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RECENSIONI

ITALIANO

FEDERICO ITALIANO, HABITAT – ELLIOT, ROMA 2020

Federico Italiano è, a mio parere, tra i poeti nati negli anni ’70, il più solidamente ancorato a una nostra tradizione di poesia narrativa, e il più originalmente innovativo nel recepire e fare suoi stimoli culturali provenienti da ambiti non solo letterari, ma anche filosofici e scientifici.

Già leggendo una precedente raccolta, L’invasione dei granchi giganti, avevo ricavato questa impressione di composta padronanza dei mezzi espressivi, nel loro muoversi tra ambienti interni ed esterni, passato e presente, scrittura descrittiva e meditativa. Ora, in questo nuovo volume di versi pubblicato da Elliot, Habitat, Italiano affina il suo sguardo introspettivo in una dimensione delicatamente malinconica, nella rievocazione di figure e paesaggi amati, e contemporaneamente analizza con severa analiticità il proprio vissuto includendolo in un orizzonte storico, geografico e sociale più ampio e complesso.

Habitat, appunto, ciò in cui siamo inseriti e che ci circonda: e che per lui, piemontese della pianura padana, ricercatore a Vienna, critico letterario e traduttore dal tedesco, scisso tra due lingue e due culture, diventa stimolo e vincolo insieme, provocazione e freno. La prima delle cinque sezioni del volume è quindi circoscritta nell’ambito di un privato domestico, tra ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza vissuta a Romentino, in provincia di Novara, e rievocazioni di figure amicali, o di ambienti lavorativi già più adulti. Squarci di memoria, inteneriti ma lontani da ogni compiacimento retorico. Così la visita alle zie “con l’Audi 80 / color senape”, e altri personaggi tipici del paese (il medico condotto, camiciai gommisti cacciatori e anziane signore sulla Graziella…), animano uno sfondo di periferia industriale spoglia e angosciante, attraversata dall’autostrada Torino-Milano, con i tir rombanti e fumosi, e frantumata da risaie inondate per la semina e sorvolate dalle “garzette bianche dal becco nero”. La caccia alle rane sugli argini del Ticino, tra tafani zanzare e libellule, e la magica apparizione di uno sdegnoso airone cinerino, o di due leprotti saltellanti tra le felci e i canneti, abbatte i muri dell’appartamento di famiglia, aprendolo in un contesto di spazio ecologico.

Il bambino di allora, curioso di ciò che gli stava intorno, torna a vivere ponendo domande al poeta diventato uomo (“Non avevo paura delle case degli altri / da bambino, ma adesso / sono i loro fantasmi a farmi visita”): la più assillante e tormentosa, su cosa si perde e cosa si guadagna allontanandosi dalle proprie origini (“penso… / al coraggio – che non ho – di sparire, / di piantarla lì, per unirmi calmo al tavolo dei giusti, // dove mani adorate hanno steso la tovaglia, / disposto piatti caraffe posate / e un vassoio di verdure alla griglia”). Personale e universale, nella poesia di Federico Italiano, si rincorrono, intrecciandosi e sfidandosi: l’amore con la prima ragazza fatto in piedi, appoggiati alla parete di una chiesetta abbandonata, si proietta poi nel giro cosmico dei pianeti; l’impiego universitario e la convivenza matrimoniale a Monaco si inseriscono nella cornice della storia secolare del Regno di Baviera. Nelle altre sezioni del volume, il poeta si muove su terreni diversi e compositi, immaginando tattiche di sopravvivenza in un habitat estraneo, alternativamente umano animale o vegetale.

Allora, le strategie di combattimento difensive vanno acquisite imitando Il metodo nigeriano per vincere a Scrabble; alla fauna differenziata della Foresta Nera (astori, fringuelli, serpenti, corvi, conigli, leprotti, galli cedroni, passeri, scoiattoli, nibbi, poiane, sparvieri, venturoni alpini…), si oppone confortante il ricordo degli animali domestici posseduti nell’infanzia: cani, gatti, tartarughe, canarini, pesci rossi. L’ironia di un umanissimo “Supplemento alle beatitudini” premia ed esalta gli outsider sociali (clandestini, insonni e sonnambuli, ritardatari, magazzinieri: “Beate le colf, perché il regno dei cieli / è pulito”). Nell’amara litania di Pronome indefinito, si elencano i tanti anonimi “qualcuno” che popolano il mondo, salvandolo o inquinandolo con le loro presenze e assenze: “Qualcuno dichiarò che non ci avrebbero / messo in salvo le lingue dei sapienti / ma ciò che crea gioia negli interstizi”. Una parodia del Qohèlet esorta a un atteggiamento fiducioso e positivo nei confronti della vita troppo fugace. Sogni e fantasie si trasformano in vere e proprie allucinazioni, mimanti assalti militari a una città nemica, o metamorfosi corporee in differenti specie subumane, o ancora viaggi in una spettrale Europa nordica, rianimata da profetici incontri con sconosciuti. Anche la voce di raffinati poeti del passato, orientali ebraici europei, porge lo spunto per eleganti rivisitazioni e rielaborazioni tematiche, e i Frammenti d’autunno conclusivi offrono al lettore accenti di dolente abbandono sentimentale.

