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RECENSIONI

FEOLE

ILARIA FEOLE, C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA – GREMESE, ROMA 2018

La giovane critica cinematografica Ilaria Feole (Milano1983), autrice di due monografie su Wes Anderson e Michele Soavi, e collaboratrice delle riviste Film TV e Gli spietati, ha pubblicato quest’anno per Gremese un esaustivo e interessante volume illustrato sul capolavoro di SergioLeone C’era una volta in America.

Il libro consta di un prologo riguardante le varie fasi dell’ideazione e della lavorazione del film, e di una corposa sezione che illustra e commenta in maniera minuziosa lo sviluppo narrativo, supportandone iconograficamente i momenti clou con immagini e fotogrammi significativi: a queste due parti centrali si affiancano una presentazione autobiografica dell’autrice, e in conclusione una bibliografia e una serie di valutazioni di noti recensori. Uscito nel 1984 dopo quasi vent’anni di laboriosa gestazione, nello stesso anno il film fu presentato a Cannes e a Venezia, riscuotendo tiepidi consensi, molte critiche, e scontrandosi all’inizio con un deludente insuccesso commerciale. Sergio Leone era incappato in numerose difficoltà durante la realizzazione del lavoro, sia nell’acquisizione dei diritti del libro, sia nel trovare un produttore (fu l’israeliano Arnon Milchan che coraggiosamente accettò la sfida), sia nella scelta degli sceneggiatori. Anche lo svolgimento del casting si rivelò problematico, con più di tremila attori sottoposti a provino per centodieci ruoli, e ripensamenti continui riguardo agli interpreti principali. Solo per la colonna sonora la decisione fu convinta e immediata: Ennio Morricone aveva già collaborato con lui, e in questo specifico caso approntò le musiche prima ancora dell’inizio delle riprese.

La trama si basa sul romanzo Mano armata scritto da Harry Grey, ex braccio destro di Frank Costello, mentre era in prigione a SingSing: uscito in Italia nel ’58, narrava le vicende di un gruppo di ragazzini cresciuti nel quartiere ebraico di New York, decisi ad affrancarsi dalla miseria diventando gangster negli anni del proibizionismo americano. Il regista recupera l’atmosfera di un’America scissa tra ferocia e tenerezza, nostalgia e brutalità, creando personaggi che vivono sospesi in un’eterna infanzia,  in cui una frustrante quotidianità  si confonde con la memoria di un passato mitizzato, riproponendo flashback e piani temporali che si sovrappongono indistinti. Il sogno di un riscatto sociale da raggiungere con qualsiasi mezzo, meglio se illecito e violento, esprime un’ideologia crudamente sopraffatrice, volgarmente maschilista, che utilizza omicidi, droga, contrabbando, rapine, stupri, corruzione per riabilitarsi agli occhi della classe dominante, disprezzata ma ambita e invidiata nei suoi successi e nel suo prestigio economico.

Ilaria Feole è attenta esegeta dello spirito e della mentalità dell’epoca, e abile nell’approfondire la psicologia dei personaggi principali, Noodles e Max, legati da un’amicizia morbosamente competitiva (“Cosa faresti senza di me?”, “Ho rubato la tua vita e l’ho vissuta al posto tuo”, sono alcune tra le loro battute più famose). “Due fuorilegge. Uno, Max,è un conformista; l’altro, Noodles, è un anarchico. Uno ha un solo desiderio: rientrare nei ranghi; l’altro, restare libero”, secondo le parole dello stesso regista. In particolare l’autrice esplora la psicologia di Noodles (interpretato da un eccezionale De Niro), che a differenza di Max – criminale asettico e ambizioso, smanioso di entrare nel mondo corrotto dell’alta finanza e della politica –,  rimane sentimentalmente legato alla malavita di strada, rassegnato a tradire e a essere tradito, bloccato nell’illusione di far rivivere il passato. “Noodles non è altro che un voyeur incapace di passare all’azione, un eterno spettatore, che trascorre la sua vita a guardare, aspiare, ad assistere alle altrui messe in scena: Leone sottolinea il concetto a livello tematico ed estetico”. De Niro è infatti ripreso spessissimo all’interno di cornici, gabbie, vetrine, oblò, finestre, porte, feritoie; sempre sulla soglia di qualcosa, di un atto risolutore e liberatorio, si riconosce perdente nell’amore come nella deliquenza, rifugiandosi nella violenza avvilente dello stupro o del massacro sanguinario. L’inquadratura finale, di un Noodles avvolto nei fumi dell’oppio, ambiguamente e vacuamente sorridente, sembra alludere al timore di aver sognato l’intera sua vicenda terrena, o alla consapevolezza di essere stato beffato per tutta l’esistenza, o al desiderio di libertà appagato solo dalla droga. E rimanda alla famosa risposta iniziale data all’amico Moe che gli chiedeva cosa avesse fatto neglicultimi anni, “Sono andato a letto presto”: ammissione di una rinuncia e di una sconfitta.

