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RECENSIONI

LUXEMBURG

ROSA LUXEMBURG, UN PO’ DI COMPASSIONE – ADELPHI, MILANO 2007

Nel cortile del carcere di Breslavia dove era stata imprigionata nel 1914, Rosa Luxemburg (1870-1919) assistette a una scena di incredibile violenza nei confronti di due bufali, che trainavano un carretto di masserizie sotto la sorveglianza di alcuni militari. Ne fu profondamente colpita e scandalizzata, e la descrisse così in una lettera alla sua amica Sonia Liebknecht:

«Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì, chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. ‘Neanche per noi uomini c’è compassione’, rispose quello con un sorriso maligno e batté ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonička, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla forza bruta… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – ma erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! … E qui …questa città, ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh, mio povero bufalo, mio povero e amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia… Intanto, i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro…  il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi… Sonjusa, carissima, siate nonostante tutto calma e lieta. Così è la vita, e così bisogna prenderla, con coraggio, impavidi e sorridenti – nonostante tutto. Buon Natale!»

Lo scrittore austriaco Karl Kraus lesse la lettera, ne rimase fortemente impressionato, e la pubblicò sulla sua rivista di satira politica Die Fackel nel 1920, affiancandola a un malevolo commento (veritiero o inventato) di una lettrice «megera», proprietaria terriera di Insbruck, che derideva la sensibilità eccessiva della rivoluzionaria comunista verso gli animali. Ciò offrì a Kraus agio di esprimere tutto il suo dissenso e l’indignazione nei riguardi del brutale potere che aveva condannato e poi ucciso la coraggiosa teorica del comunismo, di cui elogiava «l’umanità e la poesia», e «l’anima così elevata». Rosa Luxemburg, filosofa ed economista polacca di origine ebraica, esiliata a Zurigo per motivi politici, trasferitasi a Berlino aderì al Partito Socialdemocratico e divenne la principale esponente della fazione di sinistra, prendendo posizione contro il revisionismo e contro il modello leninista di organizzazione del partito. Nel 1916 promosse l’insurrezione spartachista, e venne uccisa nella repressione che ne seguì. La sua opera fondamentale fu Die Akkumulation des Kapitals (1913), un prezioso contributo allo studio della politica imperialista.

In questo libriccino pubblicato da Adelphi nel 2007, e corredato da una ricca postfazione di Marco Rispoli, la lettera della Luxemburg occupa solo sette paginette. Sono però antologizzati altri scritti, di Franz Kafka, Elias Canetti e Joseph Roth, tutti indaganti il rapporto che intercorre tra la coscienza dell’uomo e la sofferenza degli animali, esplorato con particolare empatia e partecipazione dal pensiero filosofico e letterario nel corso degli ultimi due secoli (a partire da Schopenhauer, Dostoevskij, Nietzsche, per arrivare a molti poeti contemporanei, anche italiani), capace finalmente, dopo millenni di indifferenza e sfruttamento nei riguardi dell’ambiente, di identificarsi con il dolore di tutte le creature.

Un po’ di compassione, come quella che una donna intransigente e perpetuamente in lotta come Rosa Luxemburg manifestava per il bufalo sanguinante, “povero e amato fratello”, vittima innocente e indifesa della brutale violenza e del sadismo dell’uomo.

 

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https://www.sololibri.net/Un-po-di-compassione-Luxemburg.html                  10 maggio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

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MACCARI

PAOLO MACCARI, FUOCO AMICO – PASSIGLI, FIRENZE 2009

Delle cinque sezioni che compongono questo libro di versi, Fuoco amico di Paolo Maccari, la più originale (pur nei suoi evidenti debiti soprattutto con Caproni) è senz’altro la prima, intitolata L’ultima voce. Si tratta di 18 sonetti letterariamente vibranti, nervosi, secchi anche nell’utilizzo degli endecasillabi, coraggiosi nell’uso delle spezzature e degli enjambement, che senz’altro traggono la loro singolare forza dal tema trattato. La voce monologante è quella di «un giovane, quasi un ragazzo», unico superstite dopo una misteriosa operazione di polizia/pulizia che si è prefissa di sterminare qualsiasi ribelle, per costruire «un secolo ordinato». Il giovane è tenuto sotto osservazione, in cella, preda di incubi, di propositi di resistenza o di improvvisa resa: «Rintuzzare i pensieri. / Fare la posta ai ricordi, snidare / i sogni. I desideri…».