Resta forse da accennare qualche considerazione sullo stile di questa raccolta, classicamente omogeneo, privo di sperimentalismi e dissonanze formali, e invece fedele a un pensiero emotivo letterariamente sorvegliato, espresso in tonalità limpidamente narrative. Il linguaggio usato appartiene a un lessico mediamente domestico, in cui l’unica ricercatezza pare essere l’attenzione all’esattezza della terminologia scientifica. Una puntualità resa sulla pagina anche dalla scansione ordinata del susseguirsi di strofe perlopiù in terzine e quartine, a offrire un respiro più ampio e modulato di lettura.

 

© Riproduzione riservata               23 gennaio 2020

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RECENSIONI

IZQUIERDO

PAULA IZQUIERDO, LE AMANTI DI PICASSO – CAVALLO DI FERRO, ROMA 2014

Questo libro, uscito in Spagna nel 2003, e ripubblicato in seconda edizione quest’anno dalle edizioni Cavallo di ferro, ha un sottotitolo esplicativo e polemico: Quando il genio diventa crudeltà. E in effetti, leggendo la biografia di Picasso “sub specie amorum”, si rimane impressionati dalle capacità onnivore e feroci, fin quasi a sfiorare il sadismo, delle sue prestazioni sessuali e sentimentali, ripercorse qui dall’autrice con l’intento di offrire spessore al profilo delle donne che lo amarono. «Quale misterioso magnetismo fece sì che tante donne impazzissero per lui, accettassero la sua tirannia, i suoi sbalzi d’umore, il suo disprezzo, compresa la persecuzione, fisica e mentale?», si chiede (e noi con lei) Paula Izquierdo. E quindi le racconta, nei capitoli dedicati alle tredici più rilevanti, sorvolando sulle centinaia di incontri occasionali, nei bordelli o in avventure trasgressive, negli ossessivi tradimenti, nelle ostentate e trionfanti seduzioni, e soffermandosi invece sulle raffigurazioni pittoriche, scomposte, violente, morbose, allusive, spesso vendicative. Uno sguardo magnetico, una personalità travolgente, quella di Pablo Picasso: ma anche frequentemente travolta e sconvolta dalle presenze femminili della sua vita, se è vero che «ogni donna che conobbe lo colpì talmente da fargli cambiare lo stile della sua pittura». Ciascuna amante suscitò nel maestro un entusiasmo creativo febbrile, e subito dopo il desiderio compulsivo di distruggere brutalmente il suo sentimento e la persona che l’aveva provocato. «Le donne devono essere passive e sottomesse… le donne sono macchine per soffrire», affermava provocatoriamente. Tre delle sue compagne lo resero padre quattro volte, due lo sposarono, due si uccisero dopo la sua morte: avvenuta a 92 anni, in piena e vivace attività creativa, in un corpo a corpo con la pittura, che per lui fu sempre e fino alla fine metafora del corpo a corpo divorante con il desiderio sessuale.
Le donne di Picasso narrate dalla Izquierdo assumono spesso le sembianze di menadi ossessionate, pronte sia ad immolarsi che ad immolare: ma almeno due di loro non si riducono al ruolo di amanti. La madre Maria, che lo ebbe nel 1881 a Malaga da un pittore di scarso talento, José Ruiz, di cui Pablo disconobbe persino il nome, preferendogli quello materno; e la sua mentore-protettrice Gertrude Stein, che lo aiutò economicamente e lo introdusse negli ambienti culturali e artistici parigini. Il primo amore fu Fernande Olivier, con cui divise la dimora del Bateau-Lavoir, una vita bohèmienne, l’abitudine all’oppio e una reciproca estrema gelosia. A lei seguì la giovane Eva Gouel (“ma jolie”, come la chiamava il pittore), morta precocemente di cancro. Quindi una girandola di artiste, cabarettiste, prostitute, fino alla sofisticata ballerina russa Olga Koklova, che sposò nel 1918 e che gli diede il primo figlio Paul. Si separarono nel 1935, dopo una convivenza tormentata da litigi ed eccessi, quando Picasso conobbe l’ingenua Marie Thérèse Walter, ancora minorenne, di cui fece una sorta di schiava sessuale, iniziandola a pratiche sadomasochistiche. Marie Thérèse partorì la secondogenita di Picasso, Maya; a loro il pittore rimase comunque teneramente affezionato anche dopo averle abbandonate, al punto che ricorreva alla compagna persino per farsi tagliare capelli e unghie, obbligandola a conservare questi suoi preziosi reperti fisici poiché temeva superstiziosamente che qualcuno potesse con essi fargli una fattura. Quindi fu il turno di Dora Maar, forse l’unica presenza femminile intellettualmente all’altezza del maestro, fotografa che testimoniò le varie fasi della creazione di Guernica. Successivamente arrivò Françoise Gilot, madre di Claude e Paloma, di quarant’anni più giovane: fu l’unica donna che lo lasciò, nel 1954, stanca dei suoi continui tradimenti. Dopo una lunga parentesi di vita in comune con la studentessa Geneviève Laporte («Con lei, tutto è dolcezza e miele. E’ come un alveare senza api»), Picasso conobbe la sua seconda moglie, a 72 anni (lei ne aveva 27): Jacqueline Roque, con cui visse l’ultima parte della sua vita, forse la più serena, e per cui dipinse quasi duecento ritratti. Anche Jacqueline, come già aveva fatto Marie Thérèse, si uccise dopo la morte del «suo monsignore».

