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RECENSIONI

JOYCE

JAMES JOYCE, NON POSSO SCRIVERE SENZA OFFENDERE LE PERSONE

ERETICA EDIZIONI, BUCCINO (SA) 2024

 

La casa editrice Eretica propone una selezione di lettere che James Joyce (Dublino1882-Zurigo1941) indirizzò nell’arco di una trentina d’anni ai suoi corrispondenti durante le tormentose vicende editoriali che per motivi di censura ostacolarono la pubblicazione dei suoi libri Dubliners e Ulysses: Non posso scrivere senza offendere le persone.
I racconti dei Dubliners patirono nove anni di continui rifiuti, richieste di revisione, polemiche, prima di venire finalmente pubblicati nel 1914 dall’editore Grant Richards: si temevano accuse di antipatriottismo e di oscenità da parte dei lettori e delle autorità irlandesi.
Per Ulysses, invece, le circostanze assunsero da subito un’altra piega, in quanto Joyce si era nel frattempo fatto conoscere come autore di rilievo, ottenendo il plauso e il sostegno di importanti intellettuali come Ezra Pound, per cui interi brani del romanzo iniziarono a uscire su influenti riviste letterarie, nonostante la continua minaccia di sequestri, finché nel 1921 negli Stati Uniti il testo finì sotto processo e venne condannato per oscenità, e ne fu interrotta la pubblicazione anche in Inghilterra. Soltanto grazie al coraggio della casa editrice parigina Shakespeare & Co., il libro uscì in Francia nel 1922. Tuttavia, bisognò attendere il 1933 perché Ulysses fosse liberato dall’accusa di oscenità e potesse venire diffuso nel resto del mondo. Nella conservatrice Irlanda, il capolavoro joyciano iniziò a circolare liberamente solo negli anni ’60, quando il suo autore era ormai morto da vent’anni.
Le lettere presentate in questa raccolta sono state tradotte dagli originali pubblicati nel 1957, nel 1966 e nel 1975. Ognuna di esse è preceduta da data, luogo di invio e nome del destinatario, ed è accompagnata da notizie sugli eventi, i luoghi, le persone e le opere menzionate.
Inoltre nell’Appendice possiamo leggere le traduzioni con originale a fronte di Gas from a Burner, poemetto satirico del 1912 ispirato alla vicenda della pubblicazione dei Dubliners, e l’episodio di Nausicaa dell’Ulisse, incriminato negli anni ’20.
L’epistolario si apre con una prima lettera, datata 26 aprile 1906 e inviata da Trieste all’editore Grant Richards, e si chiude il 31 luglio 1934, con un biglietto spedito da Anversa al fratello di Joyce, Stanislaus.. Tra i destinatari delle missive leggiamo nomi famosi (Italo Svevo, T.S. Eliot), ma prevalgono comunque gli editori con cui il grande letterato dovette combattere per tutta la sua esistenza. Si difendeva con veemenza, talvolta usando toni sarcastici o irosi, accusando i corrispondenti più retrivi di clericalismo o di mentalità militaresca: “Ho scritto il mio libro con notevole cura, nonostante mille difficoltà e coerentemente con quella che ritengo essere la tradizione classica della mia arte… Non posso fare più di questo… Non posso modificare ciò che ho scritto… Non sono un emissario di un Ministero della Guerra che sperimenta un nuovo esplosivo… Non ho tuttavia detto quale delusione sarebbe per me se non potessi condividere le mie opinioni”.
Succedeva che fossero addirittura i tipografi a rifiutarsi di stampare i testi, ergendosi a censori e difensori della pubblica moralità: in un caso venne rimproverato allo scrittore l’uso del termina “dannato” in quanto violento e disdicevole.
James Joyce era assolutamente fiero della propria produzione, e ne menava vanto: “Ho fatto il primo passo verso la liberazione spirituale del mio paese”, attaccando anche la mediocrità della sua città natale: “La mia intenzione era quella di scrivere un capitolo della storia morale del mio paese e per la scena ho scelto Dublino perché quella città mi sembrava il centro della paralisi”. Arrivò spesso a minacciare azioni legali sia contro gli editori inadempienti del contratto, sia contro le pubblicazioni clandestine e piratesche: altre volte si dichiarò disposto a contribuire alle spese di stampa pur di vedere pubblicati i suoi lavori, in cui giustamente credeva moltissimo. I più noti letterati dell’epoca firmarono per solidarietà la sua denuncia contro i soprusi editoriali di cui era vittima: tra gli altri Benedetto Croce, Albert Einstein, T.S. Eliot, André Gide, Ernest Hemingway, D.H. Lawrence, Thomas Mann, Luigi Pirandello, Bertrand Russell, Italo Svevo, Virginia Woolf, W.B. Yeats.
A proposito di Dubliners, rifiutato da quaranta editori, Joyce scriveva “Il libro mi è costato tra spese legali, di viaggio e postali circa 3000 franchi: mi è costato anche nove anni di vita. Ero in corrispondenza con sette avvocati, centoventi giornali e diversi letterati a riguardo — i quali tutti, tranne il Sig. Ezra Pound, si rifiutarono di aiutarmi… Una persona molto gentile acquistò l’intera edizione e la fece bruciare a Dublino: un autodafé nuovo e privato”. Si vendicò anche in versi contro l’ottusità cattolicamente becera dei suoi connazionali: “O Irlanda mio primo e unico amore / Dove Cristo e Cesare sono culo e camicia!”
L’appassionata postfazione del volume, per firma di Sofia Cavazzoni, ci restituisce l’atmosfera claustrofobica e persecutoria che ha circondato e preso di mira le pubblicazioni dei capolavori joyciani, ricostruendo puntualmente tutte le vicissitudini editoriali che le hanno accompagnate per mezzo secolo.

 

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 25 luglio 2024

RECENSIONI

JUENGER

ERNST JÜNGER,  VISITA A GODENHOLM– ADELPHI, MILAN0 2008

Questo volumetto, pubblicato nella Piccola Biblioteca Adelphi, raccoglie due racconti di Ernst Jūnger: La caccia al cinghiale e Visita a Godenholm.

