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RECENSIONI

OGAWA

YŌKO OGAWA, LA CASA DELLA LUCE – IL SAGGIATORE, MILANO 2011

Quasi tutti i romanzi di Yōko Ogawa (Okayama,1962) sono stati pubblicati in Italia dalle edizioni Il Saggiatore: La casa della luce del 1990, è uscito nel 2006, e ristampato cinque anni dopo. Premiatissima, celebre in patria e molto tradotta all’estero, Yōko Ogawa è considerata una delle più importanti autrici post-moderne contemporanee giapponesi, esponente della corrente letteraria chiamata “black romanticism”, che esprime un punto di vista cupo e pessimista relativamente alla psicologia e ai sentimenti dei personaggi rappresentati. Le opere di Yōko Ogawa sono perlopiù storie narrate in prima persona, situandosi fra il genere realista e quello fantastico, con una sovrabbondanza di elementi concreti su cui si inseriscono dettagli surreali, grotteschi o addirittura soprannaturali. Le trame evitano il sentimentalismo e le situazioni esplicitamente erotiche o sensuali, mettendo in primo piano protagonisti alienati dal contesto storico e sociale in cui vivono. Con uno stile minimalista ma descrittivamente puntuale, propone una narrazione scorrevole e priva di pretenziose artificiosità formali.

Il volume di cui ci occupiamo consta di tre racconti lunghi, il primo e più riuscito dei quali, “La gravidanza di mia sorella”, ha ottenuto il prestigioso premio Akutagawa ed è stato pubblicato sul New Yorker, onore riservato precedentemente solo ad altri due autori nipponici.

La protagonista (senza nome, come quasi tutti i personaggi femminili di Ogawa) è una giovane universitaria, venditrice part-time nei supermercati della città, che vive con la sorella e il cognato odontotecnico novelli sposi. Quando la sorella rimane incinta, i nove mesi della gestazione diventano un incubo per il piccolo nucleo familiare: per la sorella stessa, in preda a ossessioni nevrotiche che la portano dapprima a rifiutare il cibo e poi a ingozzarsi di marmellata di pompelmo ingurgitata a cucchiaiate, conducendola a una pericolosa obesità; per il marito timoroso di contrastare i capricci tirannici della moglie: per la narratrice in prima persona, che annota meticolosamente in un diario settimanale il progredire angoscioso della gravidanza, sino alla sua temuta e imprevista conclusione.

Nel secondo testo, è ancora una giovane donna la figura di spicco della narrazione. Raggiunta al telefono dalla telefonata di un cugino ventenne perso di vista da molti anni, si adopera per trovare al ragazzo una sistemazione nella residenza studentesca da lei stessa frequentata durante l’università. Lo accompagna quindi nel suo ex-collegio per studenti, periferico e architettonicamente fatiscente, presentandolo al preside, un anziano e colto professore, menomato nel fisico perché amputato di entrambe le braccia e di una gamba. Nelle settimane che seguono all’iscrizione del cugino al convitto, la protagonista non riuscirà tuttavia a mettersi più in contatto con lui, venendo invece trattenuta a lungo nell’ufficio di presidenza. Scopre così che sulla residenza universitaria si sono addensate ombre di sospetto per l’improvvisa e inspiegabile scomparsa di uno degli studenti, motivo dell’allontanamento di tutti gli altri frequentanti. Il racconto rimane sospeso in un’atmosfera di dubbio e sconcerto, che la figura misteriosa e infelice del professore, ormai moribondo e impossibilitato a rivelare alcun segreto, contribuisce a rendere più inquietante.

Il terzo racconto, che dà il titolo alla raccolta, vede ancora come voce narrante una adolescente, segnata dai turbamenti e dalle ansie tipiche dell’età. Figlia del rigido direttore di un orfanatrofio buddhista, la ragazzina vive con fastidio e rancore l’atmosfera opprimente della Casa della luce, nutrendo il rapporto con gli infelici ospiti in essa accolti di sfumature morbose, che vanno dall’amore non corrisposto per un ragazzo fisicamente e caratterialmente eccezionale, al disgusto espresso in dispetti, ritorsioni e sadico disinteresse verso i più piccoli e fragili di lei.