 

«Leggendaria» n.106, luglio 2014

RECENSIONI

JABES

EDMOND JABÈS, IL LIBRO DELLA SOVVERSIONE NON SOSPETTA – SE, MILANO 2005

Sovversione è più che ribellione, è qualcosa di più radicale e contagioso, di più temibilmente pericoloso. Ma se, oltretutto, essa viene definita “non sospetta”, significa che ha in sé germi di innocenza, di purezza, in cui risulta temerario cercare qualsivoglia colpa. Infatti, “La verità conosce ogni forma di sovversione”: parafrasando Giovanni, Edmond Jabès suggerisce che la verità ci farà liberi. Liberi e sovversivi. “Dio è sovversivo; e come ha potuto pensare che l’uomo non lo sarebbe diventato di fonte a Lui?” In questo come in tutti i suoi libri, in prosa e in versi, Edmond Jabès si pone domande fondamentali, assolute, che interrogano l’uomo e la sua fede, o la sua mancanza di fede. Ed esplorano la precarietà dell’esistenza, il nulla, il silenzio, il deserto, l’eternità e la fulminea apparizione dell’istante: in meditazioni che non hanno la presuntuosa assertività degli aforismi, ma sembrano offrirsi al lettore con l’umile richiesta di una solidale concordanza, di una comune ricerca. Il postfatore di questo volume, Antonio Prete, parla della scrittura di Jabès come di un’esperienza interiore, di una poetica interrogazione e ascesi del pensiero; e ancora di spaesamento, di “un ascolto del vuoto, dell’assenza, della solitudine”. Una scrittura profondamente etica e profondamente poetica, che si dichiara ostile a ogni banale superficialità: “La banalità non è inoffensiva: rende furiosi”. E l’uomo è sempre in bilico, sull’orlo di una voragine della coscienza che potrebbe in ogni momento inghiottirlo, se solo provasse a interrogarsi sulla sua destinazione finale, sul silenzio di Dio: “Apri Dio. E’ l’abisso”. Di conseguenza ” La fortezza più solida è sempre in balia del minimo cedimento del terreno”, e “Un passo nella neve è sufficiente a scuotere la montagna”. Per questo Jabès ritiene sia necessario esplorare la propria interiorità, saggiarne la forza: “Entrare dentro se stessi. Scoprire la sovversione”.

