de primavera, / che ne spècia per tera / ne l’àqua de la piova, // un senso de ombre ciare / che se movi col vento. / Me sintivo contento / senza saver de cossa».

La filosofia che sta alla base della scrittura di Virgilio Giotti è quasi oraziana, domestica, di una tranquilla semplicità: rimpianto per la giovinezza, speranza di un futuro migliore, rassegnazione per quello che non si è riusciti a ottenere. Nessuna recriminazione, rabbia, volontà di rivalsa, invidia: accontentarsi del poco che può offrire «una bela giornada», «el bel tempo», un’amicizia, il vino bevuto in compagnia, essendo consapevoli della propria transitorietà nel mondo: «E el pensier me vien su, davanti i oci, / che co’ ‘sti stessi cruzzi, / co’ ‘sti stessi tormenti moriremo, / senza ‘ver fato gnente. / E el nostro viver sarà stado come / una cativa note, / che no’ se pol dormir, né far qualcossa / remenarse in t’-el leto, / o andar in qua e in là. / E podaremo disperarse alora, / sigar de voler ‘ver un’altra vita: / nissun ne la darà».

Terribile pensare come quest’uomo mite, che alla sorte aveva chiesto davvero poco, abbia pagato così tanto in termini di dolore e sofferenza, senza nemmeno trovare consolazione in un doveroso riconoscimento letterario: infatti Colori, il volume complessivo delle sue poesie, venne pubblicato da Ricciardi nel 1957, qualche settimana dopo la sua morte. Ristampato da Einaudi nel 1997, oggi non risulta più disponibile.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 13 febbraio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DEDOLA

ROSSANA DEDOLA, LA VIA DEI SIMBOLI – FRANCO ANGELI, MILANO 1992

Rossana Dedola, ricercatrice a Pisa e studiosa del primo Novecento italiano, ha pubblicato presso Franco Angeli un volume di critica letteraria ispirato alla psicologia junghiana.

La via dei simboli è quella scelta dall’autrice per rileggere in modo senz’altro innovativo e coraggioso alcuni nostri classici contemporanei, da Svevo a Pirandello, da Tozzi a Calvino, e per sottolineare aspetti trascurati di due poeti diversissimi ma accomunati da un forte interesse per la psicanalisi: Andrea Zanzotto e Vivian Lamarque.
Il percorso indicato dall’autrice per approssimarsi al nucleo pulsante (per quanto represso, sgradevole o frainteso possa essere) della produzione degli scrittori presi in considerazione, fa sua l’ottica e la metodologia junghiana – pur non trascurando alcuni fondamentali contributi della scuola freudiana, quali quelli di Winnicot e di Kohut- tanto spesso snobbate, se non addirittura osteggiate in Italia. Da noi, infatti, a differenza di quanto succede ad esempio in Francia, l’approccio junghiano al testo letterario sembra produrre una circospetta diffidenza negli addetti ai lavori, per la fama di misticismo e irrazionalismo che da sempre aleggia intorno al nome dell’analista svizzero.
Il lavoro della Dedola prende le mosse da una doverosa e puntuale rivisitazione della polemica che ha visto fronteggiarsi Freud e Jung riguardo alla definizione stessa di opera d’arte, intesa dal primo come “sintomo” e dal secondo come “simbolo”. Dedola fa suo il giudizio di un grande critico, Debenedetti, che definiva Jung «alleato degli artisti, magari il loro complice… con una lucidità presaga e ignara», e rivalutando il parallelismo junghiano fra arte e inconscio, la giovane studiosa (recentemente diplomatasi all’Istituto Jung di Zurigo) attribuisce alla simbologia letteraria la sconvolgente funzione di «imprimere una spinta virtuale, un flusso di energia nella vita non solo personale, ma di un’intera epoca storica».
Ecco quindi analizzati alcuni simboli nei tre grandi del romanzo novecentesco, Svevo, Pirandello e Tozzi, che per primi e attraverso percorsi diversi, «mettono in crisi la centralità della dimensione cosciente, svelandone la fragilità». Le bestie di Tozzi vengono allora reinterpretate come simboli oscuri e istintuali di una soggettività sempre più frantumata, di una realtà deformata e indecifrabile. Tarchetti invece si misura tragicamente con il tema letterario del “puer” prigioniero della sua condizione infantile, incapace di crescere, di amare e di morire. Anche la curiosità culturale e l’algida ariosità intellettuale di Calvino vengono indagate e ricomposte, attraverso la rivelazione di censure insospettate e insospettabili nella rielaborazione delle  Fiabe italiane. Zanzotto e Lamarque infine giocano coscientemente e sapientemente con la psicanalisi, entrambi alla ricerca di una madre: per il primo simbolicamente celata nel paesaggio, per l’altra recuperabile solo nel reiterarsi di una pratica analitica.
Un volume audace e vivace, questo di Rossana Dedola, rigoroso nell’apparato critico e appassionato nelle tesi proposte, che interessa anche il lettore non specialista, catturandone l’attenzione con lo stile brillante e il sapiente dosaggio di filologia e vis polemica.

