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RECENSIONI

GENNA

GIUSEPPE GENNA, LA VITA UMANA SUL PIANETA TERRA – MONDADORI, MILANO 2015

Seguendo le indicazioni impartitegli dall’ «editore più importante dell’Italia… vestito al solito, un completo antracite argenteo… l’orologio massiccio di Rolex», Giuseppe Genna avrebbe dovuto scrivere un “thriller, azione, spy-story… un cazzo di storia semplice e leggibile” per rappresentare il male, quello che la gente vuole vedere e leggere, in cui ama riconoscersi.
Quale male più autentico, allora, di quello impersonato dal nazi-stragista norvegese Anders Behring Breivik, che il 22 luglio 2011 in poche ore sterminò 77 persone, di cui 69 adolescenti? Ma secondo Genna «Breivik non è il male. E’ il vuoto». E raccontare il vuoto non è facile.
In La vita umana sul pianeta terra, Genna cerca di delinearne i contorni, descrivendolo, recuperando anche cronachisticamente, con puntuali ricerche investigative, l’accaduto, e le sue inspiegabili spiegazioni. Ricostruire, quindi, l’infanzia anaffettiva e disturbata del mostro, l’adolescenza con i suoi complessi e le passioni, la sessualità morbosa, le letture fanatiche, le droghe, i rapporti con tutti gli estremismi di destra mondiali, i traumi. Ma «Qualunque trauma è secondario. Qualunque trauma non ha la forza di giustificare nulla».

Giuseppe Genna incastra il vuoto psichico ed esistenziale di Breivik nel vuoto sociale di tutto l’Occidente contemporaneo, lo confronta con il proprio vuoto, intercalando la vicenda biografica del nazista con la sua, confrontando la periferia di Oslo a quella milanese, il disagio delle masse giovanili norvegesi a quello dei ragazzi italiani. Indaga le proprie ansie, il proprio «terrore di vivere e di morire», scoprendosi «unico e interrotto», sperduto come tutti, come tutti su questo nostro pianeta Terra riecheggiante «l’urlo della scimmia antenata».
Breivik alias Hitler, sterminatori di vittime che non sanno nemmeno più dichiararsi innocenti, e vagano come fantasmi muti implorando giustizia o vendetta. Ma «Questa è l’epoca. Non è follia. E’ seriale. Ogni mito è muto… Senza niente se non questo niente».

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Vita-umana-terra-Genna.html    16 maggio 2016

RECENSIONI

GENNA

GIUSEPPE GENNA, ITALIA DE PROFUNDIS – MINIMUM FAX, ROMA 2014

Basterebbero da sole le paginette introduttive, il “Non inizio”, per convincere il lettore del livello non solo stilistico, ma anche emotivo e culturale della prosa di Giuseppe Genna. “Italia de profundis” è un romanzo caleidoscopico, in cui si trova di tutto: a partire dall’analisi lucidissima e sconfortata dei miti e dei riti di questo nostro Paese, sempre più involgarito e incapace di rigenerarsi (l’autore non salva niente in questa sua discesa negli inferi quotidiani della pancia molle italiana: politica, religione, istruzione, editoria, mondo mediatico, moda, rapporti interpersonali, amore, famiglia…).
Ma troviamo anche pagine di spaesato turbamento, di buio terrore nella descrizione della morte del padre, figura preziosamente simbolica di pulizia morale e sconfitta sociale, che torna ripetutamente a riflettere la sua ombra nelle giornate del figlio.
Troviamo l’amore perso perché eccessivo, non dominabile, e non comunicabile.
Troviamo “quattro storie di merda” da non ricordare, con esperienze disperanti di utilizzo di droga, o squallidamente oscene di prostituzione transessuale, o sofferte nel coinvolgimento in un episodio di eutanasia.
E questo continuo, micidiale, impietoso scorticamento del proprio io psichico: l’analisi morbosa e autopunitiva dei propri fallimenti, dei complessi, delle viltà, insieme al compiacimento esibito della propria intelligenza, e all’esaltazione dei rari momenti di successo mondano.
Un’ironia che diventa spesso scherno sogghignante (ma anche amarissimo) di fronte ai comportamenti più conformistici e beoti della massa, come nelle esilaranti pagine finali su una vacanza in un villaggio turistico in Sicilia. Mai nessuna indulgenza, verso di sé e verso gli altri; mai un sorriso, una carezza. Sempre, invece, l’ansia divorante di vivere tutto, di essere tutto, e poi di annullarsi. Burroughs e Plotino, Eliot e i Kraftwerk, sciamanesimo e David Linch. Soprattutto troviamo una straordinaria abilità di scrittura.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Italia-De-Profundis-Genna.html;     23 marzo 2017

 