Tre protagoniste di tre racconti raccontate con sensibilità e penetrante intuizione da una scrittrice donna. Se dovessi definire con due aggettivi la scrittura di Yoko Ogawa, così come si manifesta nel volume preso in esame, non avrei nessuna incertezza nell’utilizzare questi termini: delicata nella forma, implacabile nel contenuto.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net  «SoloLibri», 26 ottobre 2023

 

 

 

RECENSIONI

OGAWA

YOKO OGAWA, L’ANULARE – ADELPHI, MILANO 2007

Tradotta in molte lingue, amata e premiatissima in patria, Yōko Ogawa (Okayama,1962) è considerata una delle più importanti narratrici contemporanee giapponesi, esponente della corrente letteraria chiamata “black romanticism”, che esprime un punto di vista cupo e pessimista relativamente alla psicologia e ai sentimenti dei personaggi rappresentati. Le sue opere, perlopiù narrate in prima persona, si situano fra il genere realista e quello fantastico, con una eccedenza di elementi concreti da cui affiorano dettagli surreali, grotteschi o addirittura soprannaturali, comunque decisamente ossessivi e perturbanti. Le trame evitano il sentimentalismo e le situazioni esplicitamente erotiche o sensuali, fornendo spunti di azione a protagonisti alienati dal contesto storico e sociale in cui vivono. Con uno stile minimalista, limpido e descrittivamente puntuale, la scrittrice propone una narrazione scorrevole e priva di pretenziose artificiosità formali. I suoi romanzi e racconti sono stati pubblicati in Italia da Il Saggiatore e Adelphi: presso quest’ultimo editore è uscito nel 2007 L’anulare, che in Giappone aveva visto la luce nel 1994 con grande successo di pubblico.

Come succede prevalentemente nei romanzi e nei racconti di Ogawa, la voce narrante è quella di una giovane donna di cui non viene mai citato il nome, impiegata da un anno presso un misterioso laboratorio situato in un fatiscente ex collegio femminile. La ragazza, in un precedente lavoro come operaia in una fabbrica di bibite, aveva perso la punta dell’anulare sinistro, troncata da un macchinario e sbalzata a decomporsi all’interno di una bottiglietta di gazzosa. Questo antecedente, narrato con fredda indifferenza, nel prosieguo della lettura diventa metafora dell’oscillazione tra dissolvimento e ricomposizione della materia che pervade l’intero racconto. La perdita di una piccola parte del suo corpo non viene metabolizzata come lutto, ma vissuta invece con curiosità: “Un’immagine mi ossessionava: quel pezzetto di carne a forma di conchiglia, rosa come un petalo di ciliegio, tenera come la polpa di un frutto maturo, che cade al rallentatore nella gazzosa ghiacciata per poi restare sul fondo, fluttuando tra le bollicine”.

Il proprietario del laboratorio in cui la protagonista viene assunta, l’inquietante signor Deshimaru, impeccabile nel camice bianco che ne riveste l’asettica correttezza dei gesti e la pacata professionalità dell’eloquio, nell’assicurare alla nuova dipendente ogni garanzia professionale, mette subito in chiaro le proprie richieste di datore di lavoro: gentilezza con i clienti, puntualità, pulizia e discrezione. L’unica mansione spettante alla giovane sarà quella di accogliere gli avventori spiegando loro l’operatività della piccola azienda: custodire in teche trasparenti e sigillate gli oggetti di cui vogliono privarsi senza tuttavia perderli definitivamente, anzi affidandoli alla conservazione in un luogo protetto. Questi “esemplari” deputati alla cura sono testimonianze di vita, memorie di momenti fondamentali dell’esistenza di ogni cliente: “C’erano esemplari di ogni genere: bulbi di giacinto, anelli magici, calamai, forcine per capelli, carapaci di tartarughe, giarrettiere”. Una signora elegante chiede di immagazzinare il suono di un pezzo pianistico dedicatole dal fidanzato, un anziano vuole proteggere lo scheletro del fringuello che per molti anni gli aveva fatto compagnia col suo canto, una ragazzina desidera mantenere intatti tre funghi nati dalla cenere dell’incendio della sua casa, in cui erano morti i suoi genitori e un fratellino. La stessa adolescente in seguito chiederà di preservare la cicatrice della bruciatura che in quella tragedia le aveva inciso la guancia.

