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RECENSIONI

PANARESE

ROSSELLA PANARESE, COMUNICAZIONE SCIENTIFICA – TRECCANI, TORINO 2021

L’e-book Comunicazione scientifica (dal prezzo inferiore a 1 euro) raccoglie quattro interventi di Rossella Panarese pubblicati nell’Appendice X dell’Enciclopedia Italiana Treccani. Rossella Panarese (Roma 1960-2021), entrata giovanissima in Rai come redattrice a Radio3, di questo canale è diventata un’autorevole, stimata e infaticabile curatrice e conduttrice, soprattutto di trasmissioni riguardanti vari rami della scienza: Palomar, Futura, On the road, Duemila, Labanof.

Dopo una parentesi professionale come responsabile dell’Ufficio stampa del Comune di Roma, nel 2002 è rientrata in Rai, progettando, curando e in seguito conducendo per diciotto anni il programma Radio3 Scienza (“Non volevamo spiegare cos’è un bosone o una cellula staminale, o almeno non solo. Volevamo parlare di politica, di etica, di salute, di tecnologia, di scuola, di ricerca e di ambiente partendo dai temi dell’impresa scientifica”). Impegnata anche nella didattica come insegante e conferenziera in diversi master, seminari, festival organizzati in varie località italiane, la sua morte avvenuta in aprile ha lasciato grande rimpianto tra i collaboratori e il pubblico radiofonico.

In piazza Bainsizza, vicino alla sede di Radio3 a Roma, le è stata dedicata una quercia rossa su cui è infissa una targa riportante le sue parole: “Saper raccontare vuol dire avere a cuore l’ascoltatore, farsi carico dell’attenzione dell’altro, creare un filo comune tra chi parla e chi ascolta. Insomma, costruire una relazione. È quello che la radio può fare meglio di tutti. A me piace usare la metafora del ballo di coppia, che è tale se – e solo se – ognuno dei ballerini è concentrato sui suoi passi, ma in contatto con quelli dell’altro”.

I sette brevissimi saggi compresi sotto il titolo Comunicazione scientifica vertono appunto sulla necessità di trasmettere la cultura, anche nei suoi aspetti più ostici, al maggior numero di persone possibile, in termini chiari, comprensibili, ma non ridimensionati o spianati artificiosamente ai fini di ottenere una facile audience. Come scrive Chiara Valerio nella prefazione, la scrittura di Panarese mantiene una “forma interlocutoria”, nel convincimento che qualsiasi argomentazione debba permettere e incoraggiare l’intervento attivo del fruitore della conoscenza, pretendendone tuttavia anche l’ascolto attento e curioso, in un processo reciproco di costruzione comunicativa.

La prima domanda che si pone l’autrice riguarda la definizione del pubblico di non-esperti cui si rivolge la comunicazione scientifica. Essendo sempre più diversificato per età e preparazione scolastica, ad esso devono essere offerte soluzioni narrative, educative e informative originali, stimolanti e, ovviamente, qualificate e rigorose, che tengano conto del contesto in cui avvengono e offrano la possibilità di creare relazioni interattive adeguate. Agli scienziati e ai ricercatori va chiesto di diffondere i risultati del loro lavoro uscendo dalla “torre d’avorio” del sapere specialistico in cui sono rinchiusi, per contribuire all’alfabetizzazione scientifica della popolazione, sconfiggendone lo scetticismo e il senso umiliante di inadeguatezza culturale. Se la scienza è sotto attacco per la carenza di fondi destinati alla ricerca, per competizioni interne, per il proliferare di fake news, falsi scoop giornalistici, pubblicità ingannevoli e commercializzazione di prodotti medici e industriali inefficaci o fraudolenti, spetta al mondo politico e mediatico la responsabilità di riportare chiarezza e trasparenza nella popolazione.

“A emergere è il tema della cittadinanza scientifica, ossia del diritto di ognuno di noi a partecipare alle scelte che derivano dall’impresa scientifica, e di condividere le opportunità derivanti dallo sviluppo delle scienze e della tecnologia”. Diritto dei cittadini a essere informati con competenza, dunque, cui corrisponde però il dovere di approfondire con serietà le proprie fonti e nozioni.