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GENNA

GIUSEPPE GENNA, HISTORY – MONDADORI, MILANO 2017

Questo nuovo romanzo di Giuseppe Genna (che si conferma essere il più funambolico, metafisico e carnale, politico e antipolitico, dei nostri narratori) si intitola History, a suggerire l’ambizioso progetto di una scrittura capace di fondere insieme passato e presente, vicenda individuale e destini universali, mito-scienza-cronaca-religione in una scrittura onnivora, lampeggiante, complessa. Un libro di grande rilievo, quindi, come a me sono sempre parsi tutti quelli scritti da questo autore di origini siciliane, nato a Milano nel 1969, che sa spaziare dal pamphlet alla giallistica, dalla biografia storica alla fantascienza, dalla critica sociale a quella letteraria.

Il primo dei sei capitoli in cui si suddivide il corposo volume si apre sull’agonia del nonno novantenne del protagonista bambino, nell’atmosfera morbosa e lugubre di uno squallido appartamento in un caseggiato popolare della periferia milanese. Il vecchio fatica a morire, i parenti riuniti intorno a vegliarlo sembrano insofferenti (se adulti), spaventati o ipnotizzati dalla rivoltante fisicità della malattia, se ragazzini («Perché siamo nei corpi, o dio padre?»). Il terrore e lo schifo del nipotino si mescola all’osservazione minuziosa dello scrittore adulto, nella descrizione dei volti, degli atteggiamenti e dell’arredamento fatiscente, insieme a slabbrati e rabbiosi ricordi infantili, a squarci di cronache lontane (Alfredino Rampi, Aldo Moro, Manuela Orlandi…), che sempre insistono sulla violenza fatta a chi non può difendersi. Allora l’hinterland proletario diventa teatro della millenaria sopraffazione dei ricchi sui poveri, e si anima di “un assolutismo di desolazione”, di “sconsolatezza” nel grigiore degli ospizi per vecchi, degli uffici comunali, dei giardinetti spelacchiati, delle architetture fasciste, delle parrocchie deserte; ma anche nella sordida brutalità del macello comunale, nella disperazione dei tossici o nella minaccia costante del pedofilo del quartiere. L’infanzia è mitizzata solo in quanto appartiene al passato, e perché «crescere significa diventare cadaveri a metà». Una volta divenuti adulti, falsi e colpevoli sempre, «siamo qualunque cosa, siamo una cosa qualunque».

Su questa intercambiabilità e interdipendenza dei destini umani, proiettati nei capitoli successivi in un’attualità e in un futuro sinistramente indecifrabili, si interroga Giuseppe Genna. Dopo lo straordinario ANTEFATTO introduttivo, la sua scrittura s’incunea feroce nel presente di questa nostra Italia malata e insoddisfatta, che arranca dietro ai modelli mondiali di un progresso disumano, fantascientifico, distopico. Dal ritratto esilarante del Ministro della Cultura, inadeguato al suo ruolo e insulsamente enfatico, si passa alla spietata disamina dei miti contemporanei della supermassa, imbottigliata nelle autostrade e negli autogrill, cementata in grattacieli iperbolici dai giardini pensili, mimeticamente rimbambita dalla «festa macabra euforica» di Halloween: robotizzata, disanimata, omogeneizzata, spiata, corrotta, controllata da droni e computer e finanza marcia. «Il denaro ha raggiunto una tale estensione e intensità, scomparendo dietro quinte poste dietro quinte che stanno dietro quinte, indefinitamente, il denaro ha raggiunto un tale stadio evolutivo che: non esiste più».

In questo quadro desolante di umanità sorvegliata ed eterodiretta nemmeno l’arte si salva, e anche la coscienza dell’intellettuale si riduce al ruolo di grillo parlante, di vox clamans fagocitata dal potere. L’autore viene reclutato dal grande editore che non è più interessato alla sua opera, ma solo a controllare la sua mente, esattamente come controlla la mente di tutti. L’incontro deflagrante e rivelatore avviene inaspettatamente con una bambina autistica, History, figlia di un tycoon dell’economia meneghina, che oppone l’impenetrabilità sofferente del suo cervello alla permeabilità empatica altrettanto sofferente dello scrittore. I due, entrambi vittime di un esperimento scientifico che li sovrasta e finisce per annullarli in una reciproca dipendenza, scoprono una solidarietà quasi fisica, animalesca, che si oppone alla macchina incaricata di decifrare i loro linguaggi, decodificandoli e ricomponendoli, modificandoli per renderli innocui. Malattia e disagio diventano l’unica resistenza possibile contro la civiltà dei tecnopoli ideati dal capitale finanziario, e le poche individualità che tentano una ribellione (un parroco profetico, una sensibile psichiatra, un figlio disperato) sono alla fine ridotte al silenzio.

