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RECENSIONI

GIVONE

SERGIO GIVONE, LA RAGIONEVOLE SPERANZA –SOLFERINO, MILANO 2025

In sette capitoli e in un documentato repertorio di note, il filosofo e romanziere Sergio Givone (Buronzo, 1944) affronta il tema del dopo-morte, e lo fa riprendendo argomenti che gli sono cari (cfr. Storia del nulla, Favola delle cose ultime, Non c’è più tempo, Sull’infinito), però qui con un diverso stile aforistico, dal tono ansante, ispirato, rapito nell’immersione di un’idea.

La ragionevole speranza, si intitola il suo ultimo libro pubblicato da Solferino, indicando un’esplicita posizione teorica: di per sé, la speranza non si posa sulla ragione, ma si affida a un moto del sentimento, che in quanto tale è irrazionale; l’autore alterna l’attributo definendola a più riprese sia ragionevole sia illusoria, o addirittura disperata. Sperare cosa, quindi? Di sopravvivere, di permanere nell’essenza (nella coscienza) individuale dopo la morte, questione su cui da millenni si interroga il pensiero filosofico, insieme alla letteratura, all’arte, alla musica.

Le pagine del volume si aprono descrivendo la cerimonia funebre del fumettista Sergio Staino, avvenuta al Palazzo Vecchio di Firenze nel 2023, in cui tutti i presenti auguravano all’amico defunto un “buon viaggio” in compagnia dei sorrisi che aveva saputo dispensare in vita attraverso lo spirito caustico del suo eroe Bobo. Si può ridere della morte, di questo evento “impenetrabile come una pietra … muro contro cui si va a sbattere” ineluttabilmente, mettendoci di fronte al non essere più? Givone tenta un alleggerimento della negatività iniziale commentando la necessarietà di finire “per lasciare spazio ad altri. Magari sapendo che prima lo si fa, meglio è.  È dimostrato. Più in lungo la si tira, più amaro il calice che tocca bere”.

Si può ridere della morte per la gioia di essere comunque stati vivi, di aver goduto di momenti intensi di felicità e altri di incomparabile tristezza, di avere amato e odiato, partecipando al destino comune a tutte le creature. Da sempre si fronteggiano due modi opposti di porsi di fronte al limite estremo dell’esistenza: si può accettare la propria caducità, riconoscendo che nulla e nessuno sopravvive per sempre. Oppure si può credere che la vita individuale persista aldilà della sua conclusione fisica, aprendosi a una realtà diversa e superiore, per quanto inconoscibile e indefinibile.

La lieta e futile concretezza del libertino, la consapevolezza della finitudine del materialista si oppongono alla fede del mistico che rifiuta il limite, proiettandosi in un infinito, per lo più rivestito di sembianze divine. “Venuti al mondo, la sola cosa certa è che dovremo lasciarlo. Per finire dove? Nel nulla o in Dio?”, si chiede Givone, illustrando le tesi che hanno contrapposto i filosofi già dagli albori del pensiero umano.

Il primo a parlare di infinito fu il presocratico Anassimandro, che in un frammento così poetava: “Principio dei viventi è l’infinito […] là dove i viventi hanno la loro origine, là trovano la loro dissoluzione necessariamente: essi infatti pagano il dovuto gli uni agli altri ed espiano l’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Ma ad Anassimandro si opponeva Democrito, a Parmenide Eraclito, a Platone Aristotele, agli orfici Epicuro. Per Pindaro la vita è fugace, eppure luminosa (“Effimeri siamo: cos’è qualcuno? / cos’è invece nessuno? Sogno di un’ombra / è l’uomo. Ma se un lampo giunge, disceso dal cielo, / allora splendida luce gli uomini investe, / e dolce diviene la vita”). Per il Qoèlet biblico tutto è vanità, per il Cantico dei Cantici tutto è amore, Lucrezio era ateo e materialista ma celebrava la grandezza della natura, Plotino credeva nel ritorno all’Uno e si vergognava di essere in un corpo…

Via via nel corso dei secoli si è approfondito il contrasto tra spiritualismo e positivismo, tra caso e necessità. Pascal scommetteva su Dio, convinto che “se la porta della trascendenza resta aperta, allora possiamo sperare di avere una risposta alla domanda sul senso della vita”. Lo contraddiceva Montaigne, che pur nella disillusione metafisica era commosso dalla fragilità umana. A Vico si oppone Cartesio, a a Rousseau Voltaire, Manzoni a Leopardi, a Hegel Marx, contro Nietzsche combattono James e Bergson, Jung contesta Freud. Tutti con l’angoscia di capire, di spiegare a sé stessi e agli altri l’origine e la fine delle vite individuali, l’apparire e la dissoluzioni di intere civiltà nel corso della storia.

La Grundfrage di Leibniz e Schelling (“Perché c’è qualcosa? Perché non c’è il nulla?”) rimane inevasa, dopo secoli di ricerche scientifiche, di riflessioni teologiche, di preghiere e di bestemmie. L’anima, la bellezza, la verità, la grazia sono concetti che riconducono all’idea indimostrabile di Dio; l’odio, la malvagità, la malattia, lo sfruttamento, la dipendenza ribadiscono la nostra condanna al limite e all’infelicità. Schiller incoraggiava a resistere: “Abbiate il coraggio della sofferenza, / soffrite per il mondo a venire. / Al di sopra del cielo stellato / l’Infinito sarà la ricompensa”.

Quale ricompensa, e quale pena? Il paradiso o l’inferno?

