Mostra: 461 - 470 of 1.363 RISULTATI
RECENSIONI

ELITIS

ODISSEAS ELITIS, DIARIO DI UN INVISIBILE APRILE – CROCETTI, MILANO 1990

 

Con 7 disegni di Alekos Fassianòs e la traduzione di Paola Maria Minucci, l’editore Crocetti ha pubblicato nel lontano 1990, e ristampato nel 2007, il volume di versi Diario di un invisibile aprile del poeta Odisseas Elitis.

Elitis (1911-1996), insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1979, è una delle figure più significative della poesia contemporanea greca, che ha rinnovato formalmente mantenendosi tuttavia fedele alla tradizione classica. Vissuto a lungo a Parigi, ebbe modo di conoscere i maggiori esponenti della cultura francese del Novecento: Breton, Eluard, Tzara, Ungaretti, Matisse, Giacometti, Picasso. Ricoprì incarichi prestigiosi (presidente dell’Ente radiofonico greco, membro dell’Unione internazionale dei critici d’arte, membro della Société Européenne de Culture), ottenendo numerosi riconoscimenti internazionali, e molte lauree honoris causa. Nonostante ciò, la sua fama di poeta non è riuscita ad affermarsi quanto meriterebbe.

I temi da lui trattati con più frequenza sono quelli paesaggistici (mare, cielo e vegetazione mediterranea), la donna descritta nella sua seducente sensualità, il sentimento per il divino che dalle radici della grecità classica si espande ai simboli cristiani, e il corteggiamento della morte avvertita come transito verso l’eterno. Secondo la curatrice “Il sentimento della natura di Elitis, asse portante della sua poesia, trova nel profondo della sua anima corrispondenze morali e analogie spirituali: quello che egli vede non è mai, in nessun modo, semplicemente ‘paesaggio’.”

Ne fanno fede questi versi: “ANCORA PIOVE. Sembra piovere eternamente. Ed eternamente andrò in giro con un ombrello cercando una cittadina rosa piena di buone pasticcerie all’aperto”, “PESO DELLA DOLCEZZA del cielo / dopo che tuonò e si muove la lumaca. / Pezzi di casa che galleggiano, balconi con l’asta davanti, / il vento. // Realtà è la morte che sovrasta / carica di vecchie felicità / e di quella ben nota disperazione (che si fece bianca / nelle dure solitudini)”, “GIORNATA LIMPIDA, DIAFANA. Sotto forma di monte immobile appare il vento là verso occidente. E il mare con le ali ripiegate, in basso, sotto la finestra. Ti viene voglia di volare in alto e da lassù distribuire in dono la tua anima. Poi scendere e, intrepido, prendere nella tomba il posto che ti appartiene”.

Luce e buio, cielo e terra, vita e morte, quindi. Il diario che si snoda in queste pagine, datato puntualmente nei giorni della settimana, dura dunque tutto il mese di aprile, è scandito nel tempo ma travalica il tempo, essendo un aprile invisibile, tutto interiore. I versi si alternano a brevi prose, le descrizioni alle meditazioni, il sogno alla realtà più concreta. Ma lo sguardo esterno, pur prendendo spunto da qualche elemento oggettivo, finisce per assolutizzarsi in una riflessione che riguarda l’esistenza personale del poeta, o quella più generale di tutte le creature, nella sua caducità e nel suo indicibile mistero: “TROVAI UNA PICCOLA CHIESA tutta acque correnti e l’appesi al muro. I suoi candelabri sono di ceramica e somigliano alle mie dita quando scrivo. Da come risplendono i vetri capisco se un angelo è passato. E spesso la sera siedo fuori sul muretto e mi abbarbico al maltempo come il geranio”.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Diario-invisibile-aprile-Odisseas-Elitis.html             20 febbraio 2020

 

RECENSIONI

ELKINS

JAMES ELKINS, DIPINTI E LACRIME – BRUNO MONDADORI, MILANO 2009

Cosa fa piangere le persone davanti a un dipinto, si chiede il critico statunitense James Elkins, e soprattutto: succede ancora oggi, in questi nostri tempi aridi e smaliziati, ironici ed eruditi, e nelle nostre gallerie d’arte, affollate e documentate fino all’ipertrofia?
L’autore ha raccolto più di quattrocento testimonianze scritte da individui comuni, accademici, artisti sulla loro partecipazione emotiva alla visione più o meno commovente di un quadro.
Scoprendo che si può lasciare libero sfogo alle lacrime per tanti motivi: perché il dipinto ci può ricordare qualcosa del nostro passato, o un desiderio o una paura rimossa; perché si è delusi nelle aspettative, o perché ci si sente sovrastati dalla magnificenza. “Dipinti e lacrime”, quindi, ovvero “Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro”.

Si sa che Stendhal è svenuto dopo aver visitato Santa Croce, mentre Ruskin, sopraffatto dall’emozione davanti a un Tintoretto, è scoppiato a ridere, e Mark Twain si è divertito e annoiato osservando “il lamentevole relitto del più celebre dipinto del mondo, ’L’ultima cena di Leonardo”.