In bilico costante tra tentazioni di delazione e fuga, e terrori allucinati, ed eroici proponimenti di non collaborazione col nemico. Fede, tradimento, difesa, morte, confessioni, torture, divise militari, inseguimenti, perquisizioni: la minaccia è concreta e impalpabile insieme: «Verranno con allegri portafogli. / Verranno con lame, aghi, aculei orrendi. / Verranno capi, sgherri e reverendi». L’unica, possibile via d’uscita sembra essere l’accettazione dell’immobilità: «Io, il più flebile, scampato per comando / di un dio perfido, immobile domando / perdono a voi, i per sempre fuggitivi./ Spero che non mi facciano più uscire».

Questa pervasiva sensazione persecutoria a cui non si sa come rispondere si respira anche nelle altre sezioni del volume, sia che il poeta parli di amori a cui teme di concedersi, o di amici che si sono allontanati, o del proprio corpo torturato dalle emicranie e dalle malattie nervose: «Penammo, sì, a star fermi, / a non aver la forza / che di star fermi».

 

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www.sololibri.net/Fuoco-amico-Paolo-Maccari.html     19 marzo 2016

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MADERA

ROMANO MÀDERA, LA CARTA DEL SENSO – CORTINA, 2012

Romano Màdera, professore di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca e studioso del pensiero di Jung, fa parte dell’Associazione di psicologia analitica internazionale. Nel volume La carta del senso, pubblicato presso Raffaello Cortina nel 2012, suggerisce ai lettori un percorso filosofico che incoraggi al cambiamento della propria vita (senza pretendere di cancellarne i momenti negativi), e insegni l’accettazione del dolore, rendendolo strumento di miglioramento per sé e per gli altri. Il corposo testo affronta in sette capitoli temi diversi ma convergenti nell’obiettivo di un recupero della saggezza, del piacere di vivere, del superamento di ogni egocentrismo: per imparare a interrogarsi, a pentirsi, a riparare e a perdonare. Chi legge può scegliere il modo più consono di affrontare il “cammino della salute” proposto dall’autore: nel caso fosse particolarmente interessato alla psicanalisi, già l’introduzione si sofferma sui nodi cruciali che problematizzano il rapporto tra analista e paziente: l’individuazione dei sintomi di malessere, la dinamica che si instaura tra parola e silenzio, il transfer, la durata e la fine delle sedute. Utilizzando le fonti canoniche di tale scienza (Freud e soprattutto Jung), ma anche le voci più innovative e recenti (Winnicott, Matte Blanco, Paolo Aite) Màdera esplora le più diffuse e problematiche sofferenze psichiche, dalla depressione alla nevrosi ossessiva, dall’ansia di prestazione alla bulimia consumistica.

Il primo capitolo ci introduce subito in medias res, ospitandoci nella stanza dell’analista dal primo incontro terapeutico con l’altro, fino al conclusivo indirizzamento verso un nuovo atteggiamento esistenziale. Un “caleidoscopio” di sogni, disordini, rimozioni, traumi, fissazioni, nella cui interpretazione i due attori che interagiscono collaborano tentando di dare un senso all’angoscia, orientandola altrimenti, trascendendola. Ecco quindi alcuni casi clinici che lo psicologo illustra con l’empatia e la delicatezza di chi propone una “cura positiva”, in grado di superare il dato biografico per approdare a una saggezza superiore, a uno sguardo più vasto, capace di liberare le potenzialità espressive e culturali del paziente. Se oggi soffriamo tutti di un restringimento autoreferenziale, ombelicale, dei sentimenti e della progettualità, una via d’uscita ci può essere indicata dalla sapienza antica, così come la interpretava Pierre Hadot. Il grande pensatore francese intendeva la filosofia “come trasformazione della percezione del mondo”: guardare alla realtà in maniera diversa ci aiuta a cambiare noi stessi, a rinnovarci, recuperando un senso e una direzione dell’esistenza che abbiamo perduto. Impegnandosi nell’esercizio su di sé, l’essere umano riesce a raggiungere l’oltrepassamento di sé stesso e l’universalizzazione. La via suggerita si snoda attraverso tre modalità di esercizio spirituale, che hanno come obiettivo il raggiungimento della verità, la solidarietà con l’altro e la riflessione sul cosmo, sulla natura, su tutto ciò che ci accoglie e insieme ci relativizza.

