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RECENSIONI

JEAN-PIERRE VERNANT

JEAN-PIERRE VERNANT, LE ORIGINI DEL PENSIERO GRECO ‒ SE, MILANO 2019

Jean-Pierre Vernant (1914-2007), storico della filosofia e delle religioni, si è occupato in modo particolare della mitologia nel mondo antico. Fu autore di un libro-cult quale Mito e pensiero presso i greci (Einaudi, 1978), in cui utilizzava gli strumenti della psicologia e dell’antropologia per esplorare l’evoluzione dell’uomo arcaico da una cultura mitologica-religiosa a una più politica, scientifica e filosofica, nel percorso che condusse il pensiero dei greci dal soprannaturale-magico alla scoperta della razionalità.

Nel volume scritto nel 1962 e appena riedito dalle edizioni milanesi SE, Le origini del pensiero greco, Vernant indaga settecento anni di storia ellenica, dal dodicesimo al quinto secolo, cioè dal crollo dei regni micenei determinato dall’invasione dei Dori, fino all’apogeo della civiltà ateniese. Nei tre capitoli iniziali del volume ricostruisce il quadro storico della civiltà micenea, fiorita tra il 1500 e il 1100 a. C.. In questo periodo di massima operosità, i micenei apparivano strettamente associati alle genti del Mediterraneo orientale, con vivaci scambi culturali e commerciali con il mondo asiatico. La vita sociale era accentrata attorno al palazzo del re (anax), che praticava un controllo rigoroso sulla popolazione, appoggiato da un’aristocrazia bellicosa, ed esercitava un dominio assoluto, impedendo di fatto qualsiasi autonomia non solo dei sudditi, ma anche dei dignitari e dei funzionari di corte. Tutto il sistema di potere si fondava sulla scrittura e la costituzione di archivi, organizzati da scribi cretesi passati al servizio delle dinastie micenee, che avevano trasformato la scrittura “lineare A” usata nel palazzo di Cnosso, adattandola al dialetto dei nuovi signori (lineare B). Tale grafia, decifrata da due archeologi inglesi solo intorno al 1950, rimase patrimonio di cerchie intellettuali rigidamente chiuse, che fornirono al sistema palazziale le tecniche e i quadri dell’amministrazione e dell’erario.

Con l’invasione dorica, si ruppero i legami con l’Oriente, provocando la conseguente diminuzione degli scambi commerciali e il ritorno a un’economia di sussistenza: scomparvero scrittura e architettura, e dal 1200 all’800 (il cosiddetto Medioevo ellenico o età oscura) la Grecia conobbe un periodo di totale depauperamento culturale, economico e istituzionale. Il graduale passaggio all’epoca dei poemi omerici e delle città-stato (poleis), fu segnato da una progressiva perdita di mistero nel rapporto tra gli uomini e le divinità, da una laicizzazione dell’autorità regale, da un cambiamento nelle usanze funerarie (con la rinuncia all’inumazione in favore della cremazione), da una stilizzazione dell’arte ceramica. Vernant situa proprio a partire dall’VIII secolo la separazione tra il mondo dei mortali e quello degli dei, sancito poi dalla poesia epica, che diede avvio a un effettivo affrancamento dal mito.

Fu soprattutto l’apparizione delle poleis a comportare un reale mutamento nella vita e nella cultura della Grecia, trasformando la vita sociale e le relazioni tra i cittadini. La parola, la discussione libera, il confronto dialettico diventano fondamentale strumento politico di democrazia; la cultura e il possesso di conoscenze specifiche si rendono fruibili per un numero sempre più vasto di uomini, anche grazie alla scrittura con cui si redigono leggi, si divulgano nuove idee e scoperte tecniche, si sottopongono a critica e interpretazioni diverse anche le funzioni religiose. Persino l’organizzazione militare si modifica, celebrando non solo l’eroismo individuale, bensì lo spirito di sacrificio e obbedienza nel combattimento collettivo. In particolare tre innovazioni teoriche, nate nella colonia di Mileto, in Asia Minore, nel VI secolo, segnano il passaggio dal pensiero mitico a quello scientifico: il carattere profano e positivo (non più sacro-rituale) assegnato ai fenomeni naturali, l’idea di un cosmo ordinato che obbedisce a leggi di regolarità, e infine la visione geometrica delle scienze allora conosciute (astronomia, geografia), collegate tra loro da relazioni simmetriche. Tali caratteristiche costituiscono la grande novità che differenzia la nuova cultura della Grecia rispetto a quella passata o del Vicino Oriente. L’analisi di Jean-Pierre Vernant ci conduce progressivamente a individuare i momenti nodali che portarono i greci a modificare la loro condotta morale, il loro universo mentale, i rapporti sociali e le basi dell’economia, dando infine origine al pensiero occidentale moderno.

 

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https://www.sololibri.net/Le-origini-del-pensiero-greco-Vernant.html      18 marzo 2019

 

 

RECENSIONI

JEBREAL

RULA JEBREAL, GENOCIDIO – PIEMME, MILANO 2025

“Dopo una vita trascorsa a interrogarmi, personalmente e professionalmente, su come il mondo abbia potuto permettere catastrofi come l’Olocausto, ho trovato la risposta tra le macerie nella mia terra martoriata, a migliaia di chilometri di distanza dai campi di sterminio europei. Scrivo questo libro perché il genocidio di Gaza mi ha cambiata nel profondo. Ha rivelato il vuoto morale e politico di un mondo che riduce l’umanità a una gerarchia di morte. Scrivo affinché nessuno, in futuro, possa dire di non sapere o che non poteva sapere… Scrivo perché le mie parole possano aiutare a impedire che il genocidio di Gaza diventi una dottrina da esportare nel resto del mondo, un modello da applicare ogni volta che il potere decida di avere ragione della ragione, minacciando la sicurezza e l’esistenza dell’umanità stessa”.

