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RECENSIONI

ERNAUX

ANNIE ERNAUX, IL POSTO – L’ORMA, ROMA 2014

Di Annie Ernaux, nata nel 1940 e considerata un classico nella narrativa contemporanea d’oltralpe, la casa editrice romana L’Orma propone nella traduzione di Lorenzo Flabbi questo romanzo pubblicato in Francia nel 1983. Si tratta di una rivisitazione autobiografica della famiglia dell’autrice, e in particolare della figura paterna, tracciata in uno stile composto e oggettivo, privo di qualsiasi compiacimento o ridondanza: un omaggio al padre vissuto e morto occupando con dignità il suo piccolo posto nel mondo. Annie Ernaux per questa sua celebrazione domestica ha scelto con consapevolezza una «scrittura piatta», e ce ne fornisce una giustificazione etica prima che letteraria: «Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a far qualcosa di ‘appassionante’ o ‘commovente’. Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io».

Ma dall’esistenza modesta del padre – nato contadino, poi diventato operaio e infine gestore di un bar-drogheria in una cittadina della Normandia – la figlia prende presto le distanze, scegliendo un percorso più borghese e intellettuale, laureandosi e insegnando, in qualche modo vergognandosi sempre delle origini e degli atteggiamenti dei genitori (gesti impacciati, linguaggio dialettale, vestiti dozzinali: «Assomigliavano a tutti coloro che non sono abituati a uscire»). Fuori posto loro nella sua vita, lei nella loro: «Sono scivolata in quella metà di mondo per la quale l’altra metà è soltanto un arredo». Felice e forse orgogliosa di essere fuggita dal posto che le era stato predestinato, sentendosi tuttavia in colpa per aver in qualche modo tradito. L’unico riscatto possibile rimane allora quello della testimonianza scritta: «Non per indicare al lettore un doppio senso e offrirgli così il piacere di una complicità, che respingo invece in tutte le forme che può prendere, nostalgia, patetismo o derisione. Semplicemente perché queste parole e frasi dicono i limiti e il colore del mondo in cui visse mio padre, in cui anch’io ho vissuto. E non si usava mai una parola per un’altra».

«Leggendaria» n.107, settembre 2014

RECENSIONI

ESIODO

ESIODO, TEOGONIA – MARCO SAYA EDIZIONI, MILANO 2021

Daniele Ventre, poeta, traduttore, insegnante di lettere classiche nei licei, ha curato una recente edizione della Teogonia di Esiodo, pubblicata dall’editore Marco Saya con testo integrale a fronte.
Nella dotta e analitica introduzione, il Professor Ventre si sofferma su alcuni punti nodali del poema e della figura del suo autore, che – primo ad essere storicamente identificabile nella storia della letteratura europea –, si presenta in terza persona al v. 22, dopo la lunga sezione proemiale. Auto-citandosi (con un nome che etimologicamente parrebbe significare “colui che spande la voce”, allusione alle doti affabulatorie delle Muse), Esiodo ha mitizzato sé stesso, “eroicizzando il proprio io empirico”. Nato ad Ascra, in Beozia, intorno al 750 a.C., e morto verosimilmente nel primo decennio del secolo successivo, la sua esistenza si colloca dopo la composizione dei poemi omerici, rispetto ai quali i suoi scritti mostrano di essere posteriori per ragioni tematiche, intertestuali e linguistiche. Compose probabilmente tra il 720 e il 690 a.C. le opere attribuitegli con certezza: Teogonia, Eoie, Le opere e i giorni. L’epoca in cui Esiodo visse era segnata dalla crisi della società aristocratica proto-arcaica, in cui la figura dell’aedo veniva ricondotta a un ruolo marginale e socialmente irrilevante o addirittura ambiguo, contiguo a quello dello sciamano o del mago, operante in una dimensione sacrale. Esiodo aveva sperimentato in prima persona l’iniquità e la doppiezza dell’aristocrazia, essendo stato defraudato della sua eredità dal proprio fratello Perse, grazie all’appoggio di un potere corrotto. Nella sua opera è vitale l’appello alla giustizia come valore assoluto, consacrato dagli dei. Nel Proemio della Teogonia, che si protrae per più di cento versi, sono presenti tutti questi presupposti storici, culturali, sociali e biografici, in particolare nell’Inno alle Muse, con l’investitura attribuita al poeta dalle dee, attraverso il dono dello scettro di lauro, indicante un rapporto preferenziale del cantore con la divinità ispiratrice, che gli conferisce una capacità profetica e illuminante sul passato e sul futuro, e nello stesso tempo sancisce una connessione profonda tra le le figlie di Zeus e il loro padre. L’investitura accordata a Esiodo lo eleva al rango di chi amministra il potere, poiché la formula poetica, attraverso l’uso della parola – strumento di conoscenza e di persuasione -, è contigua alla formula giuridica e a quella rituale. Il rapsodo non è più associabile al pastore dell’età omerica, ma si innalza al rango dei regnanti e dei sacerdoti: “Il re, che sana le discordie e placa la rabbia dell’offeso, e il poeta, che sana i dissidi interni dell’animo e guarisce l’afflitto, sono l’espressione dello stesso potere di guarigione, quello insito nella voce e nel dono delle Muse”. Esse, figlie di Mnemosine (la Memoria), hanno la facoltà di riassestare la mente di chi soffre, somministrando in dosi equilibrate ricordo e oblio. Esiodo nel suo poema esprime la convinzione che gli aedi rivestano una funzione istituzionale assimilabile a quella dei re: il loro canto è canto della Dike (la Giustizia), che addita la norma come principio, nella stessa direzione indicata dagli dei.