Giuseppe Genna, maestro nel rappresentare soprattutto la morsa del dolore per cui non esiste consolazione, è consapevole di avere scritto pagine su «lastre di oro mentale», in uno stile caleidoscopico che sembra voler sbranare se stesso, trafelato, corrosivo, sarcastico, poetico, osceno e puro, violento e delicato, ansimante in termini sempre più specialistici – tecnologici, medici, filosofici – e in anglicismi, quasi ad indicare uno spossessamento incontrollato della sua stessa scrittura. Ma quello che gli preme è fare arrivare al lettore un messaggio terrorizzato e terrorizzante riguardo al futuro che ci aspetta, fagocitante, per annullarci come individui: «Non siamo più niente! Più niente!»

 

© Riproduzione riservata  

www.sololibri.net/History-Giuseppe-Genna.html          5 ottobre 2017

 

 

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GERMANI

MAURO GERMANI, VOCE INTERROTTA – ITALIC PEQUOD, ANCONA 2016

Mauro Germani, nato a Milano nel 1954, ha fondato e diretto per un decennio la rivista Margo, e ha pubblicato diversi saggi di letteratura, insieme a numerosi volumi di narrativa e poesia.
Con questo libro di versi, Voce interrotta, si situa nella corrente della produzione elegiaca, intimistica, assolutamente sentimentale, dedicata alle intermittenze del cuore e della memoria, al recupero del passato, alla nostalgia impalpabile per tutto ciò che si è perduto.

La sua è infatti una scrittura segnata da una perdita, da una ferita che si teme non rimarginabile: da trattare, quindi, con estrema delicatezza, con attenzione protettiva.
Lo scenario che fa da sfondo a queste poesie è quello, urbano e indifferente, di una Milano impenetrabile, da percorrere a piedi o con i mezzi pubblici, cercando di ritrovare se stessi o un’eco solidale in qualche presenza umana: «Mi sono dimenticato / sul tram / e adesso non so / dove andrò», «case / senza nessuno», «la fine dentro l’asfalto», «quella voce che giurava la notte / e decideva nei palazzi / vuoti».

L’autore patisce un’assoluta e incomunicabile solitudine, rassegnato alla non speranza più che alla disperazione («Sarò alla vita / come un nome sbagliato»), metaforizzata in immagini negative di fulmini, buio, crolli improvvisi, incendi, frane. E lentamente si fa strada nel lettore l’intuizione che questo dolore rappreso sia dovuto a una mancanza incolmabile, a un lutto familiare mai del tutto esplicitato: «adesso che sei nostro / e ci ami, / ci ami ancora / come un bambino», «attese / di nebbia e di nulla», «Di chi questo volto / assalito dall’ombra, / questo sguardo / d’abisso / fuggito dal mondo?», «Da troppo tempo siamo vivi / e lontani, da troppo / nomi perduti / in bocca alla notte».

Una notte che ingoia presenze amate e non più recuperabili, rimpianti, dialoghi supposti che si riducono a monologhi amari, nel rincorrere «passi / quasi a mezz’aria, / senza più carne». Alle prime tre sezioni di  Voce interrotta, raccolte sotto il titolo allusivo Dissolvenze, segue un Poemetto delle verità presunte o degli osservatori osservati, in cui Mauro Germani sembra cedere all’incubo dello sdoppiamento, del giudizio implacabile di un tribunale, in un crudele gioco degli specchi che lo vede artefice e vittima allo stesso tempo, accusatore e accusato, in un’atmosfera kafkiana di misteriosa persecuzione: «io spio loro / che spiano me», «mi maledicono / sempre, mi / tengono appeso / nel vuoto, / mi promettono una vita / di nomi innocenti / di assassini sicuri», «mi nascondo sempre / eppure mi guardano».

 

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www.sololibri.net/Voce-interrotta-Mauro-Germani.html      6 luglio 2016

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GEZZI

MASSIMO GEZZI, IL NUMERO DEI VIVI – DONZELLI, ROMA 2015

Massimo Gezzi (1976), marchigiano residente oggi in Ticino, pubblica da Donzelli questo volume di poesie fortemente connotate da una severa esigenza etica, e dalla volontà di aderire al reale, anche quando esso si proponga a noi nelle sue imperfezioni, nelle sue distratte ambivalenze. C’è un continuo interrogarsi, in questi versi, su cosa si debba intendere per esistenza, anzi per coesistenza con se stessi e con gli altri, nella vita familiare e sociale, nella contingenza quotidiana: «Mentre sei qui che respiri e guardi i boschi…». E da questo assillante rimettersi in discussione, Gezzi fa derivare propositi e indicazioni di comportamento, suggerimenti morali, in una tensione didascalica che forse niente ha da spartire col cristianesimo, o con l’impegno politico, ma senz’altro rimane un richiamo potente alla solidarietà e alla comprensione umana: «Difendi questa luce, se sei un nulla / come tutti. Difendi questo nulla / che non smette di essere. Smetti di tirare / righe scure, di cancellare. Tocca il tavolo, la carta. / Impara un’altra volta a fare di conto: / non sottrarre allo zero, aggiungi uno».

