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RECENSIONI

NICOLA VACCA

NICOLA VACCA, MUSE NASCOSTE – GALAAD, ROMA 2021

“Se la poesia è espressione dell’indicibile, celato oltre le pieghe dell’esistenza, se è indagine del reale per oltrepassarne traumi e sofferenze, esprimendo ideale e bellezza, se è tensione verso un linguaggio che non si lascia addomesticare, se – in una parola – la poesia è una rivolta contro le imposizioni e le costrizioni dell’esistente per ambire a un sogno di libertà e di assoluto, allora il presente volume costituisce lo strumento per porsi in ascolto di quell’indicibile, attraverso la vita e la voce di ventiquattro poetesse, molte di loro ancora ignote al vasto pubblico, figure esemplari di un assalto ai limiti dell’esistenza individuale e sociale, ai segreti inesplicabili del mondo fisico e metafisico, alla resistenza della parola e del suo mistero”. Così Luigi Beneduci nella prefazione al bel libro di Nicola Vacca, Muse nascoste.

Le poete presenti in questa antologia occupano un raggio cronologico e geografico molto vasto: dall’America dell’800 alla pianura Padana di fine ’900, dalla Russia bolscevica all’Argentina degli anni ’70. Nicola Vacca (Gioia del Colle, 1963) – scrittore, critico letterario, opinionista – offre ai lettori un quadro sintetico ma incisivo delle loro personalità, introdotto da una breve nota biografica, e illustrato criticamente nell’aspetto formale, quindi attraverso la citazione sia dei versi più noti ed esemplificativi, sia di stringati giudizi di alcuni esegeti internazionali.

Volendo tentare una classificazione, per quanto arbitraria, che inquadri le autrici, potremmo suggerire di suddividerla in quattro ambiti di espressione: tra chi privilegia la riflessione spirituale e la ricerca metafisica, e chi affronta invece la complessità storica con le sue ingiustizie e persecuzioni, tra chi indaga la propria interiorità ferita, e chi invece è più interessata a sovvertire la tradizione linguistica. Ovviamente, nessuna delle poete antologizzate si limita a un unico settore di indagine; comune a tutte è, comunque e sempre, un forte disagio sociale, la drammatica disarmonia con il mondo in cui vivono, e una sofferenza che sembra immedicabile, particolarmente evidente nelle otto di loro che hanno scelto la morte volontaria (Cvetaeva, Pozzi, Rosselli, Pizarnik, Sexton, Plath, Campana, Ruggeri).

Icastiche, concise ma penetranti sono le definizioni con cui Nicola Vacca sintetizza le doti caratteriali e stilistiche delle varie autrici: “l’oscillazione continua tra l’abituale e l’eterno” di Emily Dickinson, “la voce deflagrante ed estrema” di Jolanda Insana, “il mondo senza speranza né redenzione” di Ágota Kristóf, la “straordinaria voce eretica che non ha mai rinunciato alla perfezione e alla bellezza” di Cristina Campo, “la rigorosa intransigenza di precisi principi morali” di Simone Weil, “il terribile deflagrare di una sensibilità acuta, lancinante e tragica” di Sylvia Plath.

Altrettanto coinvolgente ed empatica è la scelta dei versi che vengono proposti al lettore. Il classicismo composto di Lalla Romano ben si evince leggendo: “Non pensare se cerco parole / che voglia nutrirmi di vento / un dono di giuste parole / incorruttibile come la musica / dolce come la casa / triste come l’infanzia / paziente come il tempo”. L’amarezza del sentirsi ingiustamente esclusa risulta palese da quanto scrive Fernanda Romagnoli: “Io qui non mi trovo, io fra voi / sto come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato”. La preghiera tormentata e controcorrente di Margherita Guidacci ne rivela l’inevitabile isolamento intellettuale e religioso: “Mio Dio salvami dalla parola condotta in parata come un vitello / nel giorno di fiera; … meglio scrivere un libro importante nel deserto / che diventare celebre per un equivoco”.

In questa galleria di ritratti femminili, “la voce possente e polifonica, straziante e al tempo stesso appartata” di Nadia Campana, il suo “esercizio di dolore che ha trovato lo schianto” nel gettarsi, appena trentunenne, da un ponte della tangenziale est di Milano, appaiono emblematici dell’angoscia che ha relegato la quasi totalità delle poete qui rappresentate all’emarginazione, a un rifiuto o a un’ingiusta sottovalutazione. La fragilità, la rabbia e la disperazione intuibili nelle loro tormentate biografie, ha cercato e trovato una possibile via di comunicazione, di resistenza e riscatto proprio nel dono gratuito della poesia, che, come ammoniva Simone Weil “deve ambire a esprimere qualcosa, e contemporaneamente nulla – il nulla che si manifesta dall’alto”.

 

© Riproduzione riservata        «L’indice dei Libri del Mese» n. I,  gennaio 2023

RECENSIONI

NICOLA VACCA

NICOLA VACCA, LIBRO DELLE BESTEMMIE – MARCO SAYA, MILANO 2023

I quattro autori delle frasi poste a esergo dell’ultima raccolta di versi di Nicola Vacca (Nietzsche, Cioran, Bufalino, Pavese) vengono citati per suffragare le tesi che il poeta esprime – coraggiosamente, provocatoriamente – ne Il libro delle bestemmie. Tesi che attribuiscono alla bestemmia la funzione di cartina tornasole, in quanto anche qualora esistesse un essere supremo, benevolo e provvidenziale, creatore del cielo e della terra (“un Dio eventuale”, come lo definiva Pavese), essa ne indicherebbe sia la presenza sia l’assenza, esaltandone o distruggendone il concetto nel momento stesso in cui viene pronunciata. La parola, il nomen, anche quando è oltraggioso, offre sostanza all’idea: nomina sunt consequentia rerum.

Vincenzo Fiore nell’acuta postfazione afferma giustamente che “a dare più credito a Dio sono coloro che paradossalmente non riescono più a credere in Lui”. E infatti Nicola Vacca confessa il suo rovello, perché il pensiero di Dio lo assilla proprio nell’ansiosa volontà di cancellarlo: “Mi pongo domande mentre vaneggio / di bestemmia in bestemmia”.

