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RECENSIONI

ANDERS

GÜNTHER ANDERS, L’ODIO È ANTIQUATO – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2006

L’odio è antiquato, non ha più alcun senso e utilità nel mondo contemporaneo dominato dalla tecnocrazia e “dalle leggi asettiche e fredde della coppia produzione-consumo”. E’ antiquato come l’amore e ogni sentimento semplicemente umano, divenuto superfluo per la sua non sfruttabilità. In questo acuto, intransigente e disperato libro, commentato intelligentemente da Sergio Fabian, Gūnther Anders (1902-1992), filosofo ebreo radicale e pensatore fuori dagli schemi, analizza questa antica disposizione dell’anima a partire dalla sua definizione: “L’odio è … l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro”. Nel momento in cui però l’altro non viene più conosciuto, è insieme troppo prossimo e vicino, e assolutamente distante e indistinguibile, ecco che l’odio perde ogni giustificazione. La guerra non viene più combattuta corpo a corpo, in un faccia a faccia crudele e sanguinario col nemico, bensì manovrando strumenti asettici, schiacciando innocentemente bottoni da una qualsiasi sala operativa, come fa l’operaio alla catena di montaggio, che rimane ignaro e inconsapevole del prodotto finale a cui lavora: così i soldati di oggi possono sterminare milioni di vite senza provare alcun odio, senza conoscere le loro vittime e il motivo reale per cui uccidono. Il nemico diventa succedaneo, interscambiabile, indotto da un potere per motivi per lo più inconfessabili, “con la demonizzazione di un qualche tipo, di un gruppo, preferibilmente di una minoranza inerme”: può essere l’ebreo, come il vietnamita o l’iracheno. L’odio si concretizza come ubbidienza a un canone interpretativo della realtà, nei confronti del “diverso esistenziale”, ma non ha più un oggetto concreto contro cui indirizzarsi, è smisurato e indifferenziato, astratto e reificato. Il Filosofo nel dibattito con il Presidente l’ha ben compreso: “Perché l’onestà percepisce la bassezza. Ma non il contrario”.

 

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www.sololibri.net/L-odio-e-antiquato-Anders.html       13 agosto 2017

RECENSIONI

ANDREIS

DANIELA ANDREIS, AESTELLA, – INCERTI, LEGNAGO 2011

Un piccolo, elegante libro di Daniela Andreis, giornalista veronese, pubblicato dalla giovane e raffinata casa editrice Incertieditori. Si tratta di 24 brevi lettere d’amore, spedite a un amore lontano, a una Aestella che riluce attraverso la lente di un sentimento forte e delicato insieme, pudico e appassionato. Lettere, appunto, inviate e ricevute per posta, con la magia sospesa dell’attesa, di cui si scruta ansiosamente l’arrivo («la mano che le prenderà … girerà dove è scritto l’indirizzo per vedere se è il tuo nome quel nome»), che si fiutano per assaporarne il profumo («l’odore stagionale»), che si indagano in ogni riga e spazio bianco. Di chi le scrive sappiamo che vive al terzo piano di un condominio dove «nessuno conosce nessuno», gli inquilini si evitano o comunicano tra loro attraverso messaggi lasciati nella cassetta postale: sappiamo che vive in un tempo e in uno spazio «siderale», bloccata in un «addiaccio» di paure e estraneità, e che sembra esistere solo in funzione di questo stregato e coinvolgente epistolario amoroso: «ti dico più cose di quelle che vivo…attraverso di te vivo due volte…mi sento relegata in questo spazio siderale come una recluta, una scorta che attende perennemente che venga il suo turno per starti vicino e intanto tiene in ordine la divisa e si lucida le scarpe».

Di chi riceve le lettere sappiamo ancora meno: che è una persona bella, silenziosa, ha «una bocca di vetro infrangibile». Ma a lei si raccontano giorni e minuti, visite ai mercati di roba vecchia, paure e nostalgie, con similitudini e metafore che hanno la grazia e la perfetta evidenza della verità: «Tutto questo mi dà alla testa; provo l’euforia dell’evaso che pur di vivere la fuga, scritta a lungo nel suo cuore, espone la schiena allo sparo». A chi si ama si chiede una cosa sola: «pochi minuti immemori di felicità indimenticabile», che possono essere vissuti anche leggendo o scrivendo lettere d’amore, in un linguaggio espresso «come minuscole onde dentro un bicchiere, o piccoli strappi sulla stoffa…ad un ritmo così lento, così implacabilmente lento, di foglie che cadono senza vento»».

 

«Leggendaria» n.96, novembre 2012

RECENSIONI

ANDREOLI

VITTORINO ANDREOLI, LETTERA A UN VECCHIO – SOLFERINO, MILANO 2023

Lo scorso anno Papa Francesco ha raccolto nel volume La vita lunga diciotto catechesi dedicate al senso e al valore della vecchiaia, da considerare non tanto un peso quanto “una benedizione per la società”. Anche Enzo Bianchi nel 2018 aveva pubblicato sullo stesso tema La vita e i giorni, seguendo le tracce di una lunga tradizione culturale, che dal De Senectute ciceroniano alle esortazioni di Schopenhauer, mette in luce gli aspetti positivi dell’anzianità.

Nello stesso solco di rivalutazione dell’età avanzata si situa l’ultimo volume dello psichiatra Vittorino Andreoli, Lettera a un vecchio, che utilizza il collaudato espediente letterario della comunicazione epistolare aprendo il testo con un “Carissimo”, e concludendolo con “Un abbraccio commosso”, nella volontà di sottolineare non solo una solidale partecipazione nei riguardi dei suoi coetanei (già dal sottotitolo “Da parte di un vecchio”), ma pure il diritto di affrontare l’argomento con cognizione di causa, dal di dentro, nella condivisione delle stesse ansie, malinconie e speranze di chi si trova a percorrere il viale del tramonto.

In disaccordo con la cruda animosità delle tesi espresse dal filosofo Jean Améry in Rivolta e rassegnazione sull’avvilimento del declino senile, nel prologo Andreoli afferma orgogliosamente e ottimisticamente: “Sono un vecchio, contento di esserlo, e con la speranza di continuare a esserlo ancora per un lungo tempo”, convinto che invecchiare sia di per sé un grande privilegio, rispetto al concludere prematuramente l’esistenza, e che la durata della vita dipenda anche, sebbene non solo, dalla voglia di vivere, dal desiderio di affrontare ogni giornata con positività, dinamismo e apertura al nuovo.

Chi è vissuto a lungo ha avuto l’opportunità di sperimentare una storia personale e collettiva composita, ricca, talvolta problematica e sofferta, comunque piena di avvenimenti, incontri, insegnamenti offerti e ricevuti, da poter rivisitare e ripensare con soddisfazione: “Se non devi correre nelle strade del mondo, va’ in pellegrinaggio sui sentieri tracciati nel tuo passato”. È opportuno recuperare memorie di cui essere fieri, mettendole a disposizione dei più giovani, per arricchirne l’esperienza, piantando alberi per chi verrà, come suggeriva Schopenhauer quando scriveva “il polline raccolto va condensato in miele”.