La novella iniziale, perfetta nella sua classica brevità, narra della prima emozionante esperienza di caccia di due adolescenti, in un bosco innevato e silenzioso, «di uno splendore principesco». Inaspettatamente si para davanti ai due ragazzi, accolti con superiore benevolenza in una compagnia di battitori adulti, il muso feroce e ingrugnito di un possente cinghiale. Uno di loro spara, istintivamente e senza prendere la mira, provocando la fuga affannosa dell’animale. Rimproverato con severità dagli altri cacciatori, il giovane godrà di un’insperata rivincita, quando si verrà a scoprire che la bestia, colpita al cuore, era andata a morire nel folto della boscaglia.

«Imparò lì per la prima volta che i fatti modificano le circostanze attraverso le quali si è giunti a essi». Ma i due ragazzi imparano soprattutto a valutare quanto la nobiltà innocente del cinghiale ucciso sia superiore rispetto alla tronfia crudeltà degli altri cacciatori, impegnati subito a sventrarne e dileggiarne il corpo.

Prima di passare a esaminare il secondo racconto, è forse il caso di presentare in breve la personalità di Ernst Jūnger (1895-1998). Scrittore e filosofo, figura complessa dell’intellettualità tedesca del XX secolo, ebbe vita lunghissima e fuori dagli schemi. Ecologista e zoologo, nazionalista aristocratico e antiborghese, combattente eroico e superdecorato in entrambe le guerre mondiali, lettore di Nietzsche ma convinto pacifista, spirituale e platonico tuttavia appassionato di qualsiasi progresso scientifico e tecnico, profetizzava nei suoi scritti una catastrofe epocale che avrebbe coinvolto l’intero pianeta, se l’umanità non si fosse riconvertita a una profonda e coraggiosamente anarchica interiorizzazione. Produsse un enorme quantità di opere: romanzi, racconti, diari, saggi, tutti inconfondibili per il loro stile elevato sino alla ricercatezza.

In Visita a Godenholm, Jūnger si misura con i temi della trascendenza, dell’utopia, dello scavo nell’inconscio, della liberazione dell’io. Ogni personaggio viene scolpito fisicamente e caratterialmente con pochi tratti magistralmente incisi: il misterioso Maestro-filosofo-sciamano Schwarzenberg, che vive solitario a Godenholm, villaggio semidisabitato in un’isoletta del Mare del Nord, dedicandosi a studi esoterici e teologici. Provvedono alla sua sopravvivenza materiale tre enigmatici e silenziosi servitori: il pescatore Gaspar, dal petto istoriato di ferite e tatuaggi, la grassa e infida cuoca Erdmuthe, la sguattera Sigrid con movenze di bertuccia. La magione turrita e lugubre del Maestro viene periodicamente visitata da tre ospiti, desiderosi di immergersi in una conoscenza del tutto illuminati dal suo insegnamento. Sono una vitale e tellurica Ulma, il paleontologo Einar e l’inquieto scienziato Moltner, sempre alla ricerca del suo vero Sé, e di una risposta alle molte domande che gli arrovellano mente e anima. Schwarzenberg non offre soluzioni alle loro richieste spirituali ed etiche, si esprime con metafore e antiche frasi sapienziali, suggerendo un percorso iniziatico verso il mistero che li possa portare alla scoperta dell’Uno che governa l’universo. Ma una sera fa vivere loro l’esperienza allucinata di visioni infernali e celestiali, in una natura improvvisamente muta e assordante, serena e tenebrosa, preistorica e futuribile, nell’assenza di qualsiasi scansione temporale e nel superamento di ogni localizzazione. Sconvolti e increduli, i tre amici vorrebbero dal Maestro ancora indicazioni di salvezza. Ma impenetrabile ed etereo, lui li congeda con queste parole: «La mia casa è come una locanda spagnola. Gli ospiti non vi trovano niente di più di quello che hanno portato con sé».

In Visita a Godenholm, Ernst Jünger ripercorre i temi che l’hanno reso famoso come filosofo dell’utopia ed esploratore degli abissi dell’anima.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 6 ottobre 2017

 

 

 

 

 

RECENSIONI

JULLIAN

PHILIPPE JULLIAN, IL CIRCO DEL PÈRE LACHAISE – MEDUSA, MILANO 2022

Il circo del Père Lachaise è un elegante volume di schizzi, disegni e caricature commentate dallo stesso geniale illustratore: Philippe Jullian, nato a Bordeaux nel 1919 e morto suicida a Parigi nel 1977. Romanziere, critico d’arte, autore di numerose biografie, collezionista, viaggiatore cosmopolita, fu un esteta decadente, salace animatore dei salotti parigini, e appassionato indagatore di temi omoerotici e sadomasochistici. La sua propensione verso la sensualità e il macabro era attraversata da una feroce vena satirica, rivolta soprattutto all’inconsistente futilità culturale dell’alta borghesia, e all’aristocratica classe politica che ne era l’espressione.

Il volume appena pubblicato dalle edizioni Medusa, uscito in Francia nel 1957, ci accompagna in una sarcastica e crudele passeggiata lungo i vialetti, i sepolcri e gli ossari del Père Lachaise, il cimitero più famoso di Parigi, dove riposano artisti, politici, eroi di guerra, filosofi e insomma il beau monde della cultura e della società internazionale. Un circo di esibizionisti vanitosi, questo camposanto raccontato da Jullian, che di santo ha molto poco: i defunti mantengono gli stessi vizi e le stesse smanie che li abitavano in vita, indossano uguali drappeggi, si muovono con la flemma o il parossismo che li caratterizzava durante la loro esistenza terrena. Di notte si incontrano tra di loro, uscendo dalle tombe, offendendosi e lusingandosi a vicenda; durante il giorno spiano i visitatori dietro le sbarre delle cappelle, o dalle fessure delle tombe di famiglia, soddisfatti se si scoprono rimpianti e lodati, delusi quando si sentono trascurati.