Sulla scia del pensiero illuminista, razionale, irreligioso, Vacca considera la divinità un’invenzione dell’uomo creata per sfuggire alla propria paura di vivere e di morire: “il prodotto delle debolezze umane”, secondo Albert Einstein. E rivolge i suoi appuntiti strali contro l’istituzione ecclesiale e il gregge dei timorosi fedeli che se ne dichiarano seguaci (ma già Padre Turoldo ammoniva “Dio ci liberi dai carismatici”): “Barricati nelle chiese / sono tutti in fila / davanti al confessionale / per chiedere l’assoluzione / a un dio che non è mai sceso quaggiù”.

Il poeta professa a gran voce il suo risentito ateismo, sfiorando spesso l’eccesso blasfemo nell’irriverente litania degli attributi relativi a Dio: illusionista equivoco ciarlatano oscuro crudele indifferente disoccupato baro muto vigliacco bastardo malvagio funesto, “un boia / che non si sporca le mani”, “un imbroglio su cui sputare”.

Nemmeno Cristo si salva da tale iconoclastia verbale, perché – fragile e impotente –, non potrà mai risorgere dalla morte che il Padre gli ha imposto dopo averlo lasciato solo: “Cristo si copre gli occhi / perché non vuole vedere / gli orrori che ha creato suo padre”.

L’indignazione di Nicola Vacca, novello Savonarola eretico, accomuna creatore e creature: “Dio è il vuoto / che marcisce insieme a noi”, “Questo mondo è sporco / come dio che lo ha creato”, “se l’umano è marcio, il divino è lurido”. Disgustato ed esacerbato, implora l’estinzione del mondo, destinato ad auto-distruggersi a causa della sua stessa iniquità, dato che i tanto proclamati valori morali (amore, amicizia, famiglia, fede, gloria) servono solo a coprire il “tanfo” del sudiciume.

La copertina che il poeta ha scelto per la raccolta è esplicitamente rappresentativa della funerea tensione che la attraversa: lo spaventoso Inferno magistralmente dipinto da Hieronymus Bosch nel trittico de Il Giardino delle Delizie.

Nella visione totalmente negativa dell’umanità, ormai priva di qualsiasi futuro, l’autore chiama come testimoni e sodali altri poeti e scrittori (Majakovskij, Ritsos, Strand, Artaud), che tuttavia non sono riusciti con la severa purezza delle loro parole a risvegliare le coscienze degli uomini, e a salvarli.

Le quattro sezioni in cui si suddivide il libro (Un dio contro, Dalla parte del cecchino, Lode all’Anticristo, Cattive notizie giungono dall’alto) esprimono un crescendo di ferocia rabbiosa, e il poeta ostenta consapevolmente l’immagine di sé come giustiziere e vendicatore, cucendosi addosso le sembianze del tiratore scelto, che implacabile prende la mira per annientare illusioni, false credenze e ipocrisie del senso comune: “Amo le parole che sbranano / adoro i concetti che dilaniano”. In questo “squartamento” di sé e degli altri, Vacca ha bene assorbito la lezione di Cioran, attribuendosi “il tentativo / di un estremo atto di rivolta / contro il vuoto che inghiotte tutto”.

Se la corrente della poesia civile, nelle sue accezioni politiche e sociali, ha attraversato tutta la storia letteraria italiana da Dante in poi, con particolare vigore nell’800 risorgimentale e poi durante e dopo le due guerre mondiali, spingendosi fino al dichiarato impegno antifascista e anticapitalista degli scrittori attivi tra il 1950 e il 1970 (Pasolini, Fortini, Pagliarani, Sanguineti, Sereni, Roversi, Porta, Balestrini ecc.), la poesia anticlericale non ha avuto altrettanta diffusione nelle patrie lettere. Dai canti carnascialeschi medievali, alla satira di Giusti, al demonismo carducciano, fino allo scherno beffardo dei sonetti romaneschi, forse è solo nella bruciante contestazione di due religiosi, Turoldo e Tartaglia, e nell’invettiva pasoliniana di “A un Papa” (“non c’è stato un peccatore più grande di te”) che possiamo trovare un antecedente allo sdegno profano e maledicente di Nicola Vacca.

Che tuttavia nel Finale della raccolta, ridotto a pochi versi, si dichiara sconfitto, ammettendo di aver cercato inutilmente “uno spiraglio / nella crepa dell’esistere”, battendosi per “un gesto urgente / in una rivolta senza senso”. Se è insensato vivere, se è insensato credere, altrettanto vano è ribellarsi al destino di morte stabilito per ciascuno, il più ingiusto sopruso patito dall’essere umano, non riscattabile da alcuna speranza in un aldilà riparatore: “verrà la morte e avrà i nostri occhi / questa è la verità / che dovremmo tenere a mente / mentre collezioniamo bugie per sopravvivere”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 10 febbraio 2024

 

 

 

 

 

 

 