Andreoli ammette di aver vissuto giovinezza e maturità “di corsa, freneticamente”, ma ora, superata la soglia degli ottant’anni, è grato di poter dedicare più tempo a sé stesso e alla riflessione, senza l’impellente esigenza di produrre risultati in termini di successo intellettuale ed economico, avendo allentato il controllo sul mondo e sulle cose, con “un minore condizionamento dei «doveri» sociali” e con il distacco dall’ossessione del denaro.

Invecchiare è un’arte, e da medico prima ancora che da psichiatra, l’autore offre indicazioni basilari su come avanzare nell’età in maniera sana ed efficace: controllando l’alimentazione, facendo movimento, nutrendo interessi culturali, esercitando la memoria, mantenendo rapporti affettivi e amicali anche transgenerazionali. Se si evita l’imperativo giovanilista di rincorrere, in maniera spesso ridicola, atteggiamenti da teenagers (capelli tinti, lifting, abbigliamento vistoso e seduttivo, ore di palestra sfiancanti, viagra a gogo) si può godere con saggezza e tranquillità di relazioni valorizzanti, di una sessualità più intenerita e meno aggressiva, di relazioni fondate sulla reciproca e gratuita cordialità.

Il pensionamento senz’altro per molte persone rimane un trauma, intensifica il senso di inadeguatezza e abbandono, ma alla deprivazione e depressione ci si deve opporre conservando acceso il desiderio di emozioni e sentimenti vitali. Accettare la propria fragilità fisica, le proprie debolezze caratteriali e intellettive, non indica rassegnazione o sfiducia, ma il riconoscimento della inevitabile trasformazione del proprio esser-ci. Se gli anziani spesso dimenticano nomi, oggetti, azioni compiute nel quotidiano, godono tuttavia dell’importante prerogativa di ricordare e rivalutare il vissuto, a cui danno un significato emotivo più profondo. In loro cambia soprattutto la percezione del tempo, essendosi radicalmente modificato lo spazio del futuro a disposizione rispetto al passato trascorso. Si trascorre più tempo in solitudine, ma questo offre la possibilità di non disperdersi nella nevrosi di rapporti imposti, illusori o poco sinceri, e di approfondire argomenti trascurati, come il rapporto con la fede, la politica, la scienza, le grandi questioni sociali. In tal senso, è utile approfittare il più possibile delle incredibili opportunità fornite da internet, evitando involuzioni del pensiero come l’egoismo, il sospetto, l’irrigidimento e l’indifferenza.

Alla fine della sua indagine, Vittorino Andreoli affronta il problema del rapporto tra la vecchiaia e la morte, avvenimento ineludibile della condizione umana, da accettare indipendentemente da qualsiasi credenza nell’immortalità o nella reincarnazione.

Il problema non è di eliminare la morte, ma di spostarla nel tempo, attivando tutte le risorse residue per continuare a stare nel mondo, con una sensazione di bene-essere, e accettando poi di finire come finisce qualsiasi cosa, lasciando che la vita si perpetui in altri e altro da noi.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 12 gennaio 2023

 

 

RECENSIONI

ANEDDA

ANTONELLA ANEDDA, SALVA CON NOME – MONDADORI, MILANO 2012

L’ultimo libro di Antonella Anedda si compone di versi, brevi prose e fotografie. Foto in bianco e nero: ritratti antichi di familiari, cornici vuote, abitazioni diroccate, scale di legno che si intersecano minacciose, rubinetti in vasche da bagno (acqua pulita che si versa in acqua scura, sporca). Immagini allusive e inquietanti, come quelle che riproducono le forbicine da unghie su un lenzuolo, o l’ago infilzato in una pence. Stranamente, l’idea del taglio, della cesura fredda, del troncamento reciso, quindi della separazione netta e crudele, ripercorre costante tutta la raccolta: spada, acciaio, ferro, falce, ferita, forchetta, lamiera, carta vetrata, spina, osso affilato, cesoie, sbarre, coltelli, sono gli oggetti più presenti e assedianti, nella loro asettica nudità, l’immaginario di questa poesia. Quasi uno strumento di autocontrollo, di vivisezione e analitica severità : «Servono aghi e forbici. Serve precisione», «la precisione con cui la morte / ci tagliava via uno dall’altro». E a questo bisogno (o timore) di disciplinata spietatezza fa da contraltare un’atmosfera pervasiva di vapori sospesi, di sogni fluttuanti, di nuvole e soffi d’aria. Il fenomeno meteorologico più descritto è infatti il vento, il colore più diffuso il bianco (negli esterni e negli interni impersonali: bagni, cucine, tavoli. «Eccoli nel freddo. La pelle nuda sfiora il lavabo. / Tutto è bianco. La felce sulla vasca trema nel vapore». «Impara la solitudine tra le mattonelle del bagno. / Il silenzio è uno smalto»). Appunto il silenzio, proprio come impossibilità di comunicare, minaccia di morte, sacrificio, aleggia imperturbato ma anche salvifico tra questi versi: «Tacciono. Pensano cose distanti. / Anche noi ammutoliamo.» E fa paura, spaventa, allontana da tutte le presenze avvertite come pericolo: «quanti diversi tipi di tremore siamo costretti a imparare», «la mia paura è una piccola macchia… / il male non si espande ma si addensa», «Siamo mortali, mortalmente spaventati / tremiamo come volpi e cani».
Il lettore scopre di poesia in poesia continui rimandi di senso, richiami di parvenze appartenenti alla memoria, a un passato ingombrante e ancora incombente, a incubi ricorrenti di morte, violenza e vendette (persino gli animali citati sono inquietanti: «volpi, linci e lupi»). Ma è come se l’autrice pretendesse dalla sua scrittura una riscoperta di significato a cui aggrapparsi, a cui chiedere una verità definitiva. Allora torna al paesaggio e alla lingua di una sua Sardegna ancestrale, torna a ricordi mai archiviati di un’infanzia turbata (malattie, abitazioni, parentele), nell’accettazione di un’eredità di sentimenti ricattanti, da cui si vorrebbe liberare e in cui tuttavia riconoscersi: «Fai un solo miracolo: che smettano le vite di addensarsi / su questa striscia che chiamo la mia vita. / Lasciami libera da me – dunque da loro – di cui conosco i nomi / e le separazioni».
Proprio i nomi rivelano la loro ambigua, duplice vocazione nell’inchiodare le esistenze ai propri destini, nella volontà sopraffattrice delle loro definizioni: «Ricevere un nome è la prima prova che siamo in balia degli altri». Quindi spetta al poeta questo compito difficile, di ritrovarsi nella sua storia e nella storia di tutti (e il rapporto per eccellenza è ovviamente quello, temuto e riflesso, con la madre), di recuperarne la memoria, e di salvarla in un racconto che la perpetui per sempre.
E’ l’unica eternità che Antonella Anedda concede a se stessa; tramontato infatti ogni dio («Ormai certi che l’anima è mortale / e il corpo solo astuto / e la coscienza un’invenzione»), la sola salvezza può venire dal ricordo, da una tenerezza, da una complice e inaspettata tregua nel male: «Creature senza creatore in cammino da ere / fino al gesto in cui una, toccando l’altra, la consola».
Così qualsiasi prosa, nella vita concreta e nella letteratura, può e deve venire addolcita dalla poesia: ne è esemplificativo il fatto che in un breve, prezioso testo narrativo del volume, le frasi più incisive siano raccontate in endecasillabi («Lascio che si accumuli la polvere», «Mi oppongo a questa inutile fatica»). Quindi proprio alla poesia va demandato il dovere di aiutare la vita a sopportarsi, a consolarsi, a illuminarsi, dandole un nome che la salvi: «Benvenute luci. / Scrostate piano la notte . / Costruite il mattino. / Ecco acqua distenditi».