La cura maniacale con cui il signor Deshimaru si occupa della preparazione e catalogazione degli esemplari nelle stanze sotterranee a lui solo accessibili, è un indizio del suo feticismo per tutti gli oggetti, ad esempio per le scarpe che regala alla giovane dipendente, irretendola in una relazione sessuale prevaricante e nascondendole i lati più tenebrosi della sua attività. L’atmosfera gelida e ovattata del laboratorio in cui si svolge la vicenda, viene perfettamente resa dalla scrittura razionalmente distaccata di Yoko Ogawa, che esprime la sua analitica imperturbabilità soprattutto nella descrizione dettagliata di cose e ambienti, lontana da qualsiasi adesione emotiva. L’inatteso sacrificio finale della protagonista turba il lettore, interrogandolo sul significato della sostenibilità del dolore, della separazione da ciò che si è amato, della ferocia perturbante del ricordo, espressi nel desiderio di conservare per sempre almeno una traccia della propria sofferenza.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 26 novembre 2023

 

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OLDANI

GUIDO OLDANI, IL REALISMO TERMINALE – MURSIA, MILANO 2010

Il poeta Guido Oldani propone qui una lunga ed ironica meditazione, che è anche una lettura del mondo, sulla proliferazione minacciosa degli oggetti, che hanno finito per spodestare la natura, per ingabbiare l’uomo e per modificare, trasformandole, arte e poesia. Il realismo terminale è un testo provocatorio e paradossale, spesso addirittura parodistico, perché «la valenza ironica è forse l’unica forza rivoluzionaria riscontrabile nella contemporaneità».

Nel ventesimo secolo ha avuto inizio una urbanizzazione esasperata, che ha sconvolto equilibri naturali e sociali millenari, producendo eventi sismici planetari nelle coscienze e nei comportamenti umani. La poesia italiana non si è sottratta a questo cataclisma terminale, a partire dal futurismo con la sua effervescenza ottimistica e veloce, per passare alle cose polverose, semiinutili, nostalgiche dei crepuscolari, e per arrivare – attraverso gli imprescindibili ermetici e surrealisti – ai prodotti odierni: oggetti-diluvio del neorealismo, con l’ansia ideologica e politica del riscatto; e collasso degli oggetti nella neoavanguardia, ipnotizzata dal significante.
Dopo il 2000, tutto si artificializza, e la natura imita gli oggetti: «Non più un aereo assomiglia a un gabbiano, ma viceversa, per sempre sarà il viceversa».

In questo modo «si rovescia completamente la lettura estetica del mondo». Come reagire, come osare una ribellione? Oldani ha un solo suggerimento da dare: l’ironia. Al dilagare dell’oggettismo si può e si deve rispondere con il sogghigno sarcastico, con lo sberleffo. Se anche l’immaginario è diventato oggettofilo e oggettotropico (i popoli non emigrano per fame, ma per impossessarsi del miraggio della “roba”), l’unica libertà concessaci è il rifiuto.
La scrittura di Guido Oldani, a partire da queste premesse, si fa canzonatoria e pungente, irridendo pubblicità, psicanalisi, economia, religione e, ovviamente, la poesia attuale, paludata e salottiera, stracolma di “oggetti”, ma definitivamente morta.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Il-realismo-terminale-Oldani.html     24 maggio 2016

RECENSIONI

OLDANI

GUIDO OLDANI, LA FARAONA RIPIENA – MURSIA, MILANO 2013

 

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OLIVER

MARY OLIVER, PRIMITIVO AMERICANO – EINAUDI, TORINO 2023

Primitivo americano, premio Pulitzer per la poesia nel 1984, è il libro più noto di Mary Oliver, autrice poco conosciuta in Italia, ma amatissima dal pubblico americano. Einaudi lo propone nella sua prestigiosa collana bianca, con l’appassionata prefazione della curatrice Paola Loreto e testo a fronte. Mary Oliver, nata in Ohio nel 1935 e morta in Florida nel 2019, è vissuta principalmente nell’East Cost, nei dintorni meno frequentati di Cape Cod, là dove boschi, laghi, paludi delle Province Lands, nella loro intricata e misteriosa wilderness, si approssimano al mare protetto da scogli e dune sabbiose.

Sacerdotessa di un panteismo naturalistico, Oliver è stata la riconosciuta e celebrata rappresentante della poesia ecologista statunitense. Le cinquanta composizioni della raccolta riecheggiano temi e atmosfere presenti nei massimi cantori nordamericani della natura, da Henry David Thoreau a Ralph Waldo Emerson, da Walt Withman a Emily Dickinson, da Robert Frost a Elizabeth Bishop, con un’accentuazione visionaria particolare, prossima alle proiezioni allucinatorie della letteratura distopica e postumana di oggi.

Nella sua interpretazione del reale, sfumano i contorni materiali che differenziano specie da specie, mondo animale e vegetale, interconnettendo l’umano con il minerale, l’acqua e l’aria, nella fusione di elementi diversi in un’indistinta origine biologica comune.