Con queste parole Rula Jebreal (Haifa 1973), giornalista esperta di politica internazionale, cresciuta a Gerusalemme e residente da anni negli Stati Uniti, introduce il suo volume Genocidio. Quello che rimane di noi nell’era neo-imperiale, in cui ricostruisce la storia della popolazione palestinese, soffermandosi particolarmente sulle vicende politiche che hanno portato alla creazione dello stato di Israele e ai successivi conflitti con la popolazione arabo-musulmana, fino alla recente e tragica invasione della striscia di Gaza.

Il resoconto puntuale delle sofferenze della sua gente viene misurato in cifre: oltre 61.000 morti a marzo del 2025 – secondo il calcolo al ribasso delle Nazioni Unite –, di cui il 75% donne e bambini con ventunomila dispersi, dai corpi disfatti e irriconoscibili; la distruzione del 94% delle strutture sanitarie di Gaza con centinaia di attacchi mirati, che hanno ucciso 1.200 operatori sanitari; più di duecento giornalisti assassinati; la devastazione del 90% del territorio: scuole, ospedali, palazzi, infrastrutture, coltivazioni; la carenza assoluta di cibo e acqua che ha provocato denutrizione e malattie croniche; un elenco tristissimo di torture, violenze sessuali, omicidi efferati… Un vero e proprio massacro che l’Occidente democratico guidato dagli Stati Uniti mistifica e minimizza, giustificando l’ingiustificabile, mettendo in atto una macchina di propaganda più letale delle stesse armi utilizzate, “mentre il mondo continua a girarsi dall’altra parte”.

Rula Jebreal ripercorre la storia di questo genocidio a partire dalla Dichiarazione di Balfour del 1917 con cui l’impero britannico accordava al movimento sionista la creazione di un “focolare nazionale”, decidendo delle sorti dei popoli nel territorio palestinese. “Il potere politico e militare ebraico si è affermato, in Palestina, attraverso un rapporto violento con i nativi arabi, tanto musulmani quanto cristiani, un rapporto di disprezzo e volontà di schiacciamento, nella consapevolezza piena di stare occupando un territorio in spregio dei suoi abitanti”. Contemporaneamente, i governi europei utilizzavano il sionismo per giustificare la loro volontà di espellere gli ebrei dai propri Paesi. Per i palestinesi iniziava nei decenni successivi la Nakba, la catastrofe, un progetto di discriminazione, cancellazione, riduzione progressiva dei diritti e della presenza fisica dei palestinesi in Palestina, con la loro sostituzione etnica permanente.

Perché tale programmata occupazione delle terre palestinesi si può correttamente definire “genocidio”? Nel novembre del 2024, Amnesty International ha pubblicato un rapporto sull’intento genocida della politica militare israeliana, che ha intenzionalmente violato il diritto internazionale umanitario. Concetto ribadito da Papa Francesco, dal Segretario delle Nazioni Unite António Guterres, dall’ex ministro degli Esteri europeo Josep Borrell, dai governi di Spagna, Irlanda, Sudafrica e Colombia, dalla Corte internazionale di giustizia, dalle Ong Human Rights Watch, Oxfam, Save the Children, Medici senza frontiere. E coraggiosamente documentato da Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani, nel suo report ONU del 2024 Anatomia di un genocidio, in cui accusava Israele di volere la distruzione materiale, morale e culturale del popolo palestinese, attraverso la negazione della sua dignità umana. Tali denunce sottolineano il rischio che, se lasciato impunito, questo genocidio possa rappresentare un precedente storico da esportare altrove, facendo “saltare l’ordine democratico, verso nuove giungle dominate dalla legge del più forte”.

Il genocidio di Gaza ha radici lontane, nelle dichiarazioni violentemente razziste e antidemocratiche dei dirigenti politici e militari di Israele, a partire da Theodor Herzl per arrivare a David Ben-Gurion, e poi a Golda Meir, Moshe Dayan, Menachem Begin, Badshir Gemayel, Ariel Sharon, fino all’attuale rappresentanza parlamentare guidata da Benjamin Netanyahu, che per decenni hanno portato avanti un progetto coloniale di sostituzione etnica per garantire la supremazia ebraica e costituire una “Grande Israele” esclusivamente per gli ebrei. “Oggi l’obiettivo di Israele è di cancellare la Palestina – una Palestina senza i palestinesi – con la complicità e il sostegno esplicito del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha legittimato il progetto di pulizia etnica dell’estrema destra israeliana, che il premier Netanyahu ha portato al potere, consolidando l’occupazione illegale, legalizzando la discriminazione razziale ed etnica del nostro popolo”.

Rula Jebreal ripercorre la storia della sua famiglia, dai nonni che dovettero lasciare la loro abitazione ad Haifa, ridotti a povertà estrema, al padre rifugiato con la famiglia a Gerusalemme est, a lei costretta a vivere con le sorelline in un orfanatrofio fino all’espatrio in America, dove dal 2018 insegna all’Università di Miami affrontando i temi della propaganda e del genocidio. Con coraggio e ostinazione ha creato una Fondazione, insieme a giuristi internazionali, diplomatici statunitensi e israeliani, per denunciare la strage in atto a Gaza sia al Congresso americano sia al Parlamento Europeo di Bruxelles, dove si è desolatamente imbattuta nell’indifferente scaricabarile della Vicepresidente e Deputata del PD Pina Picierno.