Su alcuni temi molto delicati la discussione tra scienziati e pubblico è molto sensibile: vaccini, OGM, medicina ufficiale, intelligenza artificiale. In particolare, con lo scoppio della pandemia di Covid-19, si è sviluppata un’enorme richiesta di partecipazione popolare al dibattito scientifico, alimentata da paura e sofferenza personale: si chiede alla scienza di rivestire il ruolo che le compete, di guida prudente ed esperta dei comportamenti individuali e collettivi.

 

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24 giugno 2021

 

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RECENSIONI

PANELLA

PASQUALE PANELLA, POEMA BIANCO – MIRAGGI, TORINO 2018

La voce narrante di questo Poema bianco di Pasquale Panella è femminile (come dichiara in apertura l’autore), e scandisce in tre sezioni di versi liberi una lunga e silenziosa riflessione in cui si confondono rimpianto e ironia, elegia e sarcasmo, logicità e insensatezza: a sottolineare una storia di amore e disamore, fedeltà e stanchezza, nel suo nascere crescere finire. Non assistiamo a una pièce teatrale destinata a un pubblico di spettatori, né a un dialogo che attenda risposte da un interlocutore privilegiato. Piuttosto rileviamo la volontà esplicita di districare, in un soliloquio lucidamente controllato, i fili aggrovigliati della mente, illuminando zone oscure del cuore e della memoria.

Il bianco citato nel titolo rimanda sia al candore sia al vuoto, alla pagina ancora da scrivere come a quella cancellata, a un’esigenza di chiarezza interiore o al bisogno di silenzio. Il poema pare invece riferirsi alla forma che assume sulla pagina questo monologo, un vero e proprio flusso continuo di versi, in cui i segni di interpunzione sono dati da virgole-virgolette-parentesi, e assidui, incalzanti punti di domanda. Nessun esclamativo, e un unico punto fermo conclusivo, dopo la parola «Fine».
Pasquale Panella, che nella sua vita artistica ha consegnato parole importanti a musiche altrettanto importanti, sembra anche qui voler dar voce a una sonorità di base che, sviluppandosi da armonie attutite e terse, si spezzano frequentemente in improvvise dissonanze, in brusche alzate di accenti, in ribadite sottolineature. Così il tono colloquiale, lo scherno, la battuta ironica irrompe ad alterare o prosaicizzare il carattere più delicato e nostalgico della profferta amorosa rivolta a un assente.

In un lunedì sera piovoso di un mese imprecisato, alle otto meno dieci, una “lei” parla a se stessa e di se stessa, parla a un “lui” e parla di lui, pur diffidando di qualsiasi possibilità di comunicazione, in un rapporto che per entrambi è diventato indifferenza, incomprensione, accusa reciproca, rancore: «Quando il telefono non squilla / sei sempre tu / che non mi chiami», «Tutto accade quando tutto è finito / Anzi, prima di finire / non è nemmeno tutto, / diventa tutto quando / è finito tutto, appunto», «Noi, ci siamo mai dati del Noi?». L’amore c’è stato, e affiorano i ricordi («Ma quante ombre / abbiamo fatto insieme», «Respiravamo e basta / Le mani come il vento che si calma / sul ventre, su una coscia, su una spalla / Il viso ritornava a fare il viso, / il profilo la prora / di una barca incagliata»), insieme alle tracce di un passato che si intende smitizzare attraverso un uso giocoso della lingua, con l’utilizzo di ripetizioni, assonanze, calembour: «Io ero la tua vita nella mia vita / che era la tua vita / Ero quella parola che ti volevo dire / Ero il mio amore / E tu eri l’amore mio / Insomma tu eri io».

L’idea platonica di fusione di due corpi e due anime torna a tentare insidiosamente il personaggio narrante, ma viene respinta beffardamente come lusinga ingannatrice: «parlarsi da vicino come quando / parliamo da soli / a chi siamo, noi, l’altro / (ecco il Noi, lontano) / che non c’è (ma lo siamo)».
Ingannevole appare anche lo scambio di ruoli sessuali programmato dall’autore del testo, e svelato da chi si proclama donna sapendo di non esserlo: «La voce è femminile, certo, / perché tu sei vile / Ti scrivi come se io / ti avessi scritto / Poi credi che l’abbia fatto per davvero», «noi siamo fatti / di contraddizione e corpo umano». Le contraddizioni, le incoerenze, le insicurezze che minano il rapporto tra due amanti svelano il sospetto nutrito nei riguardi di tutta la realtà («Non è questione di realtà, / l’esistenza / È questione di credulità»), e addirittura del linguaggio: «dalla sfiducia nelle parole / nasce la sperimentazione / o il loro gioco», «C’è questo difetto / nella descrizione: / che sembra sempre / un compito copiato».