Lunghe passeggiate solitarie, o in compagnia del suo cane, nella foresta o ai bordi di stagni e sulle rive dei fiumi, portano la poeta a imbattersi in tipologie diverse di alberi, cespugli, fiori e frutti (querce, pini, meli, anemoni, caprifogli, bacche, uva, more, funghi…), e in una ricca varietà di insetti, uccelli, quadrupedi, pesci, anfibi: dalle volpi alle lepri, dagli aironi ai corvi, dai pipistrelli ai gufi. Durante le sue quotidiane immersioni nel verde, si lascia pungere da spini e parassiti: “Dove il sentiero chiude / i battenti e oltre, / attraverso le foglie sgamollate, / i rami caduti, / attraverso l’intrico di salsapariglia, / ho proseguito. Alla fine / non riuscivo più / a salvare le braccia / dalle spine; le zanzare / mi hanno annusata / alla svelta, calda / e ferita, e sono arrivate / roteando e ronzando” (Egrette); incontra due serpenti che attraversano veloci il bosco “come una coppia affiatata / come una danza / come una storia d’amore”; osserva ortaggi selvatici maleodoranti ma comunque da rispettare: “Quello che infiamma il sentiero non è per forza grazioso”.

Con animali e piante vive esperienze simbiotiche e metamorfizzanti, in un mistero di compenetrazione reciproca: si trasforma nell’orsa che assaggia il miele, nel pesce appeso all’amo e poi ingerito, nel vitellino allattato dalla mucca, nella cerva che beve al ruscello, nei fiori pallidi bagnati dalla pioggia,  e l’assimilazione è più fisica che mentale, più carnale che emotiva: “l’unico modo / di indurre la felicità nella tua mente è introdurla // prima nel corpo, come piccole / prugne selvatiche”, “il blu del cielo mi cade addosso // come seta, i fiori ardono, e io voglio / rivivere tutta la mia vita, riiniziare daccapo, // essere assolutamente / selvaggia”.

Persino nella palude fangosa la poeta celebra il pantano, facendosi essa stessa palude: “Mi sento /… un ramo che ancora potrebbe, / a distanza di anni, metter radice, / germogli, gemmare, fiorire – / fare della sua vita un palazzo / vibrante di foglie”. L’elemento equoreo in cui si immerge diviene amnio ancestrale, e l’accoglie non più donna ma pesce, come all’alba della vita nel nostro pianeta: “Bracciata dopo / bracciata il mio / corpo ricorda quella vita e reclama / le parti perdute di sé – / pinne, branchie che / si aprono come fiori nella / carne – le gambe / vogliono serrarsi e diventare / un muscolo solo, giuro che / conosce / l’esatta sensazione / di essere coperta / di squame grigio blu!”

I mondi animali vegetali e umani sono parte inscindibile della stessa creazione, e le sedimentazioni millenarie di ossa sepolte nel terreno – scheletri di persone e carcasse di bestie – appaiono uguali nel ciclo eterno di nascita riproduzione e morte. Officiante di una Messa panica, Mary Oliver proclama un suo “Vangelo ecocentrico”, come suggerisce Paola Loreto nella prefazione, messaggio di salvezza per il pianeta soffrente, a cui indica la sola possibilità di resistenza nel destino comune di accoglienza di tutto ciò che vive e respira.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 15 ottobre 2023

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OLMI

ERMANNO OLMI, LETTERA A UNA CHIESA CHE HA DIMENTICATO GESU’ – PIEMME, MILANO 2013

Questa  Lettera a una Chiesa che ha dimenticato Gesù (Piemme, 2013), scritta dal regista Ermanno Olmi, ha i toni scoraggiati, delusi, forse anche un po’ risentiti dell’innamorato tradito, già nelle intestazioni dedicatorie: «Cara Chiesa di cristiani smarriti, dell’ufficialità, ricca per i ricchi, dei compromessi, dei dogmi, di un passato oscurantista, delle liturgie…».

Nello stesso tempo assume il linguaggio intenerito e pieno di speranza di chi ancora vuole illudersi e credere, di chi ama nonostante: e allora l’istituzione torna ad essere madre e fidanzata fedele, degna di una devozione che superi ogni ingannevole dubbio:  «Chiesa della rifioritura, della buona volontà, della verità, degli assetati di giustizia, della donazione…».