Romano Màdera prospetta quindi un percorso curativo che coinvolga corpo, mente ed emotività, da attuare sotto la guida di un maestro dell’interiorità (secondo l’ottica cristiana dell’autore esso risiede nella lezione evangelica, ma può benissimo prescindere da fedi religiose o ideologiche), che partendo dall’esperienza biografica particolare dell’analizzante sappia condurre a una visione più elevata, cosciente e comprensiva del mondo esterno con cui relazionarsi. Tutti i capitoli di questo prezioso e denso volume offrono stimoli culturali e indicazioni comportamentali di grande interesse, anche relativamente al giudizio che l’autore dà della civiltà contemporanea occidentale, così frastornata e invadente, tanto abbagliata da falsi miti e cogente nel suo conformismo: proprio il richiamo alla saggezza insegnata dai filosofi greco-romani risulta un potente correttivo del materialismo e dell’estetismo imperanti nell’oggi. Soprattutto originali appaiono allora le ultime sezioni del testo, con i suggerimenti di pratiche filosofiche da seguire (esercizi fisici, di concentrazione, comunicazione, meditazione, di lettura e scrittura) per dare un senso nuovo all’esistenza e raggiungere una serenità di fondo, praticando una misericordia non giudicante, in modo da attuare un perfezionamento morale che migliori non solo la nostra vita ma anche quella sociale, e superando l’incentramento egoico attraverso un cammino spirituale laico in grado di offrire una direzione consapevole nella quotidianità.

 

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https://www.sololibri.net/La-carta-del-senso-Romano-Madera.html      23 marzo 2018

 

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MAGGIANI

MAURIZIO MAGGIANI, I FIGLI DELLA REPUBBLICA – FELTRINELLI, MLANO 2014

Leggendo questo libello autoironico, amaro e quasi rabbioso di Maurizio Maggiani, mi sono tornati in mente due versi di G.Giudici: “Quanto di storia mi è transitato addosso/ A me che sono un privato”. Sì, perché Maggiani, nato nel 1951, lancia qui una feroce invettiva contro la sua generazione, quella del dopoguerra e della Prima Repubblica, analizzandone severamente colpe e difetti, senza concederle attenuanti, e con qualche retorica superficialità. Chi ha circa la sua età, ed ha vissuto uguali temperie storiche, respirandone lo stesso clima culturale (privilegi, certo: ma anche utopistici desideri di cambiamento, un generoso seppure fallimentare impegno politico), ritrova nelle sue pagine atmosfere e abitudini dimenticate, o addirittura volutamente rinnegate. Quindi famiglie sane, padri lavoratori e tranquillamente assenti, madri brave cuoche non ossessionate dal femminismo, insegnanti preparati e severi: e poi poca tivù e innocente, canzonette senza pretese, la bici Graziella, il registratore Geloso coi tasti colorati, il budino Elah e il formaggino Milione: “Beati noi, beati noi…Fortunati noi che siamo nati agli albori”. Una generazione in salute, che non ha conosciuto polio e tubercolosi, a cui i genitori hanno dato nomi di battesimo normali, buona educazione tradizionale, salutari castighi e aspirazioni raggiungibili (un lavoro, il matrimonio). Figli che però appena cresciuti hanno preteso il superfluo, si sono concessi disinvolture sessuali e comportamentali, riempiendosi bocca e cervello di psicanalisi e ribellione, alzando barricate per poi rifluire borghesemente e con prona ragionevolezza agli ordini del più bieco potere capitalistico, collezionando successi e servilismo. Non tutti, però, si sono riciclati: molti sono rimasti fedeli a un impegno civile e privato critico e costruttivo, nonostante la Storia (quella davvero potente, sovranazionale: finanziaria, bellica, massmediatica) abbia fatto di tutto per umiliarli. Resistere serve a qualcosa.

IBS, 21 maggio 2014

RECENSIONI

MAGLI

PATRIZIA MAGLI, IL VOLTO RACCONTATO – RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2016

«Non recidere, forbice, quel volto / solo, nella memoria che si sfolla, / non far del grande suo viso in ascolto / la mia nebbia di sempre». Questi celebri versi tratti da un Mottetto delle Occasioni montaliane mi tornavano alla mente leggendo l’interessante volume di Patrizia Magli Il volto raccontato, indagante “Ritratto e autoritratto in letteratura”. Perché mi sono sempre chiesta cosa Montale intendesse significare, attribuendo al volto dell’amata l’aggettivo (quasi offensivo se riferito a un viso femminile) “grande”. Convincendomi man mano che l’intenzione del poeta non fosse precipuamente descrittiva, ma soprattutto metaforica: un viso “grande” occupa tutta la mente, riempie il pensiero, assedia la memoria più reticente. Scorrendo le pagine del libro di Patrizia Magli (Professore di Semiotica a Bologna e a Venezia), ho trovato una conferma a quella mia estemporanea e sprovveduta intuizione.