Lo stesso Elkins racconta di quanto L’estasi di San Francesco di Giovanni Bellini esposta a New York l’abbia turbato dall’adolescenza, costringendolo a tornare a vederla molte volte nel corso della sua vita, finché la mole di informazioni e di studio che aveva accumulato sul quadro finì per soffocare in lui ogni tremito, ogni ansia di assoluto.
Quanto ci possono impressionare, oggi, le tele monocromatiche e disperate di Rohtko nella cappella a lui dedicata a Houston, l’oscurità di un Rembrandt a Amsterdam, i paesaggi solitari e sconfinati di Friedrich, le Madonne medievali nei musei di tutto il mondo? E perché invece non ci commuove più la pittura celebrativa, retorica o edulcorata della Francia settecentesca ?
James Elkins sostiene che tre sono le ragioni che spingono le persone a piangere davanti a un quadro: la consapevolezza dello scorrere del tempo, la nostalgia di Dio, e l’incombere del vuoto e dell’assenza. Se l’arte ci emoziona ancora, il mondo può sperare…

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Dipinti-e-lacrime-James-Elkins.html

26 ottobre 2016

RECENSIONI

ELLROY

JAMES ELLROY, CRONACA NERA – EINAUDI, TORINO 2019

Uno dei più famosi tra gli scrittori di noir statunitensi, James Ellroy (Los Angeles,1948), autore di Dalia nera, American Tabloid, Perfidia, disse di sé stesso in una recente intervista: “Sono un americano religioso, eterosessuale di destra, cristiano nazionalista, militarista e capitalista. Nella mia vita mi sono concentrato su poche cose e da queste sono riuscito a trarre profitto. Sono molto bravo a trasformare la merda in oro”. In effetti, negli ultimi trent’anni, Ellroy ‒ anche traendo ispirazione dalla sua tormentata infanzia e giovinezza (la madre uccisa in un delitto irrisolto nel 1958, esperienze devastanti di droga e carcere) ‒, è riuscito a immergersi nei meandri della corruzione, del malaffare, del sopruso e della carnalità più depravata della sua nazione, per narrarne ai lettori di tutto il mondo gli episodi più misteriosi, feroci e raccapriccianti.

I due racconti pubblicati nel volume einaudiano Cronaca nera, non fanno eccezione per ciò che riguarda le tematiche affrontate (omicidi efferati, violenza gratuita, sesso brutale), ma si distinguono dai romanzi più conosciuti per la forma letteraria adottata. Si tratta infatti di veri e propri reportage su due casi di cronaca, ricostruiti servendosi di ricerche nei casellari giudiziari, negli archivi e nei verbali processuali, arricchiti da dettagli ricavati da articoli giornalistici, incontri, discussioni e testimonianze di detective amici. Le voci narranti sono quelle dei responsabili delle indagini, i quali ammettono, nella loro concitata descrizione dei fatti, le proprie incertezze, gli abusi, i pregiudizi che li condussero a un’interpretazione errata e colpevolmente di parte dei crimini. In entrambe le rivisitazioni narrative, Ellroy riporta, con una scansione fredda e ossessiva, i puntuali comunicati interni della polizia e i rilievi effettuati sulle scene dei delitti, utilizzando il gergo triviale, razzista, omofobo e misogino di chi conduce le inchieste.

La prima storia si intitola Career Girls Murders, e riguarda l’omicidio di due giovani donne avvenuto a Manhattan il 28 agosto 1963, per cui venne ingiustamente accusato un ragazzo di colore. Janice ed Emily (la prima giornalista rampante, rampolla di una famiglia altolocata; la seconda, più banalmente tradizionale, studentessa di lettere e aspirante a una cattedra di liceo) vengono legate, stuprate, sbudellate con una efferatezza bestiale mentre si trovano nell’appartamento che condividono in un quartiere elegante di New York. Ellroy mette in luce l’attività febbrile degli inquirenti, che da subito abbracciano un’ipotesi investigativa sbagliata, perseguendola ostinatamente, per rispondere alle sollecitazioni morbose dei media che bramano la cattura di un colpevole a ogni costo. La ricerca nevrotica di un capro espiatorio avviene proprio nei giorni in cui l’America di Martin Luther King dichiara a gran voce il suo sogno di diritti civili uguali per tutti.

Il secondo racconto è ambientato a Los Angeles nel febbraio del 1976, quando un attore gay trentasettenne, Sal Mineo, che aveva recitato con James Dean in Gioventù bruciata, viene trovato accoltellato per strada, senza che si riesca a individuare il movente e l’autore dell’omicidio. Anche in questo caso, le indagini prendono da subito una piega sbagliata, seguendo pregiudizi sociali e sessuali che cercano morbosamente nell’esistenza borderline e alternativa della vittima la causa scatenante dell’assassinio, commesso in realtà da uno sconosciuto rapinatore in crisi di astinenza.

James Ellroy in questo suo ultimo libro-inchiesta offre un imparziale e documentato resoconto di quanto la pressione dell’opinione pubblica possa portare a distorcere la verità dei fatti, come confessa la voce narrante di un poliziotto: “Mandammo in galera un innocente. Cedemmo a un consenso generale avvelenato. Il crimine ci sconvolse, il contesto ci confuse, allo stesso tempo la nazione impazzì”.