 

«Atelier» n.66,  giugno 2012

RECENSIONI

ANEDDA

ANTONELLA ANEDDA, TRE STAZIONI – LIETOCOLLE, FALOPPIO 1996

Per le eleganti edizioni di Lietocolle, è uscita in questi giorni una plaquette di Antonella Anedda, Tre stazioni, che raccoglie, scandite appunto in tre tempi, riflessioni (o aforismi, o brevi pezzi di prosa d’arte, o illuminazioni, o meditazioni: come insomma ciascun lettore decida di chiamare queste poche pagine), contrappuntate di suggestive immagini fotografiche.

Anedda è ottima poetessa, che predilige toni densi e una forte tensione emotiva, quasi che ogni parola andasse scavata e incisa, prima di farsi visione, nella sofferenza stessa dell’essere, dell’esserci. Le sue “stazioni” sembrano rifarsi proprio alle stazioni, contrite e gravide di ogni colpa del mondo, di una Via Crucis universale, in cui crocefissa è, più che il Cristo, l’umanità stessa, vittima sacrificale, agnello predestinato a immolarsi di fronte a un male cosmico, eterno e indistruttibile. Data questa premessa, è evidente che a un io personale l’autrice antepone il noi collettivo, perché questa dimensione metafisica – più che sociale o storica -, del dolore, investe tutto e tutti, ogni materia creata.La nostra condanna è comunque anche la nostra salvezza, il soffrire è ciò che ci libera e santifica: a benedirci sarà una “scure pesante”, a vincere sarà “la povertà della roccia”, la rinuncia mite, la schiena piegata sotto il peso dei peccati umani. Il topos dell’innocente che paga per tutti, di colui che si danna per salvare altri, trova una sua espressione in Francesco, nel Gesù del Getsemani, nell’asino da soma e in chi si fa sapientemente vittima per vincere spiritualmente il male attraverso la propria sconfitta fisica, materiale.

Ecco allora che tutto risponde a un dualismo (morte-vita, peccato-redenzione, offesa-perdono, violenza-dolcezza): da una parte c’è il rancore, la colpa, la paura, la fuga. Dall’altra “la grazia di un punto scuro e perfetto”, intesa come capacità di resistere al male (non compierlo, non accoglierlo, dilazionarlo nel tempo, scegliere “la lentezza che può salvare una vita”). Tuttavia, basta? Basta “non fare” per salvarsi e salvare il mondo? Non è anche la rinuncia, l’astensione, “l’illusione di ogni viltà”?

“Farsi mangiare per ultimi” è “un’astuzia inutile”, se tanto a vincere comunque è il male. Antonella Anedda sembra ripercorrere, ma con meno ottimismo, la via indicata da Bonhoeffer, scissa tra resistenza e resa. Con la speranza che la vittoria del male non sia eterna, ma venga condannata dal suo stesso limitarsi nella dimensione del tempo: “Perché è vero: il bene è profondo, ma il bene è fragile. A differenza del male sfuma lentamente tra i secoli, a differenza del male ha nostalgia anche di una sola creatura”. E che sia questa sola creatura, umilissima e “in bilico”, a riuscire a sconfiggere la sofferenza, ce lo auguriamo in molti, se lo augura l’autrice che ci ridà in alcune righe la stessa ansia di redenzione, di perdono e salvezza che abbiamo imparato a conoscere nelle preghiere dei primi cristiani, o in penetranti pagine di mistica.

 

© Riproduzione riservata                «Il Manifesto», 16 gennaio 1997

RECENSIONI

ANEDDA

ANTONELLA ANEDDA, NOMI DISTANTI – EMPIRIA, ROMA 2006

Antonella Anedda è poeta, critico letterario, traduttrice che non ama le amplificazioni, e il suo tratto distintivo nella scrittura sembra essere invece la delicatezza, la leggerezza con cui si avvicina alla pagina. Aborrendo l’enfasi, l’irruenza, non riconoscendosi nell’ironia o nei calembour linguistici, la sua prima esigenza è etica: il confronto con la parola, lo scavo, l’approfondimento che tuttavia non violenti, non coercizzi in alcun modo il testo. Nomi distanti raccoglie “non esattamente versioni, non esercizi, non variazioni. Libere versioni? … Risposte da lontano”. Echi di poeti amici, ascoltati in silenzio, per recuperare e rendere “l’essenziale di ciò che sembra inesprimibile”.

Se la traduzione è insieme la più umile e la più presuntuosa delle arti, Anedda cerca per sé un nuovo ambito e ruolo, “una terza voce in un terzo spazio”, tra l’originale del poeta e il contraffatto per eccesso di fedeltà del traduttore. Prendendo l’avvio da un verso, anzi dall’emozione provocata dal verso di un poeta lontano nello spazio e nel tempo, vicinissimo nel pensiero, l’autrice ricrea un suo universo di suoni e immagini; risponde a un richiamo imperioso, lascia che in sé transiti e fermenti, e infine si esprima in una sua autonoma e individuale voce.

I poeti prescelti parlano tutti differenti lingue (Tjutčev, Mandel’štam, Cvetaeva, Brontë, Pound, Herbert, Jaccottet), abitano diversi dialetti (Loi, Doplicher, Noventa): ed è appunto da questa estraneità che Anedda riceve l’invito alla riappropriazione, alla reinvenzione del testo. Se Osip Mandel’štam scriveva in una poesia potente e diretta come un pugno nell stomaco “Parlava con me il mio paese, / mi dava corda, mi faceva la predica, non mi aveva letto”, ecco che lei inventa una visionarietà pacata e ricca di echi biblici, folclorici, favolistici (“Non parlava con me il mio paese / non mi leggeva… / Mi ha dato tempo e notte. / La voce si è levata prodigiosa / dimessa, nel secolo che cresce sul millennio / né lupo, né scoiattolo, non una bestia in fuga…”). E ancora, il Poema della montagna di Marina Cvetaeva, nella sua stentorea durezza, diventa pretesto in Anedda per una preghiera intimista rivolta all’altro da noi, che si allontana e insieme ci allontana da noi stessi, sullo sfondo di un paesaggio rarefatto, poco partecipe e antico, immutabile.