Numerosissimi sono gli omaggi che Leone porge al cinema americano degli anni ’30 e ’40 (Strada sbarrata, Una pallottola per Roy, Ilgrande caldo, La furia umana, I gangsters, Tempi moderni, La signora di Shangay,Duello al sole) e ad altri celebri registi di periodi successivi (OttoPreminger, Alfred Hitchcock, François Truffaut, Roman Polanski, Stanley Kubrik), citazioni che trovarono poi un opportuno e meritato pendant nelle dichiarazionic– esplicite e no ‒ di filiazione e riconoscenza verso il maestro romano di molti cineasti più giovani: Scorsese, Spielberg. Lucas, Carpenter, Cronenberg, Fincher, Cohen, Linklater, Winter, Tarantino, Wong Kar-wai…

Sergio Leone, che Jean Baudrillard definì “il primo regista post-moderno”, con C’era una volta in America ha creato un film-cult, “un’opera sterminata sul tempo perduto, sulla nostalgia e sulla negazione del sogno americano. Ma anche un teorema sul lavorio dell’immaginario cinematografico e sulla narrazione che l’America ha fatto di sé attraverso la settima arte”, secondo la lettura di Ilaria Feole.


© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 18 dicembre 2018

RECENSIONI

FERRACUTI

ANGELO FERRACUTI, LA METÀ DEL CIELO ‒ MONDADORI, MILANO 2019

Lo scrittore marchigiano Angelo Ferracuti (Fermo, 1960), autore di romanzi, racconti, saggi e reportage, è noto alla critica e al pubblico dei lettori soprattutto per il suo impegno testimoniale sul tema del lavoro e della letteratura aziendale, così poco frequentata in Italia. Con il romanzo La metà del cielo torna invece alla narrativa biografica, unendo insieme, con sensibilità priva di retorica, elementi di vita privata e collettiva, strazio personale e responsabilità sociale. La stesura del libro, durata quattordici anni, ha utilizzato la memoria come “elaborazione permanente del lutto”, nella volontà sia di fissare i ricordi, sia di superare il dolore causato dalla morte precoce della moglie Patrizia, uccisa da un cancro poco più che quarantenne.

Il volume si apre sulla telefonata della figlia minore che comunica al padre la fine attesa e temuta della mamma; da lì si dipartono fili che intrecciano insieme momenti di un passato di coppia e familiare, felici o combattuti, con vicende di cronaca italiana e mondiale. Nelle stesse giornate angosciose e convulse in cui si preparavano e celebravano le esequie (tra amici e parenti che invadevano la casa, affettuosamente solidali, costernati o confusi), le notizie trasmesse dalla televisione si susseguivano nel tragico silenzio di un’assenza. La morte di Pinochet, la strage di Erba, Superquark con i suoi servizi sull’inquinamento, scorrevano davanti agli occhi del marito impietrito, già in preda ai sensi di colpa e ai rimorsi di chiunque sopravviva a una persona amata: “Sono colpevole, mia moglie è morta. Non l’avevo uccisa veramente, però non ero riuscito a salvarla”.

La stessa ricostruzione della vicenda matrimoniale offre al protagonista continui appigli alle giustificazioni e alle recriminazioni, nel rivivere il primo incontro casuale in un teatro lombardo, quindi il corteggiamento, la convivenza e le nozze, attraverso i momenti di passione intensa e quelli di gelosia, i litigi feroci e le delusioni reciproche, il tradimento di lui con una giovane studentessa (“la mia Lolita”) e la traumatica scoperta della malattia di lei. Severo nell’elencare le proprie debolezze e i propri fallimenti (le ire improvvise, le ambizioni e le frustrazioni letterarie, l’abuso di alcol, l’inquietudine di chi si sente invecchiare), Angelo è altrettanto coinvolgente quando racconta le pagine più dolci ed emotivamente condivise della sua vita con Patrizia: i viaggi, le fotografie, la nascita delle due bambine, l’impegno politico, le letture e le canzoni (le note dei Jethro Tull, Led Zeppelin, Deep Purple, di Keith Jarrett e Ian Anderson si rincorrono con quelle del disco galeotto, Woman di John Lennon): “quando la nostra vita insieme c’era ancora e scorreva nei suoi movimenti minimi, quando eravamo giovani e immortali, e tutto era d’oro, ogni minuto, ogni battito, ogni momento di quella vita, quel vedersi all’improvviso in soggiorno di ritorno dal lavoro, dirsi semplicemente ciao”.

Patrizia nelle parole dell’autore si manifesta in tutta la sua vivace esuberanza di donna propositiva e anticonvenzionale, creando un contrasto penoso con i tre anni di calvario, raccontato puntualmente nei ricoveri ospedalieri, nelle cure chemioterapiche, nei crolli fisici e psichici. In lei (alta e robusta, dal sorriso aperto e dalle labbra sensuali; battagliera, animata da un’intelligenza strategica), era presente uno “strano contrasto di dolcezza sobria, austera, e animalità selvaggia”. Insieme, loro due avevano vissuto l’impegno politico giovanile, in una stagione di slanci generosi, di utopie e di lotta; quindi la delusione di un riflusso sociale nell’individualismo, nell’invidia economica e nella rincorsa al successo: “Patrizia, hanno vinto i barbari”.