Il poeta con voce di donna si diverte a usare gli strumenti del mestiere soprattutto quando ironizza sull’uso-abuso della rima, artificio cui i versi e le canzoni ricorrono da sempre per blandire occhio e orecchio di chi legge o ascolta: «Mi piacciono le rime con gli accenti / alla fine, baciate, per esempio: me con te»,«(le rime facili, sì, che sono rime, / le difficili, sì, che sono fisime)», «(La facilità delle rime / è dovuta alla spontaneità delle parole in ente)», «O è colpa delle rime: / le rime, penso,/ spesso fanno il senso».

Alla “storia” raccontata nella prima sezione del Poema bianco segue “l’antistoria” della seconda parte (aggiunta dieci anni dopo la prima pubblicazione: «versi esclusi, inclusi / qui / per togliermeli di torno»), un redde rationem in cui Pasquale Panella ritrova, passata la pioggia, il sole; dopo il lamento e la recriminazione, il sorriso indulgente e la leggerezza del divertissement. Un addio al dolore sentimentale, con la decisione di rivolgere le proprie attenzioni più alla scrittura e alla sua diffusione che ai tormenti del cuore («L’amore era l’amore, / adesso è il mio editore», è scritto in epigrafe). L’esperienza di coppia vissuta diventa terreno di riflessione disincantata e graffiante, riconsiderata nei suoi momenti di noia, delusione e incomprensione reciproca: «E siamo al romanzesco coniugale / (che non se ne può più recentemente) / tutto cavilli, distinguo inguinali, / pignolerie meticolose orali anali, / tutto un detto stradetto e ritrattato». La liberazione dai ricatti affettivi si compie quindi proprio sulla pagina scritta, e nella terza sezione del Poema Panella conclude «Che scrivere è farla / finita con la storia», una sorta di terapia programmata per guarire dal mal d’amour, esorcizzando fantasmi e sensi di colpa, e riproponendo un foglio vergine su cui vergare parole nuove.

«Il rischio dello scrivere è uno solo: / essere letti / Lo dicevi anche tu / Anche tu chi? Tu, io // E allora finiamoci, / o lettrice, / amore mio, / mia lacrima / di lettura fuor degli occhi // E fine».
Rimangono ancora i rumori, nella conclusione del libro, quelli prodotti e ascoltati da chi si muove nella solitudine di un appartamento dopo che il compagno o la compagna se ne è andato: i passi sul pavimento, la doccia, le sedie spostate, il frigo aperto, la pasta che si cuoce nella pentola. Rumori che sono echi di una presenza eclissata, quando le parole non servono più a niente, e si riducono a un’impalpabile esalazione di fiato: «Il soliloquio, questa intima piazzata, questo comizio, questo convenire, qui, di un’oratrice che ha solo se stessa a ascoltarla, a ascoltarsi, a sentirsi regnante sul silenzio».

Eppure anche le parole della donna solitaria a cui Pasquale Panella ha prestato voce ci hanno fatto compagnia, prima di dissolversi nel fumo: «vedi il fumo di tutte le parole / (vedilo, fa’ il favore)»..

 

© Riproduzione riservata               «Il Pickwick», 2 settembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PAPINI

GIOVANNI PAPINI, CHIUDIAMO LE SCUOLE!  – STAMPA ALTERNATIVA, TARQUINIA 2011

Che ricordo abbiamo, quasi tutti, di Giovanni Papini? Io personalmente, che da ragazza avevo letto con qualche entusiasmo Un uomo finito, mantengo una vaga impressione di lui come severo censore della mollezza letteraria, culturale, civile del popolo italiano: prima classicista, poi futurista, poi convinto interventista, quindi fascista, e infine intransigente cattolico.