La voce dell’autrice si fa particolarmente commossa quando si sofferma sugli atti di eroica resistenza degli abitanti di Gaza (medici, operatori umanitari, giornalisti, avvocati e giudici, artisti), fornendo una puntuale documentazione del loro coraggioso operare. Infine enuncia tutte le iniziative legali che alcuni organismi politici mondiali hanno svolto e continuano a svolgere in appoggio alla popolazione palestinese (il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, il Consiglio per i diritti umani, la Corte internazionale di giustizia…), denunciando le potenze occidentali che esportano tecnologie di morte, trasgrediscono all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra che vieta i trasferimenti forzati individuali o di massa, e negano l’apartheid, l’occupazione illegale e l’assedio paralizzante messo in atto da Israele a Gaza e in Cisgiordania.

Così infine conclude la sua drammatica e angosciante testimonianza: “La situazione non fa che peggiorare giorno dopo giorno, e la mia disperazione cresce. Siamo evidentemente alle soglie della soluzione finale per il mio popolo… Ma la nostra determinazione è superiore al dolore, è più forte dell’oppressione che grava su di noi da cinquantotto anni”.

 

«Odissea», 13 maggio 2025

RECENSIONI

JEDLOWSKI, CERULO

PAOLO JEDLOWSKI, MASSIMO CERULO, SPAESATI – IL MULINO, BOLOGNA 2023

Il volume di Paolo Jedlowski e Massimo Cerulo, Spaesati, si interroga sulle esperienze di dislocamento (e relativo spaesamento) delle persone che, lasciati i luoghi in cui sono cresciute, si muovono abitualmente fra realtà geografiche – e quindi sociali – differenti. Persone che partono, ritornano, viaggiano senza essere costrette a emigrare da condizioni drammatiche di guerre, persecuzioni, povertà, cambiamenti climatici, ma spinte da ragioni più banalmente comuni, “per studio, per lavoro, per amore o per altri motivi”, in una sorta di pendolarità allargata, di mobilità fisica e mentale che talvolta implica il pericolo di una perdita di identità.

I due autori sono legati da una similarità biografica: uno, Jedlowski (Milano 1952), è il docente che si è spostato dal settentrione al meridione per insegnare Sociologia all’Università di Calabria; l’altro, Cerulo (Rossano 1980), è l’allievo che ha percorso il tragitto opposto, occupando diverse cattedre nella nostra penisola fino ad arrivare a quella attuale di Napoli.

Alternandosi, i due professori hanno scritto i dieci capitoli del saggio confrontando il proprio diverso vissuto di sradicati, indagando emozioni e nostalgie, successi e conquiste, smarrimenti e riscatti, scanditi dalle stesse faticose costrizioni: spostamenti in treno, pullman, aereo, automobile, soste in alberghi e bar, orari rispettati o stravolti, incontri arricchenti e dispersivi.

La “vita mobile” raccontata da Paolo Jedlowski prende le mosse dal suo trasferimento da Milano a Cosenza per raggiungere la moglie, l’impiego di entrambi in quella nuova e innovativa università calabrese, la nascita dei due figli, il rapporto con la provincia e la campagna. Con finezza psicologica e una patina di malinconia, la vita di genitori nonni zii viene ripercorsa nei trasferimenti obbligati o volontari, confrontati con gli esili che da sempre hanno costretto generazioni intere, nel corso della storia umana, a tagliare le proprie radici per riambientarsi altrove, patendo pregiudizi razziali, conflittualità caratteriali e linguistiche, stravolgimenti di abitudini consolidate. La pendolarità di docenti, professionisti, studenti, costretti a spostarsi tra varie città e abitazioni, settimanalmente o mensilmente, dividendosi tra impegni, amici, parenti, su e giù per l’Italia o addirittura con puntate regolari all’estero, oggi è diventata prassi comune e pressoché necessaria.

Anche Massimo Cerulo, calabrese formatosi nell’Università in cui insegna Jedlowski, ha imparato presto quanto disagio comporti la “spartenza”, termine che associa il distacco da casa alla lacerazione che tale distacco comporta. Per un giovane meridionale è tuttora giocoforza evadere da un sud atavicamente immobile, pena la disoccupazione, la sotto-occupazione, l’umiliante sensazione di fallimento personale. Doloroso partire, impossibile tornare senza sentirsi in colpa verso sé stessi e l’ambiente familiare che ha sostenuto economicamente e affettivamente il trasferimento altrove di un figlio promettente e dotato.

L’ISTAT ha recentemente evidenziato che negli ultimi dieci anni sono stati circa 1.138.000 i movimenti in uscita dal Sud e dalle isole verso il Centro-Nord, e circa 613.000 quelli sulla rotta inversa. Il bilancio tra uscite ed entrate si è tradotto in una perdita netta di 525.000 residenti meridionali. La regione del Mezzogiorno da cui partono più emigrati è la Campania (30%), seguita da Sicilia (23%) e Puglia (18%). Chi parte ha un’età compresa tra i 18 e i 35 anni (53%), è laureato o almeno diplomato, predilige come meta la Lombardia e l’Emilia Romagna.

Ovviamente, il pendolarismo non riguarda solo le categorie culturalmente privilegiate dei docenti e degli studenti: viaggiano in continuazione consulenti aziendali, tecnici, rappresentanti di commercio, camionisti, marinai dei cargo, hostess, piloti d’aereo, ferrovieri… Per tutti loro l’esperienza extra-ordinaria del viaggio si trasforma lentamente in pratica ordinaria, attraverso una strategia di quotidianizzazione messa in atto per sopravvivere all’impressione decontestualizzante di essere sempre fuori luogo, in un altrove che può concedere molta libertà (relazioni diverse, amori non esclusivi,

amicizie influenti, paesaggi sempre nuovi), ma implica anche sofferenza: “tensioni famigliari, stress, fatica”, e soste prolungate, perdite di tempo, snervanti routine, rituali ripetuti, mancanza di intimità, rimpianti su scelte mancate. Il desiderio di trovare casa convive comunque con la spinta a uscirne.