IBS, 12 MAGGIO 2013

RECENSIONI

JACCOTTET

PHILIPPE JACCOTTET, IL BARBAGIANNI – EINAUDI, TORINO 1992

Encomiabile risulta la recente iniziativa einaudiana di pubblicare nella prestigiosa Collezione di poesia un volume di Philippe Jaccottet, per la prima volta presentato al pubblico italiano con una raccolta organica dei suoi versi, con la prefazione e la traduzione del più promettente dei poeti ticinesi, Fabio Pusterla, e con un saggio illuminante di Jean Starobinski.
Jaccottet è autore svizzero di nascita e formazione, francese di adozione e, potremmo dire, di vocazione. Conduce oggi a Grignan, un paesino della Provenza, una vita schiva e dedita alla riflessione, alla produzione e alla diffusione della poesia. Traduttore dal tedesco (Musil, Rilke e Mann) e dall’italiano (Ungaretti, soprattutto, ma anche Montale e Caproni), è stato stranamente ignorato dalla nostra cultura così debitrice nei suoi confronti, forse solo (come suggerisce Pusterla) per caso, per dimenticanza. O più probabilmente perché Jaccottet ha scelto una via “moderata” e “dignitosa” di approccio alla poesia, snobbando da un lato sia l’impegno ideologico e lo sperimentalismo formale più azzardato, dall’altro contestando nei fatti il rimbaudiano “sregolamento dei sensi”, che tende a riflettersi esteticamente nella rottura totale con la tradizione.
Con Montale, Jaccottet ha scelto la via della «decenza quotidiana» nell’esistere: «Temevo soprattutto le formule categoriche, i rifiuti assoluti o le affermazioni perentorie, perché mi pareva che l’uomo che alza la voce o che picchia il pugno sul tavolo lo fa spesso meno per reale convinzione che per coprire il rumore dei suoi dubb»i.

E a questa sobrietà, essenzialità esistenziale, Jaccottet rimane coerentemente fedele anche nella scrittura; la poesia è lettura esatta, decifrazione puntuale delle cose, non paludata da espedienti formali che depistino il lettore distraendolo dal suo fine ultimo: che è quello di cogliere barlumi di verità, di approssimazione alla luce. «Non è appunto questo il lavoro che il poeta effettua sulle parole? Da opache, come gli furono date, si ostina a rendere loro la trasparenza, a renderci la felicità… Forse bisognerà ridursi a una posizione più modesta, a una via di mezzo: la poesia che illumina la vita come una nevicata, ed è già molto aver conservato gli occhi per vederla…».

Qual è, dunque, il compito del poeta? Jaccottet risponde in versi: «Compito dello sguardo che s’offusca / non è sognare o piangere, è vegliare / come un pastore il gregge, e richiamare / ciò che rischia di perdersi nel sonno»». E’ un richiamo che può essere attuato con parole comuni, addirittura logore, attraverso la descrizione di paesaggi quasi virgiliani (i boschi, le acque, insetti e uccelli…) e di situazioni di vita quotidiana che in qualche modo ricordano la nostra linea lombarda («Domenica popola i boschi di bambini che frignano, / di donne che invecchiano; / un ragazzo su due sanguina / si lasciano cartacce vicino allo stagno…») secondo moduli consolidati da una tradizione letteraria millenaria (rime, sonetti…). Dov’è dunque la peculiarità, ma anche la modernità di questa voce poetica? E’ nella sua limpidezza assoluta, nella sua cristallina musicalità, che ci fa respirare l’aria rarefatta e purissima dell’alta montagna, la trasparenza luminosa di altre atmosfere. Ma anche nella sua sapienza tranquilla, sicura e rassicurante, di una risposta che si intuisce al di là del mistero, della parola-viatico che ci accompagni, aiutandoci a passare «senza paura e senza rimpianti la soglia di quell’oscuro spazio che ci attende per inghiottirci o per cambiarci».

 

«L’Arena», 6 agosto 1992

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JACKSON

SHIRLEY JACKSON, LA RAGAZZA SCOMPARSA – ADELPHI, MILANO 2019

Shirley Jackson (19161965), scrittrice e giornalista statunitense, fu resa celebre dal breve romanzo  di critica sociale La Lotteria (1948), e da L’incubo di Hill House (1959), considerato una delle più celebri storie di fantasmi del ventesimo secolo. Adelphi ha pubblicato nella “Biblioteca minima” tre suoi racconti, di cui il primo (La ragazza scomparsa), dà il titolo al libro. Martha Alexander, protagonista invisibile della prima novella, è un’adolescente amorfa che frequenta un campo estivo: amorfa perché pare che nessuno si ricordi di lei, né sappia darne una qualsiasi descrizione, quando improvvisamente sparisce. Né la sua compagna di stanza Betsy, né la direttrice chiamata Zia Jane, o la sua assistente, o l’infermiera, o la cuoca. La ragazzina esce canticchiando dalla camera condivisa con Betsy, senza che qualcuno si preoccupi della sua assenza. Quando, dopo quattro giorni, ci si decide a dare l’allarme e a presentare una denuncia di sparizione alla polizia, allora fioccano le interpretazioni e le testimonianze più assurde e fantasiose. In realtà della presenza di Martha al campus non ci si ricorda niente: sembra non abbia mai partecipato ad alcuna attività ricreativa, e non si sia fatta mai notare per atteggiamenti particolari. Anche la sua foto di riconoscimento appare sfumata, e nemmeno la sua problematica famiglia offre qualche aiuto alle ricerche. Che si protraggono per mesi, dapprima affannose (squadre di soccorso, elicotteri, sensitivi visionari…), in seguito sempre più distratte. Fino all’inatteso e tragico epilogo.