Cosa chiede Olmi, con parole ispirate e profetiche, utopistiche e rabbiose, alla Chiesa di cui si sente parte viva e sofferente? In primo luogo un’attenzione accogliente verso gli umili e i dannati della terra, capace di ritrovare «l’eroicità della donazione di se stessi»: «se quel Cristo ti vedesse oggi, cara Chiesa, ridotta alla stregua di uno Stato come tanti altri, con confini che separano, armigeri che sbarrano gli ingressi, e persino un tribunale per emettere sentenze, come ti giustificheresti?». Poi di recuperare l’amore per la terra e la natura troppo spesso asservita a interessi economici. E soprattutto di uscire da una sonnolenza secolare – che l’ha rinchiusa in atteggiamenti illiberali e punitivi, ritualistici e dogmatici – lasciando l’uomo libero nelle sue scelte e nei suoi pensieri: «Dio deve lasciarmi vivere libero. Si è impegnato nel momento in cui mi ha creato».

Una presa di posizione decisa e coraggiosa, quella di Olmi, a favore dell’apertura al nuovo, della trasparenza, di un ritrovato entusiasmo, che lo spinge addirittura a arricchire il Padre Nostro di corollari puntualizzanti, e a ridisegnare un umanissimo Cristo accanto a una Maddalena innamorata. Perché: «Prima di qualsiasi Chiesa c’è l’uomo. L’uomo è la vera chiesa dove risiede Dio».

 

© Riproduzione riservata           

www.sololibri.net/Lettera-a-una-Chiesa-che-ha.html                22 febbraio 2016

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OLMI

ERMANNO OLMI, IL VILLAGGIO DI CARTONE – ARCHINTO 2012

«O noi cambiamo il corso impresso alla Storia o sarà la Storia a cambiare noi». Ê l’epigrafe conclusiva e assertoria con cui il regista Ermanno Olmi chiude la sceneggiatura del suo film presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia 2012: Il villaggio di cartone.

Film cristiano come pochi di un regista che ha sempre fatto della sua fede nel messaggio evangelico e della sua attenzione verso gli ultimi, i perdenti, gli sconfitti dal potere, il credo cui affidare la sua arte e la sua missione di uomo. Una chiesa periferica e vuota (di fedeli, di spirito e di amore) viene minacciata dalle ruspe della civiltà capitalistica interessata solo al profitto e all’interesse economico: e ancora più pericolosamente è messa in pericolo dall’indifferenza, dal relativismo, dal dogmatismo di una comunità cattolica che non sa rinnovarsi nella direzione della speranza e della carità.
Il vecchio parroco che ne è alla guida si scopre solo e dubbioso, messo in crisi dalle parole del suo medico ateo, dall’ambiguità codarda del suo sagrestano, e soprattutto da un’invasione notturna, pacifica e disperata, di un gruppo di clandestini affamati in cerca di riparo e conforto. I vari personaggi rivestono i panni dei protagonisti del Vangelo: c’è il neonato innocente e salvatore, ci sono Giuda e Pilato (con le guardie-sgherri di un potere ottuso e violento), ci sono i puri di cuore che perseguono il bene, e i corrotti pronti a vendersi e a tradire.

Nella sua sapiente prefazione Vito Mancuso, partendo dall’amara constatazione della crisi in cui versa il cattolicesimo europeo, invoca una trasformazione della Chiesa e della religione, che per sopravvivere dovrebbero riconvertirsi, passare «da un fondamento statico a un fondamento dinamico», dall’ortodossia all’ortoprassi: scegliendo «l’esserci-per-altri», la giustizia, la persona, la spiritualità, Dio non più come risposta, ma piuttosto come domanda.

 

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www.sololibri.net/villaggio-cartone-Ermanno-Olmi.html      11 maggio 2016

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OMODEI

ANTONIO FILOTEO OMODEI, RIME – IL CONVIVIO, CASTIGLIONE DI SICILIA (CT) 2024

Il Professor Giuseppe Manitta, poeta e studioso di testi classici della nostra letteratura (da Boccaccio a Leopardi a Carducci, fino al Novecento), direttore editoriale del marchio Il Convivio, ha curato l’edizione critica, l’introduzione e il commento delle Rime di Antonio Philotheo Homodei, scrittore siciliano del 1500.

Il corposo volume di seicento pagine, costato a Manitta più di dieci anni di lavoro, colma un’importante lacuna degli studi sul petrarchismo rinascimentale, poiché il corpus poetico di Omodei è rimasto inedito per secoli, nonostante l’autore fosse ben inserito nel dibattito letterario a lui coevo: riscoperto dallo stesso Manitta con il recupero del manoscritto autografo Capponiano 139, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, vede finalmente la luce con questa pubblicazione.