Particolarmente taglienti e sarcastiche sono le pagine che Ferracuti dedica alla sua “piccola città di morti”, in cui vede emergere una strisciante cattiveria quando non addirittura una gratuita ostilità, nel dilagare di pettegolezzi meschini, nella totale assenza di solidarietà sociale, e in una agguerrita competizione fine a se stessa: “Si erano fatti tutti borghesi, anche gli artigiani, gli operai, gli sguatteri, i facchini, le donne delle pulizie, i carpentieri”. La delusione provocata dal tramonto di un orizzonte ideale si coniuga con le difficoltà di crescere da solo le due figlie adolescenti, di seguire i vecchi genitori artritici e arteriosclerotici, e con il desiderio di sottrarsi alle responsabilità attraverso i continui spostamenti o il bere fino allo stordimento. Fino a quando lentamente il dolore e la fatica di vivere si alleggeriscono, e un aiuto insperato arriva dalla comparsa di una nuova figura femminile, con cui riprendere in mano il timone della propria quotidianità, e riaprirsi a una rinnovata fiducia verso la vita.

 

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/La-meta-del-cielo-Ferracuti.html  11 novembre 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FERRARI

IVANO FERRARI, LA MORTA MOGLIE – EINAUDI, TORINO 2013

Versi impregnati dell’odore della morte, del suo degradante e immobile gelo, del suo imperturbabile squallore, questi di Ivano Ferrari pubblicati nella prestigiosa collezione bianca di Einaudi. Il volume si divide in due parti, scritte a distanza di trent’anni una dall’altra. La prima sezione (Le bestie imperfette) ritorna sui temi già proposti al lettore nella indimenticabile raccolta  Macello del 2004: il sacrificio cruento delle bestie nei macelli pubblici, la loro agonia, la loro ingiustificabile, orrenda e gratuita sofferenza, che tutti siamo pronti a dimenticare davanti a un sandwich al prosciutto. Eccoli qui, gli animali raccontati in versi da Ferrari: puledri uccisi appena partoriti, vermi che escono dalla carne guasta, vitelli e asini malati da scartare, veterinari impietosi, aguzzini sadici, macellai che assaggiano il sangue delle vacche o giocano con le tenie dei cavalli: «boia, squartatori / chi sgozza e chi raccoglie il sangue trippai, scuoiatori, facchini / quelli che macellano a domicilio / pellai, insaccatori e necrofori, / la classe operaia». Cosa dire ghignando alle bestie da immolare? «ricordargli che il padre / la madre / i genitori di entrambi, / i figli / i fratelli / la specie sua, / è nata / cresciuta e morta / per renderci più alti». Tenere presente però che forse «la specie ospite» siamo noi, che magari ci aspetta una sorta di contrappasso, o chissà, una vendetta a cui non siamo preparati: «Se sfondassi il muro della carne / e attaccato al gancio sorridessi / cosa direbbe chi è pagato per squartare / il timbratore di lingue / quale etichetta mi metterebbero / quanti organi scarterebbero / e il veterinario penserebbe panta rei?» Perché in un macello «l’eterno dura / al massimo un giorno», e «Più grande / del dolore è l’universo»: quindi possiamo voltarci dall’altra parte, e non pensare. Ma cosa succede quando a soffrire, a agonizzare e morire è una persona cara? Nel caso del poeta, sua moglie (La morta moglie): allora la malattia, il tumore, «i capelli radi come un angelo», le ospedalizzazioni, «la sacca dell’urina» e la casa in disordine (cibi confezionati, frigo sfornito) raccontano una disperazione lucida e senza appello. Nessuna retorica in questi versi di Ferrari («sono giorni semplici di agonia», «nella casa si raduna attesa», «sei destinata alla fluttuazione»), che rifiuta rabbiosamente sia qualsiasi consolazione fideistica, sia di rassegnarsi con umiltà. C’è rabbia, ma c’è anche consapevolezza che la morte è la conclusione naturale destinata a tutti: «Prima o poi / i luoghi scompariranno», «non c’è luogo che rimanga intero / né secolo a cui resti tempo / muore sta morendo la materia». E finire è una cosa crudele e semplice, a cui tuttavia non sappiamo arrenderci: «Entrare nel tuo sguardo obliquo / senza sentire né anima né fosforo divino / ma solo la punta fredda delle ossa e la pelle / arresa al tuo profilo». La scrittura di Ferrari si offre nella sua franca durezza, scabra e priva di concessioni a giochi linguistici; «spesse volte la poesia accumula polvere», è ridondante e inutile, elegante e sciocca. Non è il caso di questi versi.

«Poesia» n. 287, novembre 2013

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FERRARI

EMANUELE FERRARI, ASCOLTARE IL SILENZIO – MIMESIS, MILANO 2013

Secondo il pianista e musicologo Emanuele Ferrari (Milano,1965), il silenzio è un elemento cruciale e imprescindibile di qualsiasi creazione ed esecuzione musicale. Nel breve saggio pubblicato da Mimesis, l’autore afferma che «la musica è in rapporto costante col silenzio: anche quando non è materialmente presente esso agisce come sfondo, come rimando implicito, come dimensione di senso. Tra i due elementi esiste un’intera gamma di relazioni che vanno dall’evocazione al rimando implicito, dall’allusione al comando».