Il secondo racconto, Viaggio con signora, è incredibilmente godibile, nella sua asciutta leggerezza. Un bambino di nove anni, Joe, viene accompagnato alla stazione dai genitori perché deve raggiungere da solo il nonno in una città vicina. Dopo mille raccomandazioni da parte della mamma apprensiva e agitata, si sistema felicemente su un sedile del treno, mangiando cioccolata e leggendo fumetti. Purtroppo la sua auspicata tranquillità viene infranta dall’arrivo di una elegante ma invadente signora che gli si siede accanto, facendogli molte fastidiose domande. Tale seccatura si rivela tuttavia presto eccitante, quando il ragazzo scopre che la sua compagna di viaggio è ricercata per furto, e decide di prestarle un solidale appoggio per tutta la durata del viaggio. Anche in questo caso, l’autrice Shirley Jackson riesce a intrattenere il lettore con il gusto di una suspence intelligentemente risolta nel divertente finale.

Incubo, titolo dell’ultimo racconto, indica perfettamente l’atmosfera ansiogena e oppressiva in cui si muove la protagonista, Miss Toni Morgan, efficiente segretaria newyorkese a cui è stato affidato l’incarico di consegnare un pacco in un punto lontano della city. Tormentata dalla visione di cartelli pubblicitari che invitano la popolazione a partecipare a un concorso per individuare una misteriosa Miss X, intuisce gradatamente di essere lei stessa l’ambita preda della caccia all’uomo (alla donna!), e tenta vanamente di sottrarsi a quest’angoscia, cambiandosi continuamente d’abito o nascondendosi in vari rifugi improvvisati. Pure qui, la conclusione a sorpresa giunge a temperare con un sorriso l’inquietudine di chi legge.

Molto efficace nel delineare il quadro sociale in cui si muovono i suoi personaggi, Shirley Jackson privilegia la rappresentazione di ambienti urbani in cui le persone vivono relazioni disturbate con il prossimo, tendendo a un isolamento che spesso suscita in loro paure e complessi di persecuzione: i suoi romanzi possono essere definiti, più che noir o gialli o horror fantascientifici, indagini psicologiche sul male oscuro di una civiltà che si affaccia alla spersonalizzazione estraniante del nascente capitalismo.

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/La-ragazza-scomparsa-Jackson.html                15 aprile 2019

RECENSIONI

JACKSON

SHIRLEY JACKSON, POMERIGGIO D’ESTATE – ADELPHI, MILANO 2020 – P. 32 (ebook)

In piena emergenza Covid 19, le nostre case editrici sono state costrette a sospendere la maggior parte delle pubblicazioni, scegliendo di proporre ai lettori selezioni meditate di ebook, più facilmente e velocemente acquistabili dei prodotti cartacei. Così ha fatto Adelphi, inaugurando la collana Microgrammi, presentata al pubblico in questi termini:“Abbiamo deciso di farvi leggere, in formato digitale, alcuni dei testi che avremmo pubblicato in queste settimane e che usciranno in un futuro imprecisato. Più qualcosa d’altro che non era immediatamente in programma e qualcosa che non lo era affatto. In questa serie troverete quindi racconti di vario genere, tratti da volumi più ampi, nonché brevi inediti. In un caso e nell’altro, abbiamo cercato di dare a questi minuscoli libri la forma non di un estratto, ma appunto di un libro autonomo, per quanto in miniatura. È una deformazione professionale, verosimilmente: ma ci ostiniamo a rimanerle fedeli”.

L’ultimo di questi ebook adelphiani si intitola Pomeriggio d’estate, e ospita due brevi racconti di Shirley Jackson (19161965), scrittrice e giornalista statunitense, resa celebre dal romanzo  di critica sociale La Lotteria (1948), e da L’incubo di Hill House (1959), considerata una delle più celebri storie di fantasmi del ventesimo secolo. Molto efficace nel delineare il background culturale in cui si muovono i suoi personaggi, Shirley Jackson privilegiava la rappresentazione di ambienti urbani in cui le persone vivono relazioni disturbate con il prossimo, tendendo a un isolamento che spesso suscita in loro paure e complessi di persecuzione: i suoi romanzi possono essere definiti, più che noir o gialli o horror fantascientifici, indagini psicologiche sul male oscuro di una civiltà che si affaccia alla spersonalizzazione estraniante del nascente capitalismo.