Philotheo Homodei, poeta, narratore ed erudito di pregio, era nato a Castiglione di Sicilia, in provincia di Catania, intorno al 1515, e dopo gli studi universitari di letteratura e giurisprudenza aveva lasciato la sua terra per approdare a Roma, inserendosi negli ambienti culturali della città papalina, dove concentrò la sua attività letteraria tra il 1550 e il 1650, pubblicando un romanzo, una Descrizione della Sicilia, la Vita della beata Chiara da Monte Falco e il Canzoniere intitolato Romana Aetna Travolta. Il soggiorno romano di Omodei si rivelò da subito foriero di arricchenti opportunità di studio e di frequentazione con molte personalità di rilievo, tra cui Annibal Caro, molti ecclesiastici, dame e nobiluomini della corte di Ippolito II d’Este. Tra il 1568 e il 1570 il poeta venne poi coinvolto in un processo intentato all’ autore di un libello contro il papa Paolo IV, episodio che segnò il suo declino come intellettuale, mettendolo in cattiva luce presso gli inquisitori. Un’ulteriore motivazione riguardo all’oblio in cui sprofondò il suo nome fu l’errata attribuzione delle sue opere per una quasi omonimia con Giulio Filoteo, questione dibattuta durante tutto il XVIII secolo.

Il Codice Capponiano 139 da cui Giuseppe Manitta ha recuperato il corpus delle Rime, era autenticamente autografo, scritto in bella grafia e preparato per la stampa, con copertina cartonata e rivestita in cartapecora, suddiviso in quattro parti. Dedicataria era la donna amata da Omodei, Antea, il cui nome fu traslato dal poeta in Aetna in omaggio alla sua Sicilia. Il sentimento provato per la colta dama romana si trasformò da un amore vivo e partecipato a improvvisa freddezza, anticipatrice dell’abbandono: da bruciante come la lava etnea fino al gelo della neve, testimoniato dai vari sonetti di stile petrarchesco della prima parte del Codice: “Laccio non mai sì stretto strinse Amore, / Nel dolce inganno, e mai sentì tal foco / Vulcano, Aetna, e Vesuvio, od altro loco, / A par di quel mi stringe, e bruggia il core. // … Te sol al mondo adoro, cerco, et amo”.

Già nella seconda parte, il nome della donna non compare più, sebbene le poesie sentimentali siano ancora predominanti, e invece continua a prevalere l’imitazione dell’Aretino: “VOI ch’ascoltate in rime sparse, il suono / Del mio fiero languir, con tanto Ardore…”. Nella terza parte il modello ispirativo è quello dei Trionfi, mentre nell’ultima sezione l’artificio retorico è più evidente nella costruzione di acrostici riferiti ai personaggi illustri conosciuti a Roma.

Omodei usava celare il suo nome e quello dell’amata con pseudonimi anagrammati, in una sorta di gioco linguistico che comunque traeva sempre ispirazione dal Petrarca, attraverso furti, ricalchi e riprese dei versi più noti, sia nella struttura (metrica e rime) che nel lessico. Ma la tradizione petrarchesca veniva spesso rimodulata da Omodei, e messa in relazione a citazioni di una tradizione diversa, e a poeti coevi che si muovevamo nello stesso ambito imitativo. La puntuale e approfondita introduzione del curatore Giuseppe Manitta ne offre particolareggiata testimonianza, insieme ad altri prestiti danteschi, ariosteschi, da Pulci e Sannazaro, indicativi di quanto l’autore da lui preso in considerazione fosse esemplarmente inserito nella produzione letteraria cinquecentesca.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 6 gennaio 2025

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ONETTI

JUAN CARLOS ONETTI, PER UNA TOMBA SENZA NOME – SUR, ROMA 2016

Juan Carlos Onetti è annoverato tra i più originali autori della letteratura sudamericana novecentesca: nato a Montevideo nel 1909, ventenne si trasferì a Buenos Aires e in età matura (in seguito alla persecuzione della dittatura militare) a Madrid, dove morì nel 1994.
La sua scrittura, fortemente innovativa e immaginosa, è apparsa da subito in anticipo sui tempi, per cui non sempre gli è stato riconosciuto da pubblico e critica il merito dovuto. Il ciclo narrativo che lo ha reso più famoso è quello formato da cinque romanzi usciti tra il 1950 e il 1979, che hanno come protagonista la vita claustrofobica e angosciante della città di Santa María.
Il libro appena pubblicato dalla casa editrice romana SUR, con traduzione di Dario Puccini, si intitola Per una tomba senza nome, ed è uscito in Argentina nel 1959, ma la data di pubblicazione non rispetta l’ordine delle vicende raccontate nell’intera saga, secondo una caratteristica tipica della produzione letteraria di Onetti, in cui tempo e racconto si sovrappongono, intersecandosi e sfaldandosi reciprocamente.
Il romanzo si apre sullo svolgersi di un funerale, che in genere (soprattutto nei paesi latini e in un passato non troppo remoto) si definisce come rito collegiale, partecipato e coralmente patito da famiglie e comunità. In effetti, come nota giustamente nella sua prefazione Antonio Pascale, la frase iniziale, espressa in un plurale collettivo, farebbe supporre l’esistenza di una molteplicità di voci e punti di vista differenti intorno alla cerimonia funebre: «Tutti noi, i notabili, noi che ci fregiamo del diritto di giocare a poker al Club Progresso e di tracciare le nostre sigle con pigra vanità in calce ai conti di bevande e pranzi al Plaza. Tutti noi sappiamo com’è un funerale a Santa María».