 

«L’Arena», 11 febbraio 1993

RECENSIONI

DEEN

MATHIJS DEEN, LA NAVE FARO – IPERBOREA, MILANO 2022

Lammert fa il cuoco di bordo, e di lui si sa poco: che aveva trascorso l’infanzia in Indonesia, dove poi era stato fatto prigioniero dai giapponesi, e che da allora, a cicli ricorrenti, torna ad ammalarsi di malaria. È imbarcato sulla Texel, una nave faro ancorata al largo delle coste olandesi “come una fortezza in mezzo al mare”, destinata a indicare la rotta alle imbarcazioni in transito, dirette soprattutto verso il Mar Baltico, illuminandone il tragitto.  “La nave su cui lavorava non arrivava mai da nessuna parte, né salpava mai”, e la vita del cuoco resta confinata tra cucina, cabina, cambusa e ponte.

I suoi dieci compagni mal tollerano la noia e l’inerzia cui sono costretti, afflitti da un complesso d’inferiorità rispetto ai marinai di lungo corso: “Una nave era fatta per salpare, per navigare e, dopo un lungo viaggio, entrare in un porto carico di promesse. Un uomo di mare girava il mondo, sostenevano, conosceva tanti porti, sapeva come andavano le cose oltreoceano e per questo ne taceva. E aveva una mente aperta”. Invece, “Una nave faro non ha un’elica, non ha un motore, sul ponte di comando non c’è un timone; non può far altro che ondeggiare, un po’ sconsolata, un animale che tira invano una catena”.

Ogni quattro settimane l’equipaggio si dà il cambio con i turni di terra, e appunto in quel giugno afoso e umido, Lammert sbarca, ritirandosi nella vecchia casa dove aveva vissuto con la madre fino alla morte di lei. Proprio ritrovando un ingiallito ricettario materno, si imbatte nella descrizione di un piatto indonesiano, il gule kambing, e ne assapora mentalmente gusto e profumi. Da una contadina del paese si procura un capretto, con l’intenzione di farne uno stufato da preparare ai colleghi una volta tornato a bordo.

L’introduzione clandestina dell’animale sulla nave lo prova emotivamente, ma l’accoglienza incuriosita e affettuosa dei marinai verso il piccolo ospite lo rincuora. In particolare Gerrit Snoek, “trentenne alto e abbronzato che attraversava la vita a capo un po’ chino, come sotto uno stipite troppo basso”, incaricato di fare rilevazioni per il Servizio Meteorologico Nazionale, fa subito del capretto il suo confidente, tenendoselo in braccio a osservare il mare, il porto di Den Helder in lontananza, le luci delle navi che fiancheggiano la Texel. Tonnie Vonk, il mozzo, riceve dal cuoco l’incarico di allattare la bestiola: “Due volte al giorno, un biberon quasi intero, bello caldo, quasi bollente”. Il primo ufficiale Jan de Ruyter, il marinaio più anziano Henk Kaag, la vedetta Niek Boon, il motorista Klaas Boon e persino il Capitano osservano con indulgenza l’intraprendente vivacità dell’animale dalle pupille verticali e dalle corna appena accennate, che scorrazza dal ponte alla sala macchine saltellando e belando infantilmente.

La narrazione procede tranquilla e puntuale fino alla metà del libro, per poi animarsi improvvisamente in un crescendo ansioso e turbato, in cui l’atmosfera nebbiosa e sospesa attorno alla nave acuisce la tensione psicologica che invade i protagonisti del racconto.

Mathijs Deen (1962) è uno scrittore e giornalista olandese, autore di reportage, documentari e programmi radiofonici. Ha pubblicato saggi narrativi e racconti che gli sono valsi importanti riconoscimenti di pubblico e critica. Iperborea ha già pubblicato nel 2020 il suo corposo romanzo Per antiche strade, che combina ricerca storica, diario di viaggio e invenzione.

Molto abilmente Deen accompagna il lettore in un climax angoscioso, che vede il cuoco cadere in preda al delirio della malaria proprio quando si appresta a macellare il capretto, l’equipaggio prendere le parti dell’animale cercando di sottrarlo all’uccisione, il mare mugghiare minaccioso mentre le luci del faro solcano sinistramente le onde, le boe di segnalazione accecate dalla foschia e la sirena (“quell’animale lamentoso, quel toro malato”) annunciare lugubre gli incombenti pericoli di collisione con i mercantili, i cargo e le navi da crociera che sfiorano la Texel nel buio.