Dopo aver inquadrato in maniera approfondita la personalità e il ruolo sociale dell’autore, Daniele Ventre passa a esaminare la struttura narrativa della Teogonia. Ricalcando parzialmente le cosmologie presocratiche e mesopotamiche, Esiodo pone all’origine dell’esistente non tanto un atto creativo, bensì la materia informe del Caos primordiale, che si manifesta come disordine e totale discordia. Al Caos si affianca per prima Gaia, la Terra, e tra i due agisce la potenza pulsionale di Eros. Dai vari connubi tra gli dei nascono stirpi di giganti mostruosi, tesi a eliminarsi a vicenda, per imporre con crudele violenza il proprio dominio. Un lungo processo evolutivo procede dal magma indistinto verso una sistemazione ordinata e razionale. L’avvento finale di Zeus, ultimo nato dal dio Crono, agisce sulle forze caotiche come principio divino di catarsi cosmica, aprendo l’universo a orizzonti di giustizia e armonia. Gli dei olimpici, i semidei, gli eroi “definiscono una nuova fase del canto teogonico: quella che illustra la permeazione reciproca fra il divino e l’umano”, in cui lo spazio terrestre è pervaso dalla presenza di un ordine sovrano. Con la Teogonia si apre la strada alla riflessione filosofica sull’arkhé dei presocratici.

Il raffinato volume edito da Marco Saya è arricchito da un ingente apparato di note e da un’altrettanto considerevole bibliografia.

 

© Riproduzione riservata            SoloLibri.net › Teogonia-Esiodo    20 settembre 2021

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ESPOSITO

EDOARDO ESPOSITO, ELIO VITTORINI. Scrittura e Utopia – DONZELLI, ROMA 2011

Edoardo Esposito, docente universitario a Milano e critico letterario, è oggi il maggior esperto italiano di Elio Vittorini: allo scrittore siciliano ha dedicato negli ultimi trent’anni numerosi saggi e commenti che ora vengono raccolti, insieme ad altri studi inediti, in un importante volume pubblicato da Donzelli. Già nel capitolo introduttivo Esposito difende vigorosamente Vittorini da una serie di accuse che gli sono state mosse in ambito letterario sin dai suoi esordi di narratore: tra queste, quella di aver voluto «essere troppe altre cose che scrittore» (s’intende traduttore, critico, polemista, giornalista, politico…), senza volergli riconoscere «l’ampiezza dell’orizzonte con cui ha cercato di misurarsi, e la generosità con cui ha saputo spendersi». Altra riserva che molti letterati hanno espresso riguardo alla prosa di questo tanto discusso e frainteso autore, è stata quella sul suo stile, «apparso via via… povero, ripetitivo, scialbo e monotono, oppure innaturale, artificioso, manieristico». Esposito riporta numerosi esempi di altissima prosa vittoriniana, riconoscendole «una sicurezza e un’agilità espressiva indiscutibile», ma soprattutto la capacità «di comunicare al lettore la propria carica emotiva». Una prosa, quindi, che seppe far tesoro sia degli insegnamenti del realismo psicologico di tradizione ottocentesca (specificamente verghiana), sia del classicismo rondesco, sia dell’atmosfera della poesia ermetica e, prima ancora, simbolista. Da subito la narrativa di Vittorini si caratterizzò per una sua consapevole opzione per la letteratura europea del 900, in una direzione assolutamente contraria al carattere “nazional-popolare” verso cui spingeva la cultura fascista dell’epoca. Quindi i tedeschi e i russi, ma soprattutto i francesi con Proust e gli inglesi con Joyce e Lawrence. Solo in seguito la lettura entusiastica e la traduzione degli americani divenne per lui fonte primaria di ispirazione e invito a «riscuotere il romanzo dall’intellettualismo e ricondurlo a sottovento della poesia». Gli autori che diventarono ben presto suoi maestri furono ovviamente Hemingway, Faulkner, Steinbeck, Saroyan, Caldwell, che lo spinsero ad adottare uno stile e una sintassi completamente diverse da quello assunte fino ad allora: «oggetto di una decostruzione i cui materiali verranno collegati attraverso un principio di tutt’altro tipo: il ritmo». Esposito segue minutamente non solo l’evolversi della narrativa vittoriniana, ma anche i suoi conseguenti nuovi approdi lavorativi, con la collaborazione professionale che passò da Mondadori a Bompiani, e poi, nel dopoguerra, a Einaudi, e con l’attività pubblicistica che si specializzò appunto sugli autori americani. Il romanzo che gli dette la fama, decretandone successo di pubblico e di critica, anche in ambito internazionale, fu ovviamente Conversazione in Sicilia, pubblicato nel 1941, di cui Esposito ricostruisce sapientemente genesi e composizione, sottolineandone l’originalità stilistica («un nuovo narrare») e la portata politica, con la coraggiosa denuncia contro «un regime sempre più illiberalmente offensivo». Altrettanta partecipe attenzione il critico destina a un altro capolavoro vittoriniano, Uomini e no, del 1945, alla «dimensione ritmica del suo discorso», nel suo «procedere paratattico tributario della tecnica cinematografica», e soprattutto alla sua componente sentimentale, con la commossa rivisitazione della storia d’amore tra Berta e Enne 2. Un romanzo, quest’ultimo, «non sulla Resistenza ma della Resistenza», a cui lo scrittore siciliano partecipò «non come combattente, ma collaborando essenzialmente alla stampa clandestina», in nome di un’utopia mai rinnegata. Altro capitolo importante nella biografia di Vittorini fu il suo ruolo di operatore culturale, di traduttore e scopritore di talenti letterari, di instancabile organizzatore e polemista, come è testimoniato dal suo ricchissimo epistolario, dalla produzione di numerosissimi articoli e saggi, e dalla pubblicazione della più importante antologia di narratori statunitensi mai apparsa in precedenza: Americana. Questo fondamentale volume, di più di mille pagine, introdusse per la prima volta in Italia 33 autori d’oltre oceano, più che tradotti letteralmente “riscritti” dalle penne più importanti dell’epoca (Montale, Moravia, Piovene tra gli altri). Esposito segue le vicissitudini anche politiche (dovute a fraintendimenti e censure, a polemiche e ripicche) di tali iniziative, che sempre mostrarono il carattere indipendente e coraggioso dell’autore: «La vera scienza di Vittorini non si affidava a un’analitica realtà di studi; erano letture onnivore e appassionate a fondare la visione prospettica nella quale trovavano giustificazione le sue scelte, e il valore della sua critica, per quanto riguarda in particolare la letteratura americana, resta nell’innovatività della proposta e nella suggestione delle metafore con cui egli seppe sostenerla».