Invece la narrazione si riduce presto a un dialogo tra due soli protagonisti: l’io narrante – un saggio e indulgente medico di provincia – e il giovane Jorge, turbato testimone di una storia di squallore, abbandono, pregiudizi. Il primo capitolo è esemplare, nella sua asciuttezza descrittiva, nei dialoghi scarni, nell’impianto visivo quasi cinematografico: il ragazzo, tenendo legato alla fune un capro zoppicante, segue da solo la bara di una donna, accompagnandola a una sepoltura quasi clandestina in un isolato cimitero di campagna, «nella calura mansueta della luce». Lo sguardo lento del narratore plana sulla natura inaridita, sui visi dei becchini, sulla polvere della strada, offrendo improvvise pause di silenzio ai gesti dei personaggi:

«Il guardiano del cimitero tiene appeso al braccio un inutile bastone. È uscito sulla strada e ha guardato da tutti i lati. Io continuavo a fumare seduto su una pietra; i due tipi in camicia ancora tacevano appoggiati, le mani ciondolanti, appese alla cintura, alle tasche dei pantaloni. Così era. Qualche cactus, il muro del cimitero fatto di pietra su pietra, un muggito ripetuto sullo sfondo invisibile del pomeriggio. E l’estate ancora incerta nel suo sole bianco e circospetto, il ronzio, l’insistenza delle mosche nate da poco, l’odore di nafta che giungeva indolente fino a me, dall’auto. L’estate, il sudore come rugiada e il torpore».

Dopodiché la vicenda si anima, e Jorge, nel suo «rabbioso splendore di gioventù», confida al medico in una serie di incontri successivi il rapporto che l’ha legato alla donna morta, Rita García, cameriera di sua cognata: «una domestica, un’amica intima, un cane, una spia, una sorella …con un po’ di sangue indio». Di come lei si fosse affrancata dal ruolo di serva, per poi perdersi dapprima in situazioni sentimentali equivoche, quindi in un’esistenza fatta di miseria, accattonaggio, randagismo, prostituzione. Lentamente, e cospargendo il suo racconto di bugie e censure, il giovane confessa di aver approfittato della povera donna, soggiogata da numerosi altri amanti e protettori, vivendo per un anno «nell’irresponsabilità», nella sporcizia, nella frode: con Rita e con il capro che a lei era stato affidato da un occasionale amico, e da cui non riusciva a liberarsi.
Le ultime pagine del romanzo, talvolta inclini a un compiacimento eccessivo, virano verso l’iperletterarietà, tendendo a irrobustire la trama con qualche colpo di scena non del tutto motivato.
Il dottore scopre una sua vocazione documentaristica nel trascrivere le confessioni nebulose di Jorge; cerca altre testimonianze, individua probabili connessioni ed evidenti incongruenze nelle parole del ragazzo, per arrivare a concludere che forse l’unico aspetto positivo di tutta la vicenda, sospesa tra realtà e finzione, è stato proprio il fatto di averla messa sulla carta, salvandola dal nulla dell’oblio:

«L’unica cosa che conta è che nel terminare di scriverla mi sono sentito in pace, sicuro di aver ottenuto la cosa più importante che ci si può attendere da questo genere di operazione: avevo accettato una sfida, avevo trasformato in vittoria almeno una delle tante sconfitte quotidiane».