Troviamo nella scansione delle sezioni e nella disposizione delle poesie quasi un’ossessione aritmetica, che partendo dallo zero definisce titoli e successioni secondo i numeri cardinali, nell’auspicio di una crescita di consapevolezza e di generosità. Ma sempre con la discrezione di chi non ha certezze, non ama imporsi, nutre in sé più interrogativi che affermazioni: «Non hai torto, non hai ragione»; «c’erano tutte le risposte, / non ce ne sarebbero state mai».
L’osservazione del mondo è attenta e partecipe: ambienti, oggetti, luoghi, corpi (con una particolare sensibilità verso persone sofferenti, malate, anziane) vengono raccontati con diligente scrupolo documentaristico, esprimendo un intenso gusto visivo per i colori, gli interni delle case e la natura.
Da insegnante, Gezzi sembra prediligere il rapporto con i giovani, dentro e fuori la scuola, soprattutto quando li avverte indifesi e spaesati. Da padre, dedica tre belle poesie alla sua bambina, già immaginandola in un domani che potrebbe delinearsi sia roseo sia problematico, ma comunque sempre arricchente e simbiotico: «Ogni giorno ti indovino in qualcuna, / ti spio nel futuro, ti proietto / negli spazi che saranno solo tuoi. / Quando non ti vedo, e ho paura che non arrivi, / butto un libro lì vicino, / tengo un posto per te».

Da poeta, sembra cercare un timbro maggiormente sicuro e personale, essendo forse consapevole della propria originalità più contenutistica che formale, e riconoscendo un debito evidente verso la tradizione italiana (si avvertono echi di Luzi, e della musicalità minimalista di Pusterla) e francese (Jaccottet e Bonnefoy). Massimo Gezzi conserva, come molti altri poeti a lui coetanei, una sorta di manierismo descrittivo, concretizzato spesso in elenchi tripartiti di sostantivi che danno un ritmo cadenzato al verso: «Pareti, porte chiuse, fiumi che si disperdono»; «i libri, / le cornici, le piante tese»; «scheletri / composti, tibie, crani fracassati»; «arcate, muri, / volte di granai»; «due orecchie, due gambe, due polmoni»; «le pentole, / lo zucchero, le piante del balcone»; «la pazienza, la nascita, l’istante dell’amore». E sottolinea coerentemente la sua scelta di mettere una sordina espressiva a toni e modi, optando per una delicatezza del sentire che non risulti mai coercitiva, ma sappia suggerire «il bene delle cose che esistono»… «sperando che il bene sia più ubiquo del male».

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/Il-numero-dei-vivi-Massimo-Gezzi.html       2 settembre 2015

 

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GEZZI

MASSIMO GEZZI, UNO DI NESSUNO – CASAGRANDE, BELLINZONA 2016

Il poeta marchigiano Massimo Gezzi, che da anni vive e insegna in Ticino, ha pubblicato presso l’editore bellinzonese Casagrande un poemetto in undici stanze, ripercorrendo la vita e l’opera tragica di Giovanni Antonelli. Le ricerche, pazienti e accurate, sul “poeta pazzo” suo concittadino (Antonelli nacque a Sant’Elpidio a Mare nel 1848, e morì ad Ancona nel 1918) hanno occupato Massimo Gezzi per più di due anni, dando infine luogo a questa pubblicazione, consistente in una ricostruzione in versi delle vicende biografiche del protagonista, e nella successiva scansione in note illustrative delle poesie. Le quali, in un tono pacatamente narrativo, scevro di qualsiasi lusinga o espediente linguistico-formale, ripercorrono in prima persona l’esistenza raminga e infelice di “uno” appartenuto solo a se stesso, Uno di nessuno, appunto, in esilio perenne e straziato. “Più mastino che uomo”, “erba avvelenata che crebbe / disprezzata come ortica del fosso”