Gli ultimi capitoli del saggio di Edoardo Esposito sono dedicati ad almeno tre avvenimenti importanti dell’ultimo ventennio di vita di Vittorini: l’avventura de  Il Politecnico, mensile di cui fu direttore e animatore dal 45 al 47, la cui pubblicazione venne sospesa in seguito alla dura polemica con i vertici del Partito Comunista. Quindi, la pubblicazione de Il garofano rosso, dopo una revisione durata molti anni: con una importante prefazione che si presentava come «la sua dichiarazione di poetica più articolata e argomentata», in cui «il linguaggio poetico cui aspira lo scrittore appare caratterizzato da due dimensioni, quella ritmica (l’esigenza della “musica”) e quella simbolica (“dire senza dichiarare”)». Infine, l’amaro episodio che vide Vittorini bocciare , con evidente miopia editoriale, la pubblicazione de Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Ma la grandezza dello scrittore e dell’intellettuale non ne viene scalfita, e il bel libro di Esposito la sottolinea con evidente ammirazione, riportando le parole inequivocabili di chi orgogliosamente si definiva “militante comunista”: «… ho un vecchio parere da dire: riguardo ad arte e cultura, compiti sociali di chi scrive, suo dovere di prender parte alla rigenerazione della società italiana…». Parole che, tanto più oggi, commuovono nella loro ingenua e feroce utopia.

«criticaletteraria», 8 ottobre 2013

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ESPOSITO

EDOARDO ESPOSITO, LETTURA DELLA POESIA DI VITTORIO SERENI – MIMESIS, MILANO 2015

Una lunga fedeltà, quella che Edoardo Esposito (professore di Letterature comparate all’Università degli Studi di Milano) ha mantenuto nei riguardi della poesia di Vittorio Sereni (1913-1983). Argomento della sua tesi di laurea – poi ripreso in articoli, saggi, corsi accademici, convegni -, lo studio attento ed empatico della produzione sereniana ha infatti accompagnato tutta l’attività critica di Esposito, e oggi trova un necessario e puntuale compimento in : Lettura della poesia di Vittorio Sereni (Mimesis, 2015). «Sereni non è un poeta facile; anche se molti suoi versi si offrono limpidi alla lettura, qualcosa resta, nel fondo, di non detto, qualcosa di cui i versi hanno alzato il velame ma che non vuole scoprirsi per intero, qualcosa che costituisce il rovello segreto dell’occasione e dell’uomo».

All’ “uomo Sereni” Esposito dedica espressioni di ammirato e solidale affetto, ribadendone continuamente discrezione, gentilezza e coerenza, velate tuttavia da alcuni tratti di insicurezza e mite rassegnazione, che gli impedivano di schierarsi in maniera programmaticamente impegnata sia in sede ideologica sia nelle scelte stilistiche. Una rinuncia a prendere posizione derivata forse da un immutabile tratto caratteriale, ma anche da dolorose vicende biografiche e dalla difficile interpretabilità del periodo storico vissuto. Tale fluttuante disposizione psicologica si rifletteva nelle sue poesie, nelle esitazioni formali caratterizzate spesso da iterazioni, inversioni, sentenziosità, allusioni, reticenze e nell’impronta sempre composta, trattenuta, le cui parole d’ordine paiono essere misura, decoro, pudore, autocontrollo.

Esposito ripercorre tutta la vicenda umana e letteraria del poeta lombardo, dalla nascita e infanzia a Luino (il cui paesaggio lacustre tanto segnò l’ambientazione dei suoi versi), alla giovinezza trascorsa a Brescia, fino al trasferimento a Milano, dove si svolse quasi tutta la sua esistenza familiare e professionale. Fondamentale cesura, e ferita mai rimarginata nella sua vita, fu l’esperienza della guerra e della lunga prigionia in Africa, che pur privandolo non solo della spensieratezza degli anni giovanili, ma anche della possibilità di aderire attivamente alla Resistenza, offrirono materia di ispirazione a tutta la sua produzione poetica, dal Diario di Algeria del 1947 a Stella variabile del 1981. Ma la guerra e la storia non sembrano mai essere le vere protagoniste della scrittura di Sereni, in cui «l’avvenimento esterno è ricondotto all’interiorità dell’uomo, e la realtà stessa viene subordinata alle verità inquiete e perplesse della propria coscienza»: «Questa è la musica ora; / delle tende che sbattono sui pali. / Non è musica d’ angeli, è la mia / sola musica e mi basta».