Nella prima parte del suo scritto, Ferrari invita il lettore all’ascolto attento di diverse atmosfere musicali, confrontando un Notturno di Chopin con una Fantasia di Bach: la poetica emozionale e interiore del primo con «lo stupefacente vortice di forme sonore» del Cantor di Lipsia. E ancora di Bach sottolinea «il silenzio evocato» in un clima «di intensa, quieta devozione ed elevazione spirituale» nel corale Vieni ora, salvatore dei pagani, o l’ascetismo di fondo espresso dalla Prima Sonata in sol minore per violino solo, in cui la musica esprime «il fluire del pensiero nel silenzio». E sempre in Bach, nella Passione secondo Matteo, mette in luce il senso di abbandono reso evidente dal tacere di Gesù interrogato da Pilato, o dal silenzio che segue il suo grido “Eli, Eli” sulla croce. In una prosa appassionata ma mai pedantesca, Ferrari ci guida a riflettere sul silenzio squarciato, lacerato dalle fanfare in Mahler, che poi si inabissa in «una melodia struggente e carica di nostalgia». O sulla «memoria del silenzio» rievocata dalla musica nell’apostrofe straziata della Elizabeth wagneriana nel Tannhauser. E ancora sulla diversità di interpretazione che grandi pianisti danno alle pause in Beethoven, nella ricerca di «un equilibrio quasi utopico fra pieno e vuoto, transitorietà e permanenza». Una guida preziosa e competente per chi voglia lasciarsi penetrare dalla musica anche nelle sue sospensioni, rarefazioni, attese.

 

«Accademia del Silenzio», 22 novembre 2013

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FERRARIO DENNA

MARISA FERRARIO DENNA, RITRATTI IN CONTROCANTO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2011

Un’architettura rigorosa, meditata, in cui racchiudere il destino e l’arte di trenta scrittrici e di venti pittrici, e la memoria di dieci donne appartenenti alla mitologia e alla letteratura classica.
E’ questa la scelta coraggiosa ed estranea alle mode culturali attuali di Marisa Ferrario Denna, che così ha deciso di rendere omaggio a figure femminili eccezionali della storia mondiale.
Quindi, un volume che si divide in due parti, Scrivere  e  Dipingere, aperto e chiuso da due composizioni che fungono da prologo ed epilogo. La sezione Scrivere presenta trenta poetesse o narratrici, a partire da Anna Maria Ortese, scomparsa nel 1998, per risalire alla più antica, la cinquecentesca Isabella Di Morra. Ad esse seguono le poesie dedicate a dieci eroine classiche, da Ipazia a Penelope, passando per Medea e Circe. Nella seconda parte del libro, Dipingere, si percorre il cammino inverso, partendo dalla figura più antica (Sofonisba Anguissola), per terminare esemplarmente con una donna che racchiude in sé diversi ruoli e talenti: Lalla Romano, scrittrice e pittrice, moglie e madre.
A ciascuno di questi personaggi femminili, Marisa Ferrario Denna dedica due poesie, la prima delle quali è un vero e proprio ritratto in versi, in cui si tratteggia l’esistenza della protagonista nei suoi snodi essenziali: famiglia, ambizioni, amori, solitudini, malattie, violenze, morte. Talora tra le righe affiorano addirittura i titoli dei libri scritti , come nel caso dell’Ortese, o si allude alle opere più conosciute. A questa poesia introduttiva, che presenta nei tratti essenziali la figura dell’artista, ed è scritta a volte in prima persona ( in una sorta di autobiografia sovrapposta, di elezione), ma per lo più è rivolta a un tu fraterno, corrisponde in controcanto una seconda poesia, più breve, spesso epigrammatica, in cui l’autrice offre il suo ammirato o impietosito, solidale o consapevolmente amareggiato, omaggio alla donna e all’artista raccontata.
La partecipazione della poetessa è sempre vivissima e empatica, di complice sorellanza e intensa adesione intellettuale: non c’è mai rancore femminista, ma una consapevolezza fiera della dignità del lavoro artistico delle donne, insieme alla constatazione desolata di quanto questa fatica dello scrivere e del dipingere sia stata e sia tuttora spesso osteggiata o sottovalutata dall’ambiente familiare e culturale circostante. E allora la denuncia può essere aspra, il dolore causato dall’incomprensione dei più si fa acuto e risentito: «oh, Sylvia, fissata per sempre/ con gli occhi abbassati,/ in quanti ruoli, dimmi,/ in quanti ruoli furono/ i tuoi anni più dolci così devastati?»