Nato e morto a Firenze (1881-1956), Papini fu molto attivo nell’opera di svecchiamento della cultura e della società nel primo ventennio del ’900. Fondatore di due importanti riviste, Leonardo (1903) e Lacerba (1913), collaboratore de Il Regno e direttore de La voce (1912), collaborò intensamente con Corradini, Prezzolini e Soffici, concependo sempre la scrittura come terreno di lotta e azione, e scrivendo in uno stile declamatorio, fortemente polemico e dissacrante. Ebbe il grande merito di divulgare in Italia i maggiori movimenti filosofici stranieri, dall’intuizionismo francese di Bergson al pragmatismo anglo-americano di Peirce e di James. Quasi del tutto dimenticato e rimosso dalla scena culturale attuale, soprattutto per le sue scelte ideologiche e i suoi esaltati atteggiamenti reazionari, è stato recuperato editorialmente da Vallecchi e Mondadori, e oggi gode di un nuovo interesse anche da parte di alcuni movimenti di opposizione, non solo di destra. Stampa Alternativa, ad esempio, ha pubblicato in e-book un suo provocatorio e caustico pamphlet del 1914, Chiudiamo le scuole!, edito per la prima volta in volume da Vallecchi nel 1919, poi dalle edizioni Luni nel 1996 e nel 2013.

La proposta radicalmente rivoluzionaria di questo saggio si basa sulla convinzione non solo dell’inutilità dell’istituzione scolastica, ma addirittura sulla sua incontestabile nocività. Strumento di tortura mentale e fisica dei bambini, di livellamento culturale degli adolescenti, di indottrinamento ideologico degli universitari, l’istruzione statale affonda sistematicamente ogni personalità, originalità e iniziativa individuale attraverso l’imposizione di programmi uniformi, noiosi, formali e antiquati. Essa serve solo alle finalità pratiche della classe dirigente del paese: libera i genitori dall’impegno di seguire i figli per tutta la giornata, illudendoli inoltre sul futuro lavorativo della prole; mantiene una grande quantità di lavoratori (maestri, professori, ispettori, bidelli, editori, librai, cartolai) che altrimenti non avrebbero altra rendita economica; soprattutto forma cittadini ubbidienti e conformisti, incapaci di qualsiasi giudizio indipendente e personale. Non crea cultura, la trasmette solamente, e in maniera superficiale, pietrificata, massificante.

Il giudizio di Papini sulla classe insegnante è impietoso. Chi insegna esercita un potere sadico sulle sue vittime, annoiandole e mortificandole, nella convinzione pretenziosa e ingenua di appartenere a un ceto privilegiato, e di svolgere una funzione educativa indispensabile. In realtà, è molto spesso impreparato e privo di curiosità, svolge il suo lavoro solo per godere di tre mesi di vacanza e di uno stipendio garantito, si esercita a formare greggi ubbidienti di burattini, ripetendo per tutta la vita le stesse lezioni in maniera monotona, e anchilosandosi fisicamente in stanze polverose e malsane. L’unica possibile educazione è quella che si attua nel colloquio tra due persone, o nel commercio quotidiano con la vita e l’esperienza concreta, mentre il solo risultato della relazione tra maestri e scolari in una classe è un rapporto di servilismo, ipocrisia, reciproca diffidenza. Gli alunni sono sinceri solo quando imbrattano “la parete della latrina”.

Gli strali di Papini non sono diretti esclusivamente contro la didattica, ma si rivolgono anche alla costrizione materiale a cui vengono sottoposti i giovani, chiusi in “bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello”, quando invece dovrebbero poter godere di tanto spazio per muoversi, e di “un po’ d’igienica anarchia”. Il suo grido di protesta ricorda il “Come vi permettete?” recentemente lanciato da Greta Thunberg all’ONU: “Con quali traditori pretesti vi permettete di scemare il loro piacere e la loro libertà nell’età più bella, e di compromettere per sempre la freschezza e la sanità della loro intelligenza?”

La sua opposizione a ogni tipo di reclusione forzata non si rivolge solo ai fabbricati scolastici, ma a qualsiasi edificio di segregazione, detenzione e isolamento: “Diffidiamo de’ casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengon rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di malattie generali. Difesa contro il delitto – contro la morte – contro lo straniero – contro il disordine – contro la solitudine – contro tutto ciò che impaurisce l’uomo abbandonato a sé stesso: il vigliacco eterno che fabbrica leggi e società come bastioni e trincee alla sua tremebondaggine”. Mezzo secolo prima di Basaglia, di Illich, di Foucault, Giovanni Papini definiva gli istituti “sinistri magazzini di uomini cattivi”, dove milioni di esseri umani “son condannati al buio, alla fame, al suicidio, all’immobilità, all’abbrutimento, alla pazzia”. Le scuole, a differenza di altre istituzioni, rinchiudono maleficamente solo bambini e ragazzi sani, innocenti e tendenzialmente felici, privandoli della gioia di vivere, della voglia di crescere e imparare autonomamente, per renderli proni alle esigenze della classe dominante.