La sofferta biografia della Jackson (una madre ostile e anaffettiva, un marito possessivo e infedele, quattro figli da accudire, un aspetto fisico quasi respingente, un carattere spigoloso e introverso, la portarono ad abusare di alcol e psicofarmaci) incise certamente sia nella scelta tematica delle sue narrazioni, sospese tra sarcasmo e ferocia, sia nella sospettosa diffidenza con cui il mondo editoriale e il pubblico dei lettori circondarono la sua figura di donna e scrittrice.

Invito a cena e Pomeriggio d’estate – le due novelle presenti nell’ebook – sono tratte dal volume antologico La luna di miele della signora Smith, la cui uscita è programmata entro quest’anno. Nel primo racconto, una giovane donna ingenua e pasticciona, una sorta di Bridget Jones ante-litteram (“Mi spiego, ogni volta che cerco di fare bella figura qualcosa va storto”), sfida in una gara culinaria un affascinante e vanesio giovanotto, noto per la sua abilità in cucina, invitandolo a cena. “Hugh Talley fa lo stesso effetto a un sacco di gente: è bellissimo, in quel modo virile che funziona perfettamente nei film, ma diventa atroce se uno come lui lo incontri tutti i giorni in ufficio. Fa sembrare tutti gli altri uomini pallidi e trasandati”. Assolutamente incapace di realizzare un qualsiasi piatto appena commestibile, la protagonista viene salvata in extremis dall’intervento di una vecchietta che si incarica di provvedere sia alle vivande sia alla presentazione della tavola. Ma l’umiliazione esercitata dall’ospite, attraverso quell’atteggiamento sfottente di mansplaining che molti uomini assumono quando vogliono far pesare la propria superiorità, la induce a un sano gesto di vendetta liberatoria.

Le poche pagine di Pomeriggio d’estate introducono invece una vicenda del tutto differente, che ha per protagoniste due bambine di cinque anni, vicine di casa in un tranquillo ed elegante quartiere della middle class americana. Carrie e Jeannie giocano con le loro bambole, saltano alla corda, costruiscono “minuscole casette di foglie ed erba” a imitazione dei salotti delle loro villette borghesi, si invitano vicendevolmente nelle rispettive abitazioni, sotto la benevola attenzione dei genitori. A volte si spingono lungo i curati ed erbosi viali vicini, soprattutto per salutare una loro amichetta, Tippie, che non esce mai di casa, ma i cui giocattoli appaiono bene in vista sulla finestra, a ogni smuoversi delle tende. Come mai Tippie non esce mai di casa? Che sia malata, o in punizione, o abbia una mamma apprensiva?

Shirley Jackson ama giocare con le ombre, schernire il perbenismo farisaico statunitense, ammiccare sornionamente a ciò che sopravanza realtà e fantasia insieme.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 21 aprile 2020

 

 

 

 

RECENSIONI

JANECZEK

HELENA JANECZEK, BLOODY COW – IL SAGGIATORE, MILANO 2012

Helena Janeczek, nata nel 1964 a Monaco di Baviera da genitori ebrei polacchi, vive da molto tempo in Italia, occupandosi di editoria. In questo suo terzo romanzo, dalla scrittura tesa e originalissima, coinvolgente e spiazzante, si occupa di uno scandalo che ha terrorizzato l’Europa alla fine del ‘900, contagiando politica e media mondiali: la malattia di Creutzfeldt-Jacob, comunemente conosciuta come morbo della mucca pazza. Oggi ce ne siamo quasi dimenticati, ma vent’anni fa un’ansia fobica e irrazionale aveva paralizzato i consumi di carne, stravolto abitudini alimentari, dominato con toni apocalittici quotidiani, televisioni e conversazioni private. Janeczek ci fa ripiombare in quell’incubo, e la prima parte del libro assume toni sarcasticamente feroci nei riguardi sia della barbarie consumistica che adultera cibi e coscienze, avvelenandoci tutti, sia della nostra indifferente connivenza con le sistematiche torture del mondo animale e con la corruzione capitalistica del mercato alimentare. Moriremo di carne infetta e mafiosa; moriremo di cecità e egoismo, ma anche di ingordigia e di assuefazione colpevole al male: «…E allora ci aspettiamo che si nasconda lì dentro, nel metanolo nel vino, nella diossina dei polli, nelle bottiglie di Coca-Cola, negli organismi geneticamente modificati contrabbandati dentro ai biscotti, la nostra morte, e certo nelle mucche ammalate…; …mucche cui cedono le gambe, cui gli occhi si rovesciano all’indietro…; …bestiame, carne, sangue, siero, grassi, farine animali, ogni sorta di scarto o avanzo, illegalmente o legalmente esportato con lo sconto speciale».