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/Cronaca-nera-James-Ellroy.html         23 aprile 2019

 

 

 

 

RECENSIONI

EMO

ANDREA EMO, AFORISMI PER VIVERE – MIMESIS, MILANO 2007

“Personaggio postumo”, secondo la definizione del postfatore del volume Massimo Donà, Andrea Emo (1901-1983) fu uno spirito filosofico del tutto originale nel panorama culturale del nostro paese.
Nato a Padova da famiglia nobile, allievo di Gentile, amico e corrispondente di intellettuali di rilievo quali Alberto Savinio, Ugo Spirito e Cristina Campo, condusse una vita ritirata, in un ambiente aristocratico, scrivendo indefessamente e quotidianamente riflessioni, aforismi, appunti, saggi su tutto lo scibile umano: riempì 400 quaderni di pensieri “segreti”, che non mostrò mai a nessuno, e “postumi”, in quanto furono pubblicati anni dopo la sua morte.

Un personaggio, quindi, fuori dagli schemi, che amava interrogarsi su ogni aspetto della vita quotidiana, sull’arte e sulla storia, sulla teologia e sul costume, scandagliando con implacabile severità e insopprimibile sincerità ogni anfratto della sua anima. In questi Aforismi per vivere. Un breviario per l’esistenza, meditazioni protratte per mezzo secolo vengono espresse in una scrittura divagante, paradossale, spesso ironica e talvolta amaramente polemica: sempre alla ricerca di una profondità del pensare e del sentire che manifestano un consapevole disagio esistenziale, una malinconica incapacità di essere come tutti. Nascita, vita, morte, destino, morale mantengono per Andrea Emo una connotazione ingiustificatamente arbitraria e incomprensibile; il suo rifiuto di ogni convenzione e di qualsiasi fideismo fece di lui un filosofo isolato, incompreso, “postumo”, appunto. «Noi esigiamo dalla vita molto meno di quello che la vita esige da noi; Forse soltanto la mediocrità sa mantenersi nell’umano; Nulla è più pericoloso di un uomo felice: egli sconvolge l’ordine delle cose; Chi è vestito è travestito; La memoria sono gli altri divenuti noi stessi; Nulla è più comune che il desiderio di essere fuori del comune».

Andrea Emo non aspirava ad essere fuori del comune, senz’altro però lo era: e in una dimensione alta.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Aforismi-per-vivere-Andrea-Emo-144314.html    13 giugno 2016

RECENSIONI

ENDO

SHŪSAKU ENDŌ, IL GIAPPONESE DI VARSAVIA –  EDB, MILANO 2018

Al lettore ormai stancamente assuefatto agli artifici retorici e furbastri di molta narrativa contemporanea (il meta-racconto, la citazione colta e cifrata, l’allusione ammiccante allo scandaglio psicanalitico), le tre magistrali storie del giapponese Shūsaku Endō comprese in Il giapponese di Varsavia (con prefazione, traduzione e note di Tiziano Tosolini), sembreranno finalmente un soffio di aria fresca, di scrittura limpida e densa insieme, di riflessione etica sulla problematicità dello stare al mondo, rapportandosi collettivamente e individualmente sia al passato sia al futuro.

Endō è l’autore del voluminoso romanzo Silenzio, che ha ispirato il recente omonimo film di Martin Scorsese sulla persecuzione e il martirio dei cristiani nel Giappone del 1600. Diventato cattolico a 13 anni per volontà della famiglia, lo scrittore nipponico tornò spesso sulla problematicità del suo rapporto con la fede cristiana, sulla difficoltà di aderire ai dogmi e di praticarne i riti, sui dubbi riguardo al valore dei sacramenti. Nel primo (splendido!)  dei tre racconti qui presentati, Un uomo di quarant’anni, ne parla esplicitamente, e in toni che rivelano una sorta di sofferto rancore verso l’imposizione subita, rivalutata nel suo spessore culturale e nell’insegnamento morale solo nella maturità, dopo una vita di sofferenze e privazioni fisiche e materiali: «Io, quando ero un bambino, sono stato battezzato per volere dei miei genitori, non per mia volontà. Proprio per questo ho per molto tempo frequentato la chiesa per formalità e abitudine. Ma da quel giorno in poi sapevo che non avrei ma più potuto sbarazzarmi di quell’abito che non mi calzava e con il quale i miei parenti mi avevano vestito. Con gli anni, quell’abito era diventato parte di me e sapevo che non avrei mai più potuto disfarmene, perché sarei rimasto senza un riparo per il mio corpo e per la mia anima».

