YOKO OGAWA, L’ANULARE – ADELPHI, MILANO 2007

Tradotta in molte lingue, amata e premiatissima in patria, Yōko Ogawa (Okayama,1962) è considerata una delle più importanti narratrici contemporanee giapponesi, esponente della corrente letteraria chiamata “black romanticism”, che esprime un punto di vista cupo e pessimista relativamente alla psicologia e ai sentimenti dei personaggi rappresentati. Le sue opere, perlopiù narrate in prima persona, si situano fra il genere realista e quello fantastico, con una eccedenza di elementi concreti da cui affiorano dettagli surreali, grotteschi o addirittura soprannaturali, comunque decisamente ossessivi e perturbanti. Le trame evitano il sentimentalismo e le situazioni esplicitamente erotiche o sensuali, fornendo spunti di azione a protagonisti alienati dal contesto storico e sociale in cui vivono. Con uno stile minimalista, limpido e descrittivamente puntuale, la scrittrice propone una narrazione scorrevole e priva di pretenziose artificiosità formali. I suoi romanzi e racconti sono stati pubblicati in Italia da Il Saggiatore e Adelphi: presso quest’ultimo editore è uscito nel 2007 L’anulare, che in Giappone aveva visto la luce nel 1994 con grande successo di pubblico.

Come succede prevalentemente nei romanzi e nei racconti di Ogawa, la voce narrante è quella di una giovane donna di cui non viene mai citato il nome, impiegata da un anno presso un misterioso laboratorio situato in un fatiscente ex collegio femminile. La ragazza, in un precedente lavoro come operaia in una fabbrica di bibite, aveva perso la punta dell’anulare sinistro, troncata da un macchinario e sbalzata a decomporsi all’interno di una bottiglietta di gazzosa. Questo antecedente, narrato con fredda indifferenza, nel prosieguo della lettura diventa metafora dell’oscillazione tra dissolvimento e ricomposizione della materia che pervade l’intero racconto. La perdita di una piccola parte del suo corpo non viene metabolizzata come lutto, ma vissuta invece con curiosità: “Un’immagine mi ossessionava: quel pezzetto di carne a forma di conchiglia, rosa come un petalo di ciliegio, tenera come la polpa di un frutto maturo, che cade al rallentatore nella gazzosa ghiacciata per poi restare sul fondo, fluttuando tra le bollicine”.

Il proprietario del laboratorio in cui la protagonista viene assunta, l’inquietante signor Deshimaru, impeccabile nel camice bianco che ne riveste l’asettica correttezza dei gesti e la pacata professionalità dell’eloquio, nell’assicurare alla nuova dipendente ogni garanzia professionale, mette subito in chiaro le proprie richieste di datore di lavoro: gentilezza con i clienti, puntualità, pulizia e discrezione. L’unica mansione spettante alla giovane sarà quella di accogliere gli avventori spiegando loro l’operatività della piccola azienda: custodire in teche trasparenti e sigillate gli oggetti di cui vogliono privarsi senza tuttavia perderli definitivamente, anzi affidandoli alla conservazione in un luogo protetto. Questi “esemplari” deputati alla cura sono testimonianze di vita, memorie di momenti fondamentali dell’esistenza di ogni cliente: “C’erano esemplari di ogni genere: bulbi di giacinto, anelli magici, calamai, forcine per capelli, carapaci di tartarughe, giarrettiere”. Una signora elegante chiede di immagazzinare il suono di un pezzo pianistico dedicatole dal fidanzato, un anziano vuole proteggere lo scheletro del fringuello che per molti anni gli aveva fatto compagnia col suo canto, una ragazzina desidera mantenere intatti tre funghi nati dalla cenere dell’incendio della sua casa, in cui erano morti i suoi genitori e un fratellino. La stessa adolescente in seguito chiederà di preservare la cicatrice della bruciatura che in quella tragedia le aveva inciso la guancia.

La cura maniacale con cui il signor Deshimaru si occupa della preparazione e catalogazione degli esemplari nelle stanze sotterranee a lui solo accessibili, è un indizio del suo feticismo per tutti gli oggetti, ad esempio per le scarpe che regala alla giovane dipendente, irretendola in una relazione sessuale prevaricante e nascondendole i lati più tenebrosi della sua attività. L’atmosfera gelida e ovattata del laboratorio in cui si svolge la vicenda, viene perfettamente resa dalla scrittura razionalmente distaccata di Yoko Ogawa, che esprime la sua analitica imperturbabilità soprattutto nella descrizione dettagliata di cose e ambienti, lontana da qualsiasi adesione emotiva. L’inatteso sacrificio finale della protagonista turba il lettore, interrogandolo sul significato della sostenibilità del dolore, della separazione da ciò che si è amato, della ferocia perturbante del ricordo, espressi nel desiderio di conservare per sempre almeno una traccia della propria sofferenza.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 26 novembre 2023