Sono molti i saggi e i romanzi citati da Jedlowski e Cerulo nei loro interventi, insieme a brani di interviste, film, trasmissioni televisive, poesie e soprattutto canzoni, quasi che una colonna sonora li abbia accompagnati nei loro spostamenti ad addolcire i momenti più malinconici di estraneità e disgregazione dell’io. Il sentimento della nostalgia è quello più esplorato, come inevitabile rievocazione di periodi trascorsi più felici di quelli presenti, ma anche come consapevolezza dell’impossibilità di ritrovare nell’oggi o in un ipotetico futuro le condizioni di vita, le persone e i luoghi così com’erano quando sono stati abbandonati. Nostalgia indagata insieme alla speranza, orientata verso il domani per controbilanciare lo sguardo rivolto a ieri: speranza di lasciare una traccia del proprio lavoro, un’eredità culturale ed etica, e forse anche speranza di una stanzialità che ripaghi del girovagare compiuto in tanti anni. Nelle intenzioni dei due autori, questo libro vuole essere un piccolo contributo a una «storia intima» d’Italia, nata dal confronto di tante esperienze diverse; noi lettori ne ricaviamo un riuscito esercizio di empatia verso “chi va e di chi resta” (per citare  Eugenio Montale).

 

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 14 marzo 2024

RECENSIONI

JELLOUN

TAHAR BEN JELLOUN, LE PARETI DELLA SOLITUDINE – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2017

Un grido di rabbia e di dolore che sembra uscire dai precordi dell’anima e dalle viscere, quello che Tahar Ben Jelloun, nato in Marocco nel 1944 e residente in Francia da moltissimi anni, autore acclamato di molti romanzi, ha lanciato dalle pagine di questo romanzo, Le pareti della solitudine. Scritto nel 1975, quando l’autore lavorava come psicologo in un centro di medicina psicosomatica a Parigi, osservando e ascoltando più di un centinaio di pazienti nordafricani sofferenti di disturbi sessuali o affettivi. Supportato dall’esperienza medica di uno psichiatra, che prescriveva ai pazienti psicofarmaci, Jelloun intuiva che il rapporto da stabilire con queste persone (allora quasi tutti uomini giovani e soli, poiché ancora non si prevedeva il ricongiungimento familiare) doveva utilizzare altri strumenti esplorativi e curativi, basati sul colloquio, sulla solidarietà e sulla comprensione. «Ero al centro di un disperato disagio, che non si poteva sospettare incontrando quegli uomini grigi e un po’ stanchi che passavano la domenica a sognare il paese lontano o a fare la coda davanti a un sordido albergo, dove qualche prostituta accettava di alleviare un po’ la loro solitudine».

Per raccontare questa esperienza, vissuta sulla sua pelle di studioso ma anche di immigrato marocchino, immagina allora una persona in carne e ossa, un giovane frustrato che avverte ostile e indifferente l’ambiente che lo circonda. Diventa lui, diventa Momo, ricostruisce il suo passato attraverso squarci di malinconica nostalgia, oppure urla la sua protesta e le sue rivendicazioni (economiche, sindacali e sessuali), con tutto l’odio e il rancore di chi si vede privato di ogni dignità e di ogni futuro. Momo lavora in fabbrica o nei cantieri, vive in una camera stretta come un baule, dorme in un letto a castello in un condominio fatiscente adibito ad ospitare extracomunitari; sulle pareti sono appesi elenchi di regole da rispettare, divieti e prescrizioni, multe e minacce di sfratto: «Il mio letto è sfondato. La mia schiena è rotta dalla fatica. Preparo da mangiare nel baule. Mangio e parlo ai miei stivali. Canto nei miei stivali. Urlo nei miei stivali. Piscio anche negli stivali».

Jelloun non conosce remore nel descrivere in prima persona l’abbruttimento fisico a cui Momo si riduce: la scarsa pulizia, i rapporti promiscui, la masturbazione, le fantasie malate. Lo fa alternando monologhi e descrizioni poetiche, dialoghi surreali, brani di giornali e di lettere, favole riemerse da ricordi dell’infanzia, utilizzando anche gli strumenti della retorica e delle immagini più abusate, per rendere esplicita quale e quanta sia l’angoscia di chi si riduce a vivere come una larva: «Sapevate forse; o lo saprete adesso: passo il tempo cosiddetto libero a fare piani per la demenza, per riuscire a trattenere il grido in corpo, perché il suicidio non arrivi dopo un accesso di febbre, perché la morte, cominciata da un pezzo, non sia un semplice incidente sul lavoro».

Nelle due lunghe e meditate introduzioni al romanzo, l’autore si sofferma sulla questione tormentata dell’immigrazione africana in Europa, sulle derive prive di qualsiasi prospettiva politica del razzismo: lo fa con la pacatezza di chi ha meditato per anni sul fenomeno, e con l’empatia dello psicologo e dell’artista. Sapendo che per il mondo occidentale non c’è altra prospettiva di salvezza che questa: «L’avvenire sarà nel meticciato, nella mescolanza dei colori, delle spezie e delle immaginazioni»: respingimenti e muri non fermeranno l’ondata planetaria di chi fugge dalla disperazione.

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Le-paretidellasolitudine-Ben-Jelloun.html       2 dicembre 2017

RECENSIONI

JESI

FURIO JESI, LETTURA DEL “BATEAU IVRE” DI RIMBAUD – QUODLIBET, MACERATA 1996

Con quanta ricchezza di pensiero, originalità di scrittura, profondità di sentimento e indipendenza critica Furio Jesi avrebbe arricchito il panorama culturale italiano, se una morte precoce e ingiusta non l’avesse strappato crudelmente ai suoi studi e a chi lo amava e stimava. Lo intuiamo con grande rimpianto anche solo leggendo queste straordinarie pagine di commento a Rimbaud, scritte nel 1979 e riproposte da Quodlibet nel 1996 in Lettura del “Bateau ivre” di Rimbaud.