L’inquietante presagio di un evento drammatico è suggerito dall’autore nella descrizione degli incubi di Lammert, sudato e febbricitante nella sua cabina, confusi tra la prigionia e le torture subite a Giava e l’eco della turbinosa tempesta avvertita oltre l’oblò, mentre Snoek ossessionato dalle allucinazioni teme di riconoscere nell’impaurito capretto uno spirito demoniaco che si è impossessato delle menti dell’equipaggio. Senza svelare la conclusione del racconto, si può forse anticipare che la vittima predestinata al sacrificio sarà l’unica a salvarsi dal male che dilaga sulla nave faro.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali»     29 settembre 2022

RECENSIONI

DEL COLLE

PAOLO DEL COLLE, STATO DI INSOLVENZA – AMOS, VENEZIA 2022

Le tre sezioni in cui si suddivide Stato di insolvenza, il più recente lavoro di Paolo Del Colle (a cura di Arnaldo Colasanti, con illustrazioni di Giuseppe Salvatori), non rivelano nella loro scansione una reale frattura di forme e contenuti. Lo stile, in Al termine, Irene e Nomi propri, si mantiene infatti costantemente ansioso, affannato, incalzante – pur nella pronuncia sommessa –, nel suo procedere privo di punteggiatura, a versi brevi e caratterizzati da costrutti perlopiù ripetitivi.

L’argomento principale è quello dell’esplorazione dell’io, senza indulgere tuttavia allo scandaglio psicanalitico, e invece con una ossessiva esposizione del proprio male di vivere, perlopiù rassegnato e amareggiato, talvolta quasi risentito nei confronti di sé e del mondo intorno. Il “tu” femminile che appare e scompare, si mimetizza e sdoppia nella sua evanescenza fisica, risulta una presenza-alibi con cui la prima persona singolare mette in scena un incontro-scontro da cui sa di non potersi attendere risposte, pur illudendosi di un ascolto solidale e confortante. Una presenza quasi scorporata, quella della donna, a cui si attribuiscono caratteri fluttuanti e indefiniti, mentre più assoluto e incombente è il profilo dell’anima dell’autore, sola e silenziosa interlocutrice con cui confrontarsi (“mi attendi, anima ansiosa, / nel provvisorio inganno / di non fare in tempo / ad essere ciò che sono / per così rimanere / con me in ascolto / di quel che si dirà di te”).

Soliloquio più che dialogo, testimoniato dalla ricorrenza di termini che indicano labilità, oscurità, inconsistenza, sconfitta: ombra e penombra, vano e svanire, simile e somiglianza, sfuggire e perdere. Se “un livido momento di incertezza” segna “il breve orizzonte” delle giornate uguali, inutili, mute, qualsiasi alterità umana o metafisica non può offrire scampo alla pena, nessuna voce regala sollievo “in questo parziale aldilà che cerca un compimento”. La sofferenza è indubbiamente anche fisica, testimoniata dal racconto di dolenti esperienze ospedaliere, medicazioni, ricette, cure a cui il corpo non ha voglia di rispondere. Ma è principalmente patimento mentale, afflizione dello spirito, “melancholia”. La ricerca di un passato comune da ricostruire con la sorella, il ricordo di un’infanzia terrorizzata dalle “voci alterate” dei genitori (“guardandoci vedevamo / due adolescenti impauriti / le mani sulle orecchie / chiusi nella propria stanza”), l’inventario dei vestiti della madre morta verso cui non si riesce a provare né affetto né gratitudine, la rassegnazione a un destino ingiusto, privo di prospettive future di cambiamento (“e allora tutto resterà / come ieri come un mese fa / come all’inizio”), la scoperta dell’inevitabile incomunicabilità con chi ci è vicino, condannato a rimanere uno sconosciuto (“quando nessuno di noi è ciò che pensa l’altro”): tutto ciò dà alla raccolta di Paolo Del Colle l’impronta amara di un’infelicità priva di desideri e di possibilità di riscatto.

Il titolo stesso sembra indicare una disposizione negativa nei confronti della propria vita e indole, poco accettata, misurata con severo rigore. Giuridicamente, infatti, per stato di insolvenza si intende l’incapacità non solo passata ma anche e soprattutto futura di pagare i debiti, l’impossibilità di soddisfare le obbligazioni: una effettiva dichiarazione di fallimento imprenditoriale, che Del Colle ha voluto dilatare a livello letterario e di analisi introspettiva, sottolineando il disagio esistenziale che ne deriva.

Poeta, romanziere e critico, nato nel 1957, l’autore vive a Roma e ha vinto quattro anni fa il Premio Nazionale Frascati con il volume Nuda proprietà, in cui alternava versi e prose indaganti i temi della mancanza, del lutto e delle diverse modalità dell’essere, inanimato e animale.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 9 ottobre 2022

 

 

Alida Airaghi

RECENSIONI

DEL SOLDA’

PIETRO DEL SOLDÀ, NON SOLO DI COSE D’AMORE – MARSILIO, VENEZIA 2018

Nel suo interessante volume Non solo di cose d’amore, recentemente pubblicato da Marsilio, Piero Del Soldà (Venezia, 1973), autore e conduttore del programma di Rai Radio 3 Tutta la città ne parla, si interroga su come si possa imparare a essere felici, seguendo le indicazioni e le tracce disseminate dalla filosofia antica, e di colui che ne è stato il più conosciuto dei maestri: Socrate. Proprio Socrate, con il suo tenace interrogare i discepoli riguardo a ogni questione etica, politica e logica, nel suo paziente e ironico scavo nelle coscienze degli oppositori, nel ribadito sottolineare le contraddizioni del pensiero e del linguaggio, può forse oggi aiutarci a recuperare l’antico e necessario artificio di ogni indagine filosofica: il porsi domande, il proporre risposte, il continuo dialogare in un confronto stimolante con l’altro da noi.