Cosa suggeriva quindi questo iconoclasta anarchico, per rendere ai giovani il loro diritto a un’esistenza salubre, libera e creativa? Di licenziare tutti i dipendenti del Ministero della pubblica istruzione, offrendo loro pensioni vitalizie purché lasciassero gli studenti “fuori dalle loro fabbriche privilegiate di cretini di stato”. Accidenti! Nemmeno il più esagitato dei Black bloc arriverebbe a proporre una soluzione così drastica e rivoluzionaria…

 

© Riproduzione riservata                «Il Pickwick», 4 novembre 2019

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PARAZZOLI

FERRUCCIO PARAZZOLI, AMICI PER PAURA – SEM, MILANO 2017

I “QuattroTempi” e i 25 capitoli in cui si suddivide l’ultimo romanzo di Ferruccio Parazzoli (Roma,1935) scandiscono le vicende vissute dal piccolo Francesco e dalla sua famiglia durante la seconda guerra mondiale. Una Roma piccolo-borghese, intimorita e sconcertata da una Storia a cui si sente estranea, e poi un rifugio marchigiano in cui trovare riparo dall’assedio tedesco e dai bombardamenti, fanno da sfondo agli avvenimenti domestici osservati con l’ingenuo stupore di un bambino che sogna ponendosi qualche domanda, e si pone domande sognando altri orizzonti, forse eroici, senz’altro più vitali di quelli della sua quotidianità, infreddolita e affamata.

Intorno a lui ruotano molti personaggi, per lo più appartenenti allo stretto cerchio familiare: un padre impiegato ministeriale, fedele agli affetti e al lavoro, ma privo di grandi ambizioni e idealità; la mamma tranquillamente devota ai suoi doveri di moglie, madre e casalinga; la sorellina Cristina, che manifesta sprazzi di vivace curiosità. E poi un nonno lombardo, massone e socialista, che con la sua morte improvvisa impaurisce il nipotino, e una schiera di zii e cugini a cui i quattro componenti del ridotto nucleo familiare rimane in sostanza indifferente, se non velatamente ostile. Il dramma della guerra è patito da tutti loro con rassegnata passività, in una silenziosa accettazione del ruolo di vittime, e Parazzoli riesce a rendere molto bene la docile sottomissione con cui i protagonisti vivono gli eventi, grandi e piccoli, delle loro esistenze (le morti private e le stragi belliche, i tradimenti politici e i soprusi parentali), in uno stile elegante e sorvegliato, pacatamente denotativo.

Francesco, cresciuto in un casamento INCIS a forma circolare, sul cui muro in alto campeggiano tre fasci Littorio color cioccolato, vive la sua remissiva e solitaria infanzia di Figlio della Lupa tra adunate e sfilate militari, proiezioni dei film Luce, discorsi di Mussolini ascoltati alla radio, canzoni e poesie fervide di amor patrio da imparare a memoria, precipitose corse nel rifugio antiaereo al suono delle sirene d’allarme, non appena si odono sfrecciare in cielo gli aerei nemici. Aggrappa le sue paure ai soldatini con cui gioca, al fucile con la canna di latta che imbraccia da valoroso combattente, «immortale piccolo dio della Guerra». La capacità di estraniarsi da un presente terrificante sarà ciò che lo aiuterà a salvarsi nell’incrudirsi degli avvenimenti. «Ma lui era lontano, accanto agli eroici soldati italiani, ai marinai, agli aviatori, ai bersaglieri, alle truppe coloniali vestite di cachi, ma soprattutto ai fanti in grigioverde».

L’inderogabile fuga nel maceratese con la mamma e la sorellina, per evitare i bombardamenti e i rastrellamenti in atto nella capitale, dapprima ospitati da estranei-stranianti parenti in una grande villa, quindi nella gelida canonica di un viceparroco partigiano, rivelano ai pochi anni di Francesco la durezza della realtà in precedenza solo intuita e temuta. Il ritorno in una Roma sventrata e immiserita, l’odio delle diverse fazioni politiche, la ferocia degli eserciti contrapposti («Chissà chi aveva ragione»), la fame, le violenze, i furti, le deportazioni rendono il bambino sempre più confuso e fragile, privo di punti di riferimento. Solo nella lettura, scoperta fortunosamente attraverso un anziano vicino bibliofilo, troverà le risposte cercate, arrivando a concludere che da grande non avrebbe fatto né il fante né il prete, ma lo scrittore: solamente in questo modo avrebbe potuto trasmettere agli altri il ricordo di quello che era successo, le morti ingiuste come quelle del suo amico Domenico, il sacrificio di anime generose, la sofferenza innocente di troppe vittime, e la gioia di una liberazione ritrovata.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Amici-per-paura-Parazzoli.html;          10 aprile 2017