“provo a trattare la vita con lentezza”: è in questo splendido verso la chiave, forse, di interpretazione della poesia di Antonella Anedda, e nel reiterarsi di espressioni quali “cautela”, “distacco”, “pazienza”, “mancanza”, tutti termini che indicano in qualche modo una volontà di controllo, di autodifesa, il timore di un’adesione più piena al semplice esistere. Ma in realtà, al di sotto di questa esitazione, si intuisce una forza difficile da domare, sia negli incipit delle poesie, sempre memorabili (“Scrivere è terribile / con orrore lo spazio si misura / nel vuoto di parole che battono a distanza”), sia nella ricerca severa di precisione con cui definire esattamente l’oggetto della poesia.

Stranamente e senza nessuno stridio, in Anedda la leggerezza si concilia con la dolcezza, la precisione con l’indeterminatezza, la descrizione del particolare esterno con l’introspezione più acuta: e il dolore più immedicabile con la sospensione miracolosa di ogni sofferenza. “Lasciami parlare del dolore / da te a me; scavato fino al fondo. / Anche questa è altezza / lascia che la misuri, qui, dalla terra / in giù, dal cielo al fuoco. / Uguale è il nero squarcio, uguale. / Solo, non un sussulto / ma un brusio di foglie, di animali / giù fino al gelo / per capire, per accrescere il peso”.

Abbiamo a che fare con una poesia nutrita di dolore, che nel dolore trova la sua linfa: in cui testo e vita si tengono reciprocamente a bada, chiedendosi l’un l’altro di non farsi troppo male.

 

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https://www.sololibri.net/Nomi-distanti-Anedda.html     6 marzo 2020

 

 

RECENSIONI

ANELLI

AMEDEO ANELLI, CONTRAPUNCTUS – LIETOCOLLE, FALOPPIO 2011

Amedeo Anelli indica i diciotto contrappunti di cui è composta questa sua silloge con numeri romani progressivi, ad imitazione di quanto fece Bach nella sua Arte della fuga (14 fughe e 4 canoni), segnalando già dal titolo, Contrapunctus, in che misura questi suoi versi, seppure privi di severe strutture formali (metrica, rime, o artefici retorici) siano debitori alla musica, e più in generale al mondo dell’arte. E la contrapposizione che si impone da subito al lettore attento è quella tra il mondo fisico e la metafisica, e in che modo da quello derivi questo: «la massa da ciò che è senza massa / un sorriso grande, un pensiero grande / un errore fruttuoso, un senso compiuto / il calore di una mano» come suggerisce, in una esplicita dichiarazione d’intenti, Amedeo Anelli.

Così i versi vibrano sospesi tra diffuse descrizioni naturali e considerazioni più filosofiche. Da una parte il paesaggio (assolutamente padano, con le sue pianure, i fiumi, i fossi e la terra grassa), i fenomeni atmosferici (pioggia, neve, nebbia e gelo, soprattutto), la vegetazione imperante ovunque (giardini, erba, muschio, radici, tralci di vite, siepi, foglie, pioppeti, boschi, cortecce, olmi, germogli, pungitopi, rosmarino, rose, peschi).

Dall’altra, l’arte figurativa – con accenni espliciti a Tiziano, Mantegna, Tiepolo -, e musicale (Sibelius, Monteverdi, Desprez, de Béthune).
E rimandi alla fisica e alla chimica contemporanea, in un crescendo di immagini che vanno via via disincarnandosi verso un progressivo inverarsi dell’immagine nel concetto, dell’elemento naturale nella costruzione materica: «il filo d’erba e la cattedrale / il filo d’erba nella cattedrale» per culminare nel verso finale della raccolta, assolutamente programmatico, quasi a suggerirne la fondamentale chiave di lettura: «le idee sono le porte invisibili del corpo».

 

© Riproduzione riservata  

www.sololibri.net/Contrapunctus-Amedeo-Anelli.html        27 giugno 2016

 

RECENSIONI

ANGELI

L’ULTIMO VOLO – RICORDO DI SIRO ANGELI

La Biblioteca e l’Amministrazione Comunale di Cavazzo Carnico, insieme ad alcuni illustri studiosi e a preziosi e competenti volontari, da qualche anno stanno promuovendo il recupero dell’opera letteraria di Siro Angeli, nato a Cesclans nel 1913 e morto a Tolmezzo nel 1991. Molto volentieri, in qualità di seconda moglie di Siro, e in accordo con le nostre figlie Daria e Silvia, abbiamo donato al Comune la sua casa natale, i libri conservati nel suo appartamento di Roma, e parte dell’epistolario in nostro possesso. Un ricco fondo di documenti era già stato affidato alle cure attente dell’Università di Trieste alcuni anni fa. Ma qui mi preme offrire una testimonianza personale, un ricordo affettivo dell’uomo e del poeta, quale io l’ho conosciuto a partire dagli anni 70, e a cui sono stata vicina per un ventennio. Già dalle primissime letture della scuola elementare avevo subito il fascino della parola poetica, in cui avvertivo istintivamente una concentrazione di senso e una seduzione musicale che la prosa non mi regalava. Se quindi da bambina erano i versi di Novaro e di Gozzano («Tita singhiozza forte in mezzo all’orto», «Consòlati Maria del tuo pellegrinare»), e più tardi quelli di Ungaretti e di Saba a commuovermi in maniera particolare, al ginnasio e al liceo le mie letture si rivolsero appassionatamente e autonomamente (senza, cioè, venire orientate e dirette da qualche insegnante o guida adulta) verso qualsiasi produzione poetica riuscissi ad avvicinare. Ricordo ancora i primi due libri di poesie acquistati con le mance domenicali: le  Liriche cinesi  e  L’Antologia di Spoon River  della Nuova Universale Einaudi. In seguito, in maniera confusa e entusiastica, lessi Montale e Cardarelli, Pavese e Palazzeschi, Prévert e Tagore, fino ai disorientanti sperimentalismi della neovanguardia. Accompagnavo questi studi con l’ascolto dei cantautori italiani (Endrigo, Tenco, De André, soprattutto) e degli chansonnier francesi, affinando così una sensibilità forse eccessiva per quel miracolo del pensiero e del sentimento che chiamiamo “poesia”. Cominciai anche a buttare giù dei versi – molto banali e zoppicanti, a rileggerli adesso- che custodivo gelosamente in segreto. Fu in prima liceo classico che la professoressa di italiano ci fece acquistare un’antologia: Poesia contemporanea, edizione Le Monnier, curata da Rispoli e Quondam. Lì trovai Siro, a pagina 521. I versi riportati erano tratti da quello che rimane forse il suo libro più intenso e ispirato,  L’ultima libertà, dedicato alla sua amatissima prima moglie Liliana, morta molto giovane, nel 53. Ricordo ancora a memoria alcune di quelle poesie: Come si fa di brace,  Nel deserto del letto, Volevi essere mia, e il turbamento che mi provocava ripeterle tra me e me. Non so quale istinto o segno del destino mi convinse a prendere la penna, il 24 gennaio 1970 – avevo sedici anni – e a scrivergli una lettera, che indirizzai alla Rai, dove allora lui ricopriva la carica di vicedirettore del terzo programma radiofonico. Voglio riportarla per intero, così timida e impudente come mi appare adesso, insieme alla sua risposta pacata e commossa.