Il volume di Edoardo Esposito non si limita a interpretare analiticamente il percorso letterario di Sereni (scandito sia dai libri di versi, sia dalle prose che li hanno accompagnati), ma scruta i differenti motivi della sua «mancanza di accordo con il mondo che lo attornia e con cui si confronta», una disarmonia indagata dai molti, validissimi critici che si sono occupati di lui: tra gli altri, Fortini, Mengaldo, Scarpati, Caretti, Seroni, Luzi, Forti, Cecchi, Anceschi, Antonielli, Ferretti, Siciliano, Macrì, Portinari, i cui pareri vengono riportati con puntuale accuratezza.
Il giudizio complessivo che Esposito dà di Sereni-poeta lo descrive come «fondamentalmente un lirico, la cui capacità, a qualunque materia si applichi, non è già logica, ma evocativa e trasfigurativa». Quello espresso su Sereni-uomo arriva a identificarsi con un rispettoso e intenerito omaggio: «Un elemento che va sottolineato per comprendere fino in fondo il pensiero di Sereni…è quello della “dolcezza”, che senza enumerare i torti, senza rinfacciare il passato richiama tuttavia a dei valori antichi… Dolcezza è capacità di affrontare la vita con il rispetto che le è dovuto, con l’umiltà di chi accetta di conoscerla solo in parte e non vuole sostituirle comodi schemi; è risoluzione ma non durezza, è fermezza ma non violenza, è la capacità di operare con “abnegazione e innocenza”, capacità che risulta da una più profonda comprensione e accettazione della vita, che sottolinea la necessità di lottare per le proprie convinzioni senza diventare chiusi e cinici».

 

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26 aprile 2016

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ESPOSITO

CECILIA MARIA ESPOSITO, MELPOMENE RACCONTA – MANNI, SAN CESARIO DI LECCE 2017

Nella mitologia greca, Melpomene era la musa della tragedia, figlia di Zeus e di Mnemosine: assumendo il ruolo affabulatore di lei, Cecilia Maria Esposito (Milano, 1992, studentessa di medicina e filosofia) ci narra le vicende tormentate, quando non decisamente tragiche, di undici donne del mito e della letteratura greca. Nelle loro passioni, nella loro sofferenza, negli interrogativi che rivolgono al destino e agli dei, l’autrice riflette le stesse inquietudini delle donne contemporanee, dopo più di duemila anni ancora vittime di società misogine, di amori sbagliati, di pregiudizi collettivi, o dei loro stessi errori.

Utilizzando una prosa elegante, che nelle scelte lessicali desuete e nel ritmo stesso della narrazione ricalca lo stile raffinato e composto dei classici, Cecilia racconta – sempre in prima persona – l’amore coniugale della vecchia Bauci, quello materno di Ecuba, di Giocasta e di Persefone, quello folle di passione e gelosia di Fedra, Clitemnestra, Eco, Medea, l’affetto sororale di Antigone e Arianna, e l’invasamento profetico di Cassandra. Sempre di amore, comunque, si tratta. Quasi le donne scegliessero con consapevolezza di volersi immolare sull’unico altare della dedizione all’altro: sia esso un dio, il compagno, un parente, la propria città. Ecco quindi le giovanissime Arianna ed Eco, che scelgono la morte quando comprendono di avere sprecato i loro giorni per chi le ha trattate con indifferenza ed egoismo («Hai risucchiato tutto il resto»; «Passava i giorni a fissare se stesso – io passavo le notti a sognarlo»). Ecco le più anziane, Giocasta, Ecuba e Bauci: le prime due unite dalla stessa disperazione materna, straziata da incubi; la terza vissuta per più di sessant’anni in simbiosi col marito («c’era dell’ingiustizia, fin dall’inizio, nell’avere due corpi, per due esseri così completamente compenetrati l’uno nell’altro»). E poi le folli di passione: Fedra innamorata del figliastro Ippolito («Ho conosciuto il tradimento prima di conoscere l’amore, il brivido del peccato prima del candore della colpa»), Medea assassina dei figli per punire l’infedeltà di Giasone, Clitemnestra complice-uxoricida per essere stata troppo umiliata da Agamennone. Infine, le sacrificate a causa della loro stessa fragile femminilità: Persefone scissa tra il mondo degli Inferi e la luminosità delle messi agresti, Cassandra condannata per la sua visionarietà anticipatrice degli eventi, Antigone generosa e ribelle («Ci vuole ostinazione per distruggersi… La mia vita scorre nel solco dell’inevitabile»). Un lungo elenco di dolore e ingiustizie, concretizzatosi in suicidi, assassinii, tradimenti, immolazioni e sacrifici, egoismi ed altruismi eroici, generosità e meschinità, ricatti e terrori, gelosia e sottomissione: gli stessi sentimenti esasperati, cupi, irrazionali che animano le tragedie sentimentali e familiari di oggi.

Cecilia Maria Esposito mette sulle labbra delle sue protagoniste affermazioni che ribadiscono spesso il loro senso di inferiorità rispetto al mondo maschile, l’estraneità al vissuto degli uomini, una rassegnazione che talvolta sfiora il masochismo: «Ti ho amato per il male che mi hai fatto», «Sono una donna, la mia conoscenza del mondo è informe come un castello di sabbia», «Gli uomini non sono fatti per donarsi a un amore solo», «L’uomo ha sempre l’illusione di poter dominare il proprio destino, la donna crede sempre di non esserne la schiava». Ci capita ancora di trasalire, increduli, quando sentiamo ripetere le stesse frasi da vittime della violenza altrui o propria, quasi il nascere donna sia rimasta nei millenni una condanna all’inferiorità, alla sudditanza, all’infelicità: e non il miracolo di bellezza e forza che in realtà è.