Comprendere cosa nasconda o riveli il volto di una persona, sempre unico e complesso, perennemente agito e trasformato dal tempo e dai sentimenti, è arduo per qualsiasi osservatore esterno. Descriverlo letterariamente nei suoi tratti fisici e nei suoi riflessi interiori – sempre elusivi, spesso fraintesi – può sembrare impossibile, a causa dell’inadeguatezza del linguaggio ad afferrare e a rendere l’enigmaticità di uno sguardo, di un sorriso. L’autrice si propone di esemplificare in che modo un romanziere o un poeta possano rappresentare efficacemente la concretezza di un viso, rendendolo vivo e reale agli occhi del lettore, ma evocando nel contempo la storia familiare, le passioni, il ruolo giocato nelle vicende narrate dal personaggio a cui quel viso appartiene. Quindi nei primi due capitoli del volume si forniscono esempi di come la tradizione letteraria mondiale abbia allestito la rappresentazione del volto umano, negli ultimi due – dedicati al ritratto e all’autoritratto nella letteratura contemporanea – si svelano i meccanismi strategici con cui gli scrittori riescono a suggerire (più che a descrivere minuziosamente) cosa si celi al di là delle caratteristiche fisiche di ogni essere umano.

Seguendo le tracce di importanti filosofi, critici letterari, semiologi (dal suo maestro Umberto Eco, a Barthes, Foucault, Bachelard, Lotman, Jakobson, Bruner, Blanchot, Hamon…), Patrizia Magli interroga gli autori classici (soprattutto francesi: Balzac, Flaubert, Hugo, Zola, Sue, fino a Baudelaire, a Proust e a Sartre) che introducono i loro protagonisti principali con una descrizione fisiognomica, in genere tesa non solo a individuarne l’identità morale, ma anche a farne risaltare i tratti oppositivi rispetto alle figure secondarie del narrato. Alla prima, generica presentazione di un personaggio, segue l’introduzione di un dettaglio fisico che lo rende subito unico e memorabile; quindi la definizione del nome, anch’esso scelto spesso con l’intento di creare una corrispondenza esteriore o interiore con chi lo porta. E sembra più facile per qualsiasi scrittore descrivere un volto brutto, deforme, addirittura mostruoso, piuttosto che rappresentare l’armonia e la bellezza, sempre indicibili, ineffabili, più spirituali.

Un personaggio si costruisce, quindi, disseminando effetti descrittivi che ne definiscono l’identità, in un sistema di ricorrenze, ridondanze, continuità che creino coesione con il suo ambiente e con i fatti raccontati. Il gioco che si instaura tra chi ritrae e chi è ritratto risponde a interazioni differenti, di imitazione o idealizzazione, di inclusioni o esclusioni, di coinvolgimento o estraneità: e diventa particolarmente sottile, subdolo, problematico quando l’autore descrive se stesso (la sua faccia, la sua figura), con intento introspettivo ed esplorativo, oppure autocelebrativo, difensivo, narcisistico, terapeutico. L’autoritratto, la descrizione autobiografica diventa allora uno specchio implacabile dei propri difetti, o un quadro edulcorato delle proprie virtù. Spetta allo scrittore, alla sua abilità, registrare nel ritratto e nell’autoritratto la verità di un volto, farne affiorare lo sguardo interiore, raccontarlo nei cambiamenti imposti dal tempo, renderlo indimenticabile nella memoria di chi legge. Chi di noi può scordare gli occhi ridenti e fuggitivi della Silvia leopardiana?

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Il-volto-raccontato-Magli.html     18 novembre 2016

«Lo Straniero» n.197, novembre 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MAGONI

GIOVANNI BATTISTA MAGONI, SULLE TRACCE DELL’ASSENTE  – ÀNCORA, MILANO 2024

In molti si sono occupati dell’opera del regista polacco Krzysztof Kieślowski (Varsavia, 1941-1996): non solo critici cinematografici, ma anche filosofi, psicanalisti, teologi. Tra di loro, ultimamente Giovanni Battista Magoni, sacerdote pavoniano e direttore della casa editrice Àncora, gli ha dedicato un esaustivo volume, intitolato Sulle tracce dell’assente, che in maniera esplicita si propone di reperire nella sua filmografia possibili tracce di un’alterità che si nasconde e insieme si rivela nell’immanenza delle storie quotidiane.

Kieslowski non si dichiarava né cattolico né ateo, ma era convinto di un suo rapporto personale con Dio, nel suo affidarsi a un cristianesimo senza religione e senza dogmi, eppure segnato da illuminazioni interiori capaci di aprire a riflessioni metafisiche, oltrepassanti la pura materialità dell’accadere. La sua era un’indagine sul senso della vita, sulle sfere della libertà e dell’etica, sul rapporto misterioso e spesso tragico con il destino, sulle inquietudini che animano le scelte umane, rivolgendole a volte casualmente verso il bene o il male. Entomologo dell’anima, il regista polacco esplorava l’interiorità dei suoi personaggi, emblematicamente rappresentativi di problematiche e sentimenti angosciosi e contraddittori (amore e odio, fedeltà e tradimento, stima e disprezzo, coraggio e viltà), studiati attraverso una rigorosa attenzione alle espressioni dei volti, alla segreta simbologia degli oggetti, alla disposizione allegorica delle luci.