A questo macello universale prono alle leggi di sfruttamento economico è dovuta la morte incolpevole della giovane Clare Tomkins, vegetariana dall’età di undici: la sua terrificante e dolorosa agonia, lo strazio irrisarcibile della sua famiglia; sul tragico destino di Clare, Helena Janeczek scrive le pagine commosse e indignate che concludono questo notevole romanzo.

 

«Leggendaria» n.107, settembre 2014

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JANKELEVITCH

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, PERDONARE? – GIUNTINA, FIRENZE 2004

Vladimir Jankélévitch (Bourges, 1903-1985), filosofo e musicologo francese, figlio di ebrei russi immigrati, professore alla Sorbona e intellettuale impegnato sia nella Resistenza durante la guerra, sia nelle lotte del 68, scrisse alcuni vibranti testi sullo sterminio nazista, che furono raccolti nel 1971 in un volume, provocatoriamente intitolato: Perdonare?, e ripubblicati dalla Giuntina, con traduzione di Daniel Vogelmann. Perdonare, quindi? Dimenticare, soprassedere, amnistiare «questo mistero della malvagità gratuita che è stato l’olocausto?» La risposta appassionata e sofferta di Jankélévitch è «NO!». Un no quasi urlato, meditato con lucidità ma anche e soprattutto viscerale, polemico, feroce. Che si ribella con determinazione ad ogni caritatevole appello all’oblio:

«Il nostro risentimento, la nostra incapacità di liquidare il passato… non si chiama rancore, ma orrore»; «Fare dei paralumi con la pelle dei deportati… Bisogna essere un vampiro metafisico per avere un’idea del genere: che dunque non ci si meravigli se un crimine insondabile provoca una meditazione inesauribile».

Questa meditazione sfocia in una difesa ad oltranza, infiammata, del popolo ebreo: «Gli ebrei sono soli, disperatamente soli, nella loro fortezza assediata»; «Perché gli ebrei hanno sempre torto: torto di vivere, torto di morire». E in una condanna senza appello del popolo tedesco: «Non perdonare loro, perché sanno quello che fanno»; «Dal macchinista dei convogli fino al miserabile burocrate che teneva la lista delle vittime, ci sono ben pochi innocenti fra questi milioni di tedeschi muti e complici»; «Ci sarà rimproverato di paragonare questi malfattori a dei cani? Lo ammettiamo: il paragone è ingiurioso per i cani»; «La buona coscienza dei tedeschi di oggi ha qualcosa di stupefacente: i tedeschi sono un popolo impentito».

La proposta del filosofo è quindi conseguente, e dettata da un rancore mai ammorbidito, da un dolore assolutamente vendicativo: boicottare Germania e Austria, non andare più in questi civilissimi e ricchi paesi senza memoria. «Il perdono! Ma ci hanno mai chiesto perdono?»

 

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www.sololibri.net/Perdonare-Vladimir-Jankelevitch.html    10 marzo 2017

RECENSIONI

JANKÉLÉVITCH

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, L’IPSEITÀ E IL QUASI NIENTE 

SOLFANELLI, CHIETI 2017

 

I due importanti testi di Vladimir Jankélévitch. L’ipseità e Il «quasi-niente», pubblicati per la prima volta in italiano dall’editore Solfanelli nel 2017, sono stati scritti rispettivamente nel 1939 e nel 1954.

Jankélévitch (1903-1985), nato da una famiglia di ebrei russi immigrati in Francia, è stato filosofo, musicologo e pianista. Professore alla Sorbona e autore di numerosi volumi di estetica e morale, ha indagato la dimensione etica della sofferenza, della perdita, del perdono, soffermandosi in particolare sul senso dell’ineffabile come sentimento, intuito soprattutto dalla musica, che travalica i concetti tradizionali della riflessione contemporanea. Nella prefazione, Gianluca Valle così lo definisce: “è un pensatore sfuggente e difficilmente inquadrabile nelle correnti filosofiche del tempo (la fenomenologia, la psicoanalisi, l’esistenzialismo e il marxismo); un chirurgo della parola che viene svuotata del suo potere rappresentativo e definitorio e impiegata nella sua forza evocativa e metaforica, attingendo con un intento antimoderno al greco e al latino, e costringendo il lettore a compiere vorticose scorribande concettuali”.

Servendosi degli strumenti dell’intuizione e dello humour, aggirando i colossi teorici della filosofia occidentale Marx e Freud, e raccogliendo invece l’eredità bergsoniana, Jankélevitch in questi due brevi saggi offre un’esemplare manifestazione della sua abilità di scompaginare le certezze consolidate, utilizzando la categoria della negazione, per definire non tanto il “cosa è”, quanto il “cosa non è” di un concetto, di un fatto, di un’azione.