Caro Signor Angeli, sono una studentessa liceale di Verona; le scrivo dopo aver letto alcune sue poesie su un’antologia di poeti contemporanei. Devo confessarle che non sapevo neppure che lei esistesse: a scuola non si curano certo di farci apprezzare la poesia moderna; tuttavia le sue poesie mi sono piaciute. Molto. Non mi interessa sapere se la sua poesia è contrapposta a ogni inutile sperimentalismo, oppure se risalta a prima vista l’elaborazione e la rinnovazione degli endecasillabi e dei settenari (come ha scritto Ravegnani): io bado ai fatti e le sue liriche sono delicate e sincere. Per questo mi sono piaciute. Le ho scritto per chiederle se può mandarmi un suo volume: non credo infatti che i suoi libri siano stampati in edizione economica, e io non ho mai abbastanza soldi per permettermi un’edizione di “lusso”. Se un giorno riuscirò a scrivere poesie belle come le sue, anch’io le manderò un volume gratis. Volevo dirle inoltre che mi dispiace molto che la sua “Lilith, Eva, Maria” sia morta. Affettuosi saluti. Alida Airaghi

Cara Alida, scusa se ti do del tu: penso che la mia età, e soprattutto lo slancio spontaneo che ti ha sollecitata a scrivermi, mi consentano di farlo. Dirti che la tua lettera mi ha recato piacere è poco. Accorgersi che le nostre parole hanno lasciato una traccia nell’animo di qualcuno è assai consolante: non (almeno nel mio caso) perché ciò soddisfa la nostra vanità, ma perché l’impulso a scrivere nasce proprio dal bisogno di comunicare, di confidarsi, di stabilire un rapporto di comprensione e di intesa con gli altri, insito in ogni essere umano. Adesso io per te esisto, e tu esisti per me. Se da me ti è venuto qualcosa, senza che io l’abbia espressamente voluto (e questo mi sembra anche più bello) tu mi hai dato altrettanto scrivendomi, e forse di più. Ti mando volentieri il mio ultimo libro di versi. Confido che non ti deluda; e attendo che un giorno tu possa ricambiarmi con un libro che rechi la tua firma, e sia migliore del mio. Io l’ho scritto perché non potevo farne a meno, per disperazione e per vincere la disperazione. La vita mi aveva concesso, con mia moglie, moltissimo; e, forse perché è stabilito che il bene si debba pagare più del male, poi me l’ha tolto. Io ho cercato di recuperare questo grande dono nelle parole, non potendolo recuperare nella realtà. Ricambio i tuoi affettuosi saluti e ti auguro che si avveri quello che desideri, per i tuoi studi e per la tua vita. Siro Angeli

La nostra corrispondenza si protrasse fino al 1973, quando scesi a Roma con alcune compagne di studi per incontrarlo. E continuò, pressoché quotidiana da parte sua, anche nei primi anni della nostra relazione, fino al trasferimento a Zurigo, alla nostra convivenza e poi al matrimonio. Un esilio dorato, il nostro, grazie soprattutto alla nascita delle nostre bambine, all’amicizia fedele di pochi amici, alla sicurezza economica che ci garantiva il mio insegnamento per il Ministero degli Esteri. Ma sempre esilio, a cui ci aveva convinto l’ostilità – dapprima feroce, poi attutita, poi di nuovo manifestamente esibita, dopo la scomparsa di lui – delle nostre famiglie, a Roma e a Verona, scandalizzate dall’abisso di anni che ci divideva. La morte di Siro, inattesa e imprevedibile, non è comunque riuscita ad offuscare in me il ricordo riconoscente del suo severo insegnamento, morale e letterario, e la volontà di rimanervi fedele. In quel lontano agosto del 91, Siro ci aveva preceduto a Cesclans, dove eravamo soliti passare due settimane ogni anno, mentre io e le bambine eravamo rimaste a Verona, trattenute lì dalla leucemia che aveva colpito mia madre, e che l’avrebbe uccisa quasi contemporaneamente a Siro. Ma io l’avevo poi raggiunto per accompagnarlo all’ospedale a un controllo, suggeritogli dal medico a causa di quella che gli era stata diagnosticata come una tracheite. Avevamo partecipato insieme alla Messa di Ferragosto, e ancora adesso mi rimprovero di non aver intuito la gravità del suo male, anche al di là delle reticenze dei dottori e dei parenti. Rammento la sua ultima frase, prima del commiato la sera del sabato in cui fu colpito da un ictus: «Non mi sento ancora del tutto a posto. Tu però vai, vai a dormire, ci vediamo domani». Il rientro a Zurigo con le sole bambine, il dover dire loro che non avrebbero più rivisto il papà adorato, il silenzio terribile e prolungato di tutti, la cattiveria covata e mai da me prima sospettata, ed esplosa in seguito con virulenza, con perfidia: tutto questo non si può dimenticare. Ma dopo tanto tempo risulta attutito, quasi mitigato con clemenza dal bene che è rimasto, dai ricordi belli. Anche dalle raccomandazioni “letterarie” con cui seguiva quello che io scrivevo, esortandomi e correggendomi. Per cui se io leggo una mia breve, lieve composizione tratta dal libro  Il silenzio e le voci («L’elegante betulla è spoglia. / Solo una foglia, esitante, resiste. / Un poco trema, appesa ad un nulla; / e aspetta triste il suo ultimo volo»), risento la sua voce grave e severa: «Attenzione alla metrica! E le rime, le rime sono importanti: non rimare aggettivo con aggettivo, verbo con verbo, nome con nome…  Mai cercare la via più facile, affidarsi troppo all’orecchio!». E mi accorgo di quanto ho ereditato dal suo insegnamento, anche a livello inconscio, se paragono i miei versi a quelli suoi di cinquant’anni fa, così profondi filosoficamente, echeggianti il suo ammirato Bergson: «Impara dalla foglia di novembre / che vedi sciogliersi dalla spoglia pianta / nella precaria luce in punta di piedi; / dalla foglia che sa prima d’esser morta, / persuadendosi a un lieve gioco / col filo d’aria che alla terra la porta, /  fare di ciò che deve l’ultima libertà».