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NIERO

ALESSANDRO NIERO, VERSIONI DI ME MEDESIMO – TRANSEUROPA, MASSA 2014

Il libro di Alessandro Niero (commentato da una partecipe postfazione di Andrea Afribo) rivela già dal titolo, Versioni di me medesimo, una disposizione ironica al gioco letterario, al camuffamento, non solo stilistico. Un’autobiografia in versi che conosce diversi registri formali, dal sonetto al monologo alla parodia, e che si esplicita nel corso di tutte le pagine, ma soprattutto nella prima sezione, in cui un alter ego del poeta (Il signor Czarny) gli presta voce e sembianze, in un ritratto sarcastico e impietoso. «Il signor Czarny ha ritenuto a lungo / di essere infinito, illimitato. / L’errore era gradito e terapeutico». Questo piccolo borghese disilluso, che pare uscito da uno dei racconti di Cechov, viene crocefisso ai suoi tic e alle sue nevrosi con implacabile e beffarda durezza, nelle inconcludenti e vanesie relazioni con le donne, nell’invidia verso i colleghi, nel suo «insistentemente» scrivere, «percepirsi sfrangiato», ingozzarsi di ansiolitici e osservare malinconicamente il tempo che scorre, scoprendosi costretto «dentro un ritmo esterno», non suo, perché «non ce la fa a essere sincrono / con quanto gira intorno». Un disadattamento al mondo, espresso nei riguardi della galassia accademica, dei rapporti familiari, della frenesia consumistica: Niero riesce a prendersi in giro, sbeffeggiando la sua stessa scrittura, che risente sì di influenze letterarie dei nostri maggiori poeti (da Giudici a De Angelis, addirittura con qualche gozzanismo e montalismo), ma scardinate e riutilizzate a proprio uso e consumo. Così l’osservazione di ciò che lo circonda (città e stazioni, supermercati e figure femminili – «faccette acconce oltremisura») rivela sempre uno sguardo privo di clemenza, severo quasi a sfiorare la satira, e nello stesso tempo include anche se stesso in una più universale pietà verso tutto ciò che vive e respira: ma, temendo l’abbandono e la retorica dei buoni sentimenti, nell’ultimo verso corregge con una sferzata di scherno, di rigore critico, qualsiasi tentazione di intenerimento. Contro «la geometria mondriana dei colori ammodo» si scaglia, novello savonarola, a rivendicare la lucidità di una coscienza poetica che sappia controllarsi anche negli affetti più intimi. Per cui persino la sezione dedicata al padre mantiene una sua nota di spietatezza, come scrive Afribo («Padre, trabocca in me la copia dei tuoi mali // … Se ti condanno, condanno me stesso», «Padre, ti schiaccia una fatica inarrivabile, / nemmeno sai qual è: / partorirmi più grande / di te»). E ben ne è consapevole l’autore stesso: «sempre / che il mio impancarmi a giudice non sia / pettegolezzo o fiele. O argilla. / O tracotanza da pagare. O bugia», che trova però inattesi barlumi di tenerezza nelle poesie dedicate alla figlia Beatrice: «Ed eccoti aspettata a lungo, / ora mio termine e mio cominciamento», «eco di mia eco», «riassunto dettagliato / di ogni mio dolore e gioia».

Il volume si conclude con una interessante campionatura di versioni da poeti slavi, essendo Alessandro Niero professore di letteratura russa all’Università di Bologna, e traduttore premiato con riconoscimenti nazionali e internazionali.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Versioni-di-me-medesimo-Niero.html          28 settembre 2017   

RECENSIONI

NIERO

ALESSANDRO NIERO, OLGA. UNA BADANTE PER AMICA

VALIGIE ROSSE, VECCHIANO (PI) 2022

 

La poesia è un’arte negletta, forse la meno considerata tra le forme letterarie praticate in Italia, non tanto nella produzione (addirittura sovrabbondante!) quanto nella fruizione. Pochissimi la leggono, e i volumi di versi rimangono tristemente invenduti sui due o tre scaffali che le librerie mettono loro a disposizione. I poeti appaiono creature in via d’estinzione, rassegnati a un soliloquio autoreferenziale che li riduce in spazi editoriali sempre più ristretti, e tuttavia ambiti a tal punto da creare nella categoria rivalità, guerre sotterranee, rancori perenni. Alcuni di loro, esasperati dal silenzio critico che li circonda, arrivano a recensirsi e intervistarsi da soli. Come scriveva Palazzeschi, sentendosi trascurati o addirittura scherniti dalla cultura che crea reddito, finiscono per riconoscere a sé stessi un ruolo giullaresco e innocuo, sostanzialmente consolatorio: “Tri tri tri, / fru fru fru, / ihu ihu ihu, / uhi uhi uhi. // Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente! / Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto”.

Forse per questa malinconica consapevolezza della propria vanità e inconsistenza, molti poeti finiscono per frequentare settori più redditizi della letteratura: la memorialistica, il giallo, il noir, la satira, o l’unico davvero trainante nel mercato editoriale: quello dedicato all’infanzia.

Così ha scelto recentemente di fare Alessandro Niero, non solo elegante autore di apprezzate raccolte di versi, ma stimato docente universitario a Bologna, esperto slavista, ricercato traduttore dal russo, sottile interprete dell’arte traghettatrice tra lingue diverse. Il suo ultimo prodotto librario è appunto un testo rivolto ai lettori delle scuole elementari, Olga. Una badante per amica, che racconta in versi accattivanti e di facile comprensione una favola ambientata nell’oggi, dalla finalità pedagogica, con una morale positivamente educativa.

La voce recitante è quella di un bambino che chiede al padre chi sia la giovane donna incaricata di accudire il nonno novantenne, e in questa sua curiosa indagine sul ruolo della signora, lentamente si avvicina a una realtà culturale e umana prima ignorata. Olga è una badante moldava, arrivata da un paese lontano in cerca di un’occupazione: “E per trovare un qualsiasi lavoro / tanti laggiù hanno lasciato la famiglia / e, come cercatori d’oro, / hanno percorso miglia, miglia e miglia / per arrivare dalle nostre parti. / Non stanno certo con le mani in mano, / non c’è lavoro che scartino, / fanno ogni tipo di mestiere, anche il più stranio / o quello che nessuno vuole fare: devono guadagnare”.

Olga si fa volere bene; è attenta, coscienziosa, sensibile, colta; offre aiuto materiale e compagnia affettiva alle giornate faticose dell’anziano che le è stato affidato. Legge molto, si è addirittura iscritta all’università, e sta per portare a termine la sua tesi di laurea. Il nipotino narrante cerca di conoscerla meglio, si fa aiutare nei compiti e divide con il nonno le cure premurose della badante, diventata anche baby sitter part-time. Tutta la famiglia che ospita Olga le è riconoscente, festeggia orgogliosa la fine dei suoi studi come fosse una cara parente, e instaura con lei un rapporto di reciproca stima e amicizia.