Ipseità quindi si determina come negazione della molteplicità, e il quasi-niente come irriducibilità allo scorrere ordinario del tempo. L’ipseità è inalienabile, inviolabile, impossedibile, incomparabile, pura esistenza che qualifica l’individuo come unicità pur nel suo essere comune con gli altri, ma al di là di ogni fare e avere particolare. Il quasi-niente è invece un evento imprevisto, una sorpresa, una novità che si situa tra l’essere e il nulla, la rivelazione di un istante che ha una valenza ontologica o metafisica, non puramente pratica, e prospetta un divenire inconosciuto.

L’ipseità indica l’umanità e la dignità al grado zero dell’essere umano, non quantificabile perché unica e irripetibile, fondata su sé stessa indipendentemente dalle scelte individuali messe in atto. Non corrisponde a un’idea astratta dell’“essere uomo”, ma si riferisce alla specificità propria dell’individuo, insieme immanente e trascendente. Se questo concetto si può avvicinare ad altri simili, espressi da filosofi antichi e moderni (tra gli altri, Heidegger con il suo “Dasein”, che tuttavia Jankélévitch non nomina mai, ritenendolo colpevolmente implicato nel nazismo), più originale risulta la riflessione sul “quasi-niente”, inteso come evento ultra-empirico che irrompe nella continuità del tempo, o come l’intuizione di una mutazione istantanea, impercepibile transizione tra la vita e la morte, tra il bene e il male, che può essere espressa e resa comprensibile specificamente nell’ascolto dell’ineffabile intuito e suggerito dalla musica, per esempio nei “pianissimi” di Debussy o di Albeniz, quando il suono smorzato si avvicina alla soglia del silenzio, e del mistero. Il “quasi-niente”, come un lampo o una scintilla, si situa aldilà del tempo e dello spazio, accade nell’istante, nell’attimo che appare scomparendo e scompare apparendo, privo di passato e di futuro, trasformazione dell’essere che travalica qualsiasi spiegazione intellettuale.

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 5 dicembre 2022

RECENSIONI

JARRY

ALFRED JARRY, L’AMORE ASSOLUTO – ADELPHI, MILANO 1991

La data apposta in calce a questo testo è quella del 20 febbraio 1899: improbabile che Alfred Jarry abbia scritto in un giorno solo i 15 episodi che lo compongono, anche se hanno il respiro ansante e concitato dell’illuminazione folgorante, impetuosa. Modernissimi nella forma incalzante, quasi sincopata del fraseggio, risultano nel contenuto provocatori e grotteschi, allucinati e stranianti, scandalosi fino alla blasfemia. Che l’autore intendesse farsi gioco dei testi sacri è del tutto evidente, dall’esplicito simbolismo che richiama alla Genesi, ai Vangeli e all’Apocalisse: il primo capitolo si intitola sarcasticamente “Sia fatta la tenebra!”, l’ultima frase rimanda alla più devota delle invocazioni cattoliche: ” – … Prega per noi… Adesso, che è l’ora della nostra morte.” E il protagonista si chiama Emmanuele-Dio, alter-ego di Jarry e di Cristo: un Gesù bambino adorato da novelli Magi, un Gesù crocefisso, figlio e amante di una Miriam-Varia-Melusina che incarna purezza e peccato, e figlio improbabile di un vecchio Giuseppe falegname, o Joseb notaio, nel frenetico sovrapporsi di personaggi interscambiabili e camaleontici, di situazioni angoscianti e torbide. Emmanuele è imprigionato in una cella in attesa della condanna a morte: non si conosce la sua colpa, ma ci si dice che “E’ un uomo del tipo di Dio… Non può essere altro che l’eterno incarcerato, le cui parole rispondono tutte a un interrogatorio”. Jarry trasforma i suoi dati biografici, cioè di una vita breve, tormentata e dissoluta, in un paradigma di esistenza più genericamente e miseramente sconfitta: “Ecco l’Apocalisse del molto comune. La storia di una di quelle larve”. Il suo Emmanuele è vittima e carnefice di se stesso, preda di incubi e desideri assatanati, in cui verità e menzogna si confondono nell’attesa di una qualsiasi fine redentrice: “ha come prigione soltanto la scatola del suo cranio, ed è soltanto un uomo che sogna seduto accanto alla sua lampada”.

 

https://www.sololibri.net/L-amore-assoluto-Jarry.html                  18 agosto 2020

 

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