Così, rileggendo questi suoi splendidi versi, mi viene da pensare che Siro, nel suo ultimo volo, ha fatto come la foglia novembrina che scendendo verso terra gioca con l’aria, libera nonostante la necessità: anche Siro ha scelto di finire i suoi giorni nella sua Carnia amata, di riposare per sempre al suo paese, come tante volte mi aveva ripetuto di voler fare. E come giustamente ricorda la poesia incisa nella lapide sulla sua casa: «’I si dopo tanc’ ans / tornât al gnò paîs…».

 

© Riproduzione riservata   «L’Immaginazione» n. 269, maggio 2012

RECENSIONI

ANGELI

SIRO ANGELI, IL GRILLO DELLA SUBURRA – SCHEIWILLER, MILANO 1990

Siro Angeli, scomparso a Tolmezzo lo scorso agosto, era autore prolifico e multiforme: i suoi interessi spaziavano dalla poesia al teatro al cinema (fu sceneggiatore di una quindicina di film di successo: dell’ultimo, Maria Zef, di Vittorio Cottafavi, aveva interpretato anche uno dei ruoli principali) al romanzo. Come narratore aveva pubblicato presso le Edizioni Paoline Figlio dell’uomo, romanzo-saggio basato su una coraggiosa ipotesi teologica, che gli era valso nel dicembre del ’90 il Premio Camposampiero.
Vorrei qui occuparmi del suo ultimo volume di poesie, dedicandogli una recensione che ho a lungo evitato e rimosso, e che sarà scritta con affettuosa nostalgia verso chi mi è stato vicino per più di vent’anni, con stima per un uomo di cultura raffinata e vasta, di moralità rigida e scabra.
Il grillo della Suburra raccoglie versi scritti da Angeli nell’arco di un ventennio, dal ’55 al ’75, anni da lui vissuti a Roma alle prese con una sofferta situazione familiare e con l’impegnativa responsabilità di alto funzionario radiofonico. Il volume, pubblicato nel ’75 da Barulli, con una partecipe e sapiente prefazione di Alfonso Gatto, non fu mai distribuito nelle librerie per varie vicissitudini editoriali, ma arrivò comunque finalista al Premio Viareggio di quell’anno.
Ristampato nel ’90, grazie anche all’interessamento di Dante Isella, nella preziosa collana All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, era stato da Angeli completamente rivisto e riscritto, con un’ossessiva attenzione alle varianti anche minime, e un incessante lavoro di lima.
Consta di tre parti: Il grillo della Suburra, poemetto in nove sezioni di novenari, San Pietro in Vincoli e altre poesie, sempre in forme chiuse, ma spazianti dagli endecasillabi ai settenari, Approssimazione all’arte poetica, in settenari. Del poemetto che dà il titolo al volume, ostico -quasi- alla prima lettura, «impervio in virtù della sua chiarezza», come suggeriva Gatto, basti qui accennare alla rigidità formale in cui si trova, per così dire, ingabbiato: nove sezioni di cinque o più strofe di sette versi, tutti in novenari, con un gioco elegantissimo di rime interne e esterne, con un’attenzione quasi barocca alla scelta di vocaboli inusuali e inquietanti. Rigidità formale che rimanda e sottende un’altrettanto e forse più severa rigidità morale. Molto prima di qualsivoglia risveglio verde dei nostri ecologisti dell’ultima ora, Angeli chiama un grillo «non sai come giunto / dall’ariosità di una tana / agreste o di un’aia quieta / qui in un’estranea foresta / di pietra che ha nome di città» a testimone inorridito e inadeguato del degrado umano e ambientale cui è arrivata la metropoli odierna, coacervo di abitudini corrosive, di veleni fisici e psicologici, di aggressioni visive e uditive. Testimone di ciò, ma anche emblema di una fisicità buona, di una natura da recuperare, di una poesia non riconosciuta ma sempre presente nelle cose, il grillo è montalianamente messaggero di salvezza, cristianamente simbolo di speranza e redenzione. Nell’ultima sezione, classicamente intitolata Approssimazioni all’arte poetica, sono quindici i componimenti brevi in settenari cui Angeli affida il compito di esprimere il suo complesso rapporto con il “mestiere” di poeta, inteso sempre da lui come lavoro assiduo sulla parola: che va cercata, scelta tra tante, e poi lavorata limata incastonata come una gemma nel giusto contesto.
C’era, in Angeli, figlio di un muratore emigrato in Francia e di una contadina, questo rispetto sacro per la magia della creazione intellettuale, mista a una passione artigianale per la fatica fisica dello scrivere, e a una diffidenza tutta carnica verso la faciloneria delle improvvisazioni mistificanti. Tutto questo lo rendeva durissimo nei riguardi degli altri e di se stesso, e il dialogo che fingeva nei versi con un “tu”, lettore solo supposto, era in realtà un monologo. A se stesso, quindi, rivolgeva l’invito a non scrivere: «Se ti resta un talento / di tanto spreco fatto / sul bianco delle pagine, / spendilo in vita: l’atto / può adeguarsi all’intento, / non il segno all’immagine», «La verità, la vita / non fanno vive e vere / le parole che scrivi», «Dato che prima o poi, / anche senza motivi / come avviene tra amici, / tradisci o ti tradiscono / le parole che scrivi / quanto quelle che dici, / unico scampo al rischio / è il tacere, se puoi».
Ma come non riusciva a non parlare, Angeli non riusciva a non scrivere: e se con pessimismo attuale e metafisico insieme considerava il tradimento della scrittura rispetto al pensiero o all’azione, tuttavia ad essa continuava ad attribuire la speranza di un riscatto: «Molto ti sembrerà / se fra tante parole / tue da spazzare via / almeno una racchiuda // in sé l’ombra che dia / la speranza del sole, / l’errore che ti illuda / di qualche verità», e ancora: «Un indizio dell’eden / prima della caduta / dalle parole ambivi. // Ora ti basta chiedere / loro quanto ti aiuta / a vivere tra i vivi».
Nella sezione centrale del libro, San Pietro in Vincoli, sono raccolte singole poesie, più sciolte e abbandonate rispetto a quelle che abbiamo appena preso in considerazione. Ritratti di persone e ambienti familiari (chiese, fiumi, amici, e poi spazzini, fantesche, pannocchie), ma soprattutto versi indaganti il mistero dell’essere, del vivere qui e ora. Si tratta in qualche modo di poesie filosofiche, ma non intellettuali: in esse la razionalità sembra cedere il posto a un’istintualità fisica positiva, ottimista. Bergsonianamente, Siro Angeli credeva nell’irrompere del nuovo, del caso, dell’imprevisto, a vanificare ogni costruzione simmetrica della necessità: credeva nel miracolo che può accadere a tutti, ogni giorno, modificando il già scritto. Per cui, tra lo sparo e il raggiungimento del bersaglio, voleva potersi affidare alla possibilità di uno scarto della pallottola, o alla stravolgente autonomia di un refuso sulle bozze di stampa, o alla non necessarietà delle scadenze temporali; auspicando «il nascere di una nuova / stagione in un altro universo / dove il conto non torni esatto».
Scriveva Gatto: «Questa poesia di Angeli, lontana da ogni remissività, è una sentenza contro il numero, l’estrema salvezza di un filo superstite». Da tali premesse teoriche derivava un insegnamento di vita: «tu lascia che domani / come improvvisi scrosci / di pioggia sulla via / ti colgano gli eventi», «Meglio se a passi discontinui / procedi, quasi allo sbaraglio , / lasciando che qualcosa s’insinui / tra lo scopo e te», «Non ridurre allo scatto / d’un congegno gli eventi». Polemico contro i ragionieri dell’esistere, che misurano i propri passi sui listini di borsa, asseriva: «lascia il calcolo esatto / di mezzi e fini, a trarne / utile e vanto, ad altri».
Il volersi giocare, con azzardo, la vita, non era solo atteggiamento mentale: all’età in cui ci si pensiona era stato capace di inventarsi una nuova esistenza, abbandonando la Rai e Roma, trasferendosi a Zurigo, offrendo vita nuova ai suoi anni. Un miracolo, un regalo del destino, amava definire la nascita tardiva delle nostre bambine: sicuro che se i suoi occhi si fossero chiusi, altri occhi, in altro modo suoi, sarebbero rimasti aperti sul futuro, meravigliati e grati di esserci.