Giovanni Antonelli venne al mondo nella primavera del 1848, nell’anno delle rivoluzioni che sconvolsero Italia ed Europa, e fu da subito egli stesso segnato da un’inquietudine ribelle (“Provai subito sdegno del pantano / natale”) che lo spinse a imbarcarsi come mozzo a tredici anni. Violentato sessualmente, picchiato, schernito da ciurma e ufficiali, spesso segregato in una cella di rigore, si congedò dalla marina dopo dodici anni di sofferenze e soprusi. Diventò adulto tra fame e malattie, ricoveri e latitanze, fughe e peregrinazioni a piedi attraverso varie regioni, in un perpetuo “dolore da braccato”, rifiutato dalla famiglia e dal paese d’origine.
Più volte incarcerato, e ancora più spesso rinchiuso in vari manicomi, la sua violenta polemica contro la società si incancrenì in reiterate azioni di prepotenza e rivolta furente contro cose e persone, che riusciva a placare solo attraverso la scrittura di poesie e di diari autobiografici, la cui stesura talvolta gli venne consigliata e commissionata dagli stessi medici che l’avevano in cura. Si esibiva anche in letture pubbliche, raramente con successo, più spesso incontrando nel pubblico derisione o compatimento. “Ciabattini, sicari, rettili, zerbini, / raccogliete le monete che avete speso / per ascoltarmi. Non avrete le mie ossa, / non serberò il vostro ricordo”, “Andate, parole, calmate le mie angosce. / Evadete dalle carceri, ribellatevi a chi vi arresta, / lasciatemi l’illusione che qualcuno saprà / veramente chi siamo, se io sono / Antonelli e voi tutti siete me”.

La sua aspirazione a un riconoscimento tardivo si è realizzata solo recentemente, con la pubblicazione de “Il libro di un pazzo” presso gli editori Giometti & Antonello di Macerata, e con questo omaggio in versi di Massimo Gezzi.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Uno-di-nessuno-Massimo-Gezzi.html       21 novembre 2016

 

 

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GHENO

VERA GHENO, CHIAMAMI COSÌ. NORMALITÀ, DIVERSITÀ E TUTTE LE PAROLE NEL MEZZO

IL MARGINE, TRENTO 2022

 

Vera Gheno (1975) è un’accademica, sociolinguista e traduttrice italo-ungherese. Si occupa prevalentemente di comunicazione digitale, e nei suoi numerosi interventi sulla stampa e nei seguitissimi social sostiene l’inclusività del linguaggio scritto e orale, contro ogni discriminazione di genere o etnia. In quest’ultima pubblicazione, Chiamami così (che riporta come esplicativo sottotitolo Normalità, diversità e tutte le parole nel mezzo), muove dalla considerazione che “Una realtà in trasformazione richiede pensieri e parole mutevoli, che si aggiornino in base alle esigenze delle varie componenti della società”: assodato quindi che il mondo in cui agiamo si sta trasformando continuamente e velocemente, soprattutto per impulso della globalizzazione e dell’avvento dei nuovi media, ne deriva che anche il nostro modo di esprimerci debba adeguarsi alla sua evoluzione.

In cinque brevi e stimolanti capitoli, Vera Gheno sottolinea la necessità non procrastinabile di riflettere, soprattutto nell’ambito della formazione – scolastica e non –, sulla rappresentatività sociale e linguistica, relativizzando punti di vista a lungo considerati come universali e riconsiderando in particolare i concetti di diversità e normalità. Quali e quante sono le caratteristiche peculiari che riteniamo ci differenzino all’interno di una comunità? Tra le altre, senz’altro il sesso biologico e l’orientamento sessuale, l’etnia e la provenienza geografica, la religione, l’istruzione, la disabilità, la neuro- diversità, l’età, il corpo, l’indole, le abitudini culturali, le possibilità economiche. Da ognuna di queste nasce una possibile discriminazione, classificabile con un nome: misoginia, omofobia, body-shaming, ageismo, xenofobia, ecc.

“Discriminare significa, letteralmente, operare una distinzione: va da sé che essa può avere un valore neutro, oppure produrre una differenza che va a discapito di una categoria, sancendo chi è «dentro» e chi è «fuori» da una norma”. Se consideriamo la diversità come uno scarto dalla normalità, e non nel senso più appropriato di varietà arricchente, finiamo per imporre artificialmente la nostra identità maggioritaria come modello assoluto a tutte le minoranze, rifiutando loro il diritto di autorappresentarsi. Viviamo infatti in una società normocentrica, che impone i suoi modelli canonici di bellezza fisica e prestigio economico-sociale, da raggiungere a tutti i costi per poter rientrare nell’agognata cerchia dei cosiddetti “normali”. Viviamo inoltre in una società androcentrica, in cui ogni tipo di potere è stato per millenni gestito da maschi, costringendo le donne a ruoli subalterni e ghettizzanti, continuamente ribaditi dalle parole che si utilizzano per abitudine, pigrizia, superficialità (“Ho sempre detto così!”).