Il volumetto di Alessandro Niero, attraverso un linguaggio semplice, lieve e musicalmente ritmato, ha il pregio di stimolare la sensibilità dei piccoli lettori verso sentimenti di solidarietà e apertura nei riguardi degli stranieri che lavorano nel nostro paese, invitandoli alla considerazione e all’apprezzamento che essi meritano. Le illustrazioni di Elena Miele, a partire dalla vivace e coloratissima copertina, arricchiscono le pagine di immagini fantasiosamente allusive al mondo infantile, popolato da gatti, topi, zucche, draghi, serpenti, stelline, cactus, pesci, uccelli, farfalle, occhi verdi, sotto lo sguardo meditabondo di una grassa regina distesa sul letto a pancia in giù. Olga, una badante per amica è un libro destinato a un pubblico di bambini, adulti e poeti, nella collana a loro dedicata dalla casa editrice toscana Valigie Rosse.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › … › Olga. Una badante per amica di Alessandro Niero

15 marzo 2023

RECENSIONI

NIETZSCHE

FRIEDRICH NIETZSCHE, POESIE – FELTRINELLI, MILANO 2019

Le poesie di Friedrich Nietzsche (Röcken, 1844-Weimar, 1900) pubblicate da Feltrinelli in edizione economica nel 2019, con l’approfondito commento della curatrice Susanna Mati, sono presentate in ordine cronologico di composizione, seguendo l’edizione critica di Colli-Montanari del 1967.

Straordinario filosofo che ha rivoluzionato il pensiero politico e morale del secolo scorso, raffinato e originale scrittore, Nietzsche non fu tuttavia un grande poeta: ma ai versi affidò per l’intera esistenza il compito di accompagnare, spesso ironicamente, la propria produzione teorica. Dopo le poesie dell’adolescenza, convenzionali e imitative dei modelli classici tedeschi (ripudiate nella maturità perché giustamente ritenute pateticamente devozionali), il giovane Friedrich si dedicò con spirito più genuino all’aforisma pungente, alla sentenziosità moralistica, per approdare verso i trent’anni a un compiaciuto autobiografismo, attraverso cui amava ritrarre se stesso come der Thor (lo stolto), il pensatore folle, il buffone. In Tra amici sembra insieme sia sbeffeggiare il conformismo di chi lo circonda, sia gloriarsi di una sua maschera provocatoria e sardonica:

“Se ho fatto bene, allora taciamone; / se ho fatto male –, allora ridiamone / e facciamo sempre peggio, fare peggio, rider peggio, / finché nella fossa scenderemo. // Amici! Sì! Così deve andare? / Amen! E arrivederci! //… Onorate in me l’arte dei giullari! / Imparate da questo libro giullaresco / Come la ragione è ricondotta – ‘alla ragione!’”. Dove il libro giullaresco è Umano, troppo umano, del 1878, che riporta questa composizione a conclusione della prima parte.

La prima raccolta autonoma di versi nietzschiani fu Gli Idilli di Messina (1882), i cui modelli formali erano non solo Goethe e Heine, ma soprattutto gli scrittori romantici più popolari, come Brentano e Mörike. Prevalgono, in questa prova d’esordio, bozzetti di figure femminili o fiabesche, immagini campestri, notturni elegiaci, spiritose descrizioni di volatili: temi ricorrenti nei Volkslieder in voga tra le classi più umili.

Al preludio del La Gaia Scienza (1882) appartengono poi un gruppo di rime, intitolate Scherzo, malizia e vendetta, di cui l’amica Lou Andreas-Salomé scrisse: “Su tutti i versi incombe qualcosa che commuove in modo singolare; sono infatti fiori che un solitario sparge sulla propria via crucis per suscitare l’impressione che sia una via della gioia”. Eccone alcuni esempi, da cui si evince l’intento violentemente polemico e derisorio, oltreché autocelebrativo: “Da quando fui stanco di cercare, / imparai a trovare. / Da quando un vento mi fu avverso, navigo con tutti i venti”, “Estraneo al popolo eppure utile ad esso, / seguo la via, ora al sole, ora alle nubi – / e sempre al di sopra di questo popolo”, “Tagliente e mite, rozzo e raffinato, / fidato e singolare, sporco e puro, / un convegno di saggi e di giullari: tutto questo io sono e voglio essere, / colomba e insieme serpente e porco!” Sempre nell’Appendice a La Gaia Scienza si trova poi una delle più ispirate poesie di Nietzsche, scritta tra le amate montagne di Sils-Maria nel 1882, in cui si avvertono accenni alle opere teoretiche successive: “Qui sedevo, attendendo, attendendo, – nulla attendendo, / al di là del bene e del male, ora della luce / godendo, ora dell’ombra, tutto solo gioco, / tutto lago, tutto meriggio, tutto tempo senza meta. // E all’improvviso, amica! L’Uno divenne Due – / – Zarathustra mi passò vicino…”.

Due anni dopo, all’allieva e amante Lou dedicò la canzone da ballo Al Mistral, invito esaltato al superamento di ogni limitante mediocrità: “Chi non sa danzar coi venti, / chi si invischia in mille lacci, / incatenato, vecchio storto, / chi è come gli scemi ipocriti, / i balordi onorati, le oche virtuose, / vada fuori dal nostro paradiso! // Muliniamo la polvere delle strade / sotto i nasi di tutti i malati, / impauriamo la nidiata dei malati! / Liberiamo l’intera costa / dall’ansito dei petti rinsecchiti, / dagli occhi senza coraggio! // Cacciamo i perturba-cielo, / gli oscura-mondo e spingi-nubi, / rendiamo limpido il regno dei cieli! / Soffiamo… oh spirito di tutti gli spiriti / liberi, essere in due con te fa / soffiare la mia gioia come una tempesta – // …  – Affinché eterna sia la memoria / di questa felicità, prendi il suo lascito, / prendi con te e solleva questa corona! / Lanciala in alto, più lontano, più oltre, / assalta la scala del cielo, / e appendila – alle stelle!”

Nei Frammenti postumi del 1884 apparivano temi che saranno tipici di molta letteratura novecentesca: quelli del viandante che vaga senza meta, dell’uomo senza patria orgoglioso di rispondere solo al proprio spirito indipendente, dell’inesistenza di Dio, della follia del poeta unico detentore della verità (“Il poeta, che può mentire / coscientemente, volontariamente, / lui solo può anche dire la verità”).