La mappa della necropoli mantiene la topografia della gloriosa capitale, suddivisa in zone che ricalcano la distribuzione demografica degli arrondissement, con i quartieri più emarginati a est (colombari, sepolture provvisorie), e quelli eleganti a ovest. Le sezioni centrali, fiorite e affollate di turisti curiosi, richiamano i grandi e trafficati boulevards, con la vivace offerta di distrazioni ed estrose stravaganze. La varia umanità che Jullian rappresenta con schizzi incisivi e impietosi è composta da famiglie dispotiche, vedove inconsolabili, accademici boriosi, avventuriere, austeri generali, vegliardi incartapecoriti. Ci sono anche gli straccioni, irriguardosi e irridenti la spocchia di chi si vanta dell’immortalità, pur sapendo di essere destinato come tutti all’oblio perenne. I commenti salaci dell’autore chiosano illustrazioni altrettanto, o forse più, mordaci, che raffigurano volti deturpati dal vizio, corpi sfasciati, in un tripudio di carnevalesche oscenità, accompagnate da orchestrine stridule e balli indecorosi.

La convivenza delle mummie livella ogni diseguaglianza: “Deve ricevere nella tomba di famiglia i parenti poveri a cui proibiva il suo salotto”; gli scrittori famosi “sono molto suscettibili e non cessano di stabilire i loro titoli”; rimasto solo e dimenticato, “l’egoista si annoia”, e i suicidi ostentano orgogliosamente lo strumento con cui si sono uccisi. C’è anche il trenino del piacere, che conduce le anime gaudenti al parco delle attrazioni. Sull’intera comunità aleggiano gli spiriti guardoni, quando non vengono evocati da tavolini traballanti in sedute serali di ascetici irrazionalisti.

Teschi, scheletri, orbite incavate, tibie e scapole sporgenti da vesti sontuose o da stracci, sono il perpetuo memento della caducità, del transeunte. Eppure, alcuni perseverano nelle illusioni mondane: (“Le persone di mondo che devono essere salvate dall’oblio tramite Proust si accalcano nel suo palco”), altri non temono il ridicolo delle esibizioni circensi collettive, altri ancora pagano il giusto fio del contrappasso (“Signora attorniata dai bambini che ha preferito non avere”, “Le poetesse rivali in scena, ciascuna obbligata a recitare le poesie della sua nemica, all’unisono”).

Scrive Pasquale Di Palmo nella sua dotta postfazione: “Come una medievale danza macabra che il tempo ha provveduto in parte a cancellare, gli ectoplasmi di Jullian sfilano carichi di tutto il loro retaggio di onorificenze e gioielli, reso ormai patetico quanto il loro aspetto repellente, proiettandosi in un passato che li condanna a ripetere all’infinito azioni prive di valenze oltremondane”. La rassegna del grottesco e della volgarità che l’autore di questo lussureggiante e disperato carosello ci offre, si presenta come uno sberleffo fatto alla morte e alla vita che l’ha preceduta, meritando l’inferno o il purgatorio in cui è precipitata: mai, assolutamente mai, il paradiso.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 28 marzo 2022

RECENSIONI

JULLIEN

FRANÇOIS JULLIEN, CINQUE CONCETTI PROPOSTI ALLA PSICANALISI 
LA SCUOLA, BRESCIA 2014

Il filosofo e sinologo francese François Jullien, molto noto anche in Italia per i suoi studi comparativi tra la filosofia orientale e quella occidentale, in questo volume pubblicato da La Scuola nel 2014 (Cinque concetti proposti alla psicanalisi) individua nell’eccesso di spirito critico della cultura europea (nel suo razionalismo spinto all’estremo, nel suo spietato nichilismo masochista) la minaccia che sta distruggendo l’arte e il pensiero giudaico-cristiano di formazione classico-borghese. La soluzione proposta da Jullien è che la nostra intelligenza teorica si debba decostruire, aprendosi con più umiltà a ciò che ha rimosso per quasi tremila anni: all’impensato, all’ombra, a ipotesi culturali che arrivino da altre civiltà, trascurate se non addirittura svalutate.
Anche la psicanalisi, e più in particolare l’elaborazione freudiana, si è inserita nella tradizione culturale occidentale, applicando presuntuosamente a livello universale interpretazioni che probabilmente riguardano solo il soggetto culturale europeo, non riuscendo ad adeguare alla pratica clinica di scandaglio analitico un’ altrettanto penetrante riflessione teorica. Per questo Jullien suggerisce che alcuni concetti propri della filosofia cinese possano soccorrere alle lacune della cultura occidentale, in primo luogo sanando la scissione di origine platonica tra soma e psyche, corpo e anima.
Il pensiero cinese non si è rinchiuso nella logica della causalità, non si è interrogato sul deciframento del mondo, sull’esistenza di Dio e di una verità ultima, sull’azione politica del logos o sull’interpretazione psicanalitica. Ha usato altri metodi di avvicinamento all’esistenza, più allusivi e sfumati, meno frontalmente aggressivi. A questi metodi la psicanalisi dovrebbe prestare attenzione, soprattutto per ciò che riguarda la relazione tra analista e paziente nel corso della seduta. Si tratta di cinque concetti ben noti alla filosofia cinese, e sfruttabili, importabili anche da parte dell’analisi clinica di stampo freudiano: disponibilità, allusività, sbieco, obliquo e influenza.
Metodiche che privilegiano l’evoluzione e la trasformazione lenta, silenziosa; non l’identificazione ma l’interazione; non l’irrigidirsi in qualsiasi intransigenza, ma il rimanere aperti ad ogni possibilità; non l’imporre la propria egoità; non l’usare linguaggi impositivi o denotativi, bensì alludere, aggirando l’ostacolo senza affrontarlo direttamente.
In Cina non esiste la figura dello psicanalista: ad essa si preferisce quella del Maestro. «Il Maestro non si mette né completamente davanti (con la pretesa di mostrare la via), né completamente a lato (limitandosi ad accompagnare). Perché sa che può indurre, ma non guidare; che è meglio influenzare che insegnare». E l’influenzamento del maestro agisce in modo diffuso e sottile, trasforma silenziosamente nel tempo, come un’eco a distanza e una risonanza reciproca, senza pretendere di persuadere: libera e non costringe, ristabilisce i passaggi ostruiti, sgomberando la via all’affioramento del sotterraneo, alla cura che è già guarigione.
Il contadino non costringe il grano a crescere tirando i germogli: lo aiuta innaffiandolo, smuovendo la terra intorno.