 

RECENSIONI

PARESCHI

SILVIA PARESCHI, I JEANS DI BRUCE SPRINGSTEEN – GIUNTI, FIRENZE 2016

Il mito americano, così com’è stato vissuto, alimentato e condiviso da generazioni intere in tutto il mondo dall’800 a oggi, recupera una sua voce vivace nelle pagine del libro di Silvia Pareschi I jeans di Bruce Springsteen, sospese tra il reportage e il resoconto diaristico, emozione e denuncia, nostalgia e irritazione, fascino e disinganno. Gli Usa, e in particolare la California, e in particolare San Francisco ‒ con il sottofondo di musica rock, blues, gospel o jazz, e le voci di Nina Simone e Grace Slick – raccontati da chi li conosce benissimo, perché ci vive e ci lavora da molti anni, traducendone gli scrittori più famosi per importanti case editrici italiane: Jonathan Franzen, Don DeLillo, Cormac McCarthy, Denis Johnson…

Silvia Pareschi alterna narrazioni di esperienze personali ad animate descrizioni paesaggistiche, risentiti commenti politici a dialoghi con personaggi tanto stravaganti da sembrare inventati. Così leggiamo divertiti di lezioni yoga in stanze affumicate dalla marijuana, bar gay frequentati da armoniosi ballerini e rudi camionisti, sozze lavanderie a gettone in cui si perdono slip e calzini, dentisti esosi, fast food automatizzati, uffici insonorizzati, decappottabili sportive e scassati pick-up, studi cinematografici specializzati in porno e chiese metodiste che organizzano mense per i poveri. La California che esce da queste pagine appare sempre più dominata dai techies, giovani automi che lavorano per i Big Five (Facebook, Google, Microsoft, Apple, Amazon), guadagnando stipendi astronomici; anche San Francisco appare stordita da una rivoluzione culturale che ne ha trasformato i lineamenti: “Dev’esserci qualcosa nell’aria, la polvere delle ossa dei cercatori d’oro che si mescola al vento dell’oceano e crea un’alchimia che rende tutto estremo, libertà, follia, genio, ricchezza, miseria. E tutti vengono qui attratti dall’estremo, ma dopo che hanno smesso di diventare beat, hippy o predicatori folli sono tornati a cecare quello che cercavano i cercatori d’oro: la ricchezza”.

Non solo dollari, però, non solo finanza fanno degli States il continente che più di ogni altro nutre l’immaginario collettivo mondiale. Ci sono dissestate autostrade a cinque corsie, città affollate e villaggi abbandonati, solitudini estreme di zone desertiche, foreste con querce enormi e sequoie, oceani e fiumi impetuosi, uragani catastrofici, monti in cui scorrazzano coyote, orsi e puma, l’urbanizzazione più sfrenata e la wilderness più primitiva, l’intellettualismo più snob e il fanatismo delle sette religiose.

E poi c’è lui, il mito dei miti: Springsteen, che fece toccare “vette di estasi mistica” a Silvia Pareschi adolescente, al punto da indurla a percorrere centinaia di miglia, coast-to-coast fino al New Jersey e alla città natale, Freehold, per  visitarne la casa, la scuola, la pizzeria preferita, e infine il sarto, da cui ottenne in regalo un paio di jeans scoloriti, appartenuti al divino. Taglia 38. Magari Bruce li indossava a dodici anni: reliquia comunque preziosa.