I film più famosi di Kieslowski, riconosciuti come capolavori a livello internazionale, sono stati il Decalogo, I tre colori, La doppia vita di Veronica. Magoni li illustra esaurientemente, soffermandosi sulla trama e sugli interpreti, sulla fotografia e le musiche, e approfondendo le motivazioni psicologiche che regolano le azioni dei personaggi, talvolta dettate da impulsi irrazionali, violenti o egoistici, più spesso improntate a indifferenza e sottomissione.

Più della metà del volume è dedicato all’analisi del Decalogo, dieci episodi indipendenti tra di loro e ispirati ciascuno a un comandamento biblico, trasmessi dalla televisione tra il 1987 e il 1989. Erano stati ideati e sceneggiati insieme all’amico avvocato Piesiewicz, in un periodo storico particolarmente buio per il paese, con la dittatura del generale Jaruzelski che opponeva leggi liberticide all’ansia di libertà e democrazia della popolazione. Intento dell’opera era appunto di reagire al clima di disorientamento sociale e di perdita dei valori comunitari, proponendo dieci storie ambientate in un unico condominio, con l’esigenza di stimolare gli spettatori a riappropriarsi delle ragioni più personali e intime delle loro coscienze. L’opera, manifestamente polifonica, ha come protagonista un’umanità incapace di ribellione, in un ambiente depauperato economicamente e culturalmente asfittico e rassegnato. I personaggi intersecano marginalmente le loro vicende private, affacciandosi come comparse in vari episodi, mentre un testimone muto e impassibile attraversa rapidamente, in varie vesti e atteggiamenti, le diverse sequenze: interpretato come l’impotente spettatore, o l’occhio supervisore del regista, o addirittura come impietosa presenza metafisica, rimane forse l’idea più originale di tutta la serie televisiva. In ognuno dei dieci racconti emerge il conflitto tra moralità e desiderio, equità e arbitrio, e l’assenza di Dio appare predominante rispetto alla sua presenza, lasciando che la soluzione dei drammi personali dipenda da un’inspiegabile casualità.

Kieslowski mantiene uno sguardo lucido e distaccato, mai colpevolizzante, sui personaggi, esplorando l’eterno dilemma etico su cosa sia la giustizia, su quale sia l’origine e la finalità del male fatto e subito, nel comportamento umano e nell’indifferenza del fato.

Ne La doppia vita di Veronica, film del 1991, Weronika e Véronique sono due ragazze che vivono biografie distinte, una a Cracovia e l’altra a Parigi, accomunate però da una straordinaria somiglianza fisica e dallo stesso amore per la musica: qui la sovrapposizione di due percorsi esistenziali e di due destini paralleli allude al mistero dell’identità e della differenza, della complessità e dell’incompletezza, che può venire risolto solo ricorrendo a soluzioni che superino la contingenza della pura fattualità, affacciandosi invece all’alterità e all’ulteriorità.

Ancora nella trilogia Tre colori: Film Blu, Film Bianco, Film rosso (1993-1994), che ripropone i tre principi della rivoluzione francese (liberté, égalité, fraternité), si evoca l’intervento della trascendenza attraverso l’azione dell’amore, della solidarietà e della Provvidenza, che offrono una possibilità di riscatto e difesa dalla cecità del caso e dalla crudeltà del destino.

La condizione umana di aporia e assurdità, fondata sull’irrilevanza del quotidiano e la persistente aspirazione ad altre realtà, il continuo fallimento del desiderio e la vittoria del nonsenso, segnalano per Giovanni Battista Magoni l’esigenza di una redenzione “ab alio”. Kieslowski rivela nelle fenditure che si aprono nelle singole esistenze il celarsi e l’apparire di un Assente che vorrebbe farsi Presente, rimandando a una Trascendenza che si proponga come via d’uscita e àncora cui aggrapparsi per non essere sommersi dall’insignificanza del nulla.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 27 dicembre 2024