Così parlò Zarathustra (1883-1885) contiene molte poesie, riprese più volte prima e dopo la sua composizione: è però esso stesso un poema sinfonico, puntellato da liriche con metrica regolare, e sostenuto nella sua interezza da toni declamatori, oracolari. Particolarmente rappresentativa delle tematiche nietzschiane è senz’altro la complessa Il canto della melanconia, severo e compiaciuto autoritratto del filosofo: “Il pretendente della verità? Tu? – così ti beffavano – / No! Solo un poeta! / Una bestia, furba, rapace, strisciante, / che deve mentire, / che deve mentire con scienza e volontà: avido di preda, / mascherato con mille colori, / a se stesso maschera, / a se stesso preda – / questo – il pretendente della verità? / No! Solo giullare! Solo poeta! / Uno che parla con mille colori, / che grida con mille colori da maschere di giullare, / che s’inerpica pe ponti di parole menzognere, / per arcobaleni multicolori, / tra falsi cieli / e false terre, / che vaga in giro e si libra attorno, – / solo giullare! Solo poeta!”. Con sembianze di aquila e pantera, “predatore, strisciante, mentitore”, “bandito / da ogni verità”, Nietzsche offre di sé un’immagine di commediante e falsario, di mago che giostra con concetti e figure, maschera capace di creare solamente illusioni, esiliato dal mondo civile, come poeta e come filosofo.

Anche in Aldilà del bene e del male (1886) sono presenti dei versi: le misogine Sette sentenzine di femmina (“Giovane: una grotta fiorita. Vecchia: un drago ne esce fuori”), il malinconico Da alti monti, in cui si esprime tutta la tristezza di una vita solitaria, e altri aforismi dedicati all’amico-nemico di sempre, Richard Wagner.

Infine, i Ditirambi di Dioniso furono l’ultimo lavoro composto nel 1888, prima del crollo psicofisico che lo condusse all’ottenebramento totale. Parzialmente già pubblicate, nella sezione inedita mostrano i segni di una dissociazione mentale e di una perdita di controllo sul proprio materiale: si tratta di monologhi scritti in uno stile declamatorio, con costruzioni sintattiche oscure, con libere associazioni ritmiche che riprendono argomenti mitologici o misticheggianti.

Susanna Mati nella sua intensa postfazione afferma che le poesie di Friedrich Nietzsche, prive di reale validità artistica benché dotate di notevole arguzia, vanno collocate nel “territorio dell’affetto e dell’effetto”, essendo soprattutto sintomatiche dei moventi psicologici e teorici del filosofo. Svolgono tuttavia molteplici funzioni: di rilassamento della tensione intellettuale, di satira-parodia-imitazione, di caratterizzazione del personaggio Zarathustra, di sfogo emotivo. Lo stesso Nietzsche considerava la poesia arte menzognera e fraudolenta, attribuendole il compito secondario di distrarre, consolare, edificare, senza alcuna pretesa di profezia o rivelazione. I suoi versi vanno quindi letti a integrazione contingente e occasionale da affiancare alla ricerca delle verità ultime.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 15 febbraio 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NOOTEBOOM

CEES NOOTEBOOM, LUCE OVUNQUE – EINAUDI, TORINO 2016

Cees Nooteboom (L’Aja, 1933) è uno dei maggiori scrittori contemporanei, autore di numerosi romanzi e libri di viaggio, pubblicati in Italia da Iperborea. Ha scritto anche una decina di volumi di poesia, che ora Einaudi ha scelto di antologizzare “a ritroso”, dall’ultimo uscito nel 2012, al primo del 1964. Leggendo i suoi versi appunto dai più antichi ai più recenti, dalla conclusione del volume all’inizio, ci si avvedrà della progressiva illuminazione che si riflette nei contenuti e nella forma, fino ad approdare al consapevole schiarimento di Luce ovunque.
Le raccolte del primo ventennio esprimono infatti, già dai titoli, una sorta di cautela, quasi un timoroso sospetto nei confronti del mondo circostante, e dei sentimenti che lo animano: “Poesie chiuse”, “Presente, assente”, “Aperto come un guscio, chiuso come una pietra”, “Esca”. Anche le singole composizioni alludono a una recinzione timorosa, a un’asprezza inibita e sofferta che cerca un suo sfogo e uno scampo nell’assoluzione della scrittura:  Golden Fiction, Niente, Ultima lettera, Nessuno, Empty Quarter, Pietre rotolanti.
Le poesie giovanili di Nooteboom sono ancorate a un’idea costante di dissolvenza, dei corpi e della storia, rassegnate all’inevitabile sparire delle persone, e all’inconsistente testimonianza del loro agire e scrivere: «Sono sepolti, i miei amici. / Sotto gli alberi continuano i corpi il loro cammino. // …Perché sono così triste / se altro non aspetto che guardare i fuochi / e la partenza di una nave?», «Gli immortali sono morti e dimenticati, / loro casa è una tomba», «È rimasto tanto poco di te / ora che sei stata bruciata, / un pugno di cenere che sembra cenere / e ancora quest’anno volevi un mio bacio», «Ieri torna a ripetersi. // … No, qui non è mai cambiato nulla», «Niente assume forma. I giornali si sciolgono, / le foto si dissolvono. La pietra è di cera, / la scrittura di cenere, il tempo afferra se stesso / e ripete l’apparizione», «Mi trascino dietro questa vita sconvolta / come un pescatore la sua rete lungo la riva // … Il dolore non mi evita».