Come Rimbaud, Jesi era stato un adolescente geniale e inquieto, refrattario ad ogni compromesso: forse a questa comune sensibilità (sfociata poi in una similitudine di destino che li portò tutt’e due a morire prima dei quarant’anni), si deve l’appassionato fervore con cui lo studioso torinese seppe penetrare il testo poetico rimbaudian «in una sorta di disincantata divinazione», secondo quanto suggerisce Giorgio Agamben nella sua ammirata prefazione.
Entrambi “diversi”, Jesi e Rimbaud, entrambi ingenuamente “infantili” nel rifiutare il mondo del potere, pertanto naturalmente in rivolta: «esiste simmetria tra il riconoscere nell’infanzia valori autonomi, un regno diverso, e nella poesia un regno abitato da diversi, ma uno solo è il processo entro il quale si giunge a codesti riconoscimenti di differenza, – e poi alle tecniche di sfruttamento dei diversi».

Poesia e infanzia hanno voci profetiche, pertanto disturbanti, da allontanare o mercificandole o imbalsamandole in monumenti retorici, elargendo “sopravvivenza e guadagno”. La loro ribellione consiste nel seguire utopicamente un sogno di sconfinamento, come quello del “Bateau ivre” «che tenta l’esperienza di un regno in cui libertà è purificazione, veggenza e morte». Se poi poeti e bambini finiscono per adeguarsi «alla falsa oggettività imposta dagli adulti» ecco che il loro battello volontariamente si trasforma in una barchetta di carta, che galleggia in una pozzanghera «noire et froide». La rivolta del poeta bambino Rimbaud si cristallizza nel suo rifiuto dell’Europa, e della poesia.

 

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www.sololibri.net/Lettura-Rimbaud-Jesi.html     13 maggio 2016

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JODOROWSKY

ALEJANDRO JODOROWSKY, LA GIOIA DI INVECCHIARE – FELTRINELLI, MILANO 2020 (ebook)

 Alejandro Jodorowsky, nato in Cile nel 1929, figlio di immigrati ebreo-ucraini, si è trasferito dal 1953 a Parigi, dove ha fondato con Fernando Arrabal e Roland Topor il movimento di teatro “panico”. Artista eclettico, Jodorowsky è stato direttore di teatro, autore di pantomime e pièce teatrali, di romanzi e libri di fumetti, ma anche di molti film di successo (Il paese incantato, El Topo, La montagna sacra e Santa sangre-Sangue santo).

In questo e-book pubblicato da Feltrinelli nella collana Zoom, La gioia di invecchiare, sono raccolte sei storielle, un racconto indù e una leggenda sufi, che con leggerezza e ironia cercano di esorcizzare la paura della decadenza fisica e spirituale, presentando personaggi molto anziani che rendono omaggio alla loro veneranda età con l’esibizione di una saggezza encomiabile, venata di gentile umorismo.

Pillole di assennato equilibrio che il protagonista dispensa a interlocutori vacui, sospettosi e pieni di pregiudizi, prendendoli amabilmente in giro per la loro supponente superficialità, e azzittendoli con l’evidenza della propria intelligente superiorità. Prendiamo ade esempio la terza di queste storielle:

“L’uomo più vecchio del mondo ha ammassato una immensa fortuna. Un giovane giornalista gli domanda: “Come è riuscito a guadagnarsela?”. “Mi sono arricchito vendendo piccioni viaggiatori.” “E quanti ne ha venduti?”. “Uno solo, ma è sempre tornato indietro”.

Jodorowsky così la commenta: “Nella storiella numero tre possiamo interpretare “una grande fortuna” come “un elevato livello di Coscienza”. Il vecchio ci insegna a ottenerla concentrando l’attenzione, le forze e la fede su di un unico scopo. Invece di scavare un centinaio di pozzi poco profondi, profondi, è meglio scavarne soltanto uno fino a raggiungere l’acqua nascosta”.

Stranamente, in questi apologhi al vecchio saggio si contrappone perlopiù un giovane giornalista, emblema forse di futile curiosità, oppure un’anziana e distinta signora, esempio di rigida compunzione, come nella sesta storia, che sprona alla positività: “Un vecchio va a prendere il nipotino a scuola. Una madre esce dall’edificio dicendo a suo figlio: “Bambino negligente, va’ a lavarti le mani! È orribile avere le mani così sporche!”. Il nonno dice al nipote: “Ragazzino, va’ a lavarti le mani: è bellissimo avere le mani pulite”.

Ci sono anche galanti riconoscimenti alla generosità femminile: “Hai due giumente. Una è la madre e l’altra è la figlia. Come fai a sapere qual è la madre e quale la figlia, se sono identiche?”. “Bisogna metterle davanti a un mucchio di fieno. La madre cede il cibo alla figlia”.

Le considerazioni finali di Alejandro Jodorowsky sulla terza-quarta e quinta età (l’autore ha ormai 91 anni) sono un appello alla moderazione, alla comprensione verso le debolezze umane, alla pazienza; e soprattutto un invito ad apprezzare ogni piccola gioia offerta dalla quotidianità, rinunciando alle seduzioni del potere, alle ambizioni inutili, ai progetti irrealizzabili, e accontentandosi di vivere in pace con se stessi e con gli altri, in una sorta di “santità civile” che è rispetto per l’ambiente naturale e umano, sapendo che “tutto succede su una scala più ampia di quella che viene percepita dall’ Io personale”.