 

© Riproduzione riservata   

https://www.sololibri.net/I-jeans-di-Bruce-Springsteen-Pareschi.html              4 marzo 2019

 

RECENSIONI

PAREYSON

LUIGI PAREYSON, PERSONA E LIBERTA’ – LA SCUOLA, BRESCIA 2011

Al filosofo Luigi Pareyson, voce profetica e inquieta di un cristianesimo indocile, non omologato, assetato di verità, la casa editrice La Scuola ha dedicato un volume antologico, Persona e libertà, che raccoglie sei saggi, introdotti da una sapiente e ammirata prefazione di Giuseppe Riconda. Di questi sei interventi, che spaziano dalla visione estetica alla teoria dell’interpretazione, dal personalismo esistenziale alla riflessione sul pensiero tragico, quello che più caratterizza in maniera originale la riflessione del filosofo piemontese, è a mio parere l’ultimo: Filosofia della libertà.
In queste venti pagine Luigi Pareyson introduce il lettore al tema fondamentale del rapporto tra libertà e nulla, inizio e fine, creazione e annichilimento. Opponendo alla Grundfrage di Leibniz (“perché l’essere anziché il niente?”) la positività di un’affermazione divina libera e generosa, Pareyson postula un Dio come libertà originaria che prima ancora di dare principio alla creazione afferma se stesso come “uscita da un non essere”, “irruzione pura, impreveduta e repentina come un’esplosione”.

Libertà di essere come “inizio e scelta”, che ha conosciuto la negazione e l’ha sgominata appunto proponendosi come vittoria sul nulla e sul male. “Dire «Dio esiste» non significa se non dire «È stato scelto il bene»”. L’atto con cui Dio origina se stesso è drammatico perché indica la lotta “fra la volontà e il desiderio di Dio di affermarsi ed esistere e il pericolo che vincano il nulla e il male”.

All’interno di questa scelta divina originaria di positività e di bene, quale spazio lascia quindi Luigi Pareyson all’esistenza del male, della morte, della sofferenza innocente? Il male è un’ombra, uno “scurimento del fulgore divino”, ridestato dalla ribellione e provocazione umana, che solo attraverso l’ attraversamento del dolore, “luogo della solidarietà tra Dio e l’uomo” può essere sconfitto, trasformando il negativo in positivo, in una redenzione eterna e assoluta.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/Persona-e-liberta-Pareyson.html           12 dicembre 2016

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PARIS

RENZO PARIS, IL MATTINO DI DOMANI – ELLIOT, ROMA 2017

Quanta voglia e rimpianto di vita, nell’ultimo volume di poesie di Renzo Paris (Celano, 1944). A cominciare dal titolo, così propositivo e aurorale (Il mattino di domani), per continuare poi nei temi affioranti in tutt’e quattro le sezioni scandite stagionalmente, che dalla primavera dell’infanzia arrivano alla «ridicola vecchiaia» dell’inverno. Sono ricordi, personali e collettivi: memorie familiari e sociali, percorsi di crescita culturale e politica. E sono paesaggi, istantanee folgoranti di città straniere o italiane (Mosca, Parigi, Marrakech, Helsinki, e l’amatissima Roma sempre più multietnica). Oppure amori, adolescenziali e maturi (la moglie Marina, amanti dimenticate o redivive, sconosciute esploratrici di Facebook); turbamenti sessuali e tentazioni trasgressive («Lolite di un attimo, ragazze curiose, / per favore, smettete di ricordarmi la vita», «Sono un conduttore erotico, / falotico. Vivo dell’altrui piacere. / Luttuoso, voluttuoso, paciere delle arrabbiate, / braciere delle / scostumate»). E ancora i “cari fantasmi” che emergono dalle brume di un passato lontano ma affettuosamente rivisitato, con un sentimento di nostalgica riconoscenza (il mondo contadino dell’Abruzzo nativo, la madre, le maestre, i compagni di scuola, la gente semplice del paese; e poi gli amici poeti che non vivono più…). Una sorta di rendiconto morale, di dettagliato inventario su guadagni e perdite dell’esistenza, che però lascia aperti vitalissimi spiragli di progettualità e joie de vivre, anche quando affronta la malinconia del tempo che passa, dello «stupore dell’ultimo tramonto», del distacco dalle persone e dalle cose amate: «Cara vita, che a poco a poco mi abbandoni», «Ho vissuto per ricordare e adesso // che la memoria si cancella, dove vado?».

Renzo Paris, prolifico romanziere, poeta e saggista – nonché traduttore, critico letterario e docente universitario -, non ha mai lesinato il suo impegno culturale e politico: sempre schierato a sinistra, a lungo collaboratore del Manifesto, di Liberazione e oggi del Venerdì di Repubblica, nei versi non dimentica le tragedie umanitarie contemporanee, la fame del terzo mondo, i profughi delle guerre mediorientali, il terrorismo, la disperazione degli ultimi a cui nulla può offrire riparo e consolazione: né la bellezza dell’arte e della natura, né – ovviamente – la poesia («la poesia / sarà pur sempre una cosa da ragazzi?».