Sergio Givone dedica l’ultimo capitolo del libro all’idea di immortalità dell’anima, oggi misconosciuta e contestata a livello filosofico, quanto quella del giudizio finale ultraterreno. Dibattuta dai mistici medievali (Silesius: “So che senza di me Dio non può vivere un istante: se io divento nulla, deve di necessità morire”) come dagli spiriti più intensamente e laicamente religiosi (Simone Weil: “Bisogna morire – morire nell’anima – per accedere a una dimensione di conoscenza e di verità, diciamo pure di immortalità”), l’immortalità dell’anima si scontra con l’ipotesi quasi scandalosa di una condanna perpetua (“Un’eternità dove tutto è pianto e stridor di denti, da una parte, e tutto è gioia e osanna, dall’altra, mette Dio in stato d’accusa”). Paradiso e inferno allora vanno derubricati a semplice “ammonimento per chi ha mal vissuto e incoraggiamento per chi ha ben vissuto”, a leggenda ormai razionalmente ripudiabile? Idea soppiantata da quella più nobile e generosa dell’Apocatastasi – cioè di una rigenerazione e redenzione totale dell’esistente nella perfezione originaria dell’inizio, ritrovata alla fine dei tempi–, intuita da Origene, discussa dai Padri della Chiesa, difesa da Giordano Bruno e ripresentata come necessaria da Luigi Pareyson, maestro di Givone, come promessa di un paradiso aldilà del paradiso, aldilà di tutto…

Il suo allievo, autore di questo intenso libro, la accoglie con il monito di Marguerite Yourcenar “cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti”, e con l’invocazione dell’ultima canzone di Leonard Cohen “I’m ready, my Lord”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 18 aprile 2025

 

 

RECENSIONI

GIVONE-BODEI

SERGIO GIVONE-REMO BODEI, BEATI I MITI PERCHÉ AVRANNO IN EREDITÀ LA TERRA

LINDAU, TORINO 2013

Due filosofi, Sergio Givone e Remo Bodei, il primo credente il secondo ateo, affrontano il tema della mitezza sotto il profilo filologico, teologico e storico. Commentando il brano di Matteo 5,5 che pone questa dote al terzo posto nella scala delle Beatitudini (“Beati i miti perché erediteranno la terra”), entrambi i due autori concordano nel ritenere l’essere miti un valore, anziché un difetto o una debolezza, come oggi viene prevalentemente intesa dalla maggioranza delle persone, e dall’ideologia politica e sociale dominante.

Givone definisce il mite “colui che sopporta non per rassegnazione, ma per convinzione… non dispera neppure di fronte alle difficoltà più gravi e quando tutto sembra perduto… sa essere comprensivo, benevolo, ospitale nei confronti del suo prossimo e perfino del suo nemico: in una parola caritatevole”. La mitezza è un dono dello spirito, la più alta delle virtù, la meno compromessa con le tentazioni del mondo e la più vicina al cuore di Dio: essa si manifesta in atteggiamenti non aggressivi, pazienti, aperti al confronto, tolleranti. Mite per eccellenza è Gesù, l’Agnello che porta su di sé i mali e i peccati degli uomini, giusto e insieme indulgente, umile, semplice, puro. Se nel Medioevo si predicava la mitezza nella sua accezione ascetica e mistica, oggi la si interpreta soprattutto in chiave etico-politica, in ubbidienza alla teoria e alla pratica della nonviolenza, con riferimenti al pensiero di Tolstoj e di Gandhi. Tra i filosofi novecenteschi che più si avvicinano a tale visione di impegno morale, Hans Jonas contrappone il “principio responsabilità” al “principio disperazione”, indicando nell’azione umana tesa a preservare l’ambiente e la vita il comportamento più responsabile e generoso nei confronti delle generazioni future. Givone ritiene che la ricompensa evangelica fatta ai miti di ereditare la terra, non sia ovviamente una promessa di vantaggio materiale, ma denoti invece la prospettiva di abitare la casa di Dio nella pace, facendosi carico di ciò che l’esistenza terrena è, in totale accoglienza e totale consenso con il prossimo e con il Signore.

Remo Bodei, offre al lettore un’interpretazione laica della mitezza, insistendo sulla forza e l’audacia di tale valore, che rende chi lo incarna capace di controllare le proprie passioni, di resistere al male con fermezza e senza scoraggiarsi, rinunciando all’ira, alla violenza e alla vendetta. “I miti sono le persone pazienti, quelli che non chiedono niente per sé… che non si credono importanti e non si gloriano di sé stessi, che sono capaci di superare ogni difficoltà e che proprio per questo erediteranno la terra”. Bodei indaga l’etimologia del termine greco praous (mite) così come viene usato nei Vangeli, in Aristotele, nello stoicismo, nella teologia, per cui la mitezza non ha il significato negativo che le attribuiscono i moderni: di passività, apatia, rassegnazione imbelle. È invece consapevolezza sicura di sé, serenità, autodisciplina, moderazione, discrezione. Tra i pensatori del ’900 che più hanno rivalutato questa virtù cita Schweitzer, Bonhoeffer, Bobbio, Giuliano Pontara e Gustavo Zagrebelsky, ciascuno dei quali ha dato una sua definizione della scelta attiva e propositiva della mitezza.

Tra le tante proposte, quella che personalmente preferisco è “lasciare che l’altro sia sé stesso”.

 

© Riproduzione riservata      4 novembre 2019

https://www.sololibri.net/Beati-i-miti-perche-avranno-in-eredita-la-terra- GivoneBodei.html

 

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GLAUSER

FRIEDRICH GLAUSER, IL GRAFICO DELLA FEBBRE / IL TE’ DELLE TRE VECCHIE SIGNORE / IL SERGENTE STUDER / KRACK & CO. / IL CINESE / GOURRAMA – SELLERIO, PALERMO 1987-1988

 

Elvira Sellerio ha già dedicato sette volumi della sua elegante collana La memoria (inconfondibile sia nell’accuratezza grafica suggerita da Leonardo Sciascia – volumetti tascabili, carta non patinata, copertina blu di Prussia con vivaci riproduzioni d’arte moderna -, sia nell’intelligente scelta dei titoli, per lo più stranieri) al narratore svizzero Friedrich Glauser (1896-1938). Glauser, non famosissimo in patria, pressoché del tutto sconosciuto in Italia, continua forse a pagare dopo morto l’atipicità della sua esistenza, l’eccentricità delle sue passioni culturali con un isolamento e una sottovalutazione del tutto immeritati, e certo non giustificati dalla sua produzione letteraria, godibile e leggibilissima. Così scrisse Glauser della sua vita, senz’altro agli antipodi del “typisch schwyeizerisch”:

Nato nel 1896 a Vienna da madre austriaca e padre svizzero. Nonno paterno cercatore d’oro in California (scherzi a parte), nonno materno consigliere di corte (bel miscuglio, no?). Scuola elementare, tre classi del ginnasio a Vienna. Poi tre anni di riformatorio a Glarisegg. Poi tre anni al Collège de Genève. Sbattuto fuori poco prima della maturità, perché aveva scritto un articolo letterario su un volume di poesie di un insegnante. Maturità a Zurigo. Un semestre di chimica. Poi il dadaismo. Mio padre voleva farmi internare e pormi sotto tutela. Fuga a Ginevra. Il resto lo potete leggere in “Morfina”. Internato per un anno a Münsingen (1919). Fuga. Un anno ad Ascona. Arrestato per la morfina. Rispedito indietro. Tre mesi a Burghölzli (controperizia, perché a Ginevra avevano detto che ero schizofrenico). Dal 1921 al 1923 Legione Straniera…

Ribelle, drogato, inquieto, quindi: eppure quasi nulla di questa sofferenza e di questo disadattamento trapela nei suoi romanzi, che in genere vengono classificati come “gialli”, e affiancati – non senza qualche forzatura – ai nomi di Dürrenmatt e Simenon. Con il primo Glauser ha in comune l’ambientazione, il paesaggio, che è inequivocabilmente svizzero, ma più disteso e innocente di quello dürrenmattiano, forse anche perché la Svizzera narrata dal nostro autore è preferibilmente la campagna bernese o jurassiana degli anni intorno al ’30, ancora indenne dalle trasformazioni capitalistiche, ancora tutta fondue e sanatori, cervelats e Jass: pertanto meno percorsa da inquietudini sociali e meno scalfibile da insofferenze politiche. Al Maigret di Simenon, invece, è per più versi assimilabile il protagonista delle storie di Glauser, il sergente Jakob Studer, chiamato benevolmente Köbu, funzionario della polizia bernese, declassato da ispettore a semplice sergente a causa di un suo coinvolgimento in un “affaire” bancario. Quasi sessantenne, robusto ma col volto liscio e magro, baffuto e brizzolato, «non sembrava affatto uno svizzero». La sua realtà familiare e ambientale (la tranquilla e tranquillizzante moglie Hedy, la scialba figliola, il genero gendarme turgoviese un po’ tonto, un nipotino a cui si mostra del tutto indifferente) è una realtà che lo qualifica ben poco. Köbu è, come Maigret, un poliziotto particolare, con una particolarissima idea della Giustizia: dea bendata più della Fortuna, essa non appartiene alle cose di questo mondo, è un mito, un’utopia. Così il colpevole -l’assassino- è spesso più vittima dell’ucciso, è strumento di una malvagità che lo sovrasta e a cui non è riuscito a opporsi: il sergente Studer opera quindi in modo tale da salvare sempre l’esecutore materiale, il maggiore indiziato, il paria del paese, incastrando invece i mandanti, gli insospettabili. Perciò Studer agisce scardinando prassi consolidate, e realizza sogni che un poliziotto più tradizionale non oserebbe nemmeno tenere nel cassetto: sa mandare alla malora i suoi ottusi superiori dei vari uffici cantonali e federali, riesce ad applicare in modo acuto e non convenzionale la sua notevole cultura, e viaggia, entrando persino nella Legione Straniera… Friedrich Glauser ricorda quindi Simenon per l’umanità tutta fisica, carnale della sua creatura, ma è ben più impacciato dell’autore francese nello strutturare le trame dei suoi gialli, più ingenuo nelle trovate, più scoperto nei fini, a volte ansante nella narrazione; ma forse proprio per questa sua minore scaltrezza letteraria si rende più simpatico di Simenon, e rende più simpatico il suo Köbu Studer.

 

«Agorà» (Svizzera), 28 settembre 1988

RECENSIONI

GLÜCK

LOUISE GLÜCK, ARARAT – IL SAGGIATORE, MILANO 2021

L’Ararat è il monte su cui, secondo il racconto biblico, si fermò l’arca di Noè scampata al diluvio: in lingua turca il suo nome significa “montagna del dolore” Ararat è anche il titolo di una raccolta di poesie pubblicata da Louise Glück nel 1990, e oggi riproposta da Il Saggiatore con testo a fronte, nella limpida traduzione di Bianca Tarozzi.

Louise Glück (New York, 1943), premiata con il Nobel lo scorso anno, si inserisce con la sua produzione in versi nella scia della poesia confessionale di Robert Lowell, Sylvia Plath e Anne Sexton, rielaborando con un linguaggio semplice e scavato, e in toni meditati e malinconici, motivi ricavati dalla sua esperienza personale e familiare: figlia di emigrati ebrei ungheresi, due mariti e due divorzi, un figlio, un tracollo economico, lutti familiari, l’anoressia e anni di sedute psicanalitiche, l’insegnamento accademico a Yale, i numerosi premi letterari. I temi affrontati nella sua scrittura poetica non sono, comunque, solo autobiografici: la sua attenzione è rivolta sia alla mitologia classica, sia all’ambiente naturale, sia soprattutto ai fenomeni traumatici che segnano in modo indelebile l’esistenza delle persone. L’incubo della fine (“ho scritto della morte da quando so scrivere”, ha ripetuto recentemente in un’intervista), la perdita degli affetti e dei ricordi, il fallimento nelle relazioni interpersonali e lavorative, il desiderio represso e negato, sono gli argomenti che affronta nella sua scrittura con asciutta ma tagliente penetrazione.