 

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https://www.sololibri.net/La-gioia-di-invecchiare-Jodorowsky.html                16 maggio 2020

 

 

 

 

 

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JOHNSON

DENIS JOHNSON, TRAIN DREAMS – MONDADORI, MILANO 2013

Denis Johnson (nato a Monaco di Baviera nel 1949, cresciuto in Giappone e nelle Filippine prima di stabilirsi a Washington, morto in California nel 2017) ha scritto narrativa, poesia e saggi, vincendo il National Book Award nel 2007 con il romanzo Albero di fumo, resoconto implacabile della guerra in Vietnam. Train dreams è un romanzo breve, che può ricordare nello stile altri famosi autori americani (Steinbeck, Faulkner e soprattutto McCarthy), e alcune ambientazioni dei film dei fratelli Cohen, in particolare per la descrizione del paesaggio naturale ‒ tra monti boscosi e ripidi torrenti ‒ e della popolazione scontrosa e indurita dal lavoro nelle cittadine desolate dell’Idaho.

Il protagonista del racconto si chiama Robert Grainer, è un uomo semplice e rude, con cui la vita non è mai stata tenera. Persi i genitori nella prima infanzia, adottato da lontani parenti, alla morte di questi comincia a lavorare come taglialegna e operaio nella costruzione di ponti e ferrovie che arriveranno a cambiare l’intero paesaggio del West, in una colonizzazione rapida e spietata dei territori più incolti e abbandonati dell’America degli anni ’20. “Combattevano contro la foresta dall’alba fino all’ora di cena, abbattendo i giganteschi abeti e segandoli in pezzi di dimensioni appena maneggevoli, compiendo imprese… analoghe a quelle delle piramidi, cambiando il volto delle montagne, parlando poco, comunicando a urla, vivendo con la sensazione appiccicosa della pece nella barba, con il sudore che scioglieva via la polvere dai mutandoni e la incrostava nelle pieghe del collo e delle giuntura, e con l’odore della pece così forte che scorticava la gola e irritava gli occhi, coprendo perfino la puzza delle bestie e dello sterco”.

Robert Grainer in ottant’anni di vita laboriosa e onesta patisce di tutto: si scontra con la violenza e l’abbrutimento del prossimo, con il fuoco che gli distrugge la casa e la famiglia, con l’artrosi  che gli scardina le ossa, con bambini-lupo e fantasmi reincarnati, con tentativi di linciaggio e suicidi: in un orizzonte fisico e mentale privo di qualsiasi ansia metafisica, si riduce a una solitudine condivisa solo con una cagnolina dal pelo rosso, con l’ululato dei coyote e l’osservazione del cielo solcato da uccelli rapaci. Muore nel sonno, anziano e malato, e il suo cadavere viene scoperto dopo mesi, sepolto poi nella terra inospitale che aveva contribuito a rendere più docile e benevola. Lo stile asciutto di Denis Johnson, privo di enfasi e retorica, accompagna la vicenda esistenziale di un uomo semplice, che accetta con rassegnazione qualsiasi avversità, sentendosi parte inessenziale e sostituibile della natura che lo circonda: natura indifferente o addirittura ostile alla presenza umana.

© Riproduzione riservata          https://www.sololibri.net/Train-dreams-Johnson.htm

25 febbraio 2019

 

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JOHNSON

DENIS JOHNSON, JESUS’ SON – EINAUDI, TORINO 2018

Gli undici racconti raccolti in Jesus’ son sono stati scritti da Denis Johnson nei primi anni Novanta: da essi è stato tratto nel ’99 il film omonimo diretto da Alison Maclean. Denis Johnson, nato a Monaco di Baviera nel 1949, è cresciuto in Giappone e nelle Filippine prima di stabilirsi a Washington. Ha pubblicato narrativa, poesia e un libro di saggi, vincendo il National Book Award nel 2007 con il feroce romanzo Albero di fumo, implacabile resoconto della guerra in Vietnam. Testimone di crudeltà e follie private e collettive, ha viaggiato nei luoghi più caldi del pianeta. È morto in California, a Gualala, nel 2017.

In Jesus’ son droga, alcol, vagabondaggi in auto scassate, inseguimenti, sangue, scazzottate, spari, rapine, sesso ripetitivo e anonimo sono vissuti con l’indifferenza della casualità, ai margini di una società a cui non solo ci si oppone, ma che si ignora con totale ed esibito disinteresse, con cinica apatia. Il mondo degli altri (incompreso, schifato, stramaledetto) è la polizia, l’anziana vicina di casa che protesta per il rumore, le famigliole prive di domande e inquietudini: il mondo che agisce in sintonia con Testadicazzo è invece tutto il resto, un universo alterato, psicotico, rabbioso, in cui l’attimo rivelatore (un incidente mortale in auto, un omicidio non programmato, il furto finito male) esplode come un incendio improvviso, un cortocircuito che brucia esistenze sprecate, e la stessa pagina scritta. Pagine che riflettono ‒ in uno stile denotativo, privo di metafore e di inventività linguistica, con dialoghi smozzicati e ridotti ai minimi termini ‒ la voluta assenza di pensiero, l’annullamento di ogni progettualità razionale in cui si trascinano i protagonisti.