Del Soldà, forte dei suoi studi classici e del dibattito radiofonico con gli ascoltatori sui diversi argomenti suggeriti dalla cronaca quotidiana, indaga le contraddizioni dell’attualità utilizzando gli strumenti offerti dalla dialettica socratica: e lo fa scandendo il testo in tre sezioni, concernenti i problemi dell’io, la vita collettiva, e l’idea di felicità. Tutt’e tre queste fasi della sua ricerca hanno come perno la consapevolezza che ogni obiettivo, individuale o sociale, che ci proponiamo di raggiungere è ottenibile sulla spinta di una tensione erotica. Socrate nel Simposio affermava di intendersi «solo di cose d’amore», volendo tuttavia indicare con questo termine non tanto il sentimento privato e romantico che noi gli attribuiamo oggi, bensì l’attenzione consapevole e generosa verso ogni aspetto dell’esistenza, dalla politica all’economia, dalla giustizia all’arte, dalla virtù alla verità come fine.

Nel primo capitolo, l’autore esplora le cause che rendono l’individuo contemporaneo infelice, insoddisfatto e insicuro: oltre a motivazioni concrete e cogenti, quali la precarietà lavorativa, la mancanza di prospettive future, il deteriorarsi dei rapporti familiari, l’emergenza abitativa, ne esistono altre più soggettive e indotte culturalmente: la competitività, il conformismo, la diffidenza verso il prossimo, il timore del fallimento sociale, il culto del successo, l’ossessione dell’apparenza, la solitudine. Ostentazione, ipertrofia dell’io, volontà smodata di affermarsi, utilizzo di artifici retorici per sbaragliare l’avversario sono tecniche di sopraffazione che non riguardano solo l’oggi. Ai tempi di Socrate se ne servivano i sofisti, che avevano in Protagora il massimo esponente. Nella descrizione infastidita che ne dà l’autore, confrontandolo con la severa moralità di Socrate, intuiamo il giudizio negativo riservato a tanti figuranti dei nostri giorni che sfruttano la loro vacua e aggressiva eloquenza con l’unico scopo di ottenere popolarità.

Nella parte centrale del volume, Piero Del Soldà analizza i rapporti che il singolo cittadino di un paese democratico instaura con l’ambiente civile in cui è inserito, «il senso e il valore della vita associata e i problemi che affliggono la politica contemporanea». Questioni numerose e difficilmente risolvibili: populismo, disaffezione verso le istituzioni, astensionismo, disuguaglianze economiche, crisi delle identità nazionali, controllo invasivo del potere, abuso o negazione delle libertà personali. In una società ridotta a “teatro indifferente”, per molti «il palco di oggi è composto dallo schermo televisivo, dai social network e dagli algoritmi che rendono ogni giorno più spessa e coriacea la bolla nella quale si trovano riuniti tutti coloro che la pensano allo stesso modo». La felicità personale dei cittadini può concorrere a migliorare l’esistenza collettiva, si può abbattere il muro interiore che deresponsabilizza l’individuo e lo separa dagli altri? Socrate asseriva che «ogni decisione pubblica va ricondotta al reciproco rispecchiarsi di chi conosce se stesso». È ancora l’insegnamento socratico a illuminare le pagine conclusive, forse le più coinvolgenti, del volume. In esse Del Soldà esprime la speranza che una liberazione dalle angosce dell’uomo moderno possa arrivare da un ritorno al pensiero filosofico, da una riscoperta dell’interiorità che anziché chiudere apra agli altri, riconosciuti simili e non solo antagonisti. Sull’esempio di Socrate, dobbiamo riscoprire un sapere che sappia unire «conoscenza e impegno, libertà e cura degli altri, domanda e risposta», in un dialogo intessuto tra intimità e socialità, riflessione e azione concreta, eros e poiesis, che abbia come fine il raggiungimento della verità e della giustizia.

 

https://www.sololibri.net/Non-solo-di-cose-d-amore-Del Solda.html                 31 maggio 2018

© Riproduzione riservata

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DELEUZE

GILLES DELEUZE , L’ESAUSTO – NOTETTEMPO, ROMA 2015

L’Épuisé è stato pubblicato nel 1992 da Gilles Deleuze (1925 -1995) a commento di quattro pièces scritte, realizzate e dirette da Samuel Beckett per la televisione tedesca tra il 1975 e il 1982.
Le quattro pièces televisive (Quad, Ghost Trio, …but the clouds…, Night and Dreams) vengono lette dal filosofo francese con un’attenzione particolare non solo agli interpreti, ma soprattutto allo spazio scenico, ai movimenti, ai silenzi e alle connessioni sonore, alle luci, all’evocazione di immagini, all’estenuazione di ogni possibilità narrativa.

«Molte sono le affinità dell’opera di Beckett con il balletto moderno: la perdita di ogni privilegio della statura verticale; i corpi agglutinati per reggersi in piedi; uno spazio qualunque invece di estensioni qualificate; la storia o narrazione sostituita da un “gestus”, come logica delle posture e delle posizioni; la ricerca di un minimalismo; la danza che invade la camminata e i suoi accidenti, la conquista di dissonanze gestuali…».

Il movimento dei corpi, nel teatro e quindi anche nei lavori televisivi di Beckett, viene depotenzializzato per diventare movimento nel mondo dello spirito: «Non si possono esaurire le gioie, i movimenti e le acrobazie della vita dello spirito se il corpo non resta immobile, raggomitolato, seduto, cupo, esausto». E cosa significa l’esausto, per Deleuze? «L’esausto è molto più dello stanco…Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile…Solo l’esausto può esaurire il possibile, perché ha rinunciato a qualsiasi bisogno, preferenza, scopo o significato».

Personaggi esausti, quelli beckettiani, fisiologicamente sfiniti, disinteressati al reale, decrepiti, abulici, falliti: immobilizzati in posture di attesa, rattrappiti, chini. Seduti.
La posizione seduta è quella che meglio definisce l’esausto, incapace di alzarsi o di distendersi, inabilitato a esprimersi. Nel non-linguaggio di Beckett, Deleuze individua tre gradi di esternazione: lingua I (lingua dei nomi: disgiuntiva, spezzata, enumerativa), lingua II (lingua delle voci: fluida, ondulata, combinata, confusa), lingua III (lingua delle immagini: visiva, pura, incontaminata, fantastica, libera da ogni condizionamento verbale). Soprattutto quest’ultima si adatta al mezzo televisivo, è in grado di spaziare dissipandosi, possiede una “forsennata energia” che oltrepassa i limiti del contenuto: «L’immagine finisce subito e si disperde, perché è lei stessa strumento della fine. Cattura tutto il possibile per farlo saltare in aria…L’immagine è un soffio, un fiato, ma spirante, in via d’estinzione. L’immagine è quel che si spegne, si consuma, è una caduta».

Beckett e Deleuze («pensatori radicali e profondi artisti, capaci non tanto di dar corpo al pensiero, quanto di dare pensiero al corpo», secondo la prefatrice del saggio Ginevra Bompiani) si incontrano qui nella volontà di analizzare l’avvicinarsi della fine, l’esaurimento della potenza, il momento penultimo che precede la morte. Penultimi sono sempre i personaggi beckettiani, penultima è la fase della vita malata e costretta alla sedia di Deleuze al momento di questa scrittura.
Nella postfazione di Giorgio Agamben, l’esausto fa dell’inoperosità la cifra del suo vivere, e nello stare seduto esaurisce ogni possibile azione, rifiutando a qualsiasi possibilità di poter essere messa in atto: «nel gesto del vivente, il vivibile non diventa mai vissuto, ma resta vivibile nell’atto stesso di vivere».

 

www.sololibri.net/L-esausto-Gilles-Deleuze.html     20 gennaio 2016

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DELEUZE – AGAMBEN

GILLES DELEUZE – GIORGIO AGAMBEN, BARTLEBY. LA FORMULA DELLA CREAZIONE
QUODLIBET, MACERATA 2012

A Bartleby lo scrivano, pubblicato nel 1853, sono dedicati due saggi di Deleuze e Agamben editi per la prima volta da Quodlibet nel 1993, e riproposti dalla stessa casa editrice tre anni fa.
In chiunque legga (o rilegga) il giustamente famoso racconto di Melville, rimane impresso nella mente un turbamento particolare, una sorta di inspiegabile inquietudine nei riguardi della figura del protagonista, questo copista scialbo e catatonico, animato solo da «una livida disperazione», ostinato nella ripetizione di una ingiustificata e incomprensibile formula di rifiuto: «I would prefer not to».
Gilles Deleuze e Giorgio Agamben ci guidano nei loro interventi a sondare i meandri di una mente disturbata, (o forse profeticamente in rivolta), e di un atteggiamento di indifferente sospensione verso l’esistenza, indagando il senso della sua unica, ribadita risposta: e lo fanno in due modi differenti, il primo con strumenti linguistico-psicanalitici, il secondo ricorrendo a ipotesi più filosofiche.
Deleuze, in una sapiente rivisitazione della narrativa melvilliana, attribuisce alla frase di Bartleby una agrammaticalità che rivela la sua anomalia, non solo come indisponibilità: «preferirei di no», esprime una formula sospesa tra affermazione e negazione, pronunciata da «un uomo senza referenze, senza possessi, senza proprietà, senza qualità…senza passato né futuro, istantaneo…», in cui si può scorgere il prototipo del disadattato moderno, in fuga da se stesso e da tutti, che riassume nella sua rivolta i caratteri di altri personaggi di Melville: «La psichiatria melvilliana invoca costantemente due poli: i monomaniaci e gli ipocondriaci, i demoni e gli angeli, i carnefici e le vittime, i Rapidi e i Lenti, i Fulminei e i Pietrificati, gli Impunibili (al di là di ogni punizione) e gli Irresponsabili (al di qua di ogni responsabilità)».

Se i romanzi francesi e inglesi, dal loro nascere, «sentono il bisogno di razionalizzare», quelli americani e russi, già dall’800, si spingono lontano dalla ragione, dando vita a figure misteriose, folli, che sfidano ragione e psicologia. In questo, Bartleby diventa capofila di una serie di “uomini del sottosuolo” enigmatici e disubbidienti, falliti e rivoltosi, che tuttavia hanno il compito di mettere in crisi la coscienza contemporanea, ottusamente soddisfatta di sé, e priva di interrogativi e di scrupoli morali.
Da parte sua, Giorgio Agamben esplora il significato dell’essere in potenza, così come è stato individuato da Aristotele in poi. La sua coltissima rivisitazione del pensiero filosofico e teologico a partire dalle origini (non solo lo Stagirita, quindi, ma anche la cabala, Avicenna, il sufismo, Scoto Eriugena, Leibniz, per arrivare a Nietzsche, a Benjamin…) indaga «la costruzione di un’esperienza del possibile», «il pensiero che pensa se stesso», «il nulla come pura, assoluta potenza». Bartleby appartiene appunto a questa costellazione filosofica: «non stupisce, quindi, che egli dimori così ostinatamente nell’abisso della possibilità e non sembri avere la più piccola intenzione di uscirne». Il suo irriducibile «preferirei di no» è una sospensione del giudizio, ma riprende l’epoché degli scettici, non accetta e non rifiuta, non pone e non nega. Cosa annuncia, pertanto, con la sua formula caparbiamente ripetuta? Secondo Agamben esprime una rinuncia alla Verità, alla Legge, al Giudizio. In una nuova creazione del possibile, in una Palingenesi inverificabile.

 

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/Bartleby-La-formula-della.html      11 novembre 2015

RECENSIONI

DELFANTI

ALESSANDRO DELFANTI, IL MAGAZZINO – CODICE, TORINO 2023

Nella nota metodologica in calce al volume Il magazzino, Alessandro Delfanti (piacentino, docente di Politiche dei media e della tecnologia all’Università di Toronto) dichiara: “Questo è un libro di parte, che sta con le lotte per migliorare le condizioni di lavoro nel magazzino. Non esisterebbe senza i sindacati e i gruppi di lavoratori e lavoratrici che mi hanno donato il loro tempo e le loro idee”.

Il magazzino. Lavoro e robot ad Amazon è un saggio-inchiesta che indaga l’attività produttiva nei magazzini Amazon, e più in generale il rapporto tra automazione e prestazioni umane nell’economia digitale. Si basa su interviste condotte tra il 2017 e il 2021 con dipendenti ed ex-dipendenti delle aziende Amazon in Italia e in altre nazioni, oltreché di differenti industrie dell’e-commerce.

In sei capitoli Delfanti analizza la brutale realtà di sottomissione, sorveglianza e tattiche antisindacali attuata nelle società di Jeff Bezos, realtà da tempo nota all’opinione pubblica mondiale, ma raramente oggetto di critica dal punto di vista etico e ideologico. Il primo e più grande magazzino Amazon d’Italia, inaugurato nel 2011, si trova a Castel San Giovanni, a un quarto d’ora di strada da Piacenza, città natale dell’autore: è un edificio lungo 400 metri, situato in posizione strategica per servire gli importanti mercati settentrionali, e occupa più di tremila dipendenti organizzati in turni, ventiquattr’ore al giorno per sette giorni la settimana, confezionando un milione di prodotti al giorno.

Nell’area circostante centinaia di ettari di terreno agricolo sono oggi occupate dai magazzini di Ikea, H&M, FedEx, Zalando, che hanno modificato non solo la struttura del paesaggio, ma anche la mentalità e la concezione del lavoro degli abitanti della provincia piacentina. Amazon sta infatti riplasmando il tessuto sociale di intere nazioni, agendo sui desideri compulsivi di acquisto delle persone, attraverso un unico messaggio: “compra più cose, più in fretta, più comodamente, spendendo meno e senza dover cercare da qualche altra parte”. Il consumismo è diventato istantaneo, tassativo, vincolante, pena l’esclusione dai rapporti interpersonali, grazie a un’intuizione vincente di Jeff Bezos, che fondò la sua azienda nel 1994 come libreria online. Attualmente, con 1,5 milioni di dipendenti, Amazon è la seconda società privata al mondo, dopo Walmart. Vanta un’anima relentless, ovvero implacabile, inarrestabile nell’essere sempre operativa, ossessionata nel rispettare le scadenze e nel pretendere dalle maestranze il massimo rendimento. Da azienda leader nell’e-commerce, in grado di offrire qualsiasi tipologia di oggetti nell’arco di 24 ore, è diventata anche il maggior fornitore di spazio web e di cloud computing al mondo (AWS), ai cui server si appoggiano giganti come Netflix, Zoom e Uber. “Con il programma Rekognition vende tecnologia di sorveglianza ai governi, produce inoltre gadget digitali come l’e-reader Kindle e il tablet Fire. Il suo speaker Echo per la domotica consente di utilizzare Alexa, un assistente virtuale sostenuto da algoritmi in grado di processare il linguaggio naturale… Possiede e gestisce una piattaforma streaming, Prime Video, e grazie agli Amazon Studios ricopre oggi un ruolo importante nella produzione di film e serie tv. Possiede anche Amazon Go, una catena di supermercati completamente automatizzati e i supermercati biologici Whole Foods”.

Amazon investe la propria potenza economica soprattutto nell’innovazione tecnologica, per incrementare il tasso produttivo nei propri magazzini attraverso una capillare robotizzazione e per monitorare i dipendenti, estraendo dati preziosi dalle loro prestazioni. I lavoratori rappresentano infatti la variabile più problematica della produzione, pertanto vengono strettamente controllati e governati per evitare che rallentino o arrestino il flusso delle merci. Il controllo ossessivo agisce a tutti i livelli: sul ritmo e la velocità dettati dagli algoritmi aziendali, attraverso un sistema di sorveglianza invasivo e un lavaggio del cervello dei quadri impiegatizi addetti al marketing e all’amministrazione, su cui fa leva l’idea di emancipazione individuale e modernizzazione collettiva. L’uso didascalico di slogan ripetuti e disegnati ovunque (“I leader sono spesso nel giusto”, “Pensare in grande”, “Passione per il cliente”, insieme ad altre parole d’ordine culturalmente più ambiziose e universali: Work hard, Have fun, Reimagine now, Make history), mirano a introiettare ideali di successo, competizione, orgoglio aziendale e una subdola creazione del consenso nei subalterni, da attuarsi sia attraverso misure disciplinari sia con incentivi e promesse paternalistiche di felicità e divertimento.

Il volume di Alessandro Delfanti analizza in maniera particolareggiata non solo le tecniche di produzione e di vendita di Amazon, ma anche l’ideologia che ne è sottesa, manipolatrice e monopolizzatrice, per cui a livello globale sembra che non possano esistere alternative all’e-commerce di Seattle, sebbene non sempre ai posti di lavoro creati corrisponda un’effettiva crescita dell’economia e dei redditi familiari nelle aree limitrofe agli stabilimenti.

Nei vari capitoli del volume vengono utilizzati gli strumenti dell’intervista e dei sondaggi per analizzare le opinioni di dirigenti, manovali, trasportatori, impiegati, stagionali, ingegneri, programmatori: si raccolgono confidenze, lamentele, rancori, rabbie, speranze di riscatto. Testimonianze toccanti di un’attività frenetica e faticosa, in modalità always-on, che spesso provoca infortuni e malattie professionali legate allo stress. In spazi sempre più robotizzati, asettici, illuminati da luci al neon e attraversati da chilometri di nastri trasportatori, le persone si riducono anch’esse a robot identificati da un codice a barre come quelli stampati su ogni prodotto di cui si occupano. Insomma, sembra che tecnologia e automazione non ambiscano tanto ad alleviare il lavoro umano, quanto a direzionarlo e a sottometterlo. La produzione, scandita in quattro passaggi (receive, stow, pick, pack), che Delfanti esamina scomponendoli dettagliatamente, è pensata in funzione della velocità e dell’efficienza che l’azienda promette ai consumatori, per “raggiungere le quote” e “gli obiettivi” necessari al consolidamento della sua crescita.

Il capitalismo digitale sta soppiantando ovunque quello industriale non solo servendosi della riduzione del potere contrattuale dei lavoratori e della precarizzazione, ma soprattutto mirando all’ espansione dei processi di globalizzazione e all’ascesa del mercato finanziario.

Sarà sempre così? Cominciano ad aprirsi spazi di critica e contestazione, germi di ribellione tra i dipendenti, una nuova coscienza ecologica ed ambientale tra i clienti, e un revival sindacale che appoggia le rivendicazioni e gli scioperi delle maestranze in vari paesi del mondo: il primo è stato proprio nel magazzino di Piacenza, il 24 novembre 2017, a cui hanno partecipato centinaia di lavoratrici e lavoratori. “Le loro lotte possono aiutarci a immaginare un futuro diverso, un nuovo percorso di liberazione dalla morsa del capitalismo digitale”.

 

© Riproduzione riservata                          «Gli Stati Generali», 26 agosto 2023

 

RECENSIONI

DELLA VALLE

MASSIMO DELLA VALLE, IL TEMPO DELLA LUCE – MORELLINI, MILANO 2022

Nella collana Improvvisazioni l’editore milanese Morellini ospita testi liminari alla poesia, poco ortodossi rispetto alla produzione attuale, scritti da autori che pur dedicandosi professionalmente ad altre materie, costeggiano suggestive atmosfere letterarie.

È il caso del recente volume Il tempo della luce, dell’astrofisico Massimo Della Valle (Bari 1957), noto studioso di fenomeni quali le supernovae, i lampi gamma, le onde gravitazionali, che dalla scrittura in versi ha tratto ispirazione per alimentare i dati, di per sé piuttosto aridi, delle sue ricerche, contemporaneamente offrendo agli umanisti spunti di riflessione ricavati dall’indagine scientifica

Cosa lega la poesia alla scienza? Senz’altro la stessa ansia di conoscenza, di porre domande e cercare risposte, di guardare con stupore e curiosità oltre alla realtà visibile, tentando di vincere l’angoscia del sapersi mortale. Se Leopardi fa dire al suo pastore errante “che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?”, anche lo scienziato più scettico si pone gli stessi interrogativi sull’origine e la fine dell’esistenza. Conoscere a fondo i meccanismi che regolano biologia, chimica, fisica, neurologia e astronomia non distrugge il fascino del mistero che ci circonda, semmai ne amplifica la meraviglia: poesia e scienza intersecano i loro percorsi, arricchendosi vicendevolmente.

Massimo Della Valle affronta i concetti basilari dell’astrofisica in undici capitoli che esplorano la storia della luce, affiancando alle pagine teoriche alcuni contributi di chi ha guardato all’universo in termini fantastici, mitologici, filosofici o appunto poetici: Dante, Shakespeare, Celan, Canetti, Derrida, Levi, Pasolini, Blanchot, Proust, Keats.

Hölderlin, osservando “la fioritura del cielo”, forse non era particolarmente interessato ad analizzare lo spettro luminoso, né Dino Campana fantasticava sulla notte in termini scientifici (“Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto”): ma la loro emozione senz’altro può essere comparata a quella degli astronauti rinchiusi in una navicella spaziale lanciata in orbita intorno al nostro pianeta.

Il volume si apre scandendo la storia della luce in quattro epoche distinte. Dalle antiche intuizioni presocratiche alle più approfondite analisi di Aristotele fino all’epoca romana, si passa poi alla scienza islamica che vide negli studi sull’ottica di Alhazen il suo apice. Successivamente vengono indicati i traguardi dell’epoca moderna con le scoperte astronomiche di Copernico e Galilei e il contrasto tra Newton e Huygens sulla natura corpuscolare od ondulatoria della luce, approdando infine all’attuale fisica quantistica e allo studio dell’elettromagnetismo, che oggi si proietta verso la futura tecnologia wireless per trasportare i dati via Light Fidelity, sfruttando le onde luminose emesse da una lampadina LED, anziché le onde radio.

Della Valle spiega in modo chiaro e facilmente accessibile attributi e consistenza della luce, che dall’antichità è stata oggetto di culto per tutte le popolazioni della terra, anche nelle forme ingannevoli di credenze superstiziose, nei riti pagani, negli abbagli dell’astrologia. Ne illustra la velocità, l’energia, le particelle elementari, i colori, spingendosi a descrivere poi le eclissi, le supernovae, i buchi neri, la materia oscura, la gravità. Ci fornisce informazioni di base, che spesso dimentichiamo di possedere nel nostro bagaglio culturale, come queste: “Il Sole dista dalla Terra, in media, 150 milioni di km. Tutti sappiamo che la luce nel vuoto si propaga alla velocità di circa 300.000 km al secondo, quindi se qualcuno ci chiedesse quanto tempo impiega la luce emessa dal Sole a raggiungere la Terra, il conto è presto fatto: 150.000.000/300.000=500 secondi, corrispondenti a circa 8 minuti e 20 secondi. Se il Sole magicamente si spegnesse ora, noi lo vedremmo risplendere in cielo per altri 8 minuti e poco più. Solo successivamente arriverebbe l’oscurità”. Appena più complicato ci può apparire il testo quando si addentra nelle reazioni termonucleari, o nelle collisioni tra fotoni e protoni, ma le simpatiche metafore usate per facilitarne la comprensione, rendono la lettura ancora più stimolante.

Se ogni atomo del nostro corpo proviene da una stella che è esplosa, diceva il vero una vecchia canzone di Alan Sorrenti, definendoci “figli delle stelle”, cioè della luce. Perché, secondo Ralph Waldo Emerson “Da dentro o da dietro una luce brilla attraverso noi sulle cose e ci rende consapevoli che non siamo niente, che la luce è invece tutto.

 

© Riproduzione riservata   «Gli Stati Generali», 7 dicembre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

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