 

© Riproduzione riservata             www.sololibri.net/Melpomene-racconta-Esposito.html      1 aprile 2017

 

 

 

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ESPOSITO

ROBERTO ESPOSITO, I VOLTI DELL’AVVERSARIO – EINAUDI, TORINO 2024

Roberto Esposito, Professore emerito di Filosofia teoretica all’Università Normale di Pisa, con il suo ultimo, complesso e interessantissimo volume I volti dell’Avversario, traccia una cesura, uno scarto tematico rispetto alla sua produzione più nota, indirizzata negli ultimi anni verso la biopolitica e i rapporti tra movimenti e istituzione: allo stesso modo i dieci versetti della Genesi (32, 23-33) di cui si occupa in questo libro costituiscono una netta rottura all’interno del ciclo narrativo che riguarda il personaggio biblico di Giacobbe. Il brano indagato dall’analisi di Esposito racconta l’episodio della lotta del patriarca (figlio di Isacco e Rebecca, fratello di Esaù, sposo di Lia e di Rachele, padre di dodici figli), che fuggendo dall’inseguimento vendicativo del fratello a cui aveva sottratto la primogenitura con l’inganno, si accampa sulla riva del torrente Jabbòk, dopo aver messo in salvo sull’altra sponda l’intera sua famiglia, nella speranza di condurla alla terra promessagli dal Signore.

Giacobbe quindi rimane solo, di notte, e improvvisamente gli appare dinanzi un uomo dal profilo fisico e morale indefinito, con cui inizia a lottare “fino allo spuntare dell’aurora”, in un alternarsi di duri colpi inferti e restituiti vicendevolmente, finché questo oscuro Avversario (Esposito usa l’iniziale maiuscola) lo colpisce all’anca, provocandogli una slogatura che lo renderà zoppo per sempre, e ne segnerà la trasformazione spirituale. Infatti, al sorgere del sole la sfida tra i due contendenti si conclude, e Giacobbe chiede al nemico di benedirlo; questi, senza rivelargli la propria identità, così gli risponde: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”.  Giacobbe stesso riconosce orgogliosamente la propria superiorità nel conflitto, quando afferma: “Ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”.

Il nome Israele, attribuitogli da un’entità sconosciuta, significa “colui che lotta con il Signore”, e sta a indicare non solo il suo destino, ma anche quello della popolazione di cui sarà capostipite, segnata nei millenni da un’immedicabile “ferita che si è fatta storia”.

Chi è l’Avversario? Chi è colui che lotta con Giacobbe “fino allo spuntare dell’aurora”? Un uomo, come lo definisce il brano genesiaco, oppure Dio, un Angelo, il Male, un nemico nazionale o religioso, una divinità protettiva del fiume Jabbòk, un incubo, l’inconscio rimosso? E cosa simboleggia la lotta tra i due? Si tratta veramente di uno scontro, di un corpo a corpo feroce, o non piuttosto di un abbraccio furioso e annichilente, o di una danza inebriata, secondo le varie raffigurazioni tramandateci dall’arte?

L’indagine di Roberto Esposito si articola in dieci capitoli e in un corposo repertorio di glosse e di note, che non si accentrano solo sull’episodio biblico preso in considerazione, ma ne valutano la “straordinaria irradiazione nella tradizione culturale degli ultimi due secoli in ambito filosofico, letterario, artistico, politico, psicoanalitico”.

I filosofi, gli storici, gli psicanalisti passati in rassegna dall’autore indicano ipotesi diverse e a volte contrastanti nel delineare la figura del nemico: vengono citati Heidegger, Barthes, Girard, Rank, Freud, Jung, Schmitt, Stirner, Peterson, Lacan, Recalcati, Agamben, tutti concordi nel sottolineare la potenza metamorfica che consente all’Avversario di assumere infiniti volti.

Scrittori e poeti come Baudelaire, Malraux, Mann, Bernanos, Sachs, Celan, Corbin, Carrère, Capote,

si sono confrontati con i nuclei tematici che emergono dal ciclo di Giacobbe (Potere, violenza, inganno, dualità, fratellanza, vendetta, paura, rimorso, narcisismo, enigma), tentando di darne una chiarificazione. La stessa cosa hanno fatto i pittori presi in esame da Esposito, in primo luogo Eugène Delacroix, il cui dipinto – collocato su una parete della chiesa di Saint-Sulpice a Parigi -, ha attirato l’attenzione dell’autore in ogni visita alla capitale francese reiterata per trent’anni. Se Delacroix raffigura il movimento dei corpi che lottano in un epico contrasto tra l’impeto furioso di Giacobbe e la forza trattenuta ed elegante dell’Angelo, Rembrandt lega i due contendenti in un abbraccio inclusivo, mentre Odilon Redon addirittura nasconde il patriarca tra le ali del Messaggero, e Moreau mantiene i duellanti discosti;  Gaugin invece oggettivizza la scena attraverso lo sguardo di alcune spettatrici in primo piano, Chagall e Bonnat utilizzano intensi contrasti coloristici, e Marte Sonnet raffigura l’Avversario come una nera forza informe e minacciosa.

Un ulteriore e forse definitivo conflitto è quello che coinvolge il lettore di Genesi 32 con l’interpretazione del testo, a cui Roberto Esposito tende a dare infine una soluzione assolutamente condivisibile: “Non si lotta – da parte di Giacobbe come da parte di ognuno di noi – per impadronirsi di una verità inattingibile, ma per accertarne l’inafferrabilità… Quale ne sia la motivazione contingente, in ultima analisi lottiamo sempre per la nostra verità, per cercare, almeno per una volta di vederla ‘faccia a faccia’, come Giacobbe fa con l’Avversario, prima che si dilegui di nuovo…”. Lottiamo tutti con il nostro inconscio, il daimon interno che tendiamo a espellere fuori di noi: “dal momento che non si darà mai un tempo umano riconciliato, esteriore o posteriore al conflitto con l’altro e con se stesso”. Per dirlo con le magiche parole della poetessa Nelly Sachs, che tanto ha combattuto con i mulini a vento della mente e con le concretissime persecuzioni della Storia: “nessuno torna illeso dal suo dio”.