In Ararat (nome di un approdo nella salvezza terrena, ma anche nome del cimitero in cui è sepolta la sorella di Louise Glück, a Long Island), si parla del lutto, di separazioni definitive e delle strategie messe in atto per sopravvivere all’angoscia. Secondo il critico Dwight Garner si tratta del “libro di poesia americana più brutale e più colmo di dolore pubblicato negli ultimi anni”. Raccoglie una trentina di poesie, che si confrontano con l’eterno tema del rapporto tra eros e thanatos, già dal celebre esergo platonico, che indica l’amore come desiderio e ricerca dell’intero. Ansia di una completezza affettiva che evidentemente alla poeta è mancata, cresciuta in un circolo familiare chiuso e compassato, con un padre debole e assente, e una madre troppo rigida: “Nessuno potrebbe scrivere un romanzo su questa famiglia: / troppi personaggi che si assomigliano. Inoltre, sono tutte donne; / c’era un solo eroe. // Ora l’eroe è morto. Come echi, le donne durano più a lungo; / esser tanto forti non può far loro del bene” (Un romanzo).

La poesia di apertura, Parodos, è emblematica a questo proposito: “Molto tempo fa, sono stata ferita. / Imparai / a esistere, come reazione, / fuori dal contatto / con il mondo: vi dirò / cosa volevo essere – / un congegno fatto per ascoltare. / Non inerte: immobile. / Un pezzo di legno. Una pietra. // Perché dovrei stancarmi a discutere, replicare? //… Ero nata con una vocazione: / testimoniare / i grandi misteri. / Ora che ho visto / e nascita e morte, so / che per la buia natura esse / sono prove, non / misteri –”.

L’accettazione della materialità dell’esistenza è quindi precoce, in Louise, scelta e voluta per evitare la sofferenza: “L’anima è come tutta la materia: / perché dovrebbe restarsene intatta, fedele a una sola forma, / quando potrebbe essere libera?” (Ninnananna). Ma il dolore incombe sempre e comunque, impietoso, con il susseguirsi di perdite e rinunce.

Vagare nel cimitero di Ararat, accostarsi alle tombe di persone conosciute, amate o detestate, esaminare la disposizione dei fiori, la cura o la trasandatezza delle sepolture, l’atteggiamento dei parenti, trasforma chi scrive in un osservatore implacabile delle emozioni proprie e altrui: “Sai cosa ti dico? Ogni giorno / c’è chi muore. Ed è soltanto l’inizio. / Ogni giorno, alle pompe funebri, nascono nuove vedove, / nuovi orfani. Se ne stanno seduti con le mani in grembo, / tentando di decidere come sarà la loro nuova vita. // Poi vanno al cimitero, alcuni / per la prima volta. Si vergognano di piangere, / o talvolta di non piangere. Qualcuno li affianca, / dice loro cosa devono fare, il che potrebbe essere / dire alcune parole, oppure / buttare della terra nella fossa aperta. // E dopo, se ne tornano tutti a casa, / che improvvisamente è piena di visitatori. / La vedova è seduta sul divano, molto solenne, / così le persone in fila le si avvicinano, / chi le prende la mano, chi l’abbraccia. / Lei trova una parola da dire a ciascuno, / li ringrazia, li ringrazia per essere venuti. // In cuor suo vorrebbe che andassero via. / Vuole tornare al cimitero, / nella stanza dell’ammalato, all’ospedale. Sa / che non è possibile. Ma è la sua sola speranza, / il desiderio di tornare indietro nel tempo. E soltanto di poco, / non fino al matrimonio, non fino al primo bacio” (Una fantasia).

L’attenzione alle reazioni di chi sopravvive al lutto (orfani, vedove) è controllata e formale, rispecchia l’atteggiamento di colei che narra in prima persona, e si è trovata a vivere più volte uguali situazioni cerimoniali. Il dolore di un individuo non trova corrispondenza nell’indifferenza degli altri: “È un anno esatto che mio padre è morto. / L’anno scorso era caldissimo. Al funerale, la gente parlava del tempo. / Com’era caldo per essere settembre. Un caldo fuori stagione. // Quest’anno, è freddo. // … Davanti alla casa, la figlia di mia sorella va in bici / come faceva l’anno scorso, // avanti e indietro sul marciapiede. Quel che vuole è / far passare il tempo” (Labour Day).

Nessun lirismo, nessuna retorica elegiaca: stilisticamente queste poesie si proibiscono anche l’addolcimento delle rime, preferendo scansioni ripetute, punteggiatura spaziante, pause ed enjambement, precisione lessicale.

In questa raccolta, differentemente da altre della Glück, non si trovano richiami alla mitologia e alla letteratura classica: fondamentale e assoluto è invece lo sguardo introspettivo tendente a universalizzare l’esperienza personale, in modo da renderla condivisibile con il lettore. Anche il paesaggio appare spersonalizzato e simbolico, puramente di sfondo alla caratterizzazione dei personaggi, che risultano sapientemente e crudamente scolpiti nell’accettazione del loro immodificabile destino, incapaci di comunicare gioia e leggerezza: “Senza rapporto con la terra”.

Nel severo resoconto di questo romanzo familiare, la secchezza emotiva ereditata da adolescente si perpetua anche negli atteggiamenti dell’scrittrice adulta (“Devo imparare / a perdonare mia madre, ora che non riesco / a risparmiare mio figlio”, “Mio figlio e io, siamo i più grandi / esperti viventi in fatto di silenzio”), confessati con analitica spietatezza poetica.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 8 maggio 2021