 

© Riproduzione riservata        
www.sololibri.net/Cinque-concetti-proposti-alla-143431.html        9 febbraio 2016
RECENSIONI

JULLIEN

FRANÇOIS JULLIEN, SULL’INTIMITÀ – RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2014

Questo bellissimo e commovente saggio del sinologo-filosofo François Jullien è forse uno dei pochi testi (l’unico, anzi, che io conosca) che si permetta di contestare l’Amore sulla base di un sentimento o di un atteggiamento che lo travalica, e che potremmo definire come tenerezza, comprensione, vicinanza affettuosa, complicità: ma che l’autore propone di chiamare “intimità”.

«L’intimità è quell’esperienza limite che fa cadere la frontiera tra l’Altro e sé», non in maniera possessiva, violenta, eccitata, passionale e frastornante come fa l’amore; bensì attraverso la scoperta lenta del bene che ci unisce a un’altra persona.

L’Eros esige il desiderio, rivolto verso un esterno a noi, esibendo una barriera che tiene lontano l’Altro come fosse uno straniero, in modo tale che la relazione con lui sia di conquista, «affilata come una lama, brutale», frenando dolcezza e complicità per lasciare posto invece a una sorta di aggressione provocatoria, di eccitazione improvvisa, di teatralità giocosa e liberante. L’intimità è successiva, più lenta e sedata, più amichevole e intenerita. Privilegia l’intesa tacita e l’implicito, la discrezione e il rispetto. Tuttavia è necessario che il rapporto di intimità tra due che si amano non si addormenti in un’abitudine stanca e silenziosa, annoiata e assimilatrice, che arriva a cancellare l’altro, inglobandolo, rendendolo innocuo nel suo adeguarsi completamente a noi. Per questo, secondo Jullien, dobbiamo permettere che all’interno di una relazione si inserisca anche l’extimità, con il suo carico dirompente e fantasioso di novità capace di creare uno scarto, una frontiera, un distacco tra i partner che permetta loro di re-incontrarsi vicendevolmente, come due irriducibili diversi, ma reciprocamente arricchenti proprio nella diversità. Si tratta quindi di creare una dialettica «tra» due persone, evitando fusioni misticheggianti o simbiotiche, riattivando la transitività, bloccando l’osmosi rassegnata. Si può fingere l’amore, non l’intimità, che è un approdo, il risultato di un conoscersi e accettarsi in coppia. L’amore può essere non corrisposto: l’intimità è vissuta obbligatoriamente in due e da due.

François Jullien, in questo suo celebrato volume Sull’intimità, che ha come significativo sottotitolo Lontano dal frastuono dell’Amore, fornisce al lettore molti esempi letterari che nel nostro Occidente hanno affrontato il tema amoroso cercando di smitizzarne la retorica o di rivelarne gli infingimenti: a partire dal primo, coinvolgente e intenso, capitolo dedicato al romanzo di Georges Simenon Il treno, per risalire poi a Stendhal, a Rousseau, a Sant’Agostino (che definiva Dio «interior intimo meo») e arrivare ai greci, all’antica Cina. La scoperta di un sentimento diverso dall’Eros (inteso come seduzione, possesso, soddisfazione egotistica), che incoraggi l’immersione «in un dentro condiviso», spontaneo e gratuito, non alienante, né normativo, né soperchiante, potrebbe costituire una via d’uscita dalla morale asfittica e interessata che assedia questo «mondo storico in contrazione che è l’Europa». L’intimità con qualcuno ci insegna infatti a non essere più sospettosi, ad allentare i nostri sistemi di difesa e protezione, i calcoli e le ragioni, in una fiduciosa e intenzionale alleanza con chi ci è vicino, secondo modalità per cui non ci sentiamo più abbandonati e non abbandoniamo.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Sull-intimita-Francois-Jullien.html     20 dicembre 2016

 

 

 

 

RECENSIONI

JUNG

CARL G. JUNG, RISPOSTA A GIOBBE — BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2012

«Il libro non dev’essere altro che l’interrogante voce di un singolo, che spera o attende d’incontrare la pensosità dei suoi lettori». Così scriveva Carl G. Jung nel tentativo di giustificare «scherno e sarcasmo» spesso affioranti in questo suo volume del 1952, in cui si era proposto di affrontare da psichiatra i dilemmi fondamentali della visione religiosa, quali si esprimono nelle Sacre Scritture.
E soprattutto di approfondire la questione più problematica e imbarazzante per chi crede, cioè la giustificazione del male e della sofferenza, e la loro conciliazione con la fede in un Dio buono e paterno. Partendo quindi dall’esame del libro di Giobbe, e da questa figura emblematicamente giusta e pia, costretta a patire crudeli sofferenze morali e fisiche, che ardisce interrogare Yahwèh, e «attende aiuto da Dio contro Dio», lo psicanalista svizzero prende quasi rabbiosamente le parti del mite oppresso, dell’uomo indifeso e perseguitato, contro la «selvatichezza e perversità divina… un Dio smodato nelle sue emozioni… roso dall’ira e dalla gelosia». La colpa di Giobbe, secondo Jung, risiede nella sua coraggiosa intelligenza e indipendenza di giudizio: «Giobbe individua l’antinomia interna di Dio, e con ciò la luce della sua conoscenza personale raggiunge essa stessa una numinosità divina». Nella sua istintiva identificazione con il personaggio biblico, Jung mena fendenti rabbiosi contro la potenza sovrumana del creatore: «Quest’uomo abbandonato, indifeso e senza diritti, alla mercé del suo nemico, appare a Yahwèh tanto manifestamente pericoloso da ritenere necessario demolirlo con i colpi della sua artiglieria più pesante».