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 22 giugno 2024

 

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FALCI – TONDELLI

GIUSEPPE ALBERTO FALCI – JACOPO TONDELLI, DOPO LA DEMOCRAZIA

ZOLFO, MILANO 2022

 

In sei capitoli, un’introduzione e una conclusione, due giornalisti politici – Giuseppe Alberto Falci e Jacopo Tondelli – raccontano “un decennio vissuto pericolosamente, tra populismo e tecnocrazia”, come recita il sottotitolo del loro volume da poco uscito presso l’editore milanese Zolfo: Dopo la democrazia.

Il periodo di storia italiana preso in esame dagli autori va dalla fine dell’ultimo governo Berlusconi (novembre 2011) alla nascita del governo Meloni (ottobre 2022), anni in cui a Palazzo Chigi si sono succeduti Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi, tutti arrivati al potere senza una reale investitura popolare. Il decennio in questione è stato contraddistinto da una serie di emergenze economiche, sociali e sanitarie a cui non sono state offerte soluzioni significative, impedendo oltretutto la partecipazione democratica nella scelta dei rappresentanti incaricati di reggere il Paese.

Sebbene accolto con freddezza e pregiudizievole timore dai media e dagli intellettuali progressisti per la sua provenienza post-fascista, il governo di Giorgia Meloni risulta quindi il primo, dopo dieci anni di “avvelenamento della democrazia italiana”, ad aver rispettato il volere degli elettori, che hanno scelto di votare la coalizione dei partiti di destra, a cui non ha saputo opporsi una sinistra allo sbando nelle idee, nei programmi e nelle alleanze.

Il volume si apre dunque sulle pagine dedicate all’attuale maggioranza, presieduta da una leader della destra post-missina e nazionalista, fedele tuttavia all’Europa e al patto atlantico, in consonanza con le scelte del predecessore Mario Draghi, soprattutto in difesa dell’Ucraina contro l’aggressione sovietica. Il libro, soffermandosi sugli esordi politici e sulla vita familiare della prima donna italiana capo di governo, ripercorre puntualmente le giornate frenetiche della sua vittoria alle ultime elezioni del 25 settembre: elenca i collaboratori che ne costituiscono l’entourage più fidato, l’entusiasmo dei conservatori europei, il sarcasmo dell’opposizione, le prime schermaglie con gli alleati della Lega e di Forza Italia. Il governo nascente si è caratterizzato da subito come iper-politico, nella volontà di creare un esecutivo di alto profilo, a netta egemonia del partito vincitore, Fratelli d’Italia, che ha imposto a un Parlamento acquiescente sia i Presidenti di Camera e Senato, sia Ministeri più rilevanti.

Retrocedendo nel tempo al novembre 2011, vengono ricostruite le vicende che hanno portato l’allora Capo di Stato Giorgio Napolitano a incaricare l’economista Mario Monti di guidare un governo tecnico, retto da una vasta maggioranza. Soluzione che era parsa inevitabile, dopo il declino dell’epopea berlusconiana durata 25 anni, e conclusasi tra inchieste giudiziarie e scandali sessuali, nell’aggravarsi di una crisi economica segnata da uno spread insostenibile. Il programma di austerità promosso da Monti, supportato dalle figure carismatiche ma discusse di Elsa Fornero e Corrado Passera, sembrava rappresentare gli interessi di una minoranza stabile e influente, intesa a rassicurare soprattutto i timori dell’alta finanza europea, tenendo contemporaneamente a bada la rabbia sociale incanalata dal Movimento 5 Stelle, che in effetti alle elezioni del febbraio 2013 ottenne il 25,5% dei voti. Davanti al partito creato da Beppe Grillo si apriva però un dilemma gravido di conseguenze: “Tenere duro e negarsi a ogni alleanza e compromesso, costi quel che costi, oppure accettare la fine del proprio mito fondativo e governare, scegliendo l’alleato «migliore»?”

L’imprevedibile ascesa, e il conseguente declino della formazione, merita nelle pagine dei due autori un’analisi attenta e puntuale, esattamente come quella dedicata al loro rappresentante di maggiore rilievo istituzionale, Giuseppe Conte, a capo di due governi (2018-2019 e 2019-2021).

Molta attenzione critica viene riservata anche alla rielezione del Presidente Sergio Mattarella, che con il plebiscito del 29 gennaio 2022, dopo un lungo lavoro diplomatico sotterraneo ha spazzato via tutti gli altri candidabili (Draghi, Casellati, Casini, Belloni, Cartabia, Amato), in nome di un “mero principio di autoconservazione”, per mantenere “l’unico equilibrio possibile”. Mattarella viene definito dagli autori del libro “Moroteo di stile e di contenuto, grisaglia d’inverno e d’estate, silenzioso”, e pari severi giudizi sono riservati anche a un altro vulcanico protagonista di questi anni: Matteo Renzi (il rottamatore, il royal baby), e infine al “mito impossibile di Mario Draghi” (“L’ex direttore del Tesoro è il salvatore della Patria che tutti evocano per qualsiasi ruolo istituzionale”).