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GNOLI-VOLPI

ANTONIO GNOLI-FRANCO VOLPI, L’ULTIMO SCIAMANO – BOMPIANI, MILANO 2006

I due autori di questo volume pubblicato nel 2006, il giornalista Antonio Gnoli e il filosofo Franco Volpi, danno questa definizione del termine “sciamano”: un mediatore tra umano e divino, un taumaturgo guaritore dell’anima, un istrione capace di elevare all’estasi. L’ultimo sciamano sarebbe, secondo le loro indicazioni, il più grande, influente, discusso e controverso pensatore del XX secolo, Martin Heidegger. Incantatore di centinaia di studenti, maestro delle menti più illuminate del dopoguerra, dall’eloquio sobrio ma ipnotico, dalla cultura sconfinata, dalla stringente logica argomentativa. Un uomo di bassa statura, pingue, dagli occhi piccoli e furbeschi, dai modi contadini, gran seduttore di cuori femminili. Di Heidegger parlano, in questo libro, cinque personaggi che l’hanno conosciuto da vicino o attraverso gli scritti: il figliastro Hermann (storico, che ne ha curato l’opera omnia), Ernst Jünger, Hans-Georg Gadamer, Ernst Nolte, Armin Mohler: quindi, scrittori, filosofi, storici, tutti quasi centenari all’epoca delle conversazioni. Parlano del maestro con rispetto e ammirazione, ne raccontano la vita familiare, le abitudini domestiche, l’indole meditativa, soffermandosi ovviamente sui percorsi e le mete raggiunte dalla sua ricerca, e in particolare sui tanto contestati rapporti con il nazismo. In genere, tutti e cinque gli intervistati prendono le difese di Heidegger, sostenendo che nel 1933 avesse accettato il ruolo di rettore dell’Università di Friburgo propostogli dal nascente regime (e abbandonato dopo pochi mesi) per ingenuità, timore, o con l’utopia di servirsi del nazionalsocialismo per riformare in favore dell’indipendenza scientifica il farraginoso sistema accademico. Alcuni arrivano a sostenere che il suo elitarismo, il suo conservatorismo, la sua utopia nei destini di una grande Germania fosse determinata dalla volontà di opporsi al dominio delle due superpotenze, americana e sovietica, decise a massificare la società, a sacrificare la cultura in favore della tecnica. Uno studioso puro, quindi, Heidegger, quasi indifferente ai destini della Storia perché immerso nella sua personale ricerca dell’Essere. Ciò che più colpisce nelle affermazioni di questi cinque studiosi è l’assoluta semplicità con cui raccontano l’eccezionalità del periodo storico in cui hanno vissuto, ricco di personalità straordinarie che hanno forgiato la filosofia del ‘900. Erano tutti lì: Husserl, Scheler, Natorp, Hartmann, Jaspers, Hannah Arendt, Edith Stein, Jaeger, Lōwith, Leo Strauss, Horkheimer, Marcuse, Levinas, Jonas, Anders, Benjamin, Habermas, Adorno, Schmitt, Guardini, Otto… Nel bene o nel male, tutti avevano fatto riferimento al figlio del sacrestano di Messkirch, al Professore ateo ma legato alle radici cattoliche, studioso dei greci, amante della poesia, convinto difensore della natura e del ritorno alla terra, ostile al potere tecnocratico destinato a controllare le coscienze e i comportamenti individuali. Arcaico e modernissimo, restauratore e rivoluzionario, profeta e oscurantista. L’ultimo sciamano, insomma.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/L-ultimo-sciamano-Gnoli-Volpi.html          26 maggio 2018

 

 

 

 

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GOLISCH

STEFANIE GOLISCH, FERITE. STORIE DI BERLINO – EDIZIONI ENSEMBLE, ROMA 2014

«Penso che i colori e le atmosfere di una città siano inesauribili, quanto le sfumature dell’uomo che variano secondo la luce del giorno, le stagioni, gli stati d’animo del momento», così scrive nella postfazione al suo volume di racconti Stefanie Golisch, autrice tedesca trapiantata in Italia dal 1987.
Quindici storie ambientate a Berlino, città forse come nessun’altra in Europa ferita nel corpo e nell’anima da una storia di divisioni e invasioni, di persecuzioni e ricuciture: «Non si rivela facilmente questa città, anzi, diffida degli impazienti e dei fotografi amatoriali…vuole essere avvicinata lentamente, con cautela, ama farsi pregare…».

Stefanie Golisch racconta una metropoli attraverso la storia dei suoi monumenti, delle stazioni e dei giardini: ma soprattutto attraverso i volti di chi la abita, e il pedinamento di ombre che l’hanno vissuta. Quindi troviamo in queste pagine la prigione di Ploetzensee dove furono giustiziati circa tremila oppositori del nazismo («l’esistenza di un’altra Germania…perché, nelle medesime condizioni socio-politiche, un individuo si fa strumentalizzare mentre l’altro conserva la sua integrità…»); visitiamo malinconicamente il Dorotheen Friedhof, dove sono sepolti Hegel, Fichte, Brecht; respiriamo «il clima cupo e minaccioso» di stanze sorvegliate dalla Stasi; riviviamo il drammatico suicidio di von Kleist sulle sponde del Wannsee. La Berlino che non c’è più, abitata da stravaganti pittrici, misteriose poetesse e generosi teatranti, si confonde con la Berlino efficiente della finanza, e con lo squallore disperato in cui si nascondono i senzatetto, «nel ventre della grande città, che dondola egualmente gli sporchi e i puliti, gli ubriachi e i sobri, i vinti e in vincitori; essa ha bisogno di noi, siamo noi il suo nutrimento quotidiano, il suo mosaico umano, il suo grandioso affresco, il suo Totentanz, la sua esuberante festa di primavera». Stefanie Golisch cerca di farla rivivere nonostante le sue ferite.