RECENSIONI

MAGRELLI

VALERIO MAGRELLI, IL SANGUE AMARO – EINAUDI, TORINO 2014

Il sangue amaro di Valerio Magrelli, che esce a otto anni di distanza dal suo ultimo volume, è una raccolta estremamente articolata e varia, sia nei contenuti sia formalmente. Suddivisa in dodici sezioni, spazia dal privato al politico, dalla religione alla denuncia civile, dalla polemica letteraria alla riflessione filosofica. Lo stile sa adeguarsi plasticamente ai temi trattati, sia utilizzando metri e formule tradizionali (sonetti, endecasillabi, epigrammi: con un ricorso più esplicito che nel passato alla rima, sfruttata non solo ironicamente), sia servendosi di curiosi stratagemmi quali le sciarade e finti rebus, o inserti prosastici e narrativi. In maniera decisamente meno cerebrale e oscura che nelle precedenti prove, qui l’ansia comunicativa del poeta diventa più esplicita, segnata dalla risentita amarezza nei riguardi della società e del mondo cui fa riferimento il titolo. «Io mi faccio il Sangue Amaro. / E’ una specialità della casa, sin dal lontano 1957»: così nell’ultima sezione, dedicata a un se stesso depresso e immalinconito, talvolta rabbioso («Mia debolezza, debolezza mia //… la forza che si sbriciola, la memoria in frantumi, / e in questo Grande Sfascio…», «Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza», «Sopporto le ingiustizie dalla nascita / a cominciare ovviamente dalla nascita. / Lo Stato che depreda, gli amici che tradiscono, necroburi, ogni variante dell’illegalità…»). Aiutarsi medicalmente non basta («Queste che prendo gocce / con tanta religiosa compunzione…»), se lo spettro della morte attanaglia pensieri e cuore («Qui, tutti noi aspettiamo / sulle rive del Nihil»; «Poi, di colpo ho capito che il problema non è morire, ma rimanere soli nella morte»), attraverso le sembianze di una futura malattia neurologica o della insopportabile separazione definitiva dai propri cari. E’ proprio dagli affetti familiari che può arrivare l’unica redenzione, e quindi i versi più inteneriti del volume sono quelli rivolti alla figlia («Ho una figlia che ha voglia di cantare / e canta. / Può bastare»), al figlio che studia Dante sotto la doccia, e alla moglie, nella splendida sezione La lettura è crudele. Dove la constatazione banale che quando la persona amata e vicina si immerge nella lettura, inevitabilmente si allontana da noi (precipitandoci in una solitudine -vuoto, silenzio, abisso, distanza, vertigine, paura, sono i ricorrenti termini chiave- che è sostanzialmente estraneità, irraggiungibilità), sembra far precipitare il poeta in un’angoscia senza scampo («atterrito e remoto, separato, / legato alla vertigine che amo, / se amore è la distanza che ci chiama e insieme la paura di varcarla»). Paura che torna anche in un altro capitolo del libro, kierkegaardianamente intitolato Timore e tremore, e aleggia ovunque, intrecciata a sentimenti di rivolta e rifiuto nei riguardi di ogni bruttura e ingiustizia, naturale o sociale: quindi verso le infermità dei bambini handicappati, i morti della Thyssen, gli incidenti stradali, i giovani disoccupati, i balzelli fiscali, le disonestà finanziarie, le dittature telematiche («La password, il codice utente, PIN e PUK / sono le nostre dolcissime metastasi»), i ladri che penetrano in casa, gli uccelli che entrano dalla finestra («Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola / in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato»), lo sfacelo urbano, le latrine insozzate di una Roma pasolinianamente suburbana, o zingaresca. Non si salva nemmeno Dio, in questa rappresentazione negativa dell’esistente, nelle sue epifanie natalizie desolatamente commerciali, o nella corruzione istituzionale della Chiesa: «reputando Dio un arto fantasma, vivo soltanto nel dolore della sua amputazione», «Tutti noi siamo vittime di una chiesa delebile, / priva del vero inchiostro della sua verità». Una geremiade sconsolata, con toni di pessimismo leopardiano: «Non la Crocefissione, ma la Culla // è segno di martirio, lutto, scandalo». La stessa diffidenza Magrelli sembra nutrire anche riguardo al suo campo d’azione più proprio, la letteratura («il linguaggio / ha innanzitutto lo scopo di nascondere», «O forse sono cavie, queste poesie che scrivo»), e pare attenuarsi solo nella descrizione attenta di alcuni aspetti della quotidianità (gesti, rumori, oggetti, musiche), o nella descrizione della natura. Così, nella sezione La lezione del fiume assistiamo a un partecipe omaggio, a una convinta celebrazione del fenomeno acquatico, dal lavaggio dell’auto all’intrico delle tubature sotterranee, dalle sorgenti agli argini, dai ponti ai canyons, alle dighe, ai pesci: nel calore estremo come nel rigore dei ghiacci.
E nei Paesaggi laziali una nota nostalgica e quasi idilliaca riconcilia il poeta con il bene, e non più con il male, di vivere: in una delle poesie più delicate e commosse della raccolta, Principe delle Volpi!, riemerge dal passato la figura proletaria di un amico adolescente dal «sorriso mite», regale come un elegante nobile russo, che avanza nell’incenso di copertoni bruciati in periferia, reso salvo dal «sacramento / di un’Aristocrazia nata dal cuore».