Privato e pubblico si equivalgono nel loro vano nullificarsi, nell’imperturbabile sovrapporsi di stagioni e anni, a cui nemmeno gli affetti familiari, o la passione degli amanti, riescono a opporre resistenza. La natura, descritta nella varietà dei paesaggi visitati (Mediterraneo e Oriente, oceani e deserti, metropoli e villaggi sperduti) mantiene nei confronti dell’osservatore un’impenetrabile ostilità: fiumi morti, tempeste di sabbia, montagne sonnacchiose, canneti torturati, agavi pungenti… Anche lo stile, nella sua limpida perentorietà, non manifesta nessuna clemenza, nessuna titubanza espressiva, o ansia di originalità.
Più indulgenti verso se stesse e la vita sono le poesie mature, dagli anni ’90 in poi. C’è in primo luogo la volontà di ancorarsi culturalmente e ideologicamente a un passato riconosciuto come “classico” e fondante, tuttora vitale e formativo. Perciò si susseguono gli omaggi alla scrittura dei grandi, da Omero a Esiodo, da Lucrezio a Virgilio, da Cartesio e Wittgenstein, da Ungaretti a Borges. Persino i titoli delle raccolte si aprono a una più luminosa accettazione del reale (Vista, Così poteva essere, Incontri, Luce ovunque), con un richiamo costante allo sguardo verso l’esterno (una sezione intera è dedicata all’occhio), e alla sospensione positiva dell’attesa (la figura del postino, foriero di novità, emerge qua e là come un alato mercurio contemporaneo). Quindi anche la poesia ritrova un suo ruolo di scoperta e testimonianza, di guida e salvezza: «Di tutto è rimasta poca cosa, / scrittura che si oppone al decadere. // Taci e ascolta l’ultimo nostro marittimo dolore, / con chi posso godere del profumo rimasto? // Di qui tutto si genera: / in un luogo senza importanza // un’ombra / senza un sasso. // Sii, tu».

Si avverte maggiormente (nei versi più franti e complessi, nelle ellissi e nelle metafore più azzardate, negli apporti prosastici…) l’influenza della poesia contemporanea: l’eco della lettura di Celan – per esempio –, o l’approccio ironico totalmente assente nella produzione giovanile.
Il contagio della modernità – anche nei suoi aspetti violenti, alienanti, enigmatici – genera nell’ultimo Nooteboom la disposizione a esporsi in una tensione, magari risentita e amara, verso il magma del reale, dove anche la dimensione metafisica diventa proposta e azzardo: «un portone, sempre chiuso, / ora socchiuso, il pericolo di un’altra / vita, una poesia / di un’esistenza capovolta, / in cui la morte non ha falce», «l’inizio di qualcosa, dialogo / in una lingua ancora inesistente».

Su questa novità, il poeta ha il dovere (eticamente, linguisticamente) di fare ovunque luce.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Luce-ovunque-Cees-Nooteboom.html     22 settembre 2016

RECENSIONI

NOOTEBOOM

CEES NOOTEBOOM, L’OCCHIO DEL MONACO – EINAUDI, TORINO 2019

Nel 2016 Einaudi ha pubblicato un’antologia delle raccolte poetiche di Cees Nooteboom, scrittore olandese (L’Aja, 1933) di cui sono stati tradotti in Italia diversi romanzi, racconti e reportage di viaggio. Quest’anno è uscito un suo nuovo volume di versi, L’occhio del monaco, sempre per l’editore torinese, con l’attenta versione di Fulvio Ferrari. Si tratta di 33 composizioni in forma chiusa, di tre quartine caudate, in cui la coda è costituita da un emistichio reso perlopiù in italiano in settenario o in quinario. Secondo la nota conclusiva dell’autore, le poesie – scritte tra il dicembre 2015 e l’aprile 2016 – traggono ispirazione da esperienze oniriche o visionarie vissute nell’isola frisona di Schiermonnikoog, letteralmente “isola del monaci grigi”, nome derivatole dall’abbazia cistercense lì edificata nel medioevo.

Sono versi sospesi in una fredda atmosfera nordica, pregna di silenzio e solitudine, sullo sfondo di bianche sabbie sottili, correnti marine agitate, venti gelidi, pioggia sferzante. Nelle sere illuminate dalla luce del faro, o nelle albe gelide, uniche presenze di vita sono i gabbiani lamentosi, le funeree cornacchie, le martore zampettanti tra le dune.  Altrimenti, sono i fantasmi del passato che tornano ad assediare, benevoli o minacciosi, la memoria del poeta, rinfocolando rimpianti, sensi di colpa, nostalgie: i genitori, i fratelli, la prima donna amata: «Qui incontro chiunque, demoni di altre / vite, animali d’un blasone dimenticato, / donne in forma di leone, unicorni, / maiali in maschera… // Così tutto ritorna», «lo stridio d’un primo desiderio, / disperso e frantumato contro una quantità / di anni, il cardo del non voler dimenticare, / portami con te, portami con te, // ma dove?», «Perché non ci lasciano in pace, i morti?».

I sogni, confusi con la realtà quotidiana di giornate vuote, nel paesaggio di un’isola concreta che diventa archetipica, conducono con sé messaggeri di un’aldilà irraggiungibile: un «dio faticoso» seduto sul bordo del letto, «sei angeli con ali stanche», un oscuro monaco cechoviano, filosofi greci dialoganti di argomenti etici, Paul Valery che interroga Leonardo da Vinci sull’esistenza dell’anima. Quesiti eterni su cui Nooteboom sembra accanirsi, in un’esplorazione assidua del perché dell’esistere, o nell’indagine tormentante sull’essenza della poesia, sul dovere testimoniale della parola («Quando comincia un mottetto, / una poesia, una luce che appare senza fonte? / Chi pensa un primo verso prima di pensare?»). Incubi e fantasie si alternano a riflessioni meditative, stimolate quasi dall’assenza di suoni e dal vuoto di figure umane dell’ambiente, di cui il poeta sa sottolineare con acuta sensibilità il fascino segreto e impalpabile: «Nubi di zinco, casematte d’acqua, grigie, / vaganti alla luce del pomeriggio, rumore d’onde», «non dune, ma rocce, / nere, piante con uncini e denti, capaci di bere la pietra aggrappate alla sabbia», «Vento, la prima luce, / il mattino pieno di chiacchiere di uccelli, cannaiole, / avocette, // svassi, una lingua che non parlo, che ascolto». Proprio alla quiete secolare dell’isola grigia, Cees Nooteboom pare voler chiedere il velo di nebbia clemente «che tutto nasconde», affinché ogni cosa torni «in ordine», «a posto», offrendo finalmente una risposta a chi da tanto tempo la sta cercando.