L’essere cristiano in Giappone, a confronto con una spiritualità e con cerimonie religiose totalmente diverse dalla propria, e in seguito recependo apporti intellettuali dal cattolicesimo europeo (Endō visse a lungo in Francia), condusse lo scrittore a sviluppare una sensibilità particolare, attenta ai temi del peccato e della grazia, della sofferenza e della redenzione, spesso tormentata dal senso di colpa e dal rovello interiore. Ritroviamo questi motivi nei tre racconti da poco pubblicati da EDB, e in particolare nel primo, che narra la degenza ospedaliera di un quarantenne sottoposto a successive e dolorose operazioni per un cancro all’intestino. L’ambiente asettico della clinica, la reticenza del personale, il costante enigmatico sorriso della moglie, l‘imbarazzo dei parenti in visita avvolgono il malato in un’atmosfera di sospesa finzione («Ognuno sta simulando qualcosa»), e di aspettativa di un esito in qualche modo rivelatore. Suguro è paralizzato non solo dalla malattia e dagli anni di degenza (lo stesso Endō rimase a lungo ricoverato in ospedale per la tubercolosi, e fu a più riprese operato), ma soprattutto per la consapevolezza di una colpa commessa in passato, mai ammessa nemmeno in confessione, da tutti conosciuta e taciuta, che egli sente di poter condividere solo con lo sguardo umano e comprensivo del merlo indiano chiuso in gabbia nella sua stanza di moribondo, più indulgente di qualsiasi prete.

Nel secondo brano del 1965, il protagonista compie un pellegrinaggio turistico alle sorgenti solforose del monte Unzen, dove molti cristiani erano stati torturati e poi bruciati vivi, mentre altri avevano preferito abiurare alla loro fede pur di salvarsi, continuando a vivere però nel rimorso del tradimento e sotto il peso della loro viltà.

L’ultimo racconto, che dà il titolo al volume, allude con intenerita ammirazione alla figura del frate polacco Massimiliano Kolbe, martire ad Aushwitz e canonizzato da Wojtyla, recuperato inaspettatamente nella memoria di alcuni turisti giapponesi in viaggio di piacere a Varsavia. Kolbe era stato missionario a Nagasaki negli anni ’30, vi aveva fondato un convento e creato una rivista; il suo nobile profilo spirituale si impone come un severo e allo stesso tempo paterno monito morale a uno dei viaggiatori durante un incontro notturno con una giovane prostituta polacca: quasi un’epifania, a fondere insieme peccato e assoluzione, corpo e anima, sacro e profano.

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/Il-giapponese-di-Varsavia-Shusaku-Endo.html        13 aprile 2018

 

 

 

RECENSIONI

ENDRIGO

CLAUDIA ENDRIGO, SERGIO ENDRIGO, MIO PADRE – FELTRINELLI, MILANO 2017

Dai quattordici ai diciassette anni sono stata innamorata di Sergio Endrigo. Innamorata veramente. Con mani e gambe che mi tremavano se appariva in televisione, con sue fotografie incollate sul diario di scuola e sulla scrivania, con gli articoli che lo riguardavano conservati in una scatola, e tutti i dischi collezionati, tutte le canzoni imparate a memoria. Una volta gli ho inviato un ritratto e lui mi ha ringraziato in diretta, durante una trasmissione condotta da Renzo Arbore, e io che stavo registrando con il microfono appoggiato alla radio, sono quasi svenuta sentendo le parole che lui, SERGIO ENDRIGO!, rivolgeva a me, proprio a me: “Ringrazio lo sconosciuto o la sconosciuta che mi ha mandato un ritratto fatto a mano, fatto a penna, molto bello…”. Ho ancora la cassetta da qualche parte, con il nastro usurato e cigolante per il reiteratissimo ascolto. Anni dopo ho assistito anche a un suo concerto, al Castello Sforzesco di Milano, ma senza troppa emozione, perché ero in compagnia di mio marito, e insomma non ero più così affascinata dal mito. Tuttora, però, lo riascolto con nostalgia, rivedo i filmati su Youtube, ho persino letto il suo romanzo (Cosa mi dai se mi sparo?), amaro, sarcastico, dolente, e scritto bene.

Per tutti questi motivi sono molto grata a Claudia Endrigo che ha reso omaggio a suo padre con un volume pubblicato da Feltrinelli, e introdotto da un’affettuosa prefazione di Claudio Baglioni. L’esistenza del cantante istriano è ricostruita dalla figlia con passione e malinconia, a partire dalla nascita (avvenuta a Pola il 15 giugno 1933, da una famiglia operaia con doti artistiche e musicali), e poi attraverso i tragici avvenimenti privati e storici che segnarono la sua problematica infanzia: la morte prematura del padre, il difficile rapporto mai ricomposto con il fratello maggiore, la precarietà economica vissuta con umiliazione e sacrificio, l’esodo imposto nel 1947 dopo la cessione dell’Istria alla Jugoslavia di Tito, la separazione dalla mamma adorata, il collegio per profughi a Brindisi. Quindi il doloroso abbandono degli studi, per quanto compensato da letture intense ed eclettiche, l’apprendimento entusiastico della musica, il ritorno al nord, i diversi lavori mal retribuiti, l’ostinato impegno nel migliorarsi culturalmente ed economicamente.