L’elenco delle sofferenze patite da queste scrittrici si esemplifica spesso in percorsi di vita quanto mai tortuosi, sofferti, che sfociano in comportamenti autodistruttivi, in malattie feroci, in suicidi. Quando non addirittura, come nel caso di Isabella Di Morra, nell’uccisione da parte dei parenti.
Marisa Ferrario Denna riesce comunque a decantare ogni violenza, anche la descrizione del più ottuso sopruso, in una scrittura melodiosa, quasi cantata, che fa tesoro di una tradizione millenaria, scegliendo sempre una struttura metrica collaudata, utilizzando endecasillabi e novenari , quartine e sonetti che la ancorano alla norma letteraria e insieme le permettono audaci innovazioni stilistiche.
E’ in questa tonalità discreta e affabile che nascono i versi più abbandonati e lievi, quasi che l’autrice chieda alle sue eroine una dichiarazione affettuosa di amicizia, una preghiera di assistenza e ispirazione, come nella poesia dedicata a Anna Achmatova: «Sei arrivata, amica mia cara, / vieni, beviamoci un tè. / Possiamo parlare del tempo…». Esiste, in chi scrive queste poesie, una pacata e sicura fiducia nella parola poetica, nella sua purezza e gratuità: l’autrice sembra ottimisticamente certa della verità cui può giungere l’arte, nella sua ricerca dell’eterno: «C’è solo il poeta a vincere / il tempo e lo spazio».
E se nell’artista donna può sussistere un timore più accentuato dell’esposizione e del giudizio altrui, che la spinge a chiudersi in se stessa e a rinunciare anche al suo scampolo di gloria («E’ qui che sta la vita rannicchiata. / Al cuore concentrato dentro il corpo / la mente s’introverte. Si rinserra»; «Parole strappo nel tessuto / di un urlo, per anni, sottaciuto»), se è vera quindi questa esitazione femminile nell’offrire al mondo la propria arte, è d’altra parte reale anche un’orgogliosa consapevolezza della propria irrinunciabile singolarità, della fierezza della propria voce. E questo si avverte di più nelle poesie dedicate alle pittrici, quasi che lì il segno sulla carta possa esprimere maggiormente una sua incisiva peculiarità ( «è nella forza del colore / nella potenza dell’ombra e della luce / che ho riposto di me memoria»). Ancora di più si sente questa convinta considerazione di sé nelle dieci poesie dedicate alle figure classiche della storia antica, che non nascondono la loro appassionata e pervicace appartenenza alla loro realtà femminile di amanti, madri, figlie, sorelle, sacerdotesse, filosofe.
E proprio tra questi versi dedicati alla classicità, ne troviamo due che ben definiscono qual è il destino particolare dell’essere donna. «Sorgo e tramonto; e in questo divenire / vado tracciando il cerchio della vita». Legata a doppio filo al suo ciclo biologico, la donna artista se ne sa districare con sofferenza e purissima ansia di libertà: Marisa Ferrario Denna lo racconta con intenerita e ammirata partecipazione.

 

«Leggendaria» n.99, marzo 2013

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FERRARIO DENNA

FERRARIO DENNA, MAL DI LUNA – BOOK, FERRARA 1996

Se esiste una specificità femminile della poesia, se esiste cioè una poesia al femminile, tale è quanto altra mai la poesia di Marisa Ferrario Denna, particolarmente in questo suo ultimo volume di versi, a partire già dal titolo (Mal di luna, Book Editore). “Mal di luna” così come si dice mal di testa, o mal di mare: un male fisico, patito nel corpo e insieme cerebrale, di pensiero, proprio per l’accezione filosofica, la valenza mitica – ed essenzialmente muliebre – che ha il nostro pianeta. Alla fonte e alla foce questi versi sembrano destinati soprattutto a un pubblico di donne, perché in massima parte dalle donne ispirati e ad esse dedicati. Si tratta infatti in gran parte di versi d’occasione, scritti in omaggio ad amiche o parenti, o su committenza per antologie o ancora su richiesta per avvenimenti particolari, non estemporanei ma giustificati da una loro necessità e impellenza. Sotteso e aleggiante su di essi è un concreto sentimento di complicità, di sorellanza, verso l’altra metà del cielo, sia essa incarnata in nomi e facce conosciute (Rosalba: «corre un nastro di seta fra di noi»), o riferito a un vasto e antico mondo femminile, fatto di gesti che hanno la sacralità del rito, la gravità della tradizione («col mestolo alla mano sul balcone / s’affacciano le donne a respirare. / E intanto danno l’acqua a una piantina / o ritirano l’ultimo bucato/ ancora steso lungo la ringhiera»). Le donne, quindi, come argomento principale della raccolta poetica: donne della mitologia o della letteratura antica. Marisa Ferrario Denna mostra tutta la sua profonda e acuta sensibilità nel raccontare «l’amore quieto e rassegnato di Penelope», «il dio che infuria dentro il corpo» di Cassandra, le condanne dei destini di Elena e Didone, gli inganni della parole di Circe, la colpa imperdonabile, ma assetata d’amore, di Giocasta. Sono gli uomini, qui, in queste storie tragiche e grandi, ad apparire comparse insipide e incapaci di assumersi responsabilità, a essere figure accessorie, di passaggio. E infatti “passaggi” è intitolata la sezione dedicata ad alcune figure maschili: il bambino picchiato, il viaggiatore addormentato, il sensuale cameriere spagnolo, il vanesio seduttore insistente, il conferenziere parolaio. L’unico uomo ad avere consistenza e spessore umano è il padre della poetessa, morto e recuperato nella morte, dopo dissidi e incomprensioni che hanno divaricato le loro esistenze: «Ma mi è rimasto dentro un urlo cupo / un gesto di ribelle disatteso, / un conto in sospeso da saldare, / con la memoria e i fantasmi del dolore». Altri versi appartengono poi all’area privata e nostalgica del passato, dell’infanzia, della vita nelle case, nelle strade e paesaggi di provincia, e sono tra i più felici della Ferrario Denna, tra i più spontanei e sorgivi, perché l’autrice sembra avere un suo segno distintivo nella capacità di recuperare dalle nebbie del ricordo un presente concretissimo e d salvezza, cui potersi aggrappare per andare avanti. Ieri che vivifica l’oggi, morte che dà senso alla vita. Le paure, le gioie, i sogni e i miti del passato, privato e collettivo, sono la realtà vera, quella che dà significato al quotidiano, forse al futuro: «L’Ade non è l’esilio/ che ci aspetta/ ma il bosco che ci spaventò – bambini». Oppure: «Non hanno storia quelli come noi, / vissuti dentro l’isola dei sogni, / fuori del tempo, contro il quotidiano, / legati solo a un filo di memoria». Ecco, quindi, l’astoricità di questa poesia, la sua indifferenza all’attualità, il suo nutrirsi di sogno, che ne segnano il pregio e il limite. L’atemporalità della scrittura viene ribadita anche formalmente, dalle scelte stilistiche dell’autrice, tutte nel solco aureo della nostra migliore tradizione, da Pascoli a Gozzano, da Montale e Giudici, poeti molto amati e recuperabili, come sostrato di lettura e insegnamento, nell’opera di Marisa Ferrario Denna. La quale si affida a una scelta metrica facile e difficile, quella di un cantabilissimo endecasillabo, a volte inframezzato da settenari, lontana comunque dalla prosaicità narrativa e da ogni sperimentazione. Ma la cifra peculiare di questa poesia è l’incanto elegiaco nella forma, il mondo degli affetti e della memoria femminile nei contenuti: mai titolo di una raccolta poetica è stato più appropriato.