Non ci si affeziona a questi personaggi, perché l’autore non ce li fa conoscere nella loro specificità fisica o caratteriale, intercambiabili come sono tra loro, privi di spessore emotivo, ciondolanti in cantine o rimesse poco illuminate («in un’inquietante luce sulfurea»), appartamenti luridi, vicoli malfamati, bar equivoci. Bar, soprattutto, caffè di ogni tipo e nome, nelle metropoli come in paesi semiabbandonati, lungo autostrade malridotte o nel traffico notturno delle city, con clienti che sembrano scappati da un ospedale psichiatrico, o crollati in coma etilico: «Ma ogni volta che entravo in quel posto c’erano facce offuscate che promettevano tutto, e che subito dopo rivelavano la propria monotonia e ordinarietà, alzando lo sguardo su di me e commettendo lo stesso errore», «Chi entrava nei bar di First Avenue abbandonava il proprio corpo. Da quel momento erano visibili solo i demoni che vivevano in noi. Qui venivano riunite le anime che si erano ferite a vicenda. Lo stupratore incontrava la sua vittima, il figlio rifiutato ritrovava sua madre. Ma niente si poteva guarire, lo specchio era un coltello che divideva ogni cosa da se stessa, lacrime di falsa amicizia gocciolavano sul banco. E cosa mi farai adesso? Con cosa, di preciso, intendi spaventarmi?». Il Vine è il luogo di ritrovo per eccellenza («un locale lungo e stretto, come la carrozza di un treno che non andava da nessuna parte»), ma gli altri posti (Pig Alley, Vietnam Bar, Kelly’s, Jimjam Club…) gli assomigliano tutti, nello squallore delle solitudini incomunicanti raccontate nei quadri di Edward Hopper.

Se questo è il dentro in cui si consumano le storie di Denis Johnson, il fuori non è meno deprimente e scialbo: «Era un lungo rettilineo che correva a perdita d’occhio tra campi inariditi. Sembrava che in cielo non ci fosse aria e che la terra fosse fatta di carta… Cosa si può dire di quei campi? Uccelli neri volavano in cerchio sopra la propria ombra, e sotto di loro le mucche gironzolavano annusandosi il culo a vicenda… Nella notte dei tempi quella regione era stata stretta nella morsa dei ghiacciai. Ora la siccità andava avanti da anni, e sopra le pianure si stendeva una bronzea nebbia di polvere. Il raccolto della soia era morto di nuovo, e gli steli di granturco guasti e avvizziti erano allineati sul terreno come file di biancheria intima».

La vita animata che si incontra in Jesus’son è costituita da spacciatori, ladri, infermieri e medici impasticcati, malati psichici, zombie, spose abbandonate mentre abortiscono, coppie anabattiste, feti animali stritolati per distrazione, rapporti dopati: «Facevamo l’amore a letto, mangiavamo bistecche al ristorante, ci bucavamo al cesso, vomitavamo, piangevamo, ci accusavamo, ci imploravamo, perdonavamo, promettevamo e ci portavamo in paradiso a vicenda». Una quotidianità vissuta fisicamente, corporalmente, che esclude qualsiasi orizzonte o ansia metafisica: «Di solito, se proprio mi veniva da riflettere sul senso della vita, al massimo arrivavo a considerarmi la vittima di uno scherzo. Nessun contatto con l’orlo del mistero, nessun istante in cui qualcuno di noi – be’, parlo solo per me, immagino – si sentiva i polmoni pieni di luce e roba del genere». I pochi attimi di felicità, o «di gloria», come li chiama Testadicazzo, sono sprazzi abbaglianti e confusi, in una continua allucinazione che non vuole saperne dei contorni nitidi della realtà: «Stava piovendo. Felci gigantesche pendevano su di noi. La foresta digradava giù per una collina. Sentivo un torrente correre tra le rocce. E voi, gente ridicola, voi vi aspettate che io vi aiuti».

I feel like Jesus’ son, cantava Lou Reed in Heroin, e non voleva conoscere niente (di Tizio, di Caio, di politici, di città morte, di cadaveri ammassati), sognando di navigare attraverso mari oscuri per raggiungere il suo regno, cullato da un annebbiante veleno.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 28 febbraio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

JOUHANDEAU

MARCEL JOUHANDEAU, TRE DELITTI RITUALI – ADELPHI, MILANO 1996

Marcel Jouhandeau (1888-1979) fu uno scrittore francese da strappare all’oblio e a una sorta di censura postuma, dovuta alla sua fama di autore trasgressivo. Teologo sempre sull’orlo dell’eresia, cattolico praticante ma morbosamente attratto dalla manifestazione del male in tutte le sue forme e perversioni, Jouhandeau fu cronista attento degli anni della ricostruzione postbellica, romanziere prolifico ed elegante, polemista mai pretestuoso. Nel volumetto pubblicato da Adelphi nel 1996, e apparso in Francia nel 1962, Tre delitti rituali (Adelphi, 1996), non è tanto la descrizione di tre crimini abietti che avevano sconvolto la Francia gollista a colpire l’immaginazione del lettore, quanto l’analisi psicologica ambientale di protagonisti e comparse delle tre vicende, molto lucida e distaccata nonostante l’evidente empatia dell’autore, e soprattutto le sue dichiarazioni di principio, a commento ideologico e morale dei fatti. «Ho sempre avuto, e credo lo abbia anche il cielo, un debole per i colpevoli», sconcertante nella sua assolutezza, così Jouhandeau apre il resoconto del primo dei tre delitti, che ha in comune con gli altri due una specie di ritualità magico-sacrale, insieme a una bestiale efferatezza.