E quindi l’ansia esegetica dello psicanalista arriva polemicamente ad affrontare non solo le intenzioni inconsce di Dio (talmente invidioso dell’uomo da volersi incarnare nel Figlio), ma tutta la storia dell’Antico e Nuovo Testamento, e addirittura dei testi apocrifi (quindi parte della Genesi e il Libro di Enoch, Ezechiele e il Salmo 89, i Vangeli e l’Apocalisse) e dei più importanti protagonisti delle Scritture.
Di tutti Jung traccia ritratti impietosi. «Nel carattere di Cristo si fa notare una certa irascibilità e, come spesso avviene nelle nature emotive, pure una certa mancanza di autoriflessione»; «Pietro possiede poco dominio di sé e un carattere instabile»; «Paolo appartiene a quelli il cui inconscio era in preda a turbamento e dava luogo a delle estasi di rivelazione», «Giovanni potrebbe avere facilmente dei cattivi sogni che non appaiono nel suo programma cosciente… una vasta rete di risentimenti e di pensieri di vendetta».

In queste personalità poco equilibrate, in preda a irrazionali e ingestibili turbamenti, Jung rileva un fondamento comune a tutti i tipi psicologici religiosi: «Nell’inconscio è presente tutto quanto è stato respinto dal conscio, e quanto più il conscio è cristiano tanto più l’inconscio si atteggia a pagano». Forse solo di Maria, di cui nel 1950 era stato proclamato il discusso dogma dell’Assunzione, Jung riesce a salvare l’aspetto simbolico di Mediatrix archetipica, risalente ai miti orientali della Donna-Sole, della Sakti indiana, della Sophia alessandrina: mito necessario all’umanità (e incompreso dai protestanti), nella sua aspirazione alla pace, all’equilibrio, all’intercessione materna.
Tesi stimolanti, queste junghiane, anche se indubbiamente datate dal punto di vista dell’antropologia e della storia delle religioni, e comunque rivelatrici dell’ego ipertrofico di molti indagatori della psiche, sempre pronti a scandagliare isterismi e patemi altrui, individuali o collettivi, sorvolando sui propri complessi e incoerenze comportamentali.

 

«incroci on line», 5 aprile 2015

RECENSIONI

JUNG

CARL GUSTAV JUNG, IL SIMBOLISMO DELLA MESSA — BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2013

“Dato che il drammatico svolgimento della messa rappresenta la morte, il sacrificio e la resurrezione di un dio (nei quali sono compresi e ai quali partecipano il sacerdote e i fedeli), la sua fenomenologia può certo essere messa in relazione con usi cultuali fondamentalmente simili, anche se primitivi. C’è così il rischio, è vero, che il sentimento trovi sgradevole che si confronti ‘ciò che è piccolo con ciò che è grande’; ma per rendere giustizia alla psiche primitiva debbo sottolineare che il ‘timore sacro’ degli uomini civilizzati non si differenzia essenzialmente da quello dei primitivi, e che il Dio presente e agente nel Mysterium è per entrambi un mistero. Per quanto appariscenti possano essere le differenze esteriori, non si deve perciò trascurare la somiglianza o l’equivalenza del significato” (pag.72). In questo dottissimo e documentatissimo testo del 1942, Carl Gustav Jung si accosta al rito della Messa cristiana con il rispetto quasi sacrale che si deve appunto a un mistero, che è il mistero universale ed antico della trasformazione, dell’elevazione e della spiritualizzazione. In una parola, della salvezza. E lo fa cercando le analogie con i riti magici dei popoli primitivi (il “mangiare dio” degli aztechi ), i miti greci ( lo scorticamento di Marsia o la morte e risurrezione di Attis), i sacrifici animali del mithraismo, le tradizioni rabbiniche, le alchimie dello gnostico Zosimo, o lo studio di abitudini rituali presso tribù bantù contemporanee. E lo fa soprattutto attraverso l’indagine sul simbolismo di cui si serve la celebrazione della messa: pane, vino, acqua, incenso, formule, gesti. Quale sia il substrato psichico che si cela nel momento cruciale della celebrazione eucaristica, è ciò che preme a Jung di dimostrare: “il mistero e il miracolo della trasformazione di Dio che si compie nell’ambito umano, della sua incarnazione e del suo ritorno all’Essere in sé e per sé”.

IBS, 29 gennaio 2014

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KAPLLANI

GAZMEND KAPLLANI, LA STRADA SBAGLIATA – DEL VECCHIO, FIRENZE 2023

Il secondo romanzo pubblicato da Gazmend Kapllani con l’editore Del Vecchio, dopo Breve diario di frontiera del 2015, si intitola La strada sbagliata. Kapllani è uno degli scrittori albanesi di maggiore spessore internazionale: nato a Lushnje nel 1967, esiliato in Grecia nel 1991, oggi è docente universitario a Boston, e si occupa di razzismo, nazionalismi, sistemi totalitari, persecuzioni etniche, migrazioni, censure culturali e linguistiche.

Il protagonista de La strada sbagliata si chiama Karl, e torna nella città natale di Ters, in Albania, ventisette anni dopo averla lasciata. Torna per partecipare al funerale del padre, e trova il suo paese ancora più desolato e imbruttito di quando l’aveva lasciato, deturpato dalla cementificazione e dagli abusi edilizi favoriti dai governi succeduti alla caduta del comunismo. Nella piazza centrale osserva spaesato e senza alcuna simpatia i suoi concittadini: “Davanti a quei volti familiari ed estranei, agli edifici deformati della città nuova e alla città vecchia sulla collina che pareva immutata da sempre, Karl si sentiva in una terra di mezzo: straniero nella propria città, nativo in una città straniera”. Questa estraneità, non appartenenza, crisi identitaria accompagnerà il protagonista del racconto, alter ego dell’autore, nello svolgersi di tutta la narrazione, insieme al dualismo che ne investe ogni aspetto: nella struttura a due voci, distinte anche graficamente tra tondo e corsivo, nel contrapporsi di vita e morte, presente e passato, tradizione e novità, inquietudine e immobilismo. Una duplicità rappresentata soprattutto dal confronto-scontro con la figura del fratello Frederik, rimasto in patria, arroccato a un’ideologia obsoleta e a pregiudizi morali, ferito costantemente dal senso di inferiorità nei confronti di Karl, superiore a lui in età, in esperienza, cultura: “Karl aveva vissuto sotto cieli eterogenei, aveva parlato e scritto in lingue differenti, aveva amato donne di nazionalità diverse. Frederik aveva vissuto nella stessa città dove era nato, nello stesso palazzo, allo stesso piano, nella stessa casa, realizzando così quell’ideale paterno legato alla continuità delle generazioni, senza fratture, che secondo lui costituiva l’unica possibilità per diventare un uomo felice e di sani principi”. I due fratelli, che il padre insegnante comunista e convinto sostenitore del regime di Enver Hoxha aveva voluto chiamare con i nomi di Marx ed Engels, non riescono a rompere la barriera che li separa ideologicamente e affettivamente nemmeno davanti alla bara del genitore.