 

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«Il Pickwick», 3 aprile 2019, «L’Indice dei libri del mese» n.5, maggio 2019

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NORI

PAOLO NORI, A BOLOGNA LE BICI ERANO COME I CANI – EDICICLO, PORTOGRUARO 2010

Uno “stream of consciousness”padano, anzi emilano, anzi: tutto bolognese. Ambientato in una città che sa di provincia antica, tra gente poco più che proletaria, e dove biciclette e treni sono più comuni delle auto di lusso. Dove stravince in umanità la periferia fatta di condomini modesti, con appartamenti acquistati col mutuo, e il genere umano è popolato di figure stralunate e ironiche, unite tra loro da una solidarietà pietosa e partecipe. Chi scrive in prima persona sembra fare il verso alla figura dell’intellettuale in voga oggi, diviso tra letture e conferenze in varie città, una vita solitaria da separato, con fidanzate che nemmeno sanno di esserlo, e una bambina piccola e graffiante (“la Battaglia”) che vede il padre due volte la settimana e lo segue in bici, regalandogli le sue perle di saggezza e ingenuità sarcastica. A questo stranito protagonista, che ricorda alcune figure felliniane, un vicino di casa consegna prima di morire (suicida? ammazzato? di dolore?) due cassette registrate, da sbobinare per farne un libro. Questo anziano, ex meccanico di biciclette, chiamato Benito, ha dei tic, delle nevrosi operaie molto particolari. Per esempio, la fissazione che i giapponesi lo odino senza motivo, per cui in tutti coloro che gli sono ostili vede dei nipponici. Benito nella registrazione rivela al figlio professore, che vive in un’altra città e lo trascura, di non essere il suo vero padre: e gli racconta con amaro umorismo la sua vita di pover’uomo, costretto in un matrimonio banale con la Germana, e poi minimi e colpevolizzanti tradimenti, divertentissime visite obbligate a noiosi e ridicoli parenti milanesi, amici del bar equivoci e ingannatori, la morte misteriosa della moglie censurata nella memoria per anni. I racconti del meccanico e quello dello scrittore si intrecciano confondendosi e riecheggiandosi. Ne risulta un libro spiritoso e malinconico insieme, fatto di riuscitissimi bozzetti e figure a tutto tondo, vivo di una sapienza disillusa, e pensierosa.

 

IBS, 16 dicembre 2010

RECENSIONI

NORI

PAOLO NORI, LA MERAVIGLIOSA UTILITA’ DEL FILO A PIOMBO – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2011

Paolo Nori scrive discorsi: non solo, ovviamente. Anche romanzi, articoli, interventi radiofonici. E traduce dal russo. Ma soprattutto scrive discorsi, nel senso che scrive nello stesso modo in cui parla, con gli intercalari, le ripetizioni, le domande retoriche, i vezzi (a volte anche troppo esibiti) che si usano nel parlato quotidiano: colloquiale, dimesso, semplice: “L’aria, dentro la macchina,diventa più aria,non so se mi spiego,come se avesse più senso, non so se mi spiego.”, “Non so,per esempio,faccio un altro esempio.Non so per esempio quest’estate..”, “Tre multe, be’queste cose qua, adesso, io penso di no, ma lì è una questione, è difficile,son punti di vista..”.

In genere i suoi racconti un po’ stralunati, surreali, ma sempre divertenti, li legge in convegni, a teatro, all’inaugurazione di mostre: come nel caso di questo volume, che raccoglie sei brani tutti “recitati” davanti a un pubblico, intrattenuto su argomenti e temi seriosi con argomenti e temi che hanno la levità e il gusto del vero umorismo. Credo che non si possa definire Nori un autore ironico, tantomeno sarcastico: non si sente nella sua scrittura alcun aculeus mordace, alcuna risata sardonica. Ma amarezza disincantata sì, e quasi un candore stupito di fronte alla insulsaggine delle mode, al falso progresso della tecnica, ai paradossi della cultura post-moderna. Con un richiamo accorato al buon senso, a un criticismo onesto, alla saggezza della quotidianità. Insieme all’entusiasmo dichiarato per la poesia, e per una narrativa che non si riduca a divertissment da salotto. Insomma, non ci si può spacciare per conoscitori di Wittgenstein solo citando un abusato e alquanto banale aforisma, nè si può dissertare di musica contemporanea fingendosi assorti ammiratori di 4’33” di Cage… Leggendo Nori si ride, e si pensa. Non è poco.

 

IBS, 1 aprile 2011

RECENSIONI

NORI

PAOLO NORI, VI AVVERTO CHE VIVO PER L’ULTIMA VOLTA – MONDADORI, MILANO 2023

 Paolo Nori (Parma 1963), romanziere, traduttore, saggista, docente universitario, si occupa soprattutto di letteratura russa, e il suo ultimo lavoro è dedicato alla poetessa (anzi, poeta, come giustamente pretendeva di essere definita) Anna Achmatova. Il libro, Vi avverto che vivo per l’ultima volta, ha come sottotitolo Noi e Anna Achmatova, esplicita indicazione di come vada letto, sottintendendo un’ammirata complicità con la vita e l’arte della protagonista. Ma non solo. Perché la tragica vicenda esistenziale di lei, perseguitata insieme alla famiglia dal potere bolscevico e impedita nella libera manifestazione del pensiero e degli scritti, riverbera riflessi anche sui tragici avvenimenti contemporanei di oppressione antidemocratica, intolleranza, aggressività ed egoismo.

Chi era, dunque, Anna Achmatova? Nata nei pressi di Odessa nel 1889 (quindi ucraina?), morì a Mosca nel 1966, essendo vissuta perlopiù a Leningrado, oggi Pietroburgo, o nel vicino centro di Carskoe Selo (perciò russa?), tornata a Kiev dopo il divorzio dei genitori (di nuovo ucraina, come Gogol’, Bulgakov e Isaak Babel’?), si sposò una prima volta con il poeta russo Nikola Gumilëv, passando però lunghe vacanze in Crimea. Paolo Nori sottolinea questa sua duplice ma univoca nazionalità, oggi messa dolorosamente in discussione: Anna Achmatova era poeta di lingua russa, e la sua scrittura ha superato confini, burocrazie, eserciti, alzandosi a livelli di tale eccezionale sensibilità e maestria formale da non poter venire ingabbiata in nessuna coercitiva definizione di genere o provenienza.

