ANTONELLA ANEDDA, NOMI DISTANTI – EMPIRIA, ROMA 2006

Antonella Anedda è poeta, critico letterario, traduttrice che non ama le amplificazioni, e il suo tratto distintivo nella scrittura sembra essere invece la delicatezza, la leggerezza con cui si avvicina alla pagina. Aborrendo l’enfasi, l’irruenza, non riconoscendosi nell’ironia o nei calembour linguistici, la sua prima esigenza è etica: il confronto con la parola, lo scavo, l’approfondimento che tuttavia non violenti, non coercizzi in alcun modo il testo. Nomi distanti raccoglie “non esattamente versioni, non esercizi, non variazioni. Libere versioni? … Risposte da lontano”. Echi di poeti amici, ascoltati in silenzio, per recuperare e rendere “l’essenziale di ciò che sembra inesprimibile”.

Se la traduzione è insieme la più umile e la più presuntuosa delle arti, Anedda cerca per sé un nuovo ambito e ruolo, “una terza voce in un terzo spazio”, tra l’originale del poeta e il contraffatto per eccesso di fedeltà del traduttore. Prendendo l’avvio da un verso, anzi dall’emozione provocata dal verso di un poeta lontano nello spazio e nel tempo, vicinissimo nel pensiero, l’autrice ricrea un suo universo di suoni e immagini; risponde a un richiamo imperioso, lascia che in sé transiti e fermenti, e infine si esprima in una sua autonoma e individuale voce.

I poeti prescelti parlano tutti differenti lingue (Tjutčev, Mandel’štam, Cvetaeva, Brontë, Pound, Herbert, Jaccottet), abitano diversi dialetti (Loi, Doplicher, Noventa): ed è appunto da questa estraneità che Anedda riceve l’invito alla riappropriazione, alla reinvenzione del testo. Se Osip Mandel’štam scriveva in una poesia potente e diretta come un pugno nell stomaco “Parlava con me il mio paese, / mi dava corda, mi faceva la predica, non mi aveva letto”, ecco che lei inventa una visionarietà pacata e ricca di echi biblici, folclorici, favolistici (“Non parlava con me il mio paese / non mi leggeva… / Mi ha dato tempo e notte. / La voce si è levata prodigiosa / dimessa, nel secolo che cresce sul millennio / né lupo, né scoiattolo, non una bestia in fuga…”). E ancora, il Poema della montagna di Marina Cvetaeva, nella sua stentorea durezza, diventa pretesto in Anedda per una preghiera intimista rivolta all’altro da noi, che si allontana e insieme ci allontana da noi stessi, sullo sfondo di un paesaggio rarefatto, poco partecipe e antico, immutabile.

“provo a trattare la vita con lentezza”: è in questo splendido verso la chiave, forse, di interpretazione della poesia di Antonella Anedda, e nel reiterarsi di espressioni quali “cautela”, “distacco”, “pazienza”, “mancanza”, tutti termini che indicano in qualche modo una volontà di controllo, di autodifesa, il timore di un’adesione più piena al semplice esistere. Ma in realtà, al di sotto di questa esitazione, si intuisce una forza difficile da domare, sia negli incipit delle poesie, sempre memorabili (“Scrivere è terribile / con orrore lo spazio si misura / nel vuoto di parole che battono a distanza”), sia nella ricerca severa di precisione con cui definire esattamente l’oggetto della poesia.

Stranamente e senza nessuno stridio, in Anedda la leggerezza si concilia con la dolcezza, la precisione con l’indeterminatezza, la descrizione del particolare esterno con l’introspezione più acuta: e il dolore più immedicabile con la sospensione miracolosa di ogni sofferenza. “Lasciami parlare del dolore / da te a me; scavato fino al fondo. / Anche questa è altezza / lascia che la misuri, qui, dalla terra / in giù, dal cielo al fuoco. / Uguale è il nero squarcio, uguale. / Solo, non un sussulto / ma un brusio di foglie, di animali / giù fino al gelo / per capire, per accrescere il peso”.

Abbiamo a che fare con una poesia nutrita di dolore, che nel dolore trova la sua linfa: in cui testo e vita si tengono reciprocamente a bada, chiedendosi l’un l’altro di non farsi troppo male.

 

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https://www.sololibri.net/Nomi-distanti-Anedda.html     6 marzo 2020