Karl ripercorre le vicende che l’hanno condotto a emigrare, prima in Grecia, poi in America, a partire dalla laurea discussa all’università di Tirana nel febbraio del 1991, quando la ribellione contro il governo aveva incendiato la città, negli scontri tra polizia e studenti in cui si era trovato coinvolto. La decisione successiva di procurarsi un visto falso per superare la frontiera lo aveva accomunato alla scelta di moltissimi altri albanesi, che da quell’anno decisero di espatriare in massa: “Dopo mezzo secolo di completo isolamento dal mondo, in tanti si affrettavano a lasciare il paese, come prigionieri in fuga dalle carceri o colpevoli che scappano dalla scena del crimine”. L’incontro con una donna greca più anziana di lui, Clio, la loro convivenza durata quasi vent’anni aveva fatto di Karl un uomo nuovo: “Bello, giovane, potente e fragile allo stesso tempo, desideroso di correre verso il futuro, per trovare una nuova patria, un nuovo io”. Diventato presto ad Atene un “immigrato integrato con successo”, pur continuando a lavorare come receptionist in un lussuoso hotel del centro di Atene, Karl aveva iniziato a pubblicare saggi e volumi sulla questione dell’emigrazione albanese, firmando sul suo blog una serie di denunce contro il razzismo che ben presto gli avevano attirato odio e minacce da parte dell’opinione pubblica più retriva e dei nazionalisti di Alba Dorata. Abbandonata Clio, si era concesso una serie di avventure erotiche effimere, roso da un’inquietudine che presto lo condusse a lasciare l’Europa per iniziare un’esistenza più libera, accanto a una nuova compagna, negli Stati Uniti.

Il quarto e ultimo complesso capitolo del romanzo di Kapllani sembra voler riassumere gli spunti narrativi e le riflessioni sparse nelle pagine precedenti, recuperando la descrizione delle giornate trascorse a Ters dal protagonista. Alle considerazioni di Karl sulla natura e la storia della sua città natale e sui mutamenti verificatisi nei costumi e nel linguaggio degli abitanti, fanno da contraltare i severi giudizi di Frederik sulla corruzione derivata dall’offuscamento dei valori tradizionali: “Capita che Ters soffochi, irriti e spaventi… la salvezza è il ritorno all’identità forte e al nazionalismo. Il nazionalismo non è odio per gli altri, è amore per te stesso, per la tua lingua, per la tua nazione, per le tue radici, per la tua razza. Il nazionalismo è disciplina, gerarchia, ordine, purezza, rispetto della natura umana. È il fuoco che purificherà e porterà a sé questo mondo che sta uscendo di senno…”.

Il dissidio tra i due uomini si concretizzerà intorno alla partecipazione ai funerali di una ragazza incinta uccisa dal suo amante, ricco uomo d’affari, stimato e temuto nella comunità: in Karl prevale pietà e comprensione, nel fratello, arroccato nei pregiudizi della maggioranza silenziosa, condanna e riprovazione.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net            9 settembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GAZMEND KAPLLANI, LA TERRA SBAGLIATA – DEL VECCHIO, FIRENZE 2023, p. 182

Trad. di Ermal Rrena e Rossella Monaco

RECENSIONI

KATZENELSON

ITZHAK KATZENELSON, CANTO DEL POPOLO YIDDISH MESSO A MORTE – FELTRINELLI, MILANO 2019

Itzhak Katznelson (Karėličy1886-Auschwitz 1944) è stato un poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto. Nato nel 1886 a Karėličy, vicino a Minsk, si trasferì presto con la famiglia a Łódź, dove crebbe e studiò letteratura. Fu insegnante e drammaturgo: fondò una compagnia teatrale con cui si esibiva in Polonia e Lituania, mettendo in scena suoi testi in yiddish ed ebraico. In seguito all’invasione nazista del 1939, riparò a Varsavia, dove fu recluso con la moglie e i tre figli nel ghetto, riuscendo comunque a crearvi una scuola per l’infanzia. Scampato alla deportazione e all’uccisione dei suoi parenti nel campo di Treblinka, partecipò alla sollevazione del Ghetto di Varsavia il 18 aprile 1943. Gli amici gli procurarono un passaporto falso per l’Honduras, ma prima che potesse mettersi in salvo la Gestapo lo catturò e rinchiuse nel campo di transito francese di Vittel: qui in due mesi compose il suo capolavoro in 900 versi, Canto del popolo yiddish messo a morte, nascondendo il manoscritto in tre bottiglie che sotterrò sotto un albero, da dove venne recuperato nel 1945 grazie alle indicazioni di una compagna di prigionia sopravvissuta, Miriam Novitsch, quindi pubblicato in francese per la prima volta a Parigi nello stesso anno. A fine aprile del 1944, Itzhak Katzenelson e il figlio maggiore Tzyi furono condotti ad Auschwitz e immediatamente inviati alla camera a gas il primo maggio dello stesso anno. Al poeta è stato intitolato il “Museo dei Combattenti dei Ghetti” ad Acri, nel nord di Israele.