Il suo vero cognome era Gorenko, ma il padre – ingegnere navale ucraino e funzionario pubblico di origine nobile –, l’aveva diffidata dall’usarlo per le sue poesie, attività secondo lui decisamente “discutibile”. Scelse pertanto di firmarsi con il cognome della nonna materna, discendente da una principessa tartara erede di Čingis kan. Selvaggia da bambina, “strega” da sposa secondo la definizione del marito, Anna Achmatova era una donna bellissima, intensa, severa. Sembrava imperiosamente alta pur essendo di statura media, elegante anche se vestita in modo dimesso, aveva una voce roca eppure quando parlava calava intorno a lei un intimorito silenzio. In alcune situazioni si dimostrava arrogante, in altre addirittura spietata. Di sé sembra ripetesse: “da sempre vivo così, sconsolata”.

Del suo fascino catalizzante furono testimoni amici, intellettuali, poeti come Osip Mandel’štam e il premio Nobel Iosif Brodskij. Tre volte condannata dal Comitato centrale del Partito comunista sovietico, le uccisero due mariti e le arrestarono il figlio: veniva spiata, pedinata, censurata; per diffondere i suoi versi li recitava o dettava alle amiche, che li imparavano a memoria e li divulgavano clandestinamente. Il funzionario di partito Ždanov la fece escludere nel 1946 dall’Unione degli scrittori con l’accusa di falsità, decadenza, elitarismo, disimpegno politico: “Mezza suora, mezza prostituta, o meglio, sia suora che prostituta, mischia il sesso alle preghiere; questa è l’Achmatova, con la sua piccola, misera vita privata, le sue emozioni insignificanti e il suo erotismo mistico-religioso. La poesia dell’Achmatova è lontanissima dal popolo”.

Paolo Nori ripercorre gli snodi fondamentali dell’esistenza di lei inframezzandoli non solo con commenti e riflessioni personali, ma soprattutto con estese digressioni autobiografiche e memorie private: ci racconta della nonna Carmela (“a casa sua c’era una miseria che quando son diventati poveri hanno fatto una festa”), delle lezioni universitarie e dei frequenti viaggi in Russia sulle tracce di scrittori amati, di una lunga degenza ospedaliera nel reparto Grandi ustionati, di altre totalizzanti passioni (il tifo per la squadra del Parma, l’adorazione per il poeta futurista Chlebnikov, l’aria respirata nelle biblioteche, moglie e figlia soprannominate spiritosamente Togliatti e Battaglia, i mistici sufi, la carta oro di Trenitalia…). Si sofferma in particolare sulla propria angosciata reazione allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, con gli incredibili e farseschi episodi di censura verso la cultura e l’arte russa che ne sono seguiti: l’espulsione di sportivi e artisti da manifestazioni come la Champions League e la finale dell’Eurovision, il divieto di eseguire sinfonie e balletti di Čajkovskij, la rottura di contratti con musicisti di fama internazionale. In quel periodo uno stupido affronto diretto alla sua attività di docente lo aveva ferito e indignato, quando l’Università Bicocca di Milano arrivò ad annullargli seminario su Dostoevskij   programmato da tempo, tra le proteste di molti intellettuali italiani ed europei.

Con lo stile che gli è proprio, colloquiale e travolgente, scandito da frasi brevi, semplicissime, spesso ripetitive, intessuto di intercalari domestici in cui pare addirittura di ascoltare la cadenza dialettale emiliana, Paolo Nori ci coinvolge in un susseguirsi incalzante di episodi della propria vita, ironici e autoironici, per condurci empaticamente a riflettere su questioni di rilievo etico e politico, o ad approfondire alcuni tra i tanti temi e personaggi citati. Quando leggo i suoi libri, mi capita di scoppiare a ridere improvvisamente, poi di commuovermi, poi ancora di irritarmi: credo di dovergliene essere grata, perché mi evita la noia e il disappunto procuratomi da tanta narrativa italiana contemporanea.

Di Anna Achmatova qui scrive di sguincio, in rapporto a tutto ciò che le girava intorno, accennando a riunioni di scrittori, cabaret, riviste letterarie, poetesse rivali, Blok, Mandel’štam, Majakovskij, Cvetaeva, Bulgakov, Modigliani, mariti e amanti. Gli splendidi versi della poeta, pubblicati a partire dal 1912 con la prima raccolta, Sera, vengono citati con parsimonia, e soprattutto non commentati criticamente. Lontano da qualsiasi pretesa di interpretazione accademica, l’autore ne trascrive alcuni giusto per chiosare diverse sensazioni o circostanze biografiche della donna: il rapporto difficile con il figlio, le separazioni sentimentali, la nostalgia per l’illustre passato della Russia, la coraggiosa resistenza all’ottusità del potere. “Io sono un appassionato, non un esperto”, scrive per giustificare il proprio scarso interesse letterario verso ogni valutazione formale.

C’è una poesia dell’Achmatova che mi sembra bellissima, e purtroppo non è compresa in questo volume, Il canto dell’ultimo incontro, in cui lei per indicare il suo turbamento mentre si reca nella casa dell’amato prima di lasciarlo, non accenna a tristezza o paura, ma usa pochi indicatori, a metà tra metafore e correlativi oggettivi: il guanto destro infilato per sbaglio sulla mano sinistra, i gradini che sembrano tanti ma sono solo tre, la luce della candele nella casa buia che ardono di un lume “indifferente e giallo”. Non amava indulgere a introspezioni retoriche, ma era straordinaria nel rendere le emozioni attraverso l’uso di immagini puntuali e insolite.

Troppo poche le poesie presenti in un volume che voleva essere un omaggio alla più grande poeta russa del ’900. Ma almeno di un altro addio in versi Paolo Nori offre opportuna testimonianza, ed è raccontato in Ultimo brindisi. Mi sembra giusto riportarlo, come un regalo fatto a noi lettori, che “ci facciamo invadere dalla bestialità. Che non ci rendiamo conto di quello che stiamo diventando e che, forse, siamo già diventati”:

“Bevo a una casa distrutta, / alla mia vita sciagurata, / a solitudini vissute in due / e bevo anche a te: / all’inganno di labbra che tradirono, / al morto gelo dei tuoi occhi, / a un mondo crudele e rozzo, / a un Dio che non ci ha salvato”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 3 aprile 2023