 

«L’Arena», 24 febbraio 1992

RECENSIONI

ANGELI

SIRO ANGELI, IL GRILLO DELLA SUBURRA – SCHEIWILLER , MILANO 1990

Nella sua prefazione al volume di poesie Il grillo della Suburra di Siro Angeli (Roma, Barulli 1975), ripreso quindici anni dopo dall’editore Vanni Scheiwiller nella collana All’insegna del pesce d’oro (Milano 1990), Alfonso Gatto definiva «scorbutico, freddo e ardente insieme» il poemetto che dà il titolo al volume, e su cui ora vorrei soffermarmi. Scorbutico nel senso di scostante, di poco accattivante, ombroso come un puledro ribelle alle redini di qualsiasi lettore-cavaliere. Freddo perché meditato (premeditato) in ogni verso e rima, costruito in un’architettura rigida e severa, che non lascia spazio a nessuna improvvisazione o scarto fantastico. Ardente perché animato da una vis polemica savonaroliana, da una feroce critica morale nei riguardi della società odierna. A ragione Gatto parlava, a proposito di questa poesia, di «frenata incandescenza», perché Siro sapeva che se la poesia è visione, allucinazione, ispirazione allo stato larvale, tale non deve rimanere, e prima di arrivare alla pagine deve essere “frenata”, appunto, lavorata, limata, con umiltà artigianale che mal sopporta la presunzione dell’estemporaneità. «Poesia difficile, impervia, in virtù della sua chiarezza», proseguiva Gatto, e infatti questi versi, lontani da ogni sperimentalismo alla moda, totalmente rispettosi di metrica e punteggiatura, non presentano punti oscuri, di difficile interpretazione: dicono tutto, senza lasciare al lettore alcuno spazio di interpretazione soggettiva e di co-invenzione. Eppure sono versi da leggere con un occhio al vocabolario per la quantità e la qualità delle voci usate, rare nelle pagine dei nostri poeti contemporanei (sanie, contrafforti, altane, tabe, annonari, subornarli, annaspo, elitre, abigeati, erebo, sinodali, sirti, latebre, offa, fomiti, arcosoli, lemuri, miasmi, falansteri, ectoplasmi, abbrivi, sinusoidi, incalchi, inflorescenza, esborsi, antelucani, lacerto: sono solo alcuni dei vocaboli che mi si presentano, nella loro inusuale peculiarità, a una veloce rilettura); versi anche sintatticamente spigolosi, contorti, graduati in un climax di crescente sospensione, di intensi rimandi e posticipazioni: si noti che il primo punto fermo si offre allo sconcertato lettore solo al 119° verso, alla conclusione della III sezione e della diciassettesima strofa. Questo accenno mi offre lo spunto per parlare della struttura del poemetto, genere senz’altro molto praticato nella poesia del dopoguerra (si pensi al primo Caproni, o all’ultimo Bertolucci), eppure mai, credo, con tanta rigorosa acrimonia ed esclusiva, inflessibile disciplina come ne  Il grillo. Si tratta di nove sezioni, ciascuna articolata in un numero di strofe che varia da cinque a undici, di sette versi in novenari con un’originalissima mobilità accentuativa. Proprio questa scelta del novenario , verso imparisillabo tra i meno usati nella nostra tradizione letteraria, e invece prediletto da Siro, la dice lunga sulla sua aristocratica tendenza ad andare contro corrente, a porsi sempre fuori dalle mode: la dice lunga anche sulla sua abilità compositiva, sull’attenzione posta a non ripetersi, scartando magari le soluzioni più facili (si badi a questi quattro versi della nona sezione: «le bràci delle sigarétte / adescatrìci di passànti / ritardatàri si diràdano / attravèrso i vetri accostàti»: con accenti sulla II e VIII, sulla IV e VIII, sulla IV e VII, sulla III e VIII). Anche il gioco delle rime è quanto mai abile e dotto, con un prevalere ossessivo di rime ricche su quelle povere, di rime interne, derivative, imperfette. Se consideriamo le cinque strofe della terza sezione, troviamo le seguenti rime, per lo più molto dislocate nella sezione o interne ai versi: giunto-punto-assunto, ariosità-città, quieta-pietra, foresta-finestra-agreste, lassù-più, aspro-annaspo, momento-casamento-sbattimento, interdetto-tetto-dirimpetto, strepito-trepida, celi-dice-tace-voce, disperso-universo-verso, moto-immoto-monotono-remoto, stillicidio-dissidio, voce-atroce, confonde-riprende-rispondersi, elitre-celi, cornice-dice, stridore-ore, muove-dove, evidenti già a una prima, parziale indagine. Sempre in questa sezione, in cui per la prima volta compare l’immagine positiva del grillo, foriero di salvezza, con la sua «trepida voce / che si confonde nello strepito / atroce come un’eco», è proprio il suo verso di «grumo disperso / di vita» ad essere onomatopeicamente reso con una serie incalzante di “r” seguite o precedute da consonante: grillo, agreste, estranea, pietra, crepita, spremere, attrito, aspre, elitre, stridore, credere, crepa, interdetto, travi, cornice, grumo, disperso, universo, verso, trepida, strepito, atroce, sino alla sventagliata finale «e subito riprende tra unisono / e controcanto nel suo gracile / metro a interrogarsi e rispondersi».
Il grillo della Suburra, completamente riveduto e in parte riscritto a Zurigo tra l’87 e il 90, era però stato composto a Roma, negli anni 1955-75, anni difficilissimi per Siro che aveva appena perso la prima moglie (a cui nel ’64 aveva dedicato i versi memorabili de L’ultima libertà, ed. Mondadori), e si era trovato per sopravvivere a dover abbandonare la sua professione di sceneggiatore cinematografico, impiegandosi alla RAI dove avrebbe presto raggiunto qualifiche e responsabilità elevate. Di Roma questo poemetto vive, una Roma pagana e blasfema, cristiana e purissima, corrotta e corruttrice, inquinata e stupenda. Una Roma toponomasticamente citata in versi (da Via dei Selci a Via Lanza, da Termini a Piazza dei Cinquecento, dalla «cicatrice di Via Cavour» alla «laguna dei Fori» fino ai «vicoli della Suburra»), ma metaforicamente personificata – vittima e carnefice insieme – in una tentacolare giungla, in un’«estranea foresta / di pietra che ha nome di città». Questa Roma viene descritta in una torrida notte di fine luglio, in cui l’estate assume sembianze animate e animalesche, minacciose se non addirittura ributtanti, e «uscendo da paludi / sciroccali…// aggredisce…// la pendice / esquilina con denti e unghie», e solo verso mattino si placa nella memoria di una natura ancestrale e incorrotta:

ora che il cuore della notte / trasale ad un presentimento / d’alba e gli asfalti e i selciati / si preparano ai freschi annaffi / zampillanti dall’autobotte / rammemorando spente estati / quando furono anch’essi folti / boschi, prati e orti antelucani (IX,6).

Tuttavia prima di raggiungere questa quiete dimenticata dagli uomini, è stata protagonista e preda di un’assordante e impietosa babele di veicoli:

lì dove l’assenza di semafori / e di trasbordi vessatori / viepiù lo scalmana in saturnali / estivi e la falla immissaria / da Via Lanza lo muta in fiumana / mentre rifluendo su a raffiche / un’altra corrente lo contraria (II,3);

di persone:

i passanti / alfine sottratti all’usura / pagata nel giorno agli orari / si avventurano per una tabe / varia di rumori discordi / lasciando a tratti che trabocchi / la stanchezza in discorsi annonari (II,1);

di luci:

lo sfaglio d’una duplice rampa / su cui insegue ed epitaffi / si innalzano riverberanti / e come a additare un confine / in lettere cubitali si stampano / nel buio ogni volta che schiaffi / di fari li prendono a bersaglio (II,4);

di rumori:

le giunture morse dai freni / scricchiolano con un bramito, / svampano subitanei baleni / dall’attrito fra cavi e ruote, / porte a pneumatici battenti / scattano alla preda che s’offre / stridendo come denti (VII,5-6)

La fauna umana è descritta senza alcuna simpatia o partecipazione, è incubo, è carne animale quando si asserraglia nelle metropolitane per compiere il rito domenicale della gita al mare:

tuberi imponenti di crani / espansi a fondere in un lardo / solidale nuche e doppimenti, / volumi matronali che esuberano / renitenti in flaccidi emisferi / su cui le stagioni sinodali / declinano verso i climateri; // compagni di muscoli irti / su toraci dediti all’azzardo / delle palestre e delle gare, / scompigli di capelli spioventi / su facce addette a ruminare / mucillagini interminabili / di gomme tra frasi e sbadigli; // seni assolati nella salsa / vampa delle domeniche in sirti / proletarie, a rivalsa dei tedi / stanziali durati dentro celle / d’uffici tra battiti di tasti / o nelle cucine tra lavabi / guasti ed odori di cibarie (IV, 5-6-7);

o nei bar:

… chissà quale essenza / di lete ch’essi bevono a sorsi / ingordi credendo di estinguere / con la sete ricordi e rimorsi (VIII,3);

o nelle sale d’aspetto delle stazioni:

in mezzo a una turba consorte / che dagli accessi in lunghe tratte / si sperpera sulle banchine, / dai ventrilòqui ininterrotti / degli altoparlanti agli agguati / tesi dai carrelli onerari, / dagli scrosci delle latrine / ai ronzii dei locomotori (VIII,5);

o nello squallore di una periferia desolata:

attraverso gasometri e scali, / rimesse e cisterne di benzina, / mercati rionali e barriere / daziarie, officine e terminali / di tram, cimiteri di macchine / dove la vita in una messe / d’ortiche e gramigne si ostina (V,2).

In tale implacabile inferno, visionaria e minacciosa ossessione, unico scampo, brandello di umanità (montalianamente: occasione, miracolo) sono poche immagini che si salvano dal delirio farneticante cui abbiamo ridotto il nostro vivere quotidiano: la luna che persevera nella sua pacata indagine notturna:

ora che la lama della luna / umida ancora di salsedine / sparsa da mari interstellari / scalfisce con miti fendenti la scorza indurita del tempo / per restituire alle parvenze / la pura nudità dei momenti (I,5);

il trasalimento pudico delle adolescenti che si offrono a impietosi sguardi altrui:

ma soffi più leni lambiscono / la gracilità che ad impuberi / fanciulle incava guance e sterno, / e nelle guardate di sottecchi, / nei rossori che si propagano scontrosi / dalle confezioni domestiche / rimproverate dagli specchi, / impara a cogliere pretesti / apprensivi perché si riveli / una grazia ormai adolescente / nelle iridi che ardono ignare (IV,9-10);

o finalmente nel grillo che, nascosto chissà dove in una Roma sub-umana, insiste a ripetere a se stesso il suo verso, implorazione o denuncia. Grillo poesia, grillo poeta, che nessuno ascolta e di cui nessuno si cura, presenza gratuita e necessaria, sacrificale e salvifica, che rende possibile con il suo canto il perpetuarsi del prodigio magico dell’esistenza che si rinnova, se solo qualcuno gli presti orecchio:

il grillo, poco più d’un punto / nel buio, un grumo disperso / di vita in sé scisso ed assunto / nel magma in cui l’universo / fluisce, ti chiedi che dice / e ripete a sé solo per ore / ed ore, che cosa lo muove // a quello sbattimento, verso / dove o chi trepida la voce / che si confonde nello strepito / atroce come un’eco, tace / e subito riprende tra unisono / e controcanto nel suo gracile / metro a interrogarsi e rispondersi (III,22-35).

Questo è quanto, in questo momento di pena, di strazio provocato dalla sua improvvisa scomparsa, sono riuscita a scrivere su Siro Angeli poeta, da lettrice appassionata che si occupa di critica solo a livello dilettantesco, con il massimo, però, di distacco emotivo possibile. Quanto vorrei scrivere di Siro uomo è per me infinitamente più doloroso e pudico. Vorrei fosse davvero possibile, anche solo per un attimo, il miracolo di un’inversione di tendenza nel percorso del tempo, e averlo qui, reale come mi sembra adesso che ne scrivo, piccolo e ossuto, azzurro negli occhi e profondo nella voce; mio padre putativo e padre delle nostre bambine, nostro grillo e poeta domestico, “del focolare”. Vorrei potergli mostrare questi quattro fogli, e che lui sorridesse appena, incerto tra soddisfazione e imbarazzo, si sistemasse gli occhiali sul naso, prima di darmi il voto di sempre: 6+.

 

«Bloc Notes» n.25, giugno 1992