Il suo Canto (Dos Lid, in yiddish) conobbe numerose traduzioni e ristampe in tutte le lingue del mondo. In Italia fu pubblicato privatamente a Torino nel 1966 (ediz. Amici di Lohamei Haghettaoth) con prefazione di Primo Levi, poi da Giuntina nel 1995, quindi da Mondadori nel 2009, e ora esce da Feltrinelli con traduzione e postfazione di Erri De Luca. Il testo si articola in quindici brani poetici, ciascuno composto da quindici strofe di quattro versi lunghi, che rievocano le tappe dell’annientamento dell’ebraismo polacco, dall’invasione nazista al rogo del ghetto di Varsavia. Primo Levi così ne scrisse, commentandone la tragica testimonianza di morte, disperazione, cieca e imperdonabile violenza: “È la voce di un morituro, uno fra centinaia di migliaia di morituri, atrocemente consapevole del suo destino singolo e del destino del suo popolo. Non del destino lontano, ma di quello imminente: Katzenelson scrive e canta nel mezzo della strage, la morte tedesca si aggira intorno a lui, ha già compiuto il massacro più che a metà ma la misura non è ancora colma, non c’è tregua, non c’è respiro: sta per colpire ancora e ancora, fino all’ultimo vecchio e all’ultimo bambino, fino alla fine di tutto”.

Si può scrivere mentre si assiste a un genocidio, in attesa della propria indifferibile scomparsa, dopo aver osservato inermi la distruzione di un popolo, il martirio delle persone più care? A un poeta non rimane che un unico modo di esprimersi: l’urlo di dolore, di rabbia feroce, di protesta contro il destino e contro il cielo immobile, nella rievocazione commossa di chi ha perduto. Alle vittime innocenti immolate dalla furia tedesca, Katzenelson chiede, prima di sparire a sua volta, di alzare un grido che risuoni in eterno, scuotendo le coscienze dei posteri:

“Come faccio a cantare se per me il mondo è vuoto? / Come posso suonare con le mani spezzate? / Dove sono i miei morti? / Cerco i miei morti, Dio, in ogni letame, / in ogni mucchio di cenere, ditemi dove siete. // Gridate, da ogni sabbia, gridate, da sotto ogni pietra / da tutte le polveri gridate e da tutte le fiamme, da ogni fumo. / C’è il vostro sangue e succo, c’è il midollo delle vostre ossa, / c’è vostra carne e vita. Gridate forte, in alto. // Gridate dalle viscere delle bestie selvatiche del bosco, dal pesce nello stagno. / Vi hanno inghiottito. Gridate dalle fornaci della calce, grandi e piccoli gridate. / Voglio da voi un grido di pericolo, un grido di dolore, una voce, / grida popolo yiddish messo a morte, grida e grida forte. // […] Venite tutti da Treblinka, da Sovibor, da Oshventshim, / da Belgiz venite, venite da Ponari e da altri posti ancora e ancora e ancora. / Con gli occhi fuori dalle orbite, un grido congelato di soccorso ma senza la voce, / dalle paludi, dal fango in cui foste sprofondati, dalle muffe marcite. // Venite, disseccati, tritati, macinati, venite, disponetevi / in cerchio, una ruota gigante intorno a me, un solo girotondo. / Nonni, nonne, padri, madri con i bambini in grembo, / ossa yiddish venite dalla polvere, dai pezzi di sapone. // Apparitemi, mostratevi a me tutti, venite tutti, / voglio vedervi tutti, voglio guardarvi, voglio / sul popolo mio messo a morte posare lo sguardo zitto / ammutolito. / Allora canterò, sì, ecco l’arpa, io suono”.

Canta in versi, Katzenelson, e ricostruisce la storia ebraica, a partire dal profetismo dell’Antico Testamento, cadenzato dalle implorazioni dei Salmi, già premonitore delle sofferenze del popolo eletto, per attraversare poi la diaspora, i pogrom medievali, e arrivare alle persecuzioni novecentesche, alla Shoah, al dolore collettivo dei giudei polacchi e a quello suo individuale: “Dolori voi v’ingrandite in me, crescete di misura / per quale tormento? Per trapanarmi dentro o per strapparvi via? / Non vi strappate via da me, dolori. Crescete dentro di me, state in silenzio, / zitti mentre mi lacerate, dolori miei che diventate grandi”.

Itzhak Katzenelson rivive nelle strofe del suo poema l’invasione nazista del ’39, la fuga disperata di intere popolazioni dalle proprie città, il tentativo di cercare scampo a Varsavia: quindi la reclusione nel ghetto con la paura di una cattura improvvisa, il sospetto nei riguardi dei vicini, le delazioni reciproche. Infine i rastrellamenti, le prime deportazioni, il freddo e la denutrizione degli scampati. Ricompone con nostalgia il ricordo della moglie Hanna e dei due bambini più piccoli che non è riuscito a salvare (“Ti ho chiamato fuori dalla tua pace, / non riposare, Hannele, che mai possa guarire in un dimenticare l’ulcera mia infinita. // Siediti qui con me, ti amo così tanto”), la rabbia contro i collaborazionisti e l’indifferenza degli ignavi, il rimorso per la propria vigliaccheria incapace di ribellarsi (“Guai a me, perché sapevo e i miei vicini pure e ogni e qualunque yid, / noi tutti, grandi e piccoli, dal vecchio al giovane, noi lo sapevamo. / Ma dalla bocca non è uscito niente, sst. / Hanna, se gli sparavo in quel momento, se in quel minuto avevo tra le mani di che farlo, / salvavo tutto il popolo, te, me stesso, pure i nostri bambini”.

Tutto ciò viene espresso dal poeta in tono concitato, impetuoso, privo di filtri. L’odio verso i nazisti invasori, capaci di affamare e trucidare infanti e anziani, fuoriesce irrefrenabile, come una maledizione e una condanna senza appello, che si estende a tutto il popolo tedesco, complice di ogni atrocità nel suo silenzio corrivo, e agli ebrei conniventi e corresponsabili dell’orrore: “Sfondavano le porte, irrompevano gridando per ingiuria ‘Aiuto, aiuto’ / dentro le case yiddish barricate, sollevando bastoni tra le mani. / Ci hanno scovati, bastonati e spinti nei vagoni … “.

Dio non c’è, in questi versi acri, esasperati, come fa giustamente notare Erri De Luca nel suo commento: Dio qui è una presenza irrilevante, muta, mai partecipe a ciò che accade: “È solo un bene che non esista un dio, anche se è male, assai, senza di lui. / Ma se ci fosse, pure peggio sarebbe”. La responsabilità degli eventi storici è solamente umana, di chi li provoca e di chi ci si adegua. Non esiste giustificazione per chi ha commesso e permesso la strage: “Per che cosa? Non chiedete, nessuno al mondo, eppure tutto, tutto chiede: per cosa? Per che cosa? / Ascolta, ascolta. // … C’è stato un popolo, c’è stato, e non esiste più. / C’è stato un popolo, c’è stato, e adesso niente”.

 

© Riproduzione riservata                  «La poesia e lo spirito», 24 maggio 2019

 

 

 

 

RECENSIONI

KAVAFIS

COSTANTINO KAVAFIS, LE POESIE – EINAUDI, TORINO 2015

Con un’esauriente ed empatica prefazione di Nicola Crocetti, escono da Einaudi tutte le poesie di Costantino Kavafis: le 154 canoniche, più una quarantina di inedite (le “nascoste” e le “rifiutate”) ed alcune prose. La prima edizione italiana del corpus poetico del poeta alessandrino risale al 1961, quando Filippo Maria Pontani presentò ai lettori italiani un’antologia di testi accompagnati da un’egregia traduzione. La versione di Crocetti appare parimenti fedele e attenta, tesa a rendere soprattutto l’eleganza musicale della lingua di colui che rimane, dopo circa un secolo, il più grande e conosciuto tra i poeti ellenici.
Il volume è suddiviso in cinque capitoli, che scandiscono cronologicamente la produzione in versi, parca e controllata, di Kavafis: dal 1905 alla morte. Costantino Kavafis nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1863, e vi morì nel 1933, allontanandosene solo durante l’adolescenza, trascorsa in Inghilterra con la famiglia, o per brevi soggiorni all’estero: nella sua città condusse una vita ritirata e modesta, lavorando per trent’anni come impiegato part-time al ministero dei Lavori Pubblici. «Poeta vissuto ai margini di tutto», scrive il prefatore del volume: «dell’impero geografico e delle lettere, della vita sociale e professionale, dell’editoria e della critica». Eppure, i suoi versi (che in vita circolarono quasi clandestinamente tra pochi amici ed estimatori, o in riviste di scarsa diffusione) hanno mantenuto nei decenni un fascino e un richiamo costante per la loro nitida classicità, e per l’intensità delicata e sensuale con cui esplorano ogni aspetto dell’esistere. A partire proprio dall’amatissima città natale, raccontata nel suo mare e nei suoi vicoli, nei caffè e nei bordelli, negli odori e negli incontri fugaci. Alessandria inevitabile come un destino: «Ti verrà dietro la città. Per le stesse strade / girerai. Negli stessi quartieri invecchierai; / e in queste stesse case imbiancherai»,

Appunto, le case. Abitazioni povere, male arredate, in cui l’unica stanza di rilievo è sempre e solo la camera da letto, dove godere voraci amori: «La camera era povera e triviale, / nascosta sull’equivoca taverna. / Dalla finestra si vedeva il vicolo / sudicio e angusto. //…E lì, sull’infimo e sordido giaciglio, / ebbi il corpo d’amore…», «Se la conosco bene questa stanza. //…Ah, come mi è familiare questa stanza. //…Di fianco alla finestra c’era il letto / su cui ci amammo tante volte», «So che tutto è povero qui dentro, / che ben altri ornamenti meritavano / gli amici miei…».

E poi le strade (strette, buie, sporche, rumorose), i negozi, i mercati, i bar, gli alberghi equivoci («Andai nelle camere segrete / e su quei letti mi distesi e giacqui.»). E il mare, con la sua grandiosità luminosa: «Mare al mattino, cielo senza nubi/ d’un viola splendido, riva gialla; tutto/ grande e bello, fulgido nella luce». Kavafis, votato alla bellezza – da cui veniva sedotto e rapito in una sorta di estatica gratitudine – la cercava ansiosamente ovunque: negli oggetti, nella natura, nei volti («Che bel ragazzo; che meriggio divino / l’ha catturato per addormentarlo.- / Resto così a guardarlo a lungo.»), quasi però col timore di sciuparla, avvicinandosi troppo ad essa. Nello stesso modo anche gli amori, vissuti talvolta con vergognoso abbandono, più spesso erano vagheggiati da lontano, o recuperati solo nel ricordo: «Non ti ebbi, né mai ti avrò, suppongo. / Qualche frase, un accostamento / come l’altr’ieri al bar, nient’altro», «Ricordo appena gli occhi; erano azzurri, credo…/ Ah sì, azzurri, uno zaffiro azzurro», «S’è ancora vivo, si saranno imbruttiti gli occhi grigi, / si sarà sciupato il bel viso. // Serbali tu com’erano, memoria. / E, memoria, di quel mio amore tutto ciò che puoi, / quanto più puoi riportami stasera».

Il sentimento del trascorrere inarrestabile del tempo, della caducità dei sentimenti, del deterioramento fisico era avvertito con timore e ribrezzo: la vecchiaia temuta come uno spettro inevitabile, e descritta più negativamente della morte.
Tuttavia il passato non era solamente nostalgia, rimorso o rimpianto, per Kavafis: domina in tutta la sua produzione poetica una considerazione altissima, orgogliosa, esaltante della storia antica, dei personaggi (eccelsi anche quando appartengano ai ceti più umili e trascurati) che avevano resa celebre con le loro imprese o con l’arte la grandezza della civiltà ellenica. Persino la sua personale omosessualità andava alla ricerca di una nobile affinità e consacrazione nella cultura classica dedita agli amori efebici, e lì trovava la sua giustificazione, il suo riscatto.
Lari privati ed Erinni pubbliche, sovrani e tiranni, guerre e processi, vittorie e sconfitte: tutto torna, dal palcoscenico della storia, a riverberare nella coscienza ulcerata e pietosa di chi scrive. «Accadranno / le stesse cose, accadranno di nuovo -/ gli stessi istanti ci trovano e ci lasciano», uguali e comuni per tutti gli uomini, nei secoli e nei minuti, sebbene riconosciuti nella loro divina unicità dalla sensibilità di pochi: «Non credete solo a ciò che vedete. / E’ più acuto lo sguardo dei poeti».

 

«Lo Straniero» n.181, luglio 2015

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