Claudia Endrigo elenca minuziosamente ogni tappa percorsa dal suo papà nel chimerico e implacabile mondo discografico: le prime incisioni, i contratti, le collaborazioni, incontri e amicizie (Bruno Lauzi lo definì “il nostro Brel”), successi e insuccessi, delusioni e tradimenti, tournée in giro per il mondo, partecipazioni a San Remo e in varie trasmissioni televisive e radiofoniche. Si sofferma in particolare a illustrare l’origine e la grande popolarità delle sue canzoni più note, Io che amo solo te e Canzone per te, tuttora famosissime e riproposte da numerosi e celebri interpreti, e le molte altre dedicate all’infanzia, con i testi di Rodari e di Vinicius de Moraes, o musicate su versi di poeti famosi. Ovviamente, l’autrice racconta con particolare tenerezza la vita privata di Sergio: l’incontro e il matrimonio con la moglie Lula, durato trent’anni tra burrasche e riavvicinamenti, la malattia e la morte precoce di lei; il periodo felice della villa costruita a Mentana, accanto a quelle di amici carissimi (Bardotti, Morricone, Bacalov), e della casa a Lampedusa, con le gite in barca e le immersioni subacquee. Vizi e virtù dell’uomo: i frequentissimi innamoramenti; la passione per il whisky, il vino e le carte; la timidezza e la generosità; l’abilità nel bricolage e nella cucina; l’attenzione all’ambiente e gli interessi politici; l’impaccio mai superato nel presentarsi sul palcoscenico e un’attrazione smodata per tutto ciò che proveniva dal Brasile. Infine, gli anni tristi del declino, assilli legali e finanziari, una penosa sordità che gli impediva di cantare dal vivo, l’ischemia del 2002 e l’allontanamento di amici e colleghi, fino al tumore che se lo portò via nel 2005.

Il volume Sergio Endrigo, mio padre, corredato da una ricchissima discografia, è quindi il regalo e la testimonianza della tenace e orgogliosa fedeltà filiale di Claudia, che ha molto amato il suo papà, che lo rimpiange e si rammarica ancora delle reciproche, inevitabili, incomprensioni: e che soprattutto continua a lottare e a impegnarsi perché non venga dimenticato, perché si rivaluti anche l’eccezionale produzione rimasta ingiustamente nell’ombra.

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/Sergio-Endrigo-mio-padre-Claudia.html

2 novembre 2017

 

RECENSIONI

ENZENSBERGER

HANS MAGNUS ENZENSBERGER, MAUSOLEUM – EINAUDI, TORINO 2017

MAUSOLEUM. TRENTASETTE BALLATE TRATTE DALLA STORIA DEL PROGRESSO, pubblicato da Hans Magnus Enzensberger nel 1975, uscito per la prima volta in Italia nel 1979, oggi viene riproposto, sempre da Einaudi e sempre con la traduzione di Vittoria Alliata, ma con la novità del testo tedesco a fronte. Quarant’anni fa il libro fu salutato da pubblico e critica come opera innovativa e stimolante nella produzione poetica occidentale, e mantiene tuttora una sua carica provocatoriamente vitale e ideologicamente corrosiva. Enzensberger è ancora uno degli intellettuali europei più prolifici e lucidamente critici, nella sua vastissima produzione che comprende saggi, pamphlet, romanzi, pièce teatrali, ma che comunque si caratterizza soprattutto per l’originalità della scrittura poetica.

Mausoleum è, come indica il sottotitolo, una raccolta di 37 medaglioni biografici dedicati ad –altrettanti protagonisti (agenti, promotori, fautori, ideatori, e talvolta vittime) del progresso civile ideologico, scientifico, tecnico, medico, artistico, politico – dell’umanità nell’ultimo millennio. Un elenco di scienziati, musicisti, inventori, architetti, filosofi disposto in ordine cronologico: a partire dal padovano Giovanni de’ Dondi, orologiaio del Trecento («Un meccanismo plurimo, di ruote / ellittiche e dentate, / connesse ad ingranaggio / … In codesto medioevo / oggi ancora viviamo») per finire con Ernesto Che Guevara («Un delicato perdente, pane / per i servizi segreti»).

Trentasette uomini (nessuna donna, infatti) che hanno fatto la Storia. Nell’immaginario di Enzensberger non sono le masse che permettono alla civiltà di evolversi, favorendo le “magnifiche sorti e progressive” di quello che i tedeschi chiamano “Die Forschung”: sono gli individui – geniali, coraggiosi, bizzarri, sfortunati, sbeffeggiati, perseguitati, sempre controcorrente. Sei ballate sono dedicate a italiani: il già citato de’ Dondi, e poi Campanella, Machiavelli, Spallanzani, Piranesi e lo psichiatra Ugo Cerletti, inventore dell’elettroshock. Di quest’ultimo e di Spallanzani vengono sottolineate l’asetticità scientifica e una sorta di sadica morbosità nel sottoporre animali e persone a esperimenti dolorosi e disumani, in nome di un opinabile progresso della medicina.