Non è il caso, forse, di esaminare da vicino tanta turpitudine, e in fondo neanche l’autore lo fa, se non nell’ultima storia (è la nota critica di Ena Marchi che ci rende edotti sui particolari più macabri). Quello che ci interessa di più sono le dichiarazioni d’intenti di Jouhandeau: «A me sembra che al cospetto di Dio ciascun uomo vivente condivida il peso di tutto il bene e di tutto il male di cui ad ogni istante la nostra specie si rende responsabile…C’è in me una propensione ad addossarmi tutti i peccati del mondo, per il fatto stesso che la mia immaginazione ne visualizza la dinamica…». All’uomo di fede interessa soprattutto spiegare l’esistenza del male, il perché e come una persona possa abbandonarsi al peccato, e d’altra parte perché e come ci sia un disegno divino che il compiersi di questo peccato permette: «Non di rado all’individuo più rispettabile è bastato affrettare il passo, o attardarsi un minuto, perché gli fosse risparmiata un’azione ignobile. Lo aspettava al varco chi avrebbe potuto fare di lui un essere spregevole, ma l’incontro non ha avuto luogo. Vedete dunque com’è sottile il filo a cui è appesa l’onestà di tante persone…Ricorreremo allora, per spiegare l’integrità degli uni e l’ignominia degli altri, alla grazia di Dio – al suo intervento o alla sua mancanza?»

Sulle orme di Dostoevskij, per lo scrittore francese non è tanto il male in sé a suscitare scandalo, quanto la sua casualità, il suo concretarsi o meno a seconda delle occasioni, delle situazioni. E altrettanto indegno è il fatto che al peccato attivo, cui il colpevole aderisce in prima persona, corrisponda il peccato laterale, fiancheggiatore: di chi osserva e non interviene, di chi collabora tacendo, di chi biasima per sentito dire. Jouhandeau ha parole di fuoco per il pubblico dei delitti, per le giurie popolari, per certa cronaca nera («Erinni, la cui sete di vendetta e di castigo sembra insaziabile») e per tutti coloro che in genere usano violentare le anime altrui, rendendosi responsabili del delitto più grave, quello contro lo spirito.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Tre-delitti-rituali-Marcel.html     2 dicembre 2015

RECENSIONI

JOUHANDEAU

MARCEL JOUHANDEAU, IL CADAVERE RAPITO – ADELPHI, MILANO 2016

Il cadavere rapito è il terzo libro di Marcel Jouhandeau che l’editore Adelphi propone ai lettori italiani. Meritevole eccezione editoriale, visto l’indifferente silenzio (di critica e pubblico) che circonda l’opera di questo straordinario e scandaloso autore francese.

Nato nel 1888 a Guéret, cittadina del Limousin, figlio di un macellaio e di una suora mancata, fece rivivere il proprio “borgo selvaggio” (perfidamente farisaico e ignorante, maldicente e vizioso) nella saga di Chaminadour, località di fantasia in cui trasferì strade, storie, personaggi della sua infanzia, lacerata dal senso di colpa per una omosessualità da subito riconosciuta, esibita orgogliosamente ma insieme temuta e negata nel paravento di un masochistico matrimonio di facciata. Jouhandeau così scriveva di sé: «Cresciuto nel cattolicesimo, non pratico la mia religione, perché vivo abitualmente nel peccato, ma il vivere nel peccato non significa che si viva al di fuori della Fede: senza Fede non ci sarebbe peccato». E ancora: «Io sono al di fuori della morale, nell’assoluto della libertà». Una libertà che esprimeva tutta la sua grandezza nella ricerca della perfezione («L’imperfezione è più colpevole del male»), fosse anche peccaminosa, abietta, asservita alla violenza del desiderio carnale, in cui l’Angelo si pone alla stessa altezza del Demonio: là dove peccato e virtù si equivalgono nella ricerca del soprannaturale.

È evidente che la gerarchia ecclesiastica guardasse con sospetto e indignazione a tali affermazioni, arrivando ad accusare lo scrittore di eresia e satanismo, e ritenesse pericolosamente ossessiva la sua ricerca spirituale, che tuttavia nel suo turbato attaccamento al peccato e nell’aspirazione a un’innocenza perduta può ricordare alcune pagine tragicamente religiose dei nostri Testori e Pasolini. In questo volumetto, arricchito dall’esauriente postfazione di Ena Marchi, chi assomma in sé le due anime dell’autore (devote e perverse, celestiali e diaboliche) è il protagonista, il settantenne padre Diverneresse, alto, magro e legnoso, coltissimo e sprezzante, silenzioso e irascibile: parroco nella chiesa di Port-Salut con fama di santo e stregone. Chiuso nella sua fornitissima biblioteca, si dedicava a studi di teologia e biologia, alternandoli con piccoli lavori di giardinaggio o falegnameria. L’impegno a cui meno sembrava interessarsi era invece la cura delle anime a lui affidate, che giudicava meschine e ignoranti, lontane da Dio e indifferenti alla lezione evangelica. Nella canonica, occupandosi della sua sopravvivenza materiale, si erano alternate due perpetue: l’onesta e ottusa Miette, e l’algida intellettuale Angèle. Il disprezzo nutrito per la prima era stato sostituito da un intenso affiatamento spirituale con la seconda, al punto che i parrocchiani, osservando la stretta complicità che univa parroco e catechista, iniziarono presto a sparlare, ipotizzando l’esistenza tra i due di rapporti carnali o di culti satanici.

«L’immaginazione della ‘brava gente’ è insaziabile quando si tratta delle turpitudini altrui, le sole che possano distrarla dalla noia della sua ‘mediocre’ virtù, e bisogna ammettere che, per l’immaginazione della ‘brava gente’, l’amicizia è forse un mistero più insondabile del sacrilegio e dell’incesto». Il comportamento del religioso, provocatorio proprio perché incurante del giudizio popolare, finisce per portarlo alla rovina. Denunciato ai superiori, isolato da tutti, allontanato da Angèle, padre Divernesse viene sospeso a divinis e scomunicato, ma ciò gli crea intorno un’aura di santità e ingiusta persecuzione, sfociante in fanatico e idolatra devozionismo, che tuttavia non servirà a risparmiargli una fine solitaria e l’ostracismo ecclesiale post mortem.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Il-cadavere-rapito-Jouhandeau.html     14 febbraio 2017

 

 

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