 

«Steve» n. 15, autunno 1996

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FERRERO

ERNESTO FERRERO, STORIA DI QUIRINA – EINAUDI, TORINO 2014

Una vedova ultraottantenne, abitudinaria e un po’ maniaca come tutti gli anziani, laureata in lettere antiche e appassionata di citazioni latine con cui infarcisce le sue scarse conversazioni quotidiane, vive la sua serena e dignitosa esistenza di pensionata in un paesino delle montagne lombarde. Solida e robusta come le vacche della razza bruna alpina che pascolano nella sua zona, esiste senza dare fastidio agli altri. «Era orgogliosa. La solitudine non le pesava, e anzi le sembrava una condizione privilegiata». Ha un nome antico, romano, come tutti i membri della sua rispettabile famiglia borghese: Quirina. Sua unica passione è il giardino, più umilmente definito orto, in cui coltiva rose, ortensie, pomodori e le amate zucchine: cura il suo verde con la stessa compita dedizione rivolta alla sua inappuntabile casetta. «Perché all’ordine Quirina teneva moltissimo, anche in giardino. Lo considerava il perfetto equivalente di una disciplina mentale e morale…doveva essere l’emblema di una sorta di misura, di armonia cosmica…». Ma ecco che un bel giorno l’universo decoroso, disciplinato e monotono dell’anziana viene sconvolto dalle scorribande ipogee di una talpa, che con le sue gallerie sotterranee e collinette di terreno in superficie le deturpa l’orto («L’abominio. L’intollerabile offesa.»). Inizia così una strenua guerra di Quirina contro l’ospite indesiderato: cerca alleati in paese e in famiglia, studia rimedi, ricorre a erbe velenose, acqua, gas, rumori, vibrazioni, colpi di roncola, trappole, gatti nevrotici, spicchi d’aglio e vento per debellare la «trivellatrice invisibile». Che tuttavia resiste, e continua a sconciarle l’orticello. Alla fine, Quirina accetta l’antagonista come una sorta di alter-ego, oppure una metafora del potere subdolo e vessatorio, o ancora come espressione della sana vitalità della natura. Nell’economia universale, e nell’elegante scrittura di Ernesto Ferrero, c’è posto per tutti: vecchie, talpe e buchi nell’orto.

 

«L’Immaginazione»» n.285, gennaio 2015

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FERRI

GIULIANA FERRI, UN QUARTO DI DONNA – ELLIOT, ROMA 2017

Giuliana Ferri (1923-1975), romana, giornalista politica, attivista del PCI, pubblicò questo suo unico romanzo un anno prima di morire prematuramente. È la storia di una donna che, negli anni 70, alle prese con i doveri di moglie-madre-lavoratrice e con quelli altrettanto impegnativi di militante comunista, vive una sua personale e pubblica paura di sconfitta, al punto da non sentirsi mai del tutto completa e realizzata. Un quarto di donna, insomma, una persona che vorrebbe recuperare, e teme di non riuscirci, la sua interezza.

I quattordici capitoli in cui si divide la narrazione sono scritti con uno stile quasi giornalistico (l’autrice era redattrice de L’Unità), preciso, incalzante, sorretto da un’evidente intenzione esplicativa e definitoria, tesa a dire tutto senza velleità di strategia letteraria, pur nell’accuratezza elegante del periodare. I temi sono quelli dello scavo interiore e dell’esame di coscienza politico: era il periodo dell’interesse collettivo per la psicanalisi, della nascente consapevolezza femminista, delle lotte popolari per i diritti civili, ma anche delle prese di posizione schierate, doverosamente condivise con la collettività.