L’esaltazione di un illuminismo utopistico e mendace viene ironicamente inficiata attraverso la rappresentazione delle caratteristiche fisiche e comportamentali dei personaggi raccontati, spesso bruttini, piccoli, malaticci, in preda a ossessioni e tic maniacali, nati e cresciuti in ambienti viziati o corrotti. Un piccolo mausoleo degli orrori, quindi: nessuna malinconica Spoon River, in questa antologia sepolcrale che si vieta qualsiasi partecipazione emotiva, qualsiasi empatica solidarietà con i protagonisti dell’evoluzione e dello sviluppo umano, perseguito a prezzo di sofferenze individuali e collettive troppo spesso minimizzate o addirittura negate. La preferenza intellettuale di Enzensberger sembra indirizzata verso ingegneri, urbanisti, matematici, soprattutto dell’ottocento. Ma troviamo nell’elenco anche un musicista (Chopin: «L’implacabile foga con cui, vita natural durante, / parteggiò per il superfluo, difficilmente si spiega»). E un mago (Houdin: «Indistinguibile / il progresso dell’inganno dall’inganno del progresso. / Il pubblico è in estasi, gli applausi non finiranno / mai»). Dei molti filosofi e rivoluzionari politici si schernisce l’inconsistenza pratica, l’incapacità di comprendere il reale, il crudele destino di venire disattesi, traditi e superati dal trascorrere del tempo e dalla trasformazione delle ideologie: superati e dimenticati Condorcet, Fourier, Malthus, Leibniz, Taylor; Guevara ridotto a gadget nei manifesti e nelle T-shirt degli adolescenti, Bakunin divenuto un forsennato e innocuo fantasma rivoluzionario («E poiché sei sempre / lo stesso, / e poiché non ci puoi comunque aiutare, Bakunin, / rimani laddove sei»).

Enzensberger scrive poesia prosastica, utilizzando diverse tecniche tipografiche: il tondo per la descrizione, il corsivo per gli inserti tratti da citazioni, articoli, memorie, commenti e sottolineature personali. Alcune ballate sono veri e propri brani narrativi, e anche tale tecnica di scrittura contribuì a rendere particolarmente originale il suo Mausoleum: ma fu e rimane soprattutto il caustico messaggio di disincantata polemica nei riguardi dell’illusoria pretesa umana di un inesauribile e vincente avanzare del progresso, a rendere ancora molto attuale il suo messaggio poetico.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Mausoleum-Hans-Magnus-Enzensberger.html;     20 marzo 2017

 

 

 

 

 

RECENSIONI

EPICOCO

LUIGI EPICOCO, PER CUSTODIRE IL FUOCO. VADEMECUM DOPO L’APOCALISSE

EINAUDI, TORINO 2023

 

L’epigrafe tratta dal Vangelo di Luca, 12 49, “Sono venuto ad appiccare un fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già divampato!”, bene riassume l’appassionata sollecitazione che Luigi Epicoco suggerisce nel suo saggio einaudiano Per custodire il fuoco. Vademecum dopo l’Apocalisse. All’umanità di oggi manca il fuoco, che erroneamente si è sempre accostato all’immagine dell’inferno, mentre l’incandescenza, l’ardore, la luminosità della fiamma sono simboli di vita, di slancio, di passione, laddove invece è il ghiaccio che meglio rappresenta l’isterilimento di qualsiasi desiderio, l’assenza di energia, la mortificazione di ogni aspettativa.

Custodire il fuoco, non permettere che si spenga, alimentarlo, cercando nel buio una luce, nel gelo la scintilla del calore. È Dio la risposta che Epicoco (presbitero, teologo, docente alla Pontificia Università Lateranense) propone a donne e uomini disorientati, avviliti, arresi, per ritrovare entusiasmo e voglia di vivere? Forse la fede e la religione non sono l’unica via d’uscita da uno stato di precarietà e incompletezza. Il “Senso” come altro nome di Dio, l’innamoramento, la trasformazione di sé, uno scopo da raggiungere, un’esperienza capace di esprimersi in parola: tutto ciò potrebbe indurre a un cambiamento positivo. Non la preghiera consolatoria ma la ricerca inquieta, non una metafisica da indagare astrattamente, ma un Padre concreto e paradossale, che abita la terra e non il cielo, “un Dio infinito nel finito della storia. Il tutto che si riversa nel frammento. L’eterno che entra nel tempo”, nella contingenza che stiamo vivendo, qui e ora.

Si tratta essenzialmente di un capovolgimento di prospettiva, quello che l’autore di questo saggio – forse più filosofico che teologico – propone, servendosi come linea guida del romanzo La strada di Cormac McCarthy, commentato con adesione attenta e partecipe, nell’utilizzo di frequenti e illuminanti citazioni. Al testo di McCarthy si alternano pagine evangeliche, in supporto e conferma: il tradimento di Pietro narrato da Matteo, i morti resuscitati in Giovanni, Marco, Luca, e Maria Maddalena davanti al sepolcro vuoto. Ma è La strada il riferimento più importante scelto da Luigi Epicoco per illustrare la sua tesi. Il romanzo racconta il viaggio che un padre e il suo bambino intraprendono per scampare alla fine del mondo, dopo un evento apocalittico di cui non si sa nulla, trascinandosi a piedi attraverso un paesaggio disabitato, impauriti e affamati, testimoni di orrori e crudeltà, vittime del male ed essi stessi costretti a fare il male per difendersi dagli altri pochi superstiti, diventati minacciosi nemici:

“I giorni si trascinavano uno dopo l’altro, innumerevoli e innumerati. Sulla superstrada, in lontananza, lunghe file di macchine carbonizzate e arrugginite. I cerchioni nudi delle ruote su un ammasso grigio di gomma fusa e solidificata dentro anelli anneriti di fil di ferro. I cadaveri inceneriti ridotti alle dimensioni di bambini e appoggiati sulle molle scoperte dei sedili. Diecimila sogni sepolti dentro i loro cuori bruciacchiati. Andarono avanti. Percorrevano quel mondo senza vita come criceti sulla ruota. Le notti immobili come la morte, e più nere ancora. Un freddo. Parlavano poco o niente. L’uomo tossiva in continuazione e il bambino lo guardava sputare sangue. Si trascinavano oltre. Lerci, cenciosi, senza speranza. L’uomo si fermava e si appoggiava al carrello e il bambino proseguiva, poi anche lui si fermava e si girava e l’uomo alzava gli occhi piangenti e lo vedeva lì sulla strada voltato a guardarlo da qualche futuro impensabile, radioso come un tabernacolo in quella desolazione”.

Nel suo grigio abbandono, il futuro impensabile magistralmente narrato da McCarthy diventa per Luigi Episcopo espressione della mancanza di prospettive patita dall’uomo contemporaneo, nel proprio mondo interiore desertificato: può essere riscattata unicamente da un bambino “radioso come un tabernacolo”, che continuerà a vivere proiettandosi nel domani, unica possibilità di salvezza e redenzione.

Le vie di fuga cercate dagli adulti sono modi “per addomesticare la disperazione”: il materialismo, l’individualismo, la famiglia, la carriera, persino la ritualità religiosa si rivelano alibi vuoti, finalità illusorie. Solo l’attraversamento dell’inferno quotidiano e il suo superamento può permettere la riscoperta del desiderio, e condurre alla felicità. “Quando siamo infelici possiamo essere manovrati dagli altri, dal sistema, dalla cultura dominante, dalle ideologie, dalla dittatura delle cose. Le persone felici sono insopportabili perché non sono manovrabili. Sono radicalmente libere, e la radice della loro libertà risiede appunto nel fuoco dei loro desideri… Non si può essere felici mantenendo contenti gli altri. A un certo punto bisogna trovare il coraggio di deludere perché si ha diritto a diventare se stessi, a essere difformi dal resto del mondo… Ecco allora la sequenza del fuoco: desiderare la felicità; a partire da questo desiderio coltivare una passione. La passione può generare conflitto; ma essa va difesa e alimentata perché è lì il fuoco”.

 

© Riproduzione riservata              «La Poesia e lo Spirito», 25 settembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ERMAKOVA

IRINA ERMAKOVA, LO SPECCHIO DI BRONZO – EINAUDI, TORINO 2023

Con una approfondita introduzione e un’accurata traduzione di Alessandro Niero, Einaudi pubblica nella Collezione di Poesia un’antologia di versi della poeta russa Irina Ermakova, nata in Crimea nel 1951 e residente a Mosca da molti anni. Ermakova, laureata in ingegneria, esordì trentaseienne presentando alcune poesie su un bollettino di fabbrica, e continuò successivamente a scrivere al di fuori della cerchia letteraria e accademica più accreditata sia nel periodo della perestrojka sia in quello della restaurazione putiniana, scavandosi una nicchia di produzione “spuria” tra avanguardia e tradizione, ma ben presto riconosciuta nella sua originalità sia in patria sia all’estero.

Tra i temi che le sono più consoni, senz’altro l’interesse per la cultura classica e la mitologia, riambientate nell’attualità, è riscontrabile in alcune poesie dedicate a Pan, ad Afrodite, a Eros e Thanatos. In Ninnananna a Odisseo, compresa nella raccolta omonima, Ulisse navigatore diventa poeta esiliato, Penelope una ragazza invecchiata, Itaca è Mosca, la Crimea l’antica Tauride: “C’è calca sul viale Primorskij, brivido di notizie, / le candele arroventate dei castagni seminano i particolari: / tutti hanno visto Odisseo affrettarsi verso il mare, / abbracciando le spalle olivastre della sua Odissea. //… Pregustando tempesta, fremono i panni nei cortili, / giacché la patria è il cielo – qualunque: Itaca, Odessa…”.

Se la trasposizione dell’antichità nel mondo contemporaneo è evidente e ribadita, lo è altrettanto l’inserimento delle mutazioni climatiche all’interno di episodi autobiografici. Aria e acqua animano i versi di Ermakova in un turbinio di tempeste di neve, bufere ventose, piogge scroscianti, tutte metafore delle indomabili forze naturali che trascinano con sé i destini umani: “Con fragore – senza remore – / squarciato è il sacco delle nubi / la sferza frusta e sibila / l’acquazzone marcia verso la città”, “La neve infuria. Si addensa il mondo, si fa ancora più angusto. // … La città verrà presa”, “Inizia a piovere, inizia a piovere, / le prime gocce dilavano il volto, / la pioggia avvampa, stronfia, si affaccenda, / l’onnipossente ruota fa girare”, “dalla finestra dell’asilo guardi: pioggia e pioggia / ad allagare, pare, tutto, nessuno si trova più”.