 

© Riproduzione riservata              

www.sololibri.net/Per-una-tomba-senza-nome-Onetti.html     20 febbraio 2016

RECENSIONI

OPPEZZO

PIERA OPPEZZO, ESERCIZI D’ADDIO – INTERNO POESIA, 2021

Autrice di poesie, testi teatrali, narrativa, traduzioni, Piera Oppezzo (Torino 1934-Milano 2009) ebbe una vita e un destino letterario non facile. Nata da una famiglia di modeste condizioni economiche, si adattò a lavori umili prima di venire assunta dalla Rai a Roma, dove ebbe modo di conoscere intellettuali e artisti che incoraggiarono il suo appassionato affacciarsi al mondo della cultura, appoggiandone le prime pubblicazioni su riviste e con piccole case editrici. A metà anni sessanta si trasferì a Milano, avvicinandosi al femminismo e all’impegno politico. Nel 1966 uscì presso Einaudi una sua raccolta intitolata L’uomo qui presente, che fu ampiamente recensita e apprezzata.

Interno Poesia pubblica ora i suoi versi inediti, Esercizi d’addio, raccolti in ordine cronologico, a cura di Luciano Martinengo, con prefazione di Giovanna Rosadini e postfazione di Gaia Carnevale. Si tratta di poesie scritte tra il 1952 e il 1965, affidate dall’autrice settantacinquenne e malata all’amico Martinengo, al quale si deve la riproposizione della sua opera non solo in una scelta antologica del 2016 (Una lucida disperazione), ma anche attraverso il documentario Il mondo in una stanza, che ne ripercorre affettuosamente l’esistenza privata e l’attività letteraria.

Le poesie di cui ci occupiamo anticipano non tanto lo stile maturo della Oppezzo, più orientato verso la sperimentazione linguistica (per Giovanni Raboni “disadorno e quasi afono”, espressione “dell’appiattimento della parola al suo elementare, irriducibile nucleo gnomico”), quanto la stessa persistente tonalità malinconica, per una consapevolmente accettata e irrisolta sofferenza psicologica, segnata dalla precarietà della vita sentimentale e professionale.

Gelo, paura, luci remote, voci morte, bruma dolente, scarnite mani, pietre fredde, cani randagi, umidi asfalti, sono termini con cui la poetessa ventenne esprimeva la desolazione di una giovinezza ferita da privazioni e incomprensioni familiari, sullo sfondo di un devastante conflitto bellico: “Il ricordo della mia infanzia   /     è guerra. Un motore / nel cielo si avvicina / alla mia testa, i giocattoli diventano mostri. / Aiuto! la mia bambola è stecchita”. Nei “poveri giorni” in cui “Solo le asprezze / si ascolta”, il rimpianto per una serenità negata diventava senso di colpa per l’incapacità di sfuggire alla lugubre atmosfera ambientale: “I morti! I morti!” gridavo. / Ero alla finestra / e non passò nessuno.  //        Il vento sbandava nei miei capelli. / “I morti! I morti!” / Chi venne / e mi sollevò, quasi?  /         Ma io ero pietra, ero gelo o fiamma, / febbre o abbandono, ma non ero ancora… / – Oh, fino a quando? – /       e rimasi”.

In queste prime e acerbe poesie si possono rintracciare formule obsolete e letterariamente abusate, una certa ovvietà descrittiva, ingenui sentimentalismi, ma sempre felicemente riscattati da versi di icastica intensità: “Inutile pregare gli assenti”, “Erano sere di poca luna”, “Tutta la mia speranza  / è nel giorno pieno”. Nelle pagine successive lo stile si fa invece più asciutto, più coraggiosamente innovativo nell’uso meditato di neologismi e costrutti prosastici, di una versificazione franta, quasi elencatoria e priva di punteggiatura, di una sprezzante ironia. Si intuiscono quindi i primi germi della futura ribellione formale e contenutistica, nel coinvolgimento emotivo su argomenti di rilevanza sociale: la solidarietà con gli sfruttati, il rancore verso gli egoismi e l’ignavia del mondo adulto. La voce poetica si fa più scandita: “In casa seggo e fumo. / Ho acceso la radio / e allontanato completamente / le cose di un giorno intero”, “Indossiamo il cappotto senza fare domande / Col buon cappotto / Dimenticheremo le future violenze di stagione /   Con tutti i rischi di allagamento e siccità / Che comporta / La nostra posizione geografica”, “Chi si accorge di ciò che accade? / Neppure giugno arresta le battute di spirito / Il dolce amore per la vita è snervante e imperfetto”.

All’effusione sentimentale della prima produzione si va quindi sostituendo una più ragionata padronanza dei propri mezzi, marcata dalla polemica combattiva contro le ingiustizie, i soprusi e l’alienazione prodotta dalla società contemporanea.

 

© Riproduzione riservata        «L’Indice dei libri del mese», n.7/8, luglio 2021