Come racchiusi in una coerente cornice, i capitoli vengono titolati con un unico termine: Ritorno, Aborto, Viaggio, Lei, Incontro… A partire dal primo (“Risveglio”), che narra del faticoso inizio di giornata nell’appartamento in disordine, con i due bambini lamentosi, la colazione da preparare, i vari appuntamenti da ricontrollare: «Il mio globo mi piace, anzi lo amo e lo riamo continuamente. L’ho voluto così, pulito, scarno, abbondante di valori, inzeppato di principi, cresciuto nel suo tempo, pieno di buone intenzioni, frettoloso». Per finire con l’ultimo brano (“Separati”), che sancisce il divorzio dal marito, la fine di un’abitudine amata ma ormai logora e disseccata: «Penso ai suoi gusti che non hanno mai trovato spazio nei miei, alla quiete che non gli ho dato: i risvegli pacati, lenti come una passeggiata, la vita addomesticata di premure, la stupidità delle ore di riposo, a tutte quelle cose che ho sempre rifiutato cercando disperatamente qualche altra cosa».

In mezzo c’è l’esistenza comune, in quegli anni, a molte altre coppie e a molte altre famiglie dell’Italia borghese, colta, di sinistra, efficiente e scontenta di sé. C’è una relazione extra-coniugale di lui e l’avventura di una notte di lei con un vecchio compagno di studi, le serate nei salotti intellettuali romani, i film e i libri, le discussioni politiche e i pettegolezzi dalla parrucchiera, la sessualità matrimoniale di routine, un aborto clandestino poco sofferto e partecipato da entrambi, le bollette scadute e la domestica assillante. C’è soprattutto il confronto continuo e appesantito dai sensi di colpa con le proprie utopie giovanili, il desiderio frustrato di un’intensità di rapporto coniugale che si manifesta invece annacquato e abitudinario, l’interrogarsi reciproco sul ruolo genitoriale, il ricordo dell’impegno antifascista ormai diluito in fiacchi dibattiti parlamentari. E la stanchezza della protagonista, sempre in attesa di conferme, di approvazione, di solidarietà: «Ho bisogno che qualcuno si avvicini e mi dica che sono una gran brava persona».

Il volume è introdotto da un’intelligente prefazione di Angela Scarparo.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Un-quarto-di-donna-Giuliana-Ferri.html       13 marzo 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FERRONI

FERNANDO FERRONI, LA SCIENZA TRA VERITA’ E BALLE – CASTELVECCHI, ROMA 2017

Il Presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Fernando Ferroni (Roma, 1952), professore ordinario presso l’Università Sapienza di Roma, ha pubblicato per Castelvecchi un intrigante libriccino, “La scienza tra verità e balle”, che in dodici smilzi capitoli ci illustra alcuni tra i maggiori svarioni presi da scienza e scienziati nel corso della storia millenaria dell’umanità. Non solo errori involontari e inconsapevoli, non solo equivoci o inciampi, ma anche inganni, frodi, imbrogli veri e propri.
Come quello che nell’88 fece sussultare la comunità scientifica mondiale, lasciando sgomenti medici, teologi e filosofi, ma galvanizzando gli omeopati e gli scrittori di fantascienza, quando Jacques Benveniste pubblicò su Nature uno studio sulla memoria dell’acqua. Più recentemente, un giovane ricercatore, Jan Hendrik Schön, affermò di aver costruito un transistor privo di silicio, avviandosi così a una folgorante carriera accademica, prima di essere smascherato e denunciato.
Più giustificabili gli errori degli antichi, da Aristotele a Tolomeo, dovuti a una visione antropocentrica del cosmo o all’eccessiva autoreferenzialità del proprio sapere. Nell’800 il famoso astronomo Giovanni Schiaparelli ipotizzò la presenza di vita organica su Marte, e anche Enrico Fermi, geniale fisico italiano, vinse il Nobel grazie a un’intuizione rivelatasi poi falsa.
Due straordinarie scienziate, Ida Noddack e Lise Meitner, produssero ricerche eccezionali, ma ignorate probabilmente perché partorite da cervelli femminili.

Gli errori nella scienza derivano da molteplici fattori: mancanza di metodo nella sperimentazione o nella verifica dei risultati, problemi di strumentazione, pregiudizi ideologici, timori politici. Quando non si tratti addirittura di frodi e imposture dettate da interessi economici, come nel recente caso del metodo Stamina, che ha illuso e ingannato centinaia di malati.
Ma, come scrisse Jules Verne, “la scienza è fatta di sbagli che è utile commettere, perché a poco a poco ci conducono alla verità”.