I commenti che Falci e Tondelli riservano a big, comprimari e comparse del Parlamento risultano quasi imbarazzanti, nel sottolineare volubilità e volatilità di proposte e idee, nell’elenco vorticoso di manovre oscure, riciclaggi e ripescamenti di figuranti inattendibili, nell’ostentato culto dell’immagine praticato su tutti i media, intrecciandosi prima e svincolandosi subito dopo in caroselli ideologici

Agli attori principali di questa recita nazionale (farsa, commedia o tragedia) sono dedicate esplorazioni e riflessioni che non riguardano solo alleanze, tradimenti espliciti, sgambetti imprevisti, ma anche gli interventi di amici-nemici-fidanzati, di intellettuali-industriali-giornalisti-magistrati,  riportando alla memoria dei lettori episodi e figuranti dimenticati della scena politica più o meno  recente, come evidenzia il lunghissimo elenco dei nomi citati a fine volume, giustamente inghiottiti nelle sabbie mobili dell’oblio.

A conclusione di tale sconfortante e impietoso ritratto, gli autori tentano un bilancio dei problemi strutturali del nostro Paese. Problemi ereditati da un passato certo non edificante, che minacciano di incacrenirsi nel futuro: l’irrilevanza politica sullo scacchiere internazionale, la perdita progressiva di prospettiva industriale e di investimento nel tessuto produttivo, l’incapacità di attrarre capitali economici dall’estero, la criminalità organizzata, il consolidarsi delle diseguaglianze sociali e territoriali, il degrado delle periferie urbane, il costante calo demografico, l’immigrazione clandestina, le scarse risorse destinate alla sanità e all’istruzione…

Sono solo una parte delle questioni irrisolte a cui la classe politica attuale non sembra poter o voler rimediare.

 

© Riproduzione riservata          19 dicembre 2022

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RECENSIONI

FALCO

GIORGIO FALCO, LA COMPAGNIA DEL CORPO – DUE PUNTI, PALERMO 2011

In questo racconto lungo di Giorgio Falco (1967), La compagnia del corpo, due sembrano i sentimenti che affiorano dal narrato: la crudeltà e l’indifferenza. Ambientato in un paese immaginario della periferia milanese, Cortesforza, già scenario di altri racconti e romanzi dell’autore, vede come protagonisti principali due fidanzati ventenni, Alice e Diego, anonimi e banali a prima vista (simili nelle scelte/non scelte esistenziali, nel carattere apatico e nell’esibita ignoranza): in realtà animati da un rancore feroce e inespresso nei confronti dell’ambiente in cui vivono – genitori, amici, realtà urbana – e di sé stessi. Diego, poco presente e individualizzato fino alle pagine conclusive, lavora come dipendente del padre, proprietario di una ditta metalmeccanica. È frustrato, privo di ambizioni e di interessi che esulino dal sesso con la sua ragazza e dai ritrovi serali con un gruppo di sfigati. Alice è scolpita con maggiore rilievo, e non solo a causa della sua imponenza fisica: ossessionata dai suoi cento chili, soffre di bulimia dall’infanzia, famelica divoratrice delle merendine di cui suo padre è venditore per una grande azienda dolciaria. Vive con la madre in una villetta a schiera di un quartiere nuovo, spopolato e malinconico: i suoi rapporti con i genitori, separatisi subito dopo l’acquisto nella casa, sono freddi e formali. Alice passa le sue giornate a letto, a pesarsi sulla bilancia, a confrontarsi con l’amica Fede detta “Mucchietto” perché pelle e ossa, e a portare fuori la cagnolina Lucy, salvata dal canile comunale. Proprio nella descrizione del canile e del processo produttivo delle merendine di cui si nutre la ragazza, la prosa di Falco si fa particolarmente attenta e perspicace, nel sottolineare i due caratteri distintivi del racconto: la crudeltà nel trattamento degli animali e delle persone, l’indifferenza a qualsiasi scrupolo etico, a qualsiasi sfumatura di solidarietà umana.

Sono i presupposti da cui nasce l’episodio, imprevisto e terrificante, che offre una svolta alla storia. Diego e Alice trascorrono un pomeriggio domenicale nel capannone industriale del padre di lui, sorvegliato da un doberman, portandosi dietro Lucy. Dopo un amplesso svogliato, “sussultorio, amatoriale aritmico, dilettantistico”, per scherno o idiozia tentano di far accoppiare la bastardina con il doberman, quindi irritati dal continuo abbaiare di lei, la ammazzano a sprangate, appendendola a una trave dell’officina, filmandosi a vicenda col cellulare nelle sevizie, per poi gettare il corpo ridotto a poltiglia della cagnetta in un fosso. Fin qui il racconto, esposto con frasi secche e concise, prive di partecipazione emotiva, a indicare il distacco quasi disgustato dell’autore dalla vicenda. Ma ecco che nelle ultime pagine, viene riportato un verbale dei carabinieri in cui i due fidanzati sono accusati del reato di maltrattamento e uccisione di animale, sulla base di una denuncia anonima sporta da qualcuno cui era stato mostrato il video come un trofeo.

Giorgio Falco rivela in conclusione di essersi ispirato a un fatto realmente accaduto in provincia di Pordenone nel 2009: riporta i nomi dei protagonisti citati dai media internazionali e le reazioni del mondo, dapprima scandalizzate, poi disorientate, infine sbadatamente noncuranti. Crudeltà e indifferenza, appunto.