«Leggere Donna» n.165, ottobre 2014

RECENSIONI

GOMBRICH

ERNST GOMBRICH, ARTE E PROGRESSO – LATERZA, BARI 2008

Ad apertura di questo volume, che raccoglie due conferenze del 1971, Ernst Gombrich scrive : “Oggi la fede nel progresso è in piena crisi”. Bisogna essere sempre “assolutamente moderni”, come raccomandava Rimbaud? Nella scienza, nella tecnica, nella morale e nell’arte? Gombrich afferma coraggiosamente, nell’ultima pagina del testo: “Anche se non possiamo metterci dalla parte della menzogna, abbiamo però il diritto di discutere e di mettere in questione le finalità di un determinato progetto scientifico o di una innovazione tecnica. Ci siamo finalmente resi conto di non essere le marionette passive di una evoluzione inarrestabile e che non è affatto necessario fare qualcosa solo perché esiste la possibilità di farlo. Là dove queste possibilità entrano in conflitto con i nostri valori, dobbiamo essere in grado di dire ‘no’ con tutta tranquillità”. Una conclusione forte, di grande rilievo etico e politico, fatta più di quarant’anni fa, e che mantiene tuttora una sua straordinaria originalità e veemenza. Ovviamente, la necessità di indagare senza conformismi sul significato di progresso ha una sua ricaduta anche nel campo della critica d’arte, più pertinente alla riflessione di Gombrich. Nel suo mirino polemico sono quelle interpretazioni dell’arte (da Vasari a Winkelmann) che indicano come sua essenza il conseguimento della bellezza ideale, in una “crescita organica” che la porterebbe da stadi espressivi più rozzi verso la purezza e l’eleganza della classicità, ottenuta la quale (nell’arte greca del V secolo, o nel Rinascimento italiano) si ricadrebbe nel declino, nella restaurazione o nell’imitazione. Gombrich afferma qualcosa che può parere scontato: “la perfetta bellezza non rappresenta l’unico valore”; opere sublimi possono venire create anche al di fuori dei canoni classici. E’ assurdo pensare l’arte in preda a una “continua smania di superamento”, essendo ogni artista interprete di se stesso e del suo periodo storico.

IBS, 29 maggio 2013

RECENSIONI

GOV

ANAT GOV, OH DIO MIO! – GIUNTINA, FIRENZE 2016

Una delle più interessanti drammaturghe israeliane, Anat Gov (1953-2012) portò sulle scene nel 2008 Oh Dio mio!, questo testo teatrale ironico, paradossale, inquietante che ora l’editore Giuntina ha riproposto, riscuotendo interesse e successo di vendite. Protagonista è Ella, psicologa e madre single di un ragazzino autistico, che riceve su appuntamento i suoi clienti, sviscerandone e curandone turbe e complessi secondo un tariffario di un certo spessore.

Interpellata telefonicamente da un misterioso e angosciato signor D., accetta di riceverlo con urgenza, e si trova davanti a un omone incappottato, sussiegoso e imponente, che esita a darle informazioni su di sé. Afferma dopo incalzanti pressioni da parte della psicanalista di avere 5766 anni, di essere artista e famoso, orfano dalla nascita e in preda a una secolare depressione: conosce presente-passato-futuro di Ella, sa tutto delle sue difficoltà familiari, sa che è atea, laica e femminista. Pare l’abbia scelta per questo.
Lui è Dio. E pretende di essere aiutato da lei, in un’ora di terapia, a guarire la sua incolmabile tristezza, la sua rabbia secolare, la delusione nei confronti del mondo.
Il dialogo serrato e divertente che si svolge tra i due induce non solo a un sorriso più amaro che rasserenato, ma anche a molte riflessioni.
Il signor D. scoppia a piangere, rivela il suo desiderio di morire, di non essere più l’Onnipotente, e acconsente a ripercorrere sotto la guida di Ella una sorta di anamnesi del suo male oscuro. “Non sento più niente. Non voglio niente. Non mi aspetto niente. Niente mi interessa, non mi curo di niente”.

All’inizio della creazione, Dio era stato preso da un entusiasmo e da un’esaltazione euforica: inventare il sole, la prima alba, la luna, gli alberi, la coccinella (e anche le zanzare!) l’aveva riempito di incredibile gioia e di orgogliosa soddisfazione. Ma avrebbe dovuto fermarsi al quinto giorno, perché la balzana idea di dare vita all’uomo – di venerdì! – finì inevitabilmente per distruggere la sua pace. “Che scemo, idiota, fesso, babbeo, imbecille! Che mondo meraviglioso era finché non siete arrivati voi. Un vasto, tranquillo parco safari”.

Con la sagacia puntuta della migliore tradizione yiddish, Anat Gov conduce il confronto tra analista e paziente rivisitando sia il talmud sia gli insegnamenti freudiani, rileggendo ironicamente la Genesi (il tradimento di Adamo, il fratricidio di Caino, l’ubriacatura di Noè…), e poi l’Esodo con i dieci comandamenti, e il libro di Giobbe, per portare a galla le paure di Dio: in primo luogo il suo sentirsi abbandonato, solo, dimenticato da un genere umano ingrato e indifferente. In questo l’autrice si fa eco delle più recenti tesi teologiche, che ripropongono un Dio impotente di fronte al male, un dio che patisce e com-patisce, più vicino alla terra che alle sfere celesti. Ma lo fa sogghignando, un po’ sadicamente, soprattutto quando mette in bocca alla psicanalista una dura requisitoria contro la crudeltà divina nei confronti dell’umanità, e in particolare del popolo eletto: solo riscoprendo in se stesso la propria fragilità, solo umanizzandosi e riconoscendo le sue angosce, la sua sete d’amore, i suoi sensi di colpa, il Padre Eterno potrebbe guarire, e recuperare un rapporto positivo con le sue creature.
Il finale buonista, che si apre a un miracolo insperato – con il signor D. che esce di scena rappacificato e Ella più vacillante nel suo ateismo, ma professionalmente vittoriosa – cede un po’ della sua verve scoppiettante e ironica: continuando tuttavia a pungolare il lettore con interrogativi coinvolgenti.

 

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www.sololibri.net/Oh-Dio-mio-Anat-Gov.html     30 agosto 2016

RECENSIONI

GOZZANO

GUIDO GOZZANO, I COLLOQUI – INTERNO POESIA, LATIANO (BR) 2020

L’abbiamo amato un po’ tutti, imbattendoci nelle sue poesie sull’antologia dell’ultimo anno di liceo. Così lontano dal roboante Carducci, dall’intenerito Pascoli, dal superbo D’Annunzio, e invece così inaspettatamente vicino alla nostra sensibilità di ansiosi e mordaci adolescenti. Arrivava lui, avvocatino piemontese consumato dalla tisi, beffardo e commosso, malinconico e ilare, sentimentale e prosastico. Con i suoi amori ancillari, l’estenuata sensualità, le signorine quasi brutte, gli eleganti caffè cittadini, le passeggiate in collina.