Le composizioni di questa raccolta, tutte in terzine di vario metro, con rare indulgenze a rime, assonanze e calembour linguistici, sembrano ambire soprattutto a una chiara intenzionalità comunicativa, a una oggettività descrittiva che non lascia spazio a nebulose interpretazioni psicanalitiche: decise a rivendicare la propria prosaica adesione alla quotidianità dei gesti e dei sentimenti. Il loro autore continuamente ribadisce il suo ossessivo desiderio di partecipazione alla concretezza del reale, col timore che esso rimanga inappagato: «Nel mondo resto sempre a teatro», «Sono affollato di voci e di nessuna realtà». L’aggrapparsi tenacemente alle cose minime che osserva (insetti, uccelli, facce, parole di amore e amicizia) rimane allora il più solido ancoraggio per i mattini futuri.

 

«Nazione Indiana», 2 agosto 2017

 

RECENSIONI

PARRELLA

VALERIA PARRELLA, IL VERDETTO – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2020 (ebook)

Nome omen, dicevano gli antichi, e il nome dei due protagonisti del racconto di Valeria Parrella rispecchia il destino tragico di due eroi del mito, raccontati sia da Omero sia dai tragici greci e latini. Ne Il verdetto, Clitemnestra e Agamennone ripercorrono i passi dei loro omonimi classici, ripetendone passioni, rancori, tradimenti, vendette e morte.

Il testo è una rielaborazione dell’atto unico rappresentato nel 2007 allo Stabile Mercadante di Napoli con la regia di Mario Martone: un monologo femminile interrotto da brevi interventi della voce maschile, talvolta modulati su testi di canzoni partenopee. Nell’introduzione l’autrice precisa che l’intreccio della vicenda non è tratto dalla cronaca, né va letto come puro rifacimento della leggenda: risponde invece all’esigenza di indicare motivazioni più universali, tratteggiando il nodo che lega indissolubilmente due amanti in un rapporto masochistico di dipendenza reciproca, di gelosia e sacrificio.

Clitemnestra è una liceale di estrazione borghese che si innamora di un piccolo camorrista, e sfidando l’anatema familiare e la riprovazione cittadina, lo sposa e diventa la madre dei suoi tre figli. Nella sua scelta è spinta non solo dall’attrazione fisica (“certe spalle così larghe e certi occhi così profondi”), ma anche dal fascino esercitato dalla durezza dell’ambiente popolare, grossolano e brutale, in cui si inserisce. (“Tutto ‘sto teatro me piaceva”). Agamennone in poco tempo si impone come boss nel cerchio malavitoso, divenendone ‘o re, mentre a Clitennestra, così forbita nell’esprimersi, così diversa da tutte le altre donne del clan, subito viene riconosciuto il ruolo di regina. La coppia, a prima vista tanto male assortita, si trasferisce sulle pendici del Vesuvio, in una “villa troppo bella, isolata, alta, che dominava e doveva dare l’impressione di dominare”.

Lui però era sempre assente, impegnato in azioni di fuoco che lo portavano lontano, in missioni segrete da cui tornava sempre più rabbuiato e invelenito, sempre più cattivo: “D’accordo: mancava. Mancava sempre dal letto, da casa, dalla città. Finiva n galera, usciva, partiva, scompariva per giorni e neppure io, la moglie, dovevo sapere che fine aveva fatto. Ma quando tornava, allora era Agamennone che tornava… era Agamennone che mi dormiva affianco… lui era Agamennone, e io la femmina sua, il mio utero per moltiplicare la sua immagine”. Quando la guerra di camorra si fa più feroce, la prima vittima in famiglia è la giovane figlia, Ifigenia come la vergine adolescente del mito: ne derivano uccisioni e vendette, fughe, sparizioni. La separazione, l’esilio e il silenzio durano dieci anni. Entrano in gioco i reciproci amanti, Cassandra ed Egisto, il rancore e la rabbia soffocano qualsiasi altro sentimento, fino all’inevitabile e sanguinoso epilogo: “Così io sono stata Clitemnestra che amava e Clitemnestra che ama. Io sono Clitemnestra che ha aspettato, Clitemnestra che correva in avanti a costruire muri contro Agamