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RECENSIONI

DUERRENMATT

FRIEDRICH DÜRRENMATT, LA PROMESSA / LA PANNE – EINAUDI, TORINO 2006

Dei tre testi dello scrittore svizzero (morto nel 1990) qui riuniti, forse il primo è il più famoso, perché portato sullo schermo da Vajda e da Sean Penn. L’omicidio di una bambina in un bosco del canton Zurigo è colpevolmente e falsamente attribuito a un ambulante che viene incarcerato e poi si uccide, innescando una serie di conseguenze che finiscono per travolgere anche gli organi della polizia locale: sempre a evidenziare, secondo la nota teoria duerrenmattiana, che la realizzazione di una vera giustizia è impossibile e utopistica, e che solo il cieco caso dirige le vicende umane, inevitabilmente portando alla rovina, al disonore, alla morte le persone più deboli e indifese. L’ultimo testo è un radiodramma satirico che di nuovo vede trionfare la menzogna e la violenza, incarnate da un Premio Nobel scrittore di gialli e assassino seriale, rispetto a qualsiasi vano tentativo di smascheramento. Ma la vicenda più surreale e intrigante, sarcastica e crudele, è quella narrata nel romanzo breve “La panne”, in cui un commerciante di stoffe, obbligato da una panne della sua auto a pernottare in un paesino isolato, viene ospitato nella casa di un ex magistrato, che insieme ad altri tre ospiti (“immensi corvi… vecchissimi, unti e bisunti…), anch’essi a diverso titolo amministratori della giustizia in pensione, lo obbligano a un perfido gioco di società, inscenando un processo che lo vede prima imputato, quindi condannato a morte, per un delitto in realtà mai commesso, di cui però alla fine egli stesso si convince ad autoaccusa, in un crescendo delirante di follia che lo condurrà al suicidio. “Non vi è più un dio che minacci, né una giustizia, né un fato… ci sono solo incidenti del traffico, dighe che crollano per errori di costruzione, l’esplosione di una fabbrica di bombe atomiche provocata da un assistente di laboratorio un po’ distratto… Si scorgono dei giudici, una giustizia, forse anche la grazia, colta per caso, riflessa nel monocolo di un ubriaco”.

IBS, 20 giugno 2013

RECENSIONI

ÐIKIĆ

IVICA ÐIKIĆ, METODO SREBRENICA, BOTTEGA ERRANTE, UDINE 2020

Un romanzo-documentario, quello che Ivica Đikić (Tomislavgrad 1977), giornalista ed editore bosniaco, ha scritto nel 2016 per raccontare come è avvenuto l’eccidio di Srebrenica, e secondo quali modalità pratiche sono state uccise 8000 persone nell’arco di quattro giorni, dal 12 al 16 luglio 1995.

In quella tragica estate, Đikić si era appena iscritto alla facoltà di scienze politiche a Zagabria, e il genocidio operato dall’esercito serbo l’aveva solo sfiorato emotivamente: viveva imbozzolato nel dolore dopo quattro anni di guerra e inedia, la morte precoce del padre e la paura del futuro per la propria famiglia: “Si moriva, erano mancati alcuni nostri cugini, vicini di casa, amici, gente che conoscevamo. Le granate cadevano per la strada, potevo vedere da vicino corpi di morti sfigurati su cui volavano le mosche”.  Srebenica si trovava a 400 km di distanza dalla sua città natale, nella Bosnia orientale, e solamente dieci anni dopo il massacro si era recato a visitarla, insieme a due colleghi. “La guerra restringe e sminuisce ogni cosa”, e il giovane reporter per molto tempo si era accontentato, come altri intellettuali e la maggior parte dell’opinione pubblica, delle versioni ufficiali fornite da vari governi, e dei resoconti confusi dei media internazionali. La responsabilità dell’eccidio veniva genericamente attribuita al generale Ratko Mladić e al presidente della Repubblica Serba Radovan Karadžić, ritenendo gli esecutori materiali semplice e oscura manovalanza.

In Metodo Srebrenica, Ivica Đikić ha ricostruito poi, sulla base di minuziose ricerche sul campo, “i procedimenti minimi ed elementari, davvero concreti, di tante persone in carne e ossa: dall’espressione sul viso delle vittime al momento dell’uccisione a quella di chi pronuncia l’ordine di uccidere, fino alle parole e ai codici che vengono utilizzati nella comunicazione fra le persone coinvolte nell’esecuzione della strage”.

La prima parte del volume ricostruisce puntualmente le vicende storiche dei conflitti nella penisola balcanica, iniziati alla morte di Tito nel 1980 e intensificatisi a partire dal decennio successivo, con la proclamazione dell’indipendenza dall’ex Jugoslavia della Bosnia Erzegovina, di Slovenia e Croazia nel 1992, e l’inizio della guerra civile, nell’aprile dello stesso anno, con l’aggressione della Serbia alla Bosnia-Erzegovina già dilaniata da tensioni etniche ed esasperati nazionalismi, che opponevano i serbi ai musulmani e ai croati.

Srebrenica contava allora trentasettemila abitanti, al 73% musulmani, al 25% serbi, ed era considerata un obiettivo strategico per collegare le parti nord e sud della Repubblica Serba attraverso un corridoio da creare lungo il fiume Drina. Benché i musulmani costituissero la maggioranza degli abitanti, le formazioni serbe volontarie e quelle mercenarie erano riuscite ad assumere il comando nella cittadina,

dove i bosgnacchi venivano uccisi in esecuzioni sommarie, cacciati di casa e deportati, o si riducevano a vivere in condizioni disumane per la carenza di cibo e l’allarmante situazione igienica.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 16 aprile 1993 proclamò Srebrenica “zona protetta”, sotto la tutela militare dell’ONU, composta da cinquecento militari, cui nel gennaio del 1995 si unì il battaglione olandese dell’UNPROFOR.

L’operazione serba (denominata in codice Krivaja 95) per l’eliminazione dell’enclave protetta della regione ebbe inizio la mattina del 6 luglio, nella totale impreparazione e passività delle forze delle Nazioni Unite, incapaci di opporsi all’assalto delle truppe di Mladić.  L’11 luglio circa venticinquemila civili bosgnacchi trovarono rifugio nella base delle truppe dell’ONU, convinti di trovarsi al sicuro. Altre migliaia di persone, soprattutto maschi adulti, cercarono riparo in villaggi vicini e nel bosco di Buljim, nella zona nord-occidentale della regione. Il mondo occidentale non reagì in alcun modo alla strage successiva, sebbene documentata dalle immagini satellitari delle uccisioni in massa e della realizzazione delle fosse comuni.

Il generale Mladić proclamò con orgoglio davanti alle telecamere: “Eccoci in questo 11 luglio 1995 nella città serba di Srebrenica. Alla vigilia di un’altra grande festa serba, offriamo al popolo serbo questa città. E finalmente è venuto il momento, dopo la rivolta contro i condottieri giannizzeri, di vendicarci dei turchi proprio in questi luoghi”. L’identificazione dei bosgnacchi con i turchi ottomani che avevano governato nei Balcani per quasi cinque secoli, era tornata a rivivere anche prima di allora nella propaganda, nelle menti e negli animi dei serbi, che manifestavano l’odio, il disprezzo e la sottostima tramandati di generazione in generazione per chi li aveva discriminati in passato.

A dirigere e organizzare lo sterminio fu il colonnello Ljubiša Beara, capo della Direzione di sicurezza nel Comando supremo, già capitano di vascello di stanza a Spalato: a lui Ivica Đikić dedica la seconda parte del libro, non solo in una ricostruzione fedele dei fatti avvenuti nei quattro giorni del massacro, ma anche ripercorrendo la vita del criminale prima e dopo la guerra, attraverso numerose testimonianze e documenti processuali. Occhialuto, massiccio, stempiato e brizzolato, proprio quel 14 luglio 1995 Beara compiva 56 anni: era stato sempre ciecamente fedele agli ordini che gli venivano impartiti, e non aveva messo in discussione nemmeno per un attimo la disposizione affidatagli di annientare la popolazione maschile dell’enclave di Srebrenica.

Da quali motivazioni fu spinto a tali atrocità? Sentimento di lealtà alla Repubblica Serba, sete di vendetta e odio etnico verso i bosgnacchi, fanatismo religioso, megalomania e vanità, pressioni esterne e debolezza, carrierismo e fascinazione nei confronti di Mladić, ingannevole assimilazione dei concetti di devozione e onore, abuso di sostanze e di alcol, o il subdolo tentativo di provocare uno shock internazionale che avrebbe portato alla conclusione della guerra?

Sua prioritaria preoccupazione fu individuare le località dove effettuare l’esecuzione dei prigionieri, occultandone i cadaveri senza lasciare tracce. Đikić elenca nomi e ruoli di chi collaborò con Beara nell’ideazione e realizzazione dell’eccidio: autorità politiche, ufficiali dell’esercito serbo, reparti speciali di polizia, paramilitari regionali e locali, mercenari e volontari. In particolare agirono in tal senso il sessantacinquesimo reggimento motorizzato di difesa e il decimo reparto guastatori. Più di cento uomini furono implicati a vario titolo nella strage, altrettanti nel seppellimento dei corpi.

Oltre a Srebrenica, teatro della carneficina erano stati i paesi di Kravica, Cerska, Zvornik, Bratunac, secondo le stesse modalità di azione, evidentemente imposte dai vertici militari. I maschi giovani e adulti (ma tra le vittime ci fu anche un undicenne), separati dalle donne, dai bambini e dagli invalidi, vennero ammassati in camion e autobus, portati in campi di raccolta, in scuole, magazzini, fabbriche dismesse, poderi agricoli, cave di ghiaia, e poi sterminati con raffiche di fucili automatici, mitragliatrici e bombe. Nel frattempo si impiegavano operai e macchinari nello scavo di fosse comuni in cui gettare i cadaveri, ricoperti con terra e sabbia. Dal 12 al 16 luglio 1995 furono uccisi ottomila musulmani bosniaci: fino ad oggi sono stati identificati e sepolti circa settemila trecento corpi, e si continuano a cercare le ossa delle restanti vittime.

I principali responsabili del genocidio furono condannati all’ergastolo dal Tribunale internazionale per i crimini di guerra dell’Aja: tra loro, ovviamente anche Ljubiša Beara, che si ostinò a respingere tutte le accuse, sostenendo che in quei giorni si trovava a Belgrado per festeggiare il suo compleanno.

 

© Riproduzione riservata                         «Gli Stati Generali», 17 marzo 2023

 

 

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ECKHART

MEISTER ECKHART, IL RITORNO ALL’ORIGINE – LE LETTERE, FIRENZE 2007

Accompagnato da un ricco apparato di note, e curato dal Professor Marco Vannini, questo piccolo volume si struttura in quattro sezioni. Nel capitolo introduttivo vengono riportate le diciassette proposizioni eckhartiane condannate nel marzo del 1329 dal pontefice avignonese Giovanni XXII (definito da Dante “lupo rapace”) con la bolla “In agro domini”. Proposizioni che forse potrebbero risultare scandalose anche a qualche devoto di oggi: Meister Eckhart infatti vi afferma che il mondo esiste dall’eterno, ed è contemporaneo a Dio a al Figlio; che in ogni azione umana, anche in quella più malvagia, “si manifesta e riluce ugualmente la gloria di Dio”; che “chi bestemmia Dio stesso, loda Dio”. E addirittura che qualsiasi creatura umana è pari al Figlio e a Dio stesso: “Tutto quello che Dio Padre ha dato al Figlio suo unigenito nella natura umana, lo ha dato anche a me… Tutto quello che è proprio della natura divina, è proprio anche dell’uomo giusto e divino”.

L’intera opera del domenicano tedesco fu condannata dalla suddetta bolla, per cui cadde in oblio per più di cinque secoli, nonostante Eckhart avesse in punto di morte ripudiato qualsiasi sua affermazione contraria all’ortodossia. Il suo insegnamento venne tuttavia trasmesso ai posteri da altri mistici (Taulero, Cusano, Franck, Silesius), nutrendo di linfa sotterranea ma fertilissima tutta la spiritualità occidentale, e offrendo spunti di meditazione anche alle esperienze religiose del buddhismo e dell’induismo. Dopo una breve nota biobibliografica, il volume offre al lettore due fondamentali scritti eckhartiani: L’opera dello spirito e Perdersi per trovarsi, con alcune affermazioni decisamente rivoluzionarie, non solo per il tempo in cui sono state pronunciate, come la relativizzazione del peccato, delle opere, del tempo, della propria egoità, e l’assoluto predominio dell’azione dello Spirito e della Grazia. “La cosa migliore per l’anima è stare in un libero nulla”.

IBS, 6 marzo 2017

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EDERLE

ARNALDO EDERLE, PARADISO – UDINE, CAMPANOTTO 1994

Paradiso è il titolo dell’ultima raccolta poetica di Arnaldo Ederle, paradiso come una sezione della raccolta stessa, ma soprattutto come “altrove” della poesia, luogo della mente o dell’anima cui fare riferimento al di là delle brume opache dell’oggi, del qui.
Ederle è poeta d’immagini, ma non dell’occhio; è poeta di suoni, ma non dell’orecchio, perché nei suoi versi ogni elemento materiale pare in qualche modo sbucciato dalla sua corporeità, reso più lieve e meno oggettivo. Così le immagini diventano visioni, i rumori si fanno note di una partitura mentale le cui pause e accelerazioni, i cui “piano” e “fortissimo” segnano il tempo concreto della poesia scritta (o, come preferisce l’autore, letta ad alta voce).
Ferdinando Bandini, nella prefazione al libro, parla giustamente di «moto pendolare tra l’impatto con le cose (colori e atmosfere) e l’altro momento del suo periodo in cui il poeta si dirige verso il significato segreto delle cose, quel loro assediare, così inesplicabilmente, lo spazio della vita».

E qui ci viene in soccorso Ederle stesso, con alcuni versi tratti dalla prima, breve sezione del volume, scritta a commento di una cartella di fotografie: Viaggio dall’acqua alla casa, da ciò che si muove a ciò che è fermo, dall’indefinibile all’ancoraggio del concreto: «chi trovasse una casa, chi il riparo / dalla spietata deità della terra, / dall’invincibile abbraccio, / chi sfuggisse del cielo / il soprannaturale ammaliamento…». La casa come approdo concreto, quindi, riparo da un se stesso che si teme, ma anche recupero di un passato, di una memoria fatta di porte, pareti, scale, lavelli, tavolini, posacenere: tanti elementi corporei scolpiti nel ricordo, e ritrovati da passati diversi, sebbene ugualmente coinvolgenti e sofferti.
Ecco, dunque, un’altra chiave di lettura, il contrasto tra interni ed esterni, entrambi fascinosi e carichi di emozioni. Per rimanere nella prima sezione, gli elementi del “fuori” appaiono vaghi, inconsistenti, e forse per questo tanto più seducenti: nebbia, acqua, fumo, sabbia, riflessi di luce, aria, e il colore bianco o una vernice trasparente, appena increspata dal desiderio del colore. Ederle in questi versi pare avere assorbito e rimodellato la lezione dei più distesi tra i nostri lombardi: Sereni, Raboni. Più rilevante, nel succedersi della altre sezioni, è invece la contrapposizione tra presente e passato, la nostalgia per ciò che è stato e che si può tentare di ritrovare solo attraverso le parole; ma anche la nostalgia per ciò che è, e non sarà più tra poco, perché condannato a sparire, al non durare: «Quello che inizia ora è già finito, / non dico da lungo tempo, ma / da un numero d’anni sufficiente / a farlo passare per esistenza».

Ederle sembra tormentato dalla «mania dell’affetto seminato / nel rosa della carne». E’, in Fervida brace, il ricordo dell’amico poeta Giuseppe Piccoli, cui dedica sedici brevi componimenti che prendono l’avvio da altrettanti versi di lui. E chi ha conosciuto Piccoli ritrova in queste poesie i suoi odi turbati e sospesi, il suo essere poeta di gesti a disagio nel mondo, oltreché di parole e di pensieri: «ciò che resta / dei tuoi scherzi, il galateo gentile / che faceva arrossire le commesse;  La sua pelle / spiega il gesto infantile, / lo ricama; Lì dentro l’indistinto svaporare / d’ombre e vapori, nella fervida / brace appesa alla tue dita / ti distinguono; certo avrai tentato / di rannicchiarti tutto in un orecchio / ad ascoltarti dentro / se per caso il silenzio / volesse regalarti qualche pace; Tu qui sostavi / e in ogni altro altrove confortato / dal granello di spirito / ch’era rimasto salvo per miracolo / nell’angolo più buio della tasca / della tua giacca».

C’è, in questi versi, «mania dell’affetto», rimpianto, tenerezza verso il perduto, ma soprattutto un senso forte di mancanza, di incompletezza e quasi di colpa per essere chiamato a testimoniare, a ricordare. Lo si avverte anche nella sezione Paradiso, una specie di recitativo tra tre personaggi: il poeta stesso che parla in prima persona, suo padre Duilio e il lontano parente Chiereghino che riposano vicini nel camposanto di Verona, «in quel pollaio / di calti appesi al cornicione». Si tratta di un dialogo morti/vivi che non si risolve tutto e solo nel privato, benché ci sia anche questo (rimbrotti affettuosi, coinvolgimenti in episodi personali, immagini di un passato comune). Al di qua del paradiso si impone, irriducibile ad altro, la storia, con la guerra, gli ebrei e i tedeschi, gli ebrei e i palestinesi, Verona e i gabbiani sull’Adige, il lavoro degli artigiani di quarant’anni fa, il marocchino che oggi insegue la sua Mecca offrendoci accendini.
Arnaldo Ederle poeta testimone controvoglia, forse, perché la cronaca o la polemica civile non appartengono al suo registro di scrittura, è poeta del male di vivere («anche passano / al mio fianco paure oblique»; «Sì, l’ho vestito il sacco del dolore»), poeta del tempo (personale e perduto da una parte, metafisico e indifferente dall’altra), aggrappato alla poesia come fosse una lancetta di orologio, interno o cosmico, comunque misura dell’esistere.

 

«Verso» 9 /10, dicembre 1995

RECENSIONI

EDWARDS

DOROTHY EDWARDS, SONATA D’INVERNO – FAZI, ROMA 2022

Figura eccentrica e sfortunata, quella della scrittrice gallese Dorothy Edwards (1902-1934), autrice di una raccolta di racconti e di un unico romanzo, Sonata d’inverno. Figlia di due insegnanti, laureata in greco, socialista, femminista e vegetariana, aveva viaggiato in tutta l’Europa impartendo lezioni di inglese. A Londra si era avvicinata al Bloomsbury Group, intrecciando amicizie e rapporti intellettuali importanti, in particolare con lo scrittore David Garnett che le offrì l’incarico di istitutrice nella sua famiglia. In seguito a una delusione amorosa, e alla riconosciuta difficoltà di inserimento nella società letteraria metropolitana, a soli 32 anni Dorothy si uccise gettandosi sotto un treno, giustificando il suo gesto in un biglietto in cui affermava di non essere mai riuscita ad amare realmente qualcuno, né a ricambiare con gratitudine l’affetto e le attenzioni che aveva ricevuto da amici e persone care.

Winter Sonata, pubblicato nel 1928, ottenne numerosi riconoscimenti per la sua struttura narrativa articolata e originale, e per l’interesse rivolto alla situazione socialmente depauperata delle classi lavoratrici e delle donne nel periodo di depressione economica succeduto alla prima guerra mondiale.

Il racconto è ambientato in un piccolo paese di campagna, dove non succede mai nulla e tutti si conoscono, e l’arrivo di un nuovo telegrafista all’ufficio postale, il giovane e timido Arnold Nettle, diventa l’elemento catalizzatore della curiosità degli abitanti. Silenzioso e impacciato nel rapportarsi con gli altri esseri umani, e in particolare con le ragazze, Arnold coltiva con dedizione la sua passione per il violoncello, accettando con qualche ritrosia l’invito dei compaesani a esibirsi nelle case private o in chiesa. La musica accompagna come sottofondo le scarne conversazioni dei protagonisti, insinuandosi con discrezione nell’ovattato silenzio che domina l’atmosfera.

Dorothy Edwards è molto abile sia nel tratteggiare con sensibilità e accuratezza la psicologia dei vari personaggi, sia nel ritrarre le condizioni ambientali e il paesaggio esterno in cui essi si muovono, durante un inverno in cui freddo e neve ben si accordano all’immutabile scorrere della vita rurale della comunità. La ricchezza dei particolari descrittivi e delle metafore che li accompagnano, interrompono con cadenza regolare i rari avvenimenti che si succedono nel villaggio, dando alla narrazione un respiro di calma e docile abitudinarietà. “Per tutto il giorno i campi rimasero imbiancati da un sottile strato di neve, i rami degli abeti un poco piegati sotto il suo peso, ma la   cosa più bella era che dappertutto gli alberi piccoli, fino a quel momento simili a scheletri grigi che innalzano le ri gide membra fredde in una supplica disperata al sole nascosto, ora rilucevano di neve e si aveva l’impressione che     i loro spogli rami grigi avessero generato dei boccioli per magia. Per un momento si poteva quasi credere di attraversare un frutteto nel mese in cui gli alberi sono in fiore,       nonostante il freddo e il cielo grigio”.

Le vicende di diversi nuclei familiari si intrecciano nel racconto, senza mai sortire a esiti dirompenti. Arnold Nettle è in pigione nella villetta dei Clark, dove la madre vedova si occupa dell’esuberante figlia adolescente Pauline, ansiosa di distrazioni per evadere dalla routine domestica, e del piccolo Alexander. Più coinvolgente e attrattiva è invece per il protagonista la famiglia dei Curle-Neran, composta da un’anziana e stravagante signora, dal di lei figlio George (pasciuto e ciarliero aspirante filosofo), e dalle giovani e belle nipoti Olivia ed Eleanor. Arnold si innamora della maggiore, senza mai riuscire a dichiararsi, umiliato dal confronto con un distinto e seducente intellettuale, Mr. David Premiss, ospite della casa per il periodo natalizio. La serie di schermaglie amorose tra i vari personaggi, le conquiste e le ripicche reciproche, non riescono a scalfire il loro sostanziale individualismo, impastato di diffidenza, riserbo, paure.

Solitudine, malinconia, rassegnazione, impossibilità di uscire da una situazione esistenziale avvertita come costrittiva e ambigua, sono gli argini entro cui scorre monotona la vita, nell’assenza di avvenimenti risolutori e nella ripetizione ostentata di situazioni invariabilmente banali. La neve copre tutto, nel villaggio raccontato da Dorothy Edwards, e rende uniformi e intercambiabili i giorni, insieme alle questioni inessenziali che si portano dentro.

© Riproduzione riservata               «Gli Stati  Generali», 5 febbraio 2022

 

 

 

RECENSIONI

EGAN

JENNIFER EGAN, SCATOLA NERA – MINIMUM FAX, ROMA 2013

Cosa non si fa, ormai, per attirare l’attenzione dei lettori: o per mantenerla, magari dopo aver scritto un romanzo di successo, ed essere alle prese con l’impegnativa necessità di un bis… E’ il caso di questo smilzo libriccino di Jennifer Egan, pubblicato dopo il Pulitzer vinto con Il tempo è un bastardo. Smilzo e faticoso, a dispetto delle intenzioni: sì perché questa originale spy story è scritta secondo i dettami di Twitter, sotto forma di brevissime indicazioni fornite da fantomatici servizi segreti americani a un’ altrettanto fantomatica spia in gonnella, addestrata per incastrare un criminale ricercato a livello internazionale, e blindato in una lussuosissima villa-fortezza costruita su una misteriosa isola del Mediterraneo. La bellezza in questione (fornita di microcamera mascherata nell’occhio sinistro, di un microfono «oltre la prima curva del canale uditivo destro» e di un chip impiantato sotto l’attaccatura dei capelli), ha l’incarico di sedurre il boss miliardario per carpirgli non si sa bene quali fondamentali informazioni strategiche: e lo fa con tattiche muliebri piuttosto scontate. Sinuose nuotate in mare, atteggiamenti provocanti, dialoghi superficiali («Talvolta una risatina è meglio di una risposta»), fino all’agognato congiungimento sessuale, durante il quale la protagonista è invitata dall’agenzia spionistica ad avviare una «tecnica dissociativa» che la preservi da un eccessivo coinvolgimento. Essendo queste formulazioni narrative limitate a non più di 140 caratteri, ovviamente ogni descrizione risulta di una banalità sconcertante («Un cielo azzurro è insondabile come il mare»; «Bisognerebbe sempre lavarsi i denti, prima di cena»; «L’obiettivo è essere una sorpresa continua, leggiadra e innocua»); le vicende abbozzate; i personaggi privi di qualsiasi spessore; il plot inesistente. L’unico giallo per il lettore è dove trovare «il ritmo e la suspense dei migliori film d’azione», come promette il risvolto di copertina.

 

«Leggere Donna» n.163, aprile 2014

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EGAN

MOIRA EGAN, AMORE E MORTE – TLON, ROMA 1922

Moira Egan è nata a Baltimora e vive a Roma. Ha pubblicato cinque volumi di poesia negli Stati Uniti, e tre volumi bilingui in Italia. Suoi lavori sono apparsi in molte riviste statunitensi e internazionali, e in diverse antologie; in collaborazione con Damiano Abeni ha tradotto autori come Ashbery, Barth, Bender, Ferlinghetti, Hecht, Strand, Simic. Le edizioni Tlon di Roma pubblicano ora il volume con testo a fronte Amore e Morte, che raccoglie suoi versi editi e inediti, divisi in categorie tematiche, corrispondenti ai vari capitoli: amore, morte, sesso, filosofia, poesia. In ogni pagina aleggia la forza unificante, l’energia vitale dell’eros, che ha fatto dire a Goffredo Fofi “Moira Egan scrive poesie d’amore. E ci conferma che è ancora possibile scrivere poesie d’amore. Che, forse, sono le prime poesie che si ha necessità di scrivere, o di leggere, l’alpha e l’omega d’ogni esperienza”.

“Poesie piene di carne”, le definisce nella sua entusiastica prefazione Melissa Panarello, fornendo della poeta americana un vitalissimo ritratto: “ti sembra di vederla Moira Egan che si aggira ora per Campo de’ Fiori, ora per una spiaggia sarda o un’isola greca, con la sua aria da creatura magica, i lunghi capelli fatati, gli occhiali ad ali di farfalla che risaltano occhi di cielo e una pelle sottile e chiara”. Sensualità che anima i sentimenti e i pensieri, rendendo superflua ogni vaga interpretazione filosofica, grottesca ogni presuntuosa ideologia: solo la poesia è in grado di dare voce alla verità proclamata dal corpo: “La piccola morte / ti artiglia la gola, il tuo urlo è poesia”, “il sesso è l’unica via verso la verità. Filosofia, / religione, fisica – gli altri / percorsi tradizionali – tutto sbagliato. Solo la poesia // ci andava vicino, ma chi riesce a vivere di poesia?”

Nella prima sezione, Love, ci imbattiamo nel fronteggiarsi adorante-ostile di due amanti, nel reciproco darsi e negarsi, in incontri e addi: “l’amante / che ha infilato la porta è tornato da estraneo e / ha cercato di tenersi le mie chiavi”, “ci sdraiamo insieme, tu sul fianco destro, / io sul sinistro – che specchio stupendo”, “Lui insiste, sussurra, / e ci schiacciamo l’uno all’altra”. Si affollano i ricordi: il fico d’India assaggiato per la prima volta a Malta, l’alloro mancante in cucina fortunosamente recuperato in strada: pretesti a excursus storici o mitologici, a commenti etici o politici, a espressioni gergali o battute sarcastiche, a commosse memorie familiari.

In Death, “l’arte bestiale del morire” è descritta nella sofferta agonia del padre e di altre persone care, nel prevalere inesorabile del buio notturno con l’oblio del sonno, nel rintocco delle campane che allude a un paradiso più clemente e ospitale della terra.

Sex è il capitolo in cui più provocatoriamente si esprime l’adesione alla fisicità, la volontà sfacciata di seduzione, la ribellione alle costrizioni maschili e maschiliste, la descrizione audace di fantasie impudiche, insieme alla consapevolezza della proprie arrendevolezze, in forme letterarie controllate come i sonetti (scritti su un tovagliolino di un pub): “Come una sacerdotessa vudù, cerco soltanto / di mostrare i muscoli mistici, per sottomettere / un uomo in ogni porto che mi sappia riconoscere, / sapendo che ci separeremo senza un pianto”, “Sono, purtroppo, / una tipa che quasi si innamora se si sente riconoscente”, “Succo, carne, polpa, inghiotti / avida, le labbra iniziano a formicolare, / la gola si spalanca. Soddisfi / appetiti che ignoravi di avere”, “La notte scorsa, svegliatami, scossa, volevo sesso. / Non sapevo bene dove mi trovavo, né perché // non ero nel mio letto. Lui, perplesso / per la mia confusione, mi ha calmato con il sesso”.

La quarta sezione intitolata Philosophy si apre con alcuni peana alla sessualità quasi imbarazzanti, a ribadire che l’unica, autentica ontologia meritevole di approfondimento è il piacere del corpo perseguito fino allo sfinimento, che trova conferme nella concupiscenza dei fiori e delle costellazioni, nell’esibizione tumultuosa dei fenomeni meteorologici estremi.

In Poetry e in Other, infine, la sensibilità di Moira Egan esibisce una sua divertita e ammiccante opposizione alla poesia togata degli accademici e degli intellettuali, esaltando la spontaneità dell’abbandono al godimento di tutti i cinque sensi: gli ammalianti profumi, il cibo e l’alcol, la visione di begli oggetti d’arte e splendidi panorami, l’ascolto di musica jazz, la tattilità epidermica. Nessuna favola, magia, mito o religione vale quanto la pregnanza compatta offerta dal reale: “Queste sono le mie / poesie, / pistillo, stame, sangue e lividi”.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Amore-e-morte-Egan             18 marzo 2021

RECENSIONI

EICHENDORFF

JOSEPH von EICHENDORFF, VITA DI UN PERDIGIORNO – BUR RIZZOLI, MILANO 2015

«Tutti noi abbiamo letto da giovani la novella di Joseph von Eichendorff, serbandone in cuore per sempre l’eco di un tenue tocco d’arpa»,scriveva Thomas Mann nel 1918. Gli faceva eco Lukács nel 1956: «I sogni eichendorffiani di una realtà migliore dei sinistri abissi della vita, sono in realtà sogni ad occhi aperti…È una nostalgia soggettivamente autentica e profonda, ma con una certa coscienza di essere soltanto una musica che accompagna la vita reale».

Questa recente edizione (Rizzoli 2015) della famosissima novella di Joseph von Eichendorff  Vita di un perdigiorno è introdotta dall’acuto saggio di Giulio Schiavoni, che ben illustra non solo «le pagine ariose ed agili» del racconto, ma anche l’ideologia sottesa alla formulazione del testo, i motivi del suo prolungato e universale successo, i dati biografici e le tesi politiche del suo autore.
Il barone von Eichendorff era nato nel 1788 in Slesia, da una famiglia di nobili proprietari terrieri presto travolti dal nuovo corso della storia europea (la rivoluzione francese, le guerre napoleoniche e poi il dominio asburgico), dalle rivendicazioni ugualitarie dei contadini e dalla nascente industrializzazione.
Costretto a impiegarsi come funzionario governativo dopo la bancarotta familiare, Eichendorff si rifugiò nell’utopia di un nuovo umanesimo, che restaurasse gli antichi valori cattolici e il trascorso ordine sociale. La sua notevole produzione letteraria conobbe subito grande fama soprattutto con la pubblicazione, nel 1826, del suo capolavoro Vita di un perdigiorno, inno immaginoso e sentimentale alla gioia di vivere, all’ «eterna domenica in cuore» del suo giovane, scanzonato e ingenuo protagonista.
Il perdigiorno (der Taugenichts) è uno svagato ragazzo di campagna che al lavoro nel mulino del padre preferisce l’ozio e il vagabondaggio avventuroso nel “libero e vasto mondo”, con la sola compagnia del suo violino e del suo canto. Mettersi in viaggio, vivere nella natura, godere delle bellezze paesaggistiche, sognare l’amore: lontano dalla schiavitù di un lavoro ripetitivo, dagli interessi economici, dalla pigrizia egoista dei più. Preferire alla realtà della storia l’irrealtà del sogno e della fantasia, la precarietà di lavori saltuari, l’ideale di una passione romantica, la dolcezza della musica.

«Villaggi, giardini e campanili scomparivano dietro di me; nuovi villaggi, castelli e montagne sorgevano davanti, in alto; ai miei piedi sfilavano distese di campi, cespugli e prati, mentre le allodole si alzavano nell’aria limpida e azzurra…
Era talmente bello nel giardino, all’aperto. I fiori, le fontane zampillanti, i rosai, l’erba e le piante scintillavano al primo sole come oro puro e pietre preziose; nei viali sotto gli alti faggi tutto era quieto, fresco e raccolto come in una chiesa…». Contano poco, in questa fiaba ottocentesca in versi e prosa, gli avvenimenti che si succedono, i viaggi e gli incontri del protagonista, il suo idillio con la bella signora creduta nobile e alla fine rivelatasi del suo stesso ceto. Ha più importanza l’atmosfera festosa, indeterminata, fantastica, perpetuamente meravigliata del mondo e del suo splendore in cui il giovane vaga, mentalmente e fisicamente, nel corso della storia: l’insopprimibile gioia interiore di un’anima candida, contenta di esistere.

 

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www.sololibri.net/Vita-di-un-perdigiorno-Joseph-von.html        24 febbraio 2016

RECENSIONI

EINSTEIN

ALBERT EINSTEIN, RELIGIONE COSMICA – MORCELLIANA, BRESCIA 2016

Si è discusso a lungo se Albert Einstein (1879-1955) fosse o meno credente, riportando spesso a sproposito la sua nota affermazione “Dio non gioca a dadi con l’universo”, che ribadiva al collega Max Born la granitica convinzione di un ordine armonico del cosmo strettamente determinato dai principi fisici di causa ed effetto. Già molti filosofi della natura (Galileo, Cartesio, Pascal, Newton, Leibniz…) avevano manifestato uno spirito religioso, e anche Einstein veniva spesso inserito in questa corrente di pensiero, come si evince dal suo saggio del 1931, Cosmic Religion with Other Opinions and Aphorisms, riproposto integralmente per la prima volta in italiano dall’editrice Morcelliana nel 2016, con il titolo Religione cosmica.

Questo volumetto raccoglie non solo i contributi diretti dello scienziato, ma anche un apprezzamento di G. B. Show alle sue teorie scientifiche e un dialogo con il poeta e mistico indiano Rabindranath Tagore (1861-1941) sulla controversa relazione tra scienza e teologia. Einstein non nascose mai la sua avversione nei confronti delle religioni organizzate, e nel dibattito con Tagore contrapponeva alla prospettiva soggettivistica, umanistica e antropocentrica di quest’ultimo un punto di vista oggettivistico della natura, svincolato e non condizionato dalle opinabili credenze degli uomini: “Credo che il teorema di Pitagora affermi qualcosa di approssimativamente vero, indipendentemente dall’esistenza umana”.

Nei due testi sul Pacifismo e sugli Ebrei, come in alcuni Aforismi che accompagnano il saggio iniziale, le opinioni del geniale scienziato possono apparire utopistiche, ingenue, o addirittura sconvenientemente datate. Se negli anni ’30 Einstein proponeva con innocente candore l’abolizione del servizio militare e degli eserciti per arrivare al disarmo mondiale, esprimendo una ferma condanna della corsa agli armamenti da parte di tutte le nazioni, nello stesso tempo tuttavia caldeggiava, in una prospettiva decisamente sionista, la colonizzazione della Palestina per rafforzare la dignità degli ebrei della Diaspora, e preservarne la tradizione spirituale. Negli Aforismi rivelava inoltre di aver imprudentemente sottovalutato la pericolosità del nazismo: “Hitler vive – o dovrei dire sta seduto? – sullo stomaco vuoto della Germania. Non appena miglioreranno le condizioni economiche, Hitler cadrà nell’oblio”. Pure la sua considerazione delle donne, come reso manifesto da alcuni elementi biografici, rivelava i pregiudizi maschili di un uomo nato nell’ultimo ventennio del XIX secolo: “Nella signora Curie non vedo altro che una brillante eccezione. Anche se ci fossero più scienziate del suo calibro questo non costituirebbe un’argomentazione contro la debolezza fondamentale dell’organizzazione femminile”.

Sempre negli Aforismi troviamo alcune intuizioni sull’esistenza di Dio che ci indirizzano verso la comprensione del saggio più importante: “Il mio sentire religioso è un umile stupore di fronte all’ordine rivelato nel piccolo appezzamento di realtà a cui corrisponde la nostra debole intelligenza”, “Vedo una trama. Ma la mia immaginazione non è in grado di raffigurare l’autore di questa trama. Vedo l’orologio. Ma non riesco a figurarmi l’orologiaio. La mente umana non è in grado di concepire le quattro dimensioni. Come potrebbe concepire un Dio, per il quale mille anni e mille dimensioni sono uno?”

Cosa affermava quindi Albert Einstein nelle cinque paginette di Religione cosmica? Poche, scarne e radicate convinzioni. In primo luogo, che il pensiero religioso è stato determinato agli albori dell’umanità da due sentimenti basilari: la paura (della morte, della malattia, della fame, degli animali selvatici) e il bisogno (di guida, amore, protezione, aiuto). Tali stati emotivi hanno fornito lo stimolo alla crescita della concezione di Dio, successivamente stabilizzata dalla formazione di caste sacerdotali mediatrici tra il popolo e un essere superiore, che ha garantito loro una posizione di potere. Riteneva dunque che il senso religioso nella sua forma più elementare fosse basato su una percezione irrazionale di timore, e solo successivamente si fosse trasformato in religione morale, per giungere nello stadio più elevato a un terzo livello di esperienza, quello della religione cosmica, lontana sia da qualsiasi dogma e superstizione, sia da un’idea di Dio dai caratteri antropomorfi in grado di interferire negli eventi naturali o nelle azioni umane con premi e castighi. “Il comportamento etico dell’uomo trova miglior fondamento nell’empatia, nell’educazione, nelle relazioni sociali, e non richiede alcun supporto della religione. La difficile condizione dell’uomo sarebbe, invero, triste se la paura della punizione e la speranza di ricompense dopo la morte fossero gli unici modi di fargli rispettare l’ordine”.

Il libro qui preso in esame si conclude con un’ampia e interessante postfazione degli stessi curatori del testo inglese, Enrico Giannetto e Audrey Taschini, docenti all’Università di Bergamo, che esplorano le radici spinoziane della teofisica di Einstein, con un ricchissimo apparato di note. Come per Baruch Spinoza (1632-1677), per Einstein Dio e Universo coincidono, e nella loro misteriosa impenetrabile bellezza possono essere intuiti solo da una religione cosmica, vera e disinteressata forza motrice della ricerca scientifica. La scienza, lungi dal minare le fondamenta della morale, si fonda su una visione razionale della struttura regolata e mirabile del cosmo e sulla compassione per tutti gli esseri viventi. Entusiasta lettore dell’Etica spinoziana, Einstein aveva scritto: “Noi seguaci di Spinoza vediamo il nostro Dio nell’ordine meraviglioso e nella pienezza della legge di tutto ciò che esiste, e nella sua anima come si rivela negli esseri umani e animali”.

Giannetto e Taschini, in un denso excursus delle teorie della fisica da Galilei a Hawking, sottolineano quanto la scoperta della relatività generale einsteiniana sia stata influenzata dalla teologia del filosofo olandese, convinto assertore dell’identificazione di Dio e Natura: energia e materia che si auto-costituiscono in uno spazio-tempo diventano attributi dell’unica sostanza divina, attiva e potente nell’Universo, al cui ordine l’uomo deve uniformarsi in un sentimento religioso di ammirazione per il creato e di collaborazione con i suoi simili.

 

© Riproduzione riservata               «La poesia e lo spirito», 6 aprile 2023

 

 

 

RECENSIONI

ELIOT

T.S. ELIOT, QUATTRO QUARTETTI – BOMPIANI, MILANO 2022

Un lavoro eccezionale, quello che la giovane anglista Audrey Taschini, docente all’Università di Bergamo, ha compiuto curando e traducendo i Quattro Quartetti di Thomas Stearns Eliot.  Il volume è diviso in tre parti, l’ultima delle quali riporta l’originale in inglese e la traduzione della curatrice, elegante e puntuale: forse la migliore tra le diverse che ho letto, perché non indugia in ostentazioni ed estrosità personali. Per rendersene conto, basta controllare la resa fedelissima, priva di pedanterie o enfasi, dei famosi primi versi di Burnt Norton: “Il tempo presente e il tempo passato / Sono entrambi forse presenti nel tempo futuro, / E il tempo futuro contenuto nel tempo passato. / Se tutto il tempo è eternamente presente / Tutto il tempo è irredimibile”. Rispettose persino della disposizione grafica del testo, ci appaiono altre strofe successive: “Ma a che scopo // Disturbando la polvere su una ciotola di foglie di rosa / Io non so. // Altri echi / Abitano il giardino. Li seguiremo?” Rimane intatto il ritmo, il suono fermo e insieme gentile del modello.

Se qualcuno vorrà leggere questo importante omaggio al Premio Nobel anglo-americano, consiglierei di affrontare il libro proprio dalla fine, lasciandosi trasportare dall’equilibrio armonico della versione italiana. Nella Premessa, la curatrice specifica le linee guida del suo lavoro: “La traduzione ambisce a fornire nel testo italiano elementi sufficienti a rappresentare gli echi dell’intertestualità eliotiana e la ricchezza delle valenze semantiche e della suggestività dell’originale”.

Stimolante e nuovo è tutto l’impianto interpretativo della ricerca di Audrey Taschini. Nella prima sezione si prendono in considerazione le molteplici fonti culturali che hanno ispirato l’opera, a partire dalla Bhagavad Gita, attraverso le fondamentali intuizioni scientifiche e filosofiche del Novecento, con riferimenti all’arazzo compositivo della Commedia dantesca, agli assunti teologici nella poesia di John Donne e agli spunti morali del predicatore anglicano Lancelot Andrews. In particolare vengono messi in luce gli interessi che il poeta approfondì durante gli studi ad Harvard: il sanscrito e i Veda, i presocratici con la predilezione per Eraclito, l’attrazione per il pensiero magico in opposizione al razionalismo, la tesi di laurea su Bradley, l’interesse per la nuova fisica soprattutto nella definizione del concetto di tempo, lo studio del simbolismo e dello strutturalismo, l’adesione all’imagismo. La partecipazione a questo movimento letterario portò Eliot a condividere – con Pound, Joyce, Doolittle, Lawrence e altri scrittori –, l’ideale di un linguaggio iconico, secondo cui immagine e parola agiscono sinergicamente evocando direttamente le emozioni, aldilà di ogni concetto o locuzione astratta. Fu proprio Eliot che diede inizio a un nuovo modo di concepire e produrre poesia, pubblicando nel 1920 il saggio The sacred wood, in cui coniava il termine di “correlativo oggettivo”, riferendosi al procedimento poetico che da un fattore esterno (un oggetto, una serie di eventi, una situazione) lascia germinare immediatamente una sensazione e un’esperienza emotiva.

Se lo studio delle fonti rimane senz’altro illuminante e necessario, è tuttavia proprio nel secondo capitolo, dedicato al commento particolareggiato di ogni Quartetto, che maggiormente si dispiega l’intuito critico di Audrey Taschini, con l’attenzione specifica rivolta alla rielaborazione delle teorie imagiste.

Lo scetticismo eliotiano nei confronti del materialismo moderno lo induceva a riscoprire nel complesso linguaggio delle immagini e dei simboli il ruolo cognitivo e spirituale loro attribuito nell’antichità, quando rivestivano la funzione di dialogo e mediazione con l’Essere, mai raggiungibile in maniera puramente logica e razionale. La novità dei Four Quartets, tutta interna alla sfera religiosa, si evince quindi non tanto dai contenuti quanto dall’utilizzo di un linguaggio denso, allusivo e penetrante, capace di ricongiungere il trascendente con la realtà quotidiana, riunendo a un livello simbolico il corpo del mondo al suo spirito universale, nell’unità del tutto, là dove intellect and sensibility are in harmony. Per Eliot la poesia doveva esprimere una perfetta commistione tra senso, emozione e pensiero, trasformandosi in un’esperienza completa del vissuto, e aprendolo contemporaneamente a una verità sovrastante la pura percezione materiale e intellettuale.

Per ogni quartetto Eliot scelse il nome di un luogo dal particolare valore sentimentale o spirituale, con la funzione di correlativo oggettivo, fondamento concreto alle meditazioni filosofiche e teologiche trattate in ciascuno dei poemi: Burnt Norton, East Coker, The Dry Salvages, Litlle Gidding. Il numero quattro nella filosofia pitagorica era il simbolo del cosmo e dell’armonia delle sfere, richiamata anche dalla metafora musicale alla base dei Quartetti. Ma soprattutto il quattro rimanda agli elementi empedoclei – aria acqua terra fuoco –, principi costitutivi dell’universo, trasmutanti uno nell’altro in una trasformazione ciclica, in cui la natura rispecchia l’immobile movimento dell’Eterno (“Still and still moving”), come nel susseguirsi delle stagioni. La resa poetica dei legami tra l’individualità concreta e l’universalità astratta, il contingente e l’Assoluto, il temporale e l’infinito, il visibile e l’invisibile mira a riprodurre la fusione degli opposti in un principio divino unificante. Tale compenetrazione tra umano e sovrumano può essere rappresentato solo attraverso la riflessione sul tempo, inteso come un fluire indiviso di passato, presente e futuro: “Ciò che chiamiamo l’inizio è spesso la fine. / E fare una fine è fare un inizio, / La fine è dove cominciamo”.

Congedando questa sapiente rilettura dei Four Quartets, mi sembra opportuno riportare alcuni tra i tanti versi ricchi di emozione e significato, che nel periodo oscuro in cui furono scritti, e in quello altrettanto minaccioso che stiamo vivendo, offrono uno spiraglio al chiarore di una nuova alba: “Dissi alla mia anima, stai ferma, e attendi senza speranza / Poiché la speranza sarebbe speranza per la cosa sbagliata; attendi senza amore, / Poiché l’amore sarebbe amore per la cosa sbagliata; ancora c’è la fede, / Ma la fede e l’amore e la speranza sono tutte nell’attesa. / Attendi senza pensiero, poiché non sei pronto per il pensiero: / Così il buio sarà la luce, e la quiete la danza”.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 23 gennaio 2023

 

 

 

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