Ecco quindi che la riedizione de I Colloqui gozzaniani da parte dell’editore pugliese Interno Poesia offre ai lettori in primo luogo la possibilità di un recupero dalle memorie giovanili di un poeta ancora suscettibile di nuove interpretazioni, e secondariamente il piacere di venire avviati in questa riscoperta dall’introduzione acutamente empatica di un altro poeta, Alessandro Fo. Nella nota iniziale, Fo definisce le sue “affettuose linee di accompagnamento” ai versi di Guido Gozzano come “un’innamorata flânerie”, libera da eccessive preoccupazioni critiche testuali. E in effetti la sua presentazione non risulta solo puntualmente concentrata, ma soprattutto vicina a una premura immedesimante, nella volontà di comprensione mimetica delle intenzioni affettive e letterarie dell’autore commentato.

Ma c’è un rifugio? Un tentato colloquio con «Guido Gozzano», si intitola con corretta perspicacia la prefazione di Fo, che subito mette in luce quali siano stati i due binari su cui ha viaggiato la lirica gozzaniana: amore e morte, entrambe illusorie tentatrici, entrambe infedeli adescatrici: “…reduce dall’Amore e dalla Morte / gli hanno mentito le due cose belle…”

L’amore, quindi, anzi l’Amore con la maiuscola, proposito-aspirazione-meta da raggiungere, che sempre si è rivelato ingannevole e deludente per la “cosa vivente detta guidogozzano”: amore rincorso, tradito, infine schernito con irridente autoironia (“Amore no! Amore no! Non seppi / il vero Amor per cui si ride e piange: / Amore non mi tanse e non mi tange; / invan m’offersi alle catene e ai ceppi”, “Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state…”, “Ah! Se potessi amare! Ah! Se potessi / amare, canterei sì novamente! Ma l’anima corrosa / sogghigna nelle sue gelide sere… / Amanti! Miserere, / miserere di questa mia giocosa / aridità larvata di chimere!”, “Egli sognò per anni l’Amore che non venne”). Al sentimento amoroso Gozzano sembrava avvicinarsi con timore e desiderio, con sospetto e sarcasmo, confessando sia la sua tormentosa sensualità, sia i suoi infidi corteggiamenti, con i conseguenti rimorsi di seduttore impenitente: “Avevo un cattivo sorriso: / eppure non sono cattivo, / non sono cattivo, se qui / mi piange nel cuore disfatto / la voce: «Che male t’ho fatto / o Guido per farmi così?»”, “Un mio gioco di sillabe t’illuse. Tu verrai nella mia casa deserta: lo stuolo accrescerai delle deluse. // … Sotto il verso che sai, tenero e gaio, arido è il cuore, stridulo di scherno”.

Inventandosi uno sminuito e fallimentare alter-ego nella figura di Totò Merumeni (“tempra sdegnosa, / molta cultura e gusto in opere d’inchiostro, / scarso cervello, scarsa morale, spaventosa / chiaroveggenza… // … Egli sognò per anni l’Amore che non venne, / sognò pel suo martirio attrici e principesse, / ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne”), Gozzano accarezzava languidamente l’idea della morte: “Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta. / E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà”.

Appunto “la Signora vestita di nulla”, “l’Eguagliatrice”, assediava il pensiero presago del giovane poeta malato (Torino, 1883-1919): “Respinto dalla Vita, Guido ha corteggiato la Morte, o piuttosto ne è stato corteggiato”, commenta Alessandro Fo. Scisso tra tenerezza e corporeità, cielo e terra, vita e fine della vita, Gozzano trovò nella poesia la via del rifugio (come recita il titolo della sua prima raccolta del 1907): l’unica dama con cui poter instaurare un colloquio sincero, rigenerando nei versi ogni malinconico pessimismo.

La “fede letteraria” di cui spesso minimizzava il valore (“Musa maldestra”, “arte fatta di parole”, “pochi giochi di sillaba e di rima”, “vender parolette”), lo induceva a osare accostamenti sonori provocatori (Nietzsche/camicie, edifici/dentifrici, yacht/cocottes), e a burlarsi delle proprie ambizioni artistiche: “Buon Dio, e puro conserva / questo mio stile che pare / lo stile d’uno scolare / corretto un po’ da una serva”. In realtà, questo programmato e proclamato porsi dei limiti culturali, restringersi in una quotidianità piccolo-borghese – celebrando “la semplice vita” fatta di affetti modesti, ambienti dall’ “arredo squallido e severo”, frequentazioni rassicuranti –, non era studiata dissimulazione, né compiaciuto scetticismo. Piuttosto, con la schietta familiarità e l’indulgente sottigliezza del suo sguardo sul mondo, Guido Gozzano seppe introdurre nel panorama letterario italiano temi e tonalità lontani dalla retorica del sublime, dell’esotico, del patetico.

Il volume edito da Interno Poesia propone a un prezzo conveniente, oltre a I colloqui, una scelta delle poesie più famose, un ricco apparato di note e un’accurata ricostruzione biobibliografica.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 27 novembre 2020

 

 

 

RECENSIONI

GRACQ

JULIEN GRACQ, ACQUE STRETTE ‒ L’ORMA, ROMA 2018

Trascurato da noi, ma celebrato in patria (tradotto in una trentina di lingue, e pubblicato ancora in vita nella Bibliothèque de la Pléiade) Julien Gracq negli ultimi anni è stato meritoriamente riproposto ai lettori italiani dalle giovani ed eleganti edizioni romane de L’orma.   Nato in una cittadina della Loira nel 1910, dopo la laurea si iscrisse al Partito Comunista Francese, e nel corso della seconda guerra mondiale partecipò alla battaglia di Dunkerque, finendo imprigionato in Slesia per più di un anno. Tornato alla vita civile, si dedicò all’insegnamento nei licei parigini. Fortemente influenzato dal surrealismo, e refrattario alla letteratura d’impegno esistenzialista, rifiutò il Premio Goncourt assegnato nel 1951 al suo romanzo La rivage des Syrtes, in polemica con la scena culturale francese. Scrisse di teatro, di poesia e di critica, ma il suo nome rimane legato alla produzione narrativa, segnata da una profonda sensibilità simbolica e metafisica, ricca di riferimenti culturali lontani dalle ideologie contemporanee, stilisticamente raffinata e rigorosa. Morì novantasettenne nel 2007 ad Angers, nella regione nativa dove si era ritirato dopo il pensionamento.