Per cambiare questo stato di cose, per trasformare la mentalità pigramente imperante, dobbiamo agire in primo luogo mutando le nostre ossidate abitudini linguistiche. La maggior parte delle persone, tradizionalmente ostile alle novità, si trova in imbarazzo o manifesta fastidio verso i nomi femminili professionali: dire avvocata, sindaca, direttora, ministra, questora, crea disagio, mentre non provoca nessuno sconcerto dire infermiera, maestra, cuoca. Forse perché alcuni ruoli apicali sono appannaggio quasi esclusivamente maschile? Per favorire e incoraggiare la presenza sociale della donna in ogni campo lavorativo, si dovrebbe evitare di usare il maschile sovraesteso quando ci si rivolge a una moltitudine mista: se cambia la composizione della società, la lingua si deve evolvere di conseguenza. La linguistica, come l’architettura, la medicina e altre arti e discipline sono costruite secondo un’ottica assolutamente patriarcale, che mira a tenere divise e in stato di conflittualità tra loro le minoranze, in modo da poterle manovrare con maggiore facilità.

Quali strategie attuare per gestire correttamente le differenze? Parlare di inclusività è fuorviante perché indica un movimento non reciproco e sbilanciato tra chi include e chi viene incluso: meglio sarebbe agire con l’obiettivo di una convivenza delle differenze. “La diversità non deve essere ignorata ma celebrata, e nominata bene. Nominare in maniera corretta delle compagini della società che sono state fino a tempi recenti sottorappresentate linguisticamente fa sì che quelle minoranze acquisiscano una maggiore concretezza e diventino abituali agli occhi degli altri individui, ma anche ai propri stessi occhi…  Noi siamo tutti diversi, non tutti uguali, ed è giusto lasciare che la complessità della realtà modifichi la lingua”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 22 luglio 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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GIGLIOLI

DANIELE GIGLIOLI, STATO DI MINORITA’ – LATERZA, BARI 2015

Daniele Giglioli, professore di Letterature comparate all’Università di Bergamo, ha dato alle stampe per Laterza questo interessante volume che coniuga insieme letteratura e sociologia, politica ed etica, cronaca e storia. In dodici capitoli, corredati da un essenziale apparato di note, l’autore si interroga, e ci interroga, sulla deriva democratica che stiamo vivendo, e a cui sembra ci siamo malinconicamente arresi, delegando ad altri (economisti, network, intelligence…) il diritto di agire, e di decidere delle nostre vite e delle sorti del mondo. Viviamo, quindi, in uno stato di minorità – come veniva definita da Kant, nel suo saggio sull’illuminismo, l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro -, e non ne siamo turbati. Se nel Novecento si lottava, anche sanguinosamente (guerre mondiali, terrorismi, attentati), presi da passioni, estremismi, faziosità partitiche, oggi – all’alba del terzo millennio – «la più cieca e insensata irrazionalità mercantile e finanziaria» ha spodestato il confronto politico tra gli individui, mentre l’interesse personale, la chiusura nel privato, la difesa egoistica del proprio benessere, il raggiungimento del successo spadroneggiano in ogni aspetto della vita pubblica e culturale. Giglioli avverte questa tendenza anche nella letteratura, italiana e internazionale, tesa a celebrare o rimpiangere il passato, in toni risentiti e amari; oppure a rispecchiare in maniera riduttiva scelte di vita individuali, spesso frustrate o sconfitte. E proprio alla letteratura l’autore si appella per meglio argomentare le sue tesi.
Lo fa appoggiandosi all’esegesi del romanzo-pamphlet di José Saramago Saggio sulla lucidità, del 2004. Seguendo le tracce narrative del Nobel portoghese, Giglioli analizza alcuni dei nodi centrali intorno a cui si avviluppa la riflessione contemporanea sull’essenza costitutiva del potere. Se l’allegoria di Saramago descriveva un’ipotetica città in cui gli abitanti votavano in massa scheda bianca alle elezioni, mettendo così in crisi tutto l’apparato amministrativo, e provocando una reazione quasi isterica da parte delle autorità, Daniele Giglioli respinge come inefficace qualsiasi posizione di puro rifiuto, e si chiede invece quale possa essere l’alternativa a una resa imbelle che inibisce le persone alla prassi, alla partecipazione politica attiva, lasciandole appagate della pura sopravvivenza materiale. L’aggressività, forse? O la fuga? Ovviamente, è da respingere qualsiasi soluzione violenta: «Il terrorismo è un delirio di onnipotenza cui sottende una condizione di impotenza radicale…Rappresentare i terroristi come dotati di un’incalcolabile potenza è una strategia retorica che serve a legittimare politiche securitarie, procedure di controllo, spionaggio generalizzato».

Se non si può e non si deve ricorrere all’insurrezione, altrettanto inefficace risulta l’atteggiamento rinunciatario, vittimistico, di evasione: «Non è tanto l’impotenza a garantire innocenza, ma la mancata assunzione di responsabilità per la propria inazione a generare il desiderio di sentirsi innocenti, cioè vittime».