 

© Riproduzione riservata       «Nazione Indiana», 16 marzo 2014

RECENSIONI

MAGRELLI

VALERIO MAGRELLI, IL SESSANTOTTO REALIZZATO DA MEDIASET – EINAUDI, TORINO 2011

In questo dialogo filosofico dal carattere “idiosincratico”, di risentita verve polemica, Valerio Magrelli assume un duplice ruolo di fustigatore di costumi e ideologie, nei panni di un Machiavelli rigoroso, passionale e sarcastico e di un più accomodante Tenerissimo,sorta di cattocomunista indulgente e tollerante. I temi su cui i due si scontrano e convergono sono i più vari, tormentosi e dibattuti nella temperie politica e culturale dell’Italia d’oggi (“questo paese grondante ipocrisia cattolica”): dal precariato all’ecologia, dai privilegi sindacali alla prostituzione, dall’abolizione dei manicomi alla scandalosa riduzione delle pene per chi si macchia di reati, dall’inciviltà egoista dei comportamenti quotidiani allo sfascio dell’istruzione. I toni si fanno poi più scandalizzati quando si tratta di condannare l’asservimento della cultura al mercato (con le lauree honoris causa concesse a sarti e motociclisti, o con i funerali di stato per Mike Bongiorno), o l’ingerenza del Vaticano nella vita pubblica, o ancora “gli incubi dell’illusionismo catodico”, alimentati da una tv sempre più stupida e impoverita, o le incertezze vili di una sinistra senza idee che nulla sa e vuole opporre all’ostentazione ipnotica di una destra prona agli interessi economici di Berlusconi. Tutte sacrosante ragioni su cui qualsiasi lettore deve convenire, ma a cui si possono forse sollevare tre piccole obiezioni. Citando male -tre volte-, con ovvia e commossa partecipazione una vittima del massacro del Circeo, Magrelli ne confonde il nome: non Daniela, ma Donatella Colasanti. Anche questa è una piccola violenza. Poi,schierandosi dalla parte degli scrittori, vittime da immolare in una società ignorante e consumista, sembra dimenticare quanti narratori e poeti scodinzolano tra radio, tv, festival e premi, celebrando la loro spesso non eccelsa produzione. Infine, un pamphlet che si vuole di coraggiosa denuncia al sistema, orse non doveva essere pubblicato da Einaudi, ricavando diritti d’autore berlusconiani.

IBS, 11 dicembre 2011

RECENSIONI

MAGRIS

CLAUDIO MAGRIS, SEGRETI E NO – BOMPIANI, MILANO 2014

«Il potere ha sempre bisogno del segreto… Secretare è una delle prerogative essenziali del potere. Secretare, coprire, cancellare, rendere irreperibile la verità». La verità, che secondo il Vangelo dovrebbe renderci liberi. Cosa c’è di più pericoloso della libertà umana per il Moloch inamovibile e inscalfibile del potere? Claudio Magris indaga in questo libricino suddiviso in sei capitoli, Segreti e no, su cosa abbia significato e significhi il segreto nelle vite private e nella sfera politica di ogni società: quali pericolose o sovversive trame possa nascondere, quali coperture mimetizzare, quanti errori seppellire. I segreti della storia italiana più recente (da Ustica alla strategia della tensione, dagli scandali finanziari a quelli religiosi) sono rimasti tali per decenni, e forse lo rimarranno per sempre: o almeno fino a quando diventeranno inoffensivi, non più in grado di nuocere. Per rimanere minaccioso, per continuare a fare paura «è necessario che il segreto, qualsiasi esso sia, diventi il Sacro, l’Ineffabile e l’Inconoscibile; una verità superiore accessibile soltanto agli iniziati, a chi è autorizzato da una misteriosa, divina autorità superiore a conoscerlo e a impedirne la conoscenza al volgo».