Acque strette (1976) è il resoconto di un’escursione in barca sull’Evre, affluente della Loira. Una gita priva di avvenimenti o novità esteriori, che l’autore ha più volte ripetuto nel corso degli anni, senza attendersi particolari sorprese o rivelazioni, ma abbandonandosi sempre al piacere gratuito delle associazioni mentali, delle fantasticherie, delle memorie letterarie.

«Per quale motivo si è presto radicata in me la sensazione che, se soltanto il viaggio – il viaggio che non preveda l’idea di un ritorno – è in grado di aprirci le porte e cambiarci davvero l’esistenza, un altro tipo di sortilegio, più nascosto, come originato da una bacchetta magica, si leghi invece alla passeggiata prediletta fra tutte, all’escursione senza avventure né imprevisti che dopo poche ore ci riconduce all’attracco da cui partimmo, alla cinta familiare di casa?» Una passeggiata, quindi, un’immersione nell’ambiente e nel paesaggio come ne abbiamo lette altre nella letteratura mondiale: da Petrarca a Rousseau, da Schiller a Stendhal, da Nerval a Thoureau, da Walser a Benjamin, da Handke ai nostri Dino Campana e Gianni Rodari.  Non un viaggio iniziatico,  non la scoperta dell’ignoto o la sfida ai propri limiti materiali: piuttosto un dialogo sommesso con l’interiorità, il recupero visionario di ricordi e sensazioni legate al passato e innescate da rievocazioni di pagine amate.

In una prosa elegante, ricercata, sinuosa, a tratti compiaciuta di sé, quasi l’autore amasse ascoltare la propria voce confusa con lo sciacquio delle acque dell’Evre, siamo invitati ad abbandonarci alla sua sapiente guida in territori più familiari che esotici, e forse per questo più affascinanti. La narrazione della placida navigazione sul fiume riattiva in Gracq, come la madeleine proustiana, odori e sapori adolescenziali, e immagini di scampagnate domenicali (i tuffi, la pesca, i picnic sull’erba) in compagnia di vocianti coetanei, tra gli argini verdeggianti di frassini, pioppi, castagni e salici.
«Ci si imbarcava – lo si fa tuttora, immagino – ai piedi di una scalinata d’assi che ruzzolava per l’alta sponda argillosa; un intreccio di ramature incombeva sopra lo stretto canale d’acqua nera; si scivolava a un tratto in una zona di silenzio sottile, quasi in allerta, amico dell’acqua quanto la foschia, rotto soltanto dal piatto e liquido sgocciolare della pale sospese dei remi». Lo scafo era uno «scalcinato burchiello centenario, un barchino traballante, tarlato, scatramato, a volte anche privo di timone», scivolante sulla lenta corrente come il cigno del Lohengrin in un percorso «sovrannaturale», «attirato da una calamita invisibile». Il percorso sull’Evre, illustrato anche graficamente nel volume, si snoda dall’ormeggio presso il Mulino di Coulènes, affiancando il Castello della Guérinière fino al Ponte di pietra e alla Cattedrale du Marillais, in un itinerario che nasconde in sé qualcosa di magico, poiché del corso d’acqua non si raggiunge né la fonte né la foce, nascoste da cataste di sassi o vegetazione impenetrabile.

L’esperienza estetica vissuta da Gracq nel suo viaggio acquatico assume sfumature quasi di estasi mistica, attraverso l’immersione a volte lucente a volte tenebrosa nel silenzio, nella solitudine, nei colori della natura intorno, quasi il tempo sospendesse la sua corsa inclemente: «In queste lande non coltivate, senza memoria né sentieri, non vengo a cercare una qualche traccia di leggenda; piuttosto, a farsi leggenda, anonima e nebbiosa, è la vita stessa, che si scrolla di dosso gli ancoraggi e i riferimenti consueti». Il vagare della mente e della memoria in assoluta libertà associativa predispone un’emozionante esperienza affettiva, quando si sofferma su visi e parole amate, e sui versi, le descrizioni e le musiche che hanno nutrito le «costellazioni fisse» della formazione dell’autore: Nerval, Rimbaud, Balzac, Poe, Valery, Wagner, astri numinosi del suo percorso artistico.

È pura poesia, quella percepita in un cortocircuito emotivo che produce energia spirituale, resuscitando «fantasmi addormentati» capaci di far riaccadere tutto il vissuto: «le care e  a lungo oscurate immagini – tutte le immagini – si infiammano e si riaccendono l’un l’altra; un tracciato pirotecnico zigzaga come un lampo attraverso il mondo assopito, ne segue le segrete fenditure, gli spigoli, le crepe, tutte la fratture che, anno dopo anno – da un’esperienza all’altra, da una lettura all’altra, da un incontro fondamentale all’altro ‒ l’hanno solcato per me rendendolo irrimediabilmente mio. È questa la virtù dell’unico, vero, ritrovato contatto con ciò che un tempo mi ha in qualche maniera avvinto, rapito: rianimare, risvegliare e congiungere attraverso un percorso di fulmine tutto ciò che ho mai amato». Poesia dell’occhio e dell’anima, miracolo inspiegabile su cui nessuna interpretazione critica, nessuna analisi filologica e semiologica può gettare alcuna luce,  se presume di limitare il valore del testo a puri meccanismi di costruzione linguistica, quando invece ciò che vediamo, sentiamo e leggiamo genera «una sorta di tranquilla eccedenza; niente più di quanto può pacificamente traboccare dopo essersi riempiti di una giornata senza nubi».

Un plauso agli editori de L’orma, che ci regalano libri importanti e sapientemente curati, belli tutti, dalle copertine alla grafica, e un elogio alla traduzione sensibile e intelligente di Lorenzo Flabbi.

 

© Riproduzione riservata                           «Il Pickwick», 19 novembre 2018

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