Cosa suggerisce allora Giglioli (riprendendo molte tesi di Jan Spurk) per vincere l’apatia, la rassegnazione paralizzante a un’obbedienza di comodo a chi ci governa? Di tornare a essere partigiani, preferendo emotivamente il confronto anche conflittuale piuttosto che una concordia fasulla: affrontare il negativo, rendendolo produttivo. Ripartire, rinascere. «Senso di colpa per i passati errori e rimpianto per i passati splendori (le lotte, le conquiste, le vittorie anche se parziali) contribuiscono alla costruzione della gabbia che si tratterrebbe invece di rompere… Solo pensare l’azione sotto la specie della nascita – distacco, separazione, nuovo inizio – permette di essere di parte senza risentimento, se risentimento, come sapeva Nietzsche, è non perdonarsi che il passato sia andato come è andato». In una parola, uscire dallo stato di minorità, tornare a disporre della propria esistenza, individualmente e collettivamente.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Stato-di-minorita-Daniele-Giglioli.html              4 ottobre 2015

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GINZBURG

NATALIA GINZBURG, LA STRADA CHE VA IN CITTÀ – EINAUDI, TORINO 2018

“Aspro, pungente, pieno di sapori nuovi come un frutto appena un po’ acerbo, La strada che va in città è uno dei libri più belli di Natalia Ginzburg. È un libro senza rughe: non perde mai di freschezza, e mantiene intatta, a ogni rilettura, attraverso gli anni, la sua ruvidezza selvatica e adolescente”. Con queste parole Cesare Garboli presentò nel 1993 il romanzo da poco riedito nella collana economica ET di Einaudi. La Ginzburg l’aveva scritto a venticinque anni, durante il confino in un paesino abruzzese cui era stato condannato il marito Leone per antifascismo: si trattava del suo primo libro di ampio respiro, avendo in precedenza pubblicato solo racconti in rivista. Nel ’42 il romanzo uscì da Einaudi con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte. Giustamente Garboli sottolineava come in questa prima prova fossero già presenti i temi fondanti della narrativa successiva: la famiglia, con i suoi dissidi, scontri e incomprensioni: l’irrequietezza della protagonista femminile; le ambizioni di riscatto sociale; le delusioni sentimentali; il confronto città-campagna. Anche lo stile prelude a quello più collaudato e sicuro delle opere maggiormente note dell’autrice: dialoghi scarni e colloquiali, perlopiù intessuti di domande e risposte concise; scarse descrizioni dei luoghi e degli ambienti naturali, e invece rilievi attenti forniti ai visi, ai gesti, alle andature dei personaggi; linguaggio denotativo, che sembra voler rifuggire da qualsiasi commossa empatia, rifugiandosi nella stessa indifferente inerzia con cui vivono i protagonisti.

La storia è semplice: Delia è una ragazza diciassettenne che vive in un paesino lontano alcuni chilometri dalla città capoluogo. La sua è una famiglia modesta, composta dalla madre sarta, dal padre elettricista “stanco e rabbioso”, cinque fratelli e un cugino: “Si dice che una casa dove ci sono molti figli è allegra, ma io non trovavo niente di allegro nella nostra casa… Odiavo la nostra casa. Odiavo la minestra verde e amara che mia madre ci metteva davanti ogni sera e odiavo mia madre”. L’insofferenza che la giovane prova nei riguardi dei familiari rasenta l’odio, la non sopportazione, e la spinge ad allontanarsi quotidianamente dal paese per raggiungere a piedi la città vicina, dove passa il tempo a passeggiare nel corso, guardando le vetrine o visitando la sorella maggiore Azelia, sposata con un uomo che non ama e che tradisce senza alcun senso di colpa, abbandonandosi spesso a relazioni inconcludenti. Delia vorrebbe fare come lei, sposarsi per allontanarsi dalla famiglia che detesta e di cui si vergogna. Probabilmente ama ed è riamata dal cugino Nini, un operaio sensibile e colto, dedito all’alcol, ma per noia o disperazione si lascia sedurre e mettere incinta da Giulio, figlio del medico del paese. Costretta a nascondersi per evitare pettegolezzi e cattiverie, viene ospitata da una zia, in attesa del matrimonio riparatore continuamente rimandato, vivendo la gravidanza con un sentimento di estraneità e di esibito fastidio. Anche quando alla fine si sposa e partorisce, Delia non esce dal suo torpore, e la nuova esistenza in città, col marito e il bambino in un appartamento elegante, le rimane comunque indifferente: “Passavo le giornate a letto e verso sera mi alzavo, mi dipingevo il viso e uscivo fuori, con la volpe buttata sulla spalla. Camminando mi guardavo intorno e sorridevo con impertinenza”.