 

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www.sololibri.net/scienza-verita-balle-Ferroni.html;   17 marzo 2017

RECENSIONI

FERRONI

GIULIO FERRONI, LA SOLITUDINE DEL CRITICO – SALERNO, ROMA 2019

“Siamo nel tempo della moltiplicazione, della pluralità, dell’eccesso: costipazione degli oggetti, delle informazioni, dell’esperienza, delle possibilità, delle lacerazioni, della comunicazione”. Così inizia La solitudine del critico, pamphlet che Giulio Ferroni, Professore Emerito di Letteratura Italiana all’Università La Sapienza di Roma, ha dedicato ai processi della critica letteraria degli ultimi decenni. Anni troppo pieni di tutto, quelli in cui ci troviamo a vivere, quindi anche di libri, di linguaggi e teorie interpretative diverse.

La figura del critico letterario, che in passato godeva di un notevole prestigio, facendo pesare le sue scelte e i suoi giudizi nelle sedi deputate (case editrici, riviste, quotidiani, corsi universitari, dibattiti nei media) e aspirando al ruolo di maître à penser anche in ambito etico, filosofico e politico, si vede oggi privata di autorità da parte delle istituzioni, e di credibilità da parte del pubblico dei lettori. Tale mortificante esautorazione è forse derivata sia dal cambiamento dei metodi comunicativi, (dominati dalla rete e dai media), sia dalla caduta dei modelli umanistici, sia da due opposte tendenze affioranti nella critica contemporanea: l’arroccamento in discipline specifiche da un lato, il dilagare in campi eterogenei e onnicomprensivi dall’altro, in una sorta di “espansione tuttologica”. Attualmente prevale poi la moda di sottoporre qualsiasi prodotto editoriale a statistiche, classifiche, sondaggi, valutazioni tramite “like” e stelline, per cui l’intellettuale che pure aspiri a impegnarsi in una seria ermeneutica del testo, si vede assoggettato alle esigenze del mercato, e finisce per ridursi a megafono pubblicitario.

L’excursus che Ferroni offre ai lettori sugli sviluppi della critica, prende l’avvio dagli anni ’60, anni di grandi trasformazioni sociali, di apertura democratica e di impegno politico: comparvero allora le tesi innovative e spesso contrastanti di Goldmann, Girard, Adorno, Jakobson, Todorov, Bachtin. Nel decennio successivo furono lo strutturalismo e la semiologia (Barthes e Derrida) a imporre un nuovo approccio alle opere, chiamando in causa tutte le scienze umane: filosofia, antropologia, sociologia, psicanalisi. In seguito, fu il decostruzionismo di Deleuze-Guattari a suggerire modalità alternative di avvicinamento al testo.

In Italia, dall’interpretazione tradizionale e storicizzata di Sapegno e Binni, si passò a quella militante di Debenedetti a quella psicanalitica di Orlando, quindi alla semiologia di Corti e Segre. Una serie successiva di mode culturali e di letture particolari dissezionanti forma e contenuto secondo ottiche diverse, misero in crisi l’idea di letteratura intesa come “senso integrale del mondo”, nelle sue tensioni, aspirazioni, angosce. Ne è derivata “una fase di disorientamento e di anarchia”, tra ibridismi di vario genere, complicata dalla crisi economica e politica, che ha allontanato i lettori dal reale rapporto con il libro, espunto da ogni orizzonte esistenziale e storico.  Così nell’ultimo ventennio la passione per la teoria è andata scemando, e con essa l’illusione della scientificità della critica, soprattutto per il repentino stravolgimento dei metodi di conoscenza imposti da internet e dai social. La volontà di ridare significato e sostanza all’esperienza della lettura, aldilà dei tecnicismi esasperati dello strutturalismo, fu espressa dalle voci discordanti di Cases, Lavagetto, Berardinelli, Di Girolamo, Brioschi, Bertoni.

A circoscrivere in un cono d’ombra la critica letteraria sono state negli ultimi decenni altre discipline di orientamento: la linguistica, in primis, con la sua pretesa di ricondurre a puri sistemi funzionali e formali ogni struttura comunicativa. Anche la proliferazione dei cultural studies, intenti a promuovere l’espressione di tutte le minoranze (sociali, di razza e di genere), e di qualsiasi forma espressiva, indipendentemente dal suo effettivo rilievo culturale, ha contribuito a ridimensionare l’attività interpretativa del critico. Insieme alle neuroscienze ‒ che riducono la creatività artistica e l’esperienza estetica a meccanismi cerebrali ‒, alla geocritica e all’ecocritica, più sensibili all’habitat in cui le opere vengono prodotte che alle loro connotazioni stilistiche.

Quale la ricetta suggerita da Giulio Ferroni per ridare fiato a una disciplina che molti considerano ormai agonizzante, se non definitivamente morta? La indica già il sottotitolo del libro: “leggere, riflettere, resistere”. Leggere perché i libri “ci parlano di ciò che non abbiamo”, aiutandoci a mitigare le nostre ansie e a inseguire i nostri desideri. Riflettere “sull’inafferrabile oggettività del mondo”, che essendo altro da noi chiede di essere capito e interpretato. Resistere all’omologazione imposta dal mercato, che ci vorrebbe assuefatti alla comunicazione dominante, alla pubblicità ipnotica, all’impero “del pensiero unico economico e computazionale”. In questo compito di sensibilizzazione il critico letterario non deve essere lasciato solo.

 

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www.sololibri.net/La-solitudine-del-critico-Ferroni.html             9 dicembre 2019

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