 

© Riproduzione riservata     

https://www.sololibri.net/La-compagnia-del-corpo Falco.html     29 maggio 2018

RECENSIONI

FANTATO

GABRIELA FANTATO, CODICE TERRESTRE – LA VITA FELICE, MILANO 2008

Un codice per interpretare la realtà, questo Codice terrestre di Gabriela Fantato: e non solo. Per penetrare il tempo, e in qualche modo, rigorosamente, delinearlo, limitarlo (“geometria” è termine ricorrente, in questi versi, insieme a perimetro, a retta…). Ma un codice decisamente terragno, fisico, ancorato alla materia, al suolo (“La terra è tutta solchi – una marcia”, “Potrei stendermi nell’erba, essere un sasso o una radice”), e anche all’acqua, incombente come minaccia, tracimazione, forza della natura (fiume, fango, palude, mare: “c’è l’acqua pronta all’inondazione”, “un’acqua che viene / e slitta, vedi s’avvicina”).
Il colore che domina è in realtà l’assenza del colore: il bianco (“Nella fatica del paesaggio resta / un bianco ostinato”), inteso forse come assenza o cancellazione, e ribadito dalla scelta di sostantivi che indicano un’incisione violenta (nelle cose, nei sentimenti, nei ricordi): “taglio”, innanzi tutto, vocabolo che troviamo più volte nella raccolta, e che la chiude con perentorietà: “Solo nel taglio esatto / a volte riposo”. Ma anche coltello, gancio, falce, chiodo; e poi crepa, solco, spigoli, colpo.
Una poesia che insiste più sul battere che sul levare (il verbo “battere” nelle sue varie coniugazioni torna otto volte!), più sull’ostinazione che sul condono, più sulla ferita che sulla guarigione. Anche l’amore è severo, non si concede leggerezza: “la tenerezza, una stanza mai aperta / insetti e anni corrono, si agitano”, “Dentro lo specchio mi chiami bambina, / mi chiami cagna e piangi”, “Non mi consolare con una minestra, / non fare la fine che ti aspetta”.

Ed è quasi sempre l’addio il momento che prevale all’interno del rapporto amoroso; la mancanza, il rimpianto, l’insufficienza. Un libro “del destino e della maturità”, lo definisce Milo De Angelis nella prefazione: senz’altro un libro scabro e sapiente, che non conosce indulgenze, in primo luogo verso l’autrice stessa, inflessibile scandaglio di se stessa: “ho visto i bordi di me”.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Codice-terrestre-Gabriela-Fantato.html   15 novembre 2016

RECENSIONI

FANTE

JOHN FANTE, BRAVO, BURRO! – EINAUDI, TORINO 2016

Bravo, burro! è un’opera minore di John Fante, pensata per l’infanzia e pubblicata in America nel 1970. Scritta insieme al giovane sceneggiatore Rudolph Borchert, e illustrata da Marilyn Hirsch, nelle intenzioni degli autori doveva costituire il canovaccio di un progetto cinematografico mai portato a termine. Dell’iniziale struttura filmica persistono nel racconto il ritmo narrativo veloce, i dialoghi incalzanti, la plasticità delle immagini che rendono visivamente il colorito susseguirsi degli eventi. I temi e i contenuti rimangono poi quelli tipicamente fantiani: l’infanzia, la miseria, la fede religiosa, l’attenzione per la natura e gli animali, il rapporto tormentato con la figura paterna.
La storia è semplice ed edificante. C’è un ragazzino, Manuel, e c’è un asino: il loro incontro voluto dal destino trasformerà in maniera positiva non solo la loro vita, ma anche quella di altre persone e di un intero villaggio messicano. «Era quasi il crepuscolo sull’altopiano del Messico settentrionale… Il ragazzo Manuel arrancava per la strada polverosa. In una mano recava un pollo pigolante e nell’altra stringeva un sacco di farina che s’era buttato sulle spalle. Il luogo era solitario, e Manuel canticchiava, perso nei suoi pensieri».

In quel tramonto arancione, su quelle montagne brulle, Manuel assiste alla feroce lotta scoppiata tra un puma e un asinello, alla coraggiosa resistenza di quest’ultimo, e all’umiliante sconfitta dell’aggressore. Il burro, sanguinante ma fiero, segue il ragazzo nella grande hacienda in cui vive, un rancho in cui si allevano tori da combattimento. Qui John Fante introduce subito i caratteri di altri fondamentali protagonisti della vicenda: il patròn della corte agricola, don Francisco, uomo generoso e giusto, amato dai suoi dipendenti e rispettato anche dai nemici. E soprattutto Juan Cabriz, il padre di Manuel, giovane vedovo alcolizzato e inconcludente, incapace di resistere agli eventi negativi che lo travolgono nella quotidianità. «Il padre di Manuel apparve sull’uscio. Juan Cabriz era un uomo alto e robusto, la barba lunga, vestito coi suoi abiti da manovale. Sul viso s’indovinava un’ombra di disperazione, come se gl’importasse poco che quel giorno fosse quello e non un altro».

Il rapporto di vicendevole affetto e solidarietà nato tra il ragazzo e l’asino, da lui appropriatamente battezzato «Il Valiente», riuscirà a scuotere – dopo una serie di avvincenti vicissitudini – la rassegnata infelicità degli abitanti del villaggio, garantendone non solo una bastevole sussistenza economica, ma anche una ritrovata fiducia nella bontà del prossimo e nella clemente protezione divina. Soprattutto il giovane padre riuscirà a riscattare i suoi fallimenti attraverso l’esempio illuminante del figlio, riconquistando una sua dignità agli occhi dei compaesani e dello stesso Manuel.
Una storia esemplare, educativa, che sa unire aspetti umoristici e commoventi, retorici e avventurosi, sullo sfondo di un antico Messico fiabesco e crudele.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Bravo-burro-John-Fante.html              20 giugno 2016

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