È un’antologia caleidoscopica, questa curata con grande passione da Alessandro Niero, in cui troviamo i temi più vari, le tonalità più contrastanti: versi amorosi tranquillamente e impudicamente elegiaci, privi di remore verso il sentimento romantico; gallerie di ritratti ironici o commossi, comunque lontani dal bozzettismo; pseudo-traduzioni dal giapponese classico. Quasi che la poeta, nel proiettarsi in avanti nel tempo come nel recupero della tradizione a ritroso, voglia dare prova della propria eccezionale versatilità stilistica, del grande e variegato repertorio di contenuti cui può attingere.

Così, nella raccolta Alveare del 2007 la quotidianità della vita di un quartiere periferico di Mosca viene raccontata attraverso le vicende degli abitanti dei caseggiati popolari: anziane pettegole, musicisti falliti, gattare, madri alcolizzate, compagni di scuola recuperati nel ricordo, in toni narrativi lontani dall’aneddoto, e invece pietosamente solidali con la realtà impoverita del suburbio: “E c’è anche Goga, nostro vicino d’appartamento, al 102 – / Goga-yoga-sbam. Come lo scherzano i bambini perfidi. / C’aveva un anno e fu lasciato cadere, si sfasciò la zucca / e adesso è Yoga, anche se pare uno yeti, più che altro”.

Con intento quasi ludico ma sempre elegantemente allestito, in Carboncino scarlatto su seta nera (2012) sono riuniti centootto microtesti composti con lo pseudonimo di Yoko Inati e ambientati nel Giappone del XII secolo, di cui Ermakova si finge traduttrice e curatrice, ricalcando le forme tradizionali dei tanka e degli haiku nipponici: “Una gelida luna / gli rischiara la strada / oltre la mia porta. / Getterò il cuore ai suoi piedi – / che inciampi!”

Maestra nell’utilizzare immagini suggestive tratte dall’osservazione della vita quotidiana (oggetti, vegetali, animali, persone, abitudini), la poeta russa veicola attraverso esse, talvolta con un linguaggio volutamente oscuro, riflessioni sulla insondabilità e insieme sull’irriducibile grandezza dell’esistenza umana, sia nel considerare l’infinitezza temporale e spaziale, sia nei rapporti di affetto e amicizia con chi le è più caro : “Così nel vuoto il vuoto gioca allettante / traendo un suono puro dal nulla / l’agile lappola cantilenante saltella / piccolo secco testimone di un Big Bang”, “Come amo i conversari a tarda sera. / I miei più miei tutti attorno a un tavolo”.

Il lavoro attento e partecipe del curatore e traduttore Alessandro Niero, condiviso con l’autrice stessa, viene esplicitato ai lettori attraverso un ricco apparato di note ai testi, con la rammaricata consapevolezza di “quanto va perso nel traghettamento dal russo all’italiano”: ma a tale impegno va reso il plauso di una sensibile penetrazione nel mondo interiore di Irina Ermakova, e della non semplice resa della polisemia lessicale dei suoi versi.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 28 febbraio 2023

 

 

RECENSIONI

ERMENTINI

MARCO ERMENTINI, LA PIUMA BLU – MIMESIS, MILANO 2013

Se Hemingway aveva scritto i suoi 49 racconti, energici e incisivi, l’architetto Marco Ermentini pubblica nella collana dell’Accademia del Silenzio questi delicati, appena sussurrati, 49 raccontini, in un elenco alfabetico che partendo da Abbaino arriva fino a Zattera. Descrizioni di luoghi, per lo più sottovalutati o ignorati o snobbati: perché poco appariscenti, discreti o fuori moda.
L’autore sta conducendo da anni una sua personale e ironica battaglia a favore di un’architettura non prevaricante, rispettosa dell’ambiente, «timida». E in questo libretto rende omaggio agli aspetti gentili della vita quotidiana in cui siamo immersi, da segnalare all’attenzione e alla cura di tutti con una metaforica «piuma blu»; blu come le bandiere che indicano le spiagge pulite, blu come i cieli e i mari limpidi, ma con il tratto distintivo della gentilezza sinuosa di una piuma.
Ci sono in questo libriccino descrizioni di paesi (Anghiari, Bressanoro), di locali domestici o costruzioni varie (cantina, cesso, ufficio, chiostro, tetto, soffitto, fabbrica, pizzeria, palestra), di luoghi naturali (sentiero, grotta, cascata, chiari di bosco), di arredamenti interni ed esterni, di alberi e fiori: osservati con sguardo nuovo e rispettoso. Ma anche spunti riflessivi che invitano il lettore a un complice ascolto, ad una pausa di riflessione; applicandosi per esempio agli esercizi di astinenza raccomandati dagli stoici e dagli epicurei, che insegnavano la limitazione, la rinuncia, l’attesa: «dobbiamo imparare a muoverci leggeri per il mondo… la sperimentazione consiste in parte nel lasciare le cose come stanno». Apprezzando ciò che non si impone, e invece semplicemente propone, nella sua fragilità, un’offerta di solidale adesione alla bellezza dell’esistente: «Siamo sopraffatti dalla quantità, e non ci accorgiamo che sono le piccole e semplici cose le vere perle che possiamo pescare».

 

«Accademia del Silenzio», 10 febbraio 2014

error: Content is protected !!