La bravura di una Natalia Ginzburg così giovane risiede essenzialmente nell’aver saputo rendere l’apatia sentimentale della protagonista, che di ciò che ha vissuto e vive in ambienti e con persone diverse sembra non comprendere e assimilare nulla, preferendo lasciarsi scivolare addosso gioie e dolori con la stessa noncurante insensibilità.

 

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https://www.sololibri.net/La-strada-che-va-in-citta-Ginzburg.html            5 ottobre 2018

RECENSIONI

GINZBURG

LISA GINZBURG, UNA PIUMA NASCOSTA – RIZZOLI, MILANO 2023

Il titolo dell’ultimo romanzo di Lisa Ginzburg, Una piuma nascosta, viene suggerito dall’autrice come metafora dell’attenzione dovuta, con leggerezza non esibita, nel rapportarsi ai sentimenti altrui.

Il testo racconta infatti una storia di sentimenti, più che di fatti o azioni, che si instaurano tra i due protagonisti, Rosa e Tan, e nelle relazioni intrecciate da loro con pochi altri comprimari.

Rosa è una undicenne sensibile e riservata, figlia dei custodi della villa padronale dei coniugi Manera, nel podere toscano della Quercetana. Tan, suo coetaneo, è un ragazzino ombroso e irruente di origini moldave, adottato dai Manera dopo un percorso burocratico complicato e sfiancante, tra viaggi all’estero, colloqui con psicologi e ispezioni di assistenti sociali.

I due adolescenti tendono a dissimulare le loro ferite, cercando di curarle in un rapporto via via più solidale di vicinanza e conforto reciproco. Rosa soffre della rigidità materna e di un senso di inferiorità culturale nei riguardi dei proprietari della villa, mitigato dall’ammirazione devota per la madre di Tan. Il ragazzo non riesce a superare l’angoscia dell’abbandono del suo paese, il trauma dei molti anni vissuti in orfanatrofio, la rabbia verso l’ambiente raffinato che lo ha accolto: pertanto sfoga violentemente il proprio rancore per i genitori adottivi, che presto entrano in crisi come coppia, arrivando alla separazione.

I due giovani nutrono la loro amicizia attraverso una frequentazione assidua fatta di giochi con le carte, di linguaggi criptici incomprensibili agli estranei, e di intere giornate trascorse nei campi: Rosa all’ombra di una grande quercia percepita come protezione e accoglienza, Tan accovacciato in un’enorme buca scavata per ripararsi e nascondersi da un fuori minaccioso.

Negli anni del liceo le loro strade si dividono: il carattere rissoso del ragazzo induce i genitori a trasferirlo in un severo convitto di Milano, mentre Rosa, sempre più matura e consapevole delle sue capacità, si avvia a un luminoso avvenire universitario. Divenuta con gli anni un’affermata chirurga oftalmica, dedita con abnegazione al proprio lavoro, si allontana dalla tenuta della Quercetana, e anche dal ricordo di Tan, che nel frattempo si è perso tra vari amori, lavori improvvisati e viaggi tormentosi alla ricerca del passato. Tuttavia si rivedono, in un Ferragosto torrido, tornati entrambi in visita dai parenti: “Camminano senza parlare, un silenzio che dice la fatica di stare in strada con quel caldo, ma in cui vibra anche altro, l’intensità di una strana tensione che monta da sé, spontanea, un’impalpabile aspettativa – qualcosa succederà, ma non si sa cosa”.

E infatti qualcosa tra i due succede, un breve e appassionato riavvicinamento, vissuto nel trasporto dei sensi senza una reale adesione emotiva. La decisione di Rosa di trasferirsi negli Stati Uniti per dedicarsi a un prestigioso progetto di ricerca segna ormai un’irriducibile estraneità, e il congedo che la donna invia online all’amico ritrovato e nuovamente perduto, risulta quasi imbarazzante nella sua logica razionalità: “Però, ecco, c’è che io non so come proseguire, che un tratto successivo di strada da fare insieme proprio non lo vedo… Sono una persona che ha bisogno di calma, metodica, perfezionista. Che per lavorare bene deve avere ritmi sempre uguali…Anche a te auguro di partire, anzi di ripartire… Incontrerai altre persone, succederanno altre cose. Io ti porto con me, oltreoceano”.

Una storia semplice, quella raccontata con garbo da Lisa Ginzburg, di un incontro arricchente e denso di significato, e che tuttavia il trascorrere del tempo rende malinconicamente meno rilevante, quando la pretesa di far rivivere il passato rivela la sua pretestuosa inconsistenza.

 

«SoloLibri», 31 agosto 2025

 

 

 

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