Volgo composto da persone che hanno comunque pieno diritto di mantenere per sé i loro fatti personali, senza dover essere sospettate di chissà quali nefandezze o reati. Così capita che si circondi di un’aura di dubbio e diffidenza qualsiasi naturale ed encomiabile desiderio di riservatezza, quando oggi sembra addirittura doveroso esporre platealmente ogni aspetto fisico e caratteriale del proprio vissuto.
Magris rivendica il diritto individuale «all’opacità, a non essere passato da parte a parte… dai raggi X di alcuna conoscenza globale» e alla «umanissima difesa della propria libertà, di un proprio spazio in cui essere liberi da tutto e da tutti, anche dalla persona amata, anche da se stessi». Se la comunicazione diviene espropriazione dell’altrui esistenza, scade nel voyeurismo, sempre e comunque deprecabile, quando non penalmente perseguibile.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Segretieno-Claudio-Magris-144235.html       27 maggio 2014

 

 

 

 

 

 

 
   
RECENSIONI

MAGRIS

CLAUDIO MAGRIS, IL CONDE. ALLA FOCE – GARZANTI, MILANO 2020

Il racconto che Claudio Magris ha pubblicato recentemente da Garzanti, nella collana I piccoli grandi libri e in ebook, è uscito per la prima volta sul Corriere della Sera nel 1990, e in seguito riproposto dalle edizioni genovesi de Il melangolo. L’autore ha rivelato di aver tratto spunto per la sua narrazione da un fatto reale, avendo letto su un giornale, durante un viaggio in Portogallo, la notizia dei festeggiamenti e delle onorificenze conferite a un uomo anziano che da molti anni ripescava i morti da un fiume.

La voce narrante è quella di un pescatore che per anni aveva accompagnato la figura quasi mitologica del Conde (novello Caronte…) nelle sue esplorazioni acquatiche “tra la foce del Douro o dell’Ave fino ai paesi di Trás-os-montes”, con una vecchia barca fornita di funi, reti, arpioni e tute di gomma, per riportare a riva i corpi degli annegati incagliati sul fondo, e seppellirli “in terra benedetta, perché l’acqua è amara di perdizione e distrugge tutto, anche il ricordo…  era un ufficio di pietà, perché senza di lui quei morti non potevano andare né in paradiso né all’inferno”. Morti suicidi, soprattutto: per amore o per fame e miseria, stanchezza di vivere o paura di agonie più dolorose. Tra loro però c’erano anche corpi di naufraghi, persone cadute nel fiume per incidente o distrazione, altri uccisi e gettati nel buio complice e silenzioso delle onde. Il Conde parlava con rispetto di tutti i cadaveri, quando ne raccontava in paese, facendo passare per disgrazie anche le morti volontarie: con particolare pietà ricordava i bambini, che adagiava sul fondo della barca ricomponendoli nei capelli e nelle vesti madide e maleodoranti.

Tra il pescatore, il suo nocchiero, i morti e il fiume era sorta un’alleanza solidale e raccolta, che la scrittura di Magris ricrea nel suo cadenzato e lento fluire, nel tono fiabesco del monologo recitato a se stesso dal mozzo del Conde. Ogni tanto quest’ultimo (il cui padre era annegato al largo delle isole Scilly, a ribadire una specie di maledetta predestinazione) si lascia andare a memorie personali, ricostruendo mentalmente i visi delle donne amate e quello, sfigurato dalla stupidità, della ragazza menomata che gli era stata data in matrimonio, in sfregio e per scherzo. Oppure si perde in considerazioni più filosofiche, rivolgendosi al cielo (“non so se Dio sia il pubblico, il burattinaio, il bastone o qualcuno che un giorno cambierà la musica e calerà il sipario su questa mascherata idiota”) o considerando con amarezza la propria esistenza (“ma poi è solo alzarsi, dormire, grattarsi le punture di zanzara, sgobbare, legare la barca, cambiarsi la camicia e dov’è andata, intanto, la vita?”).

Finché un giorno gli succede di ripescare dal fondo fangoso del fiume il corpo di un marinaio aggrappato alla polena della sua nave naufragata: il busto di una donna dal viso dolce e rassicurante, con gli “occhi socchiusi e beati”, che aveva ingannevolmente promesso protezione e salvezza all’equipaggio.

Recentemente Claudio Magris ha pubblicato un libro illustrato dedicato proprio alle polene, che dalle prue si sporgono verso le indefinite lontananze marine, oltre la linea dell’orizzonte, simbolo di una coraggiosa sfida all’ignoto: “… sono regine che non sai cos’hanno nel cuore e non hanno cuore e per questo ti portano a perdizione. Di solito le polene guardano in alto e lontano, ansiose e atterrite, e ti fanno paura, in mare, perché pensi che vedono la morte che arriva e che tu non puoi vedere”

Il mozzo del racconto di cui parliamo, affascinato dalla lignea figura femminile, se la porta malinconicamente a casa, e la colloca sul tavolo della misera cucina, a benedire i suoi pasti quasi fosse una madonna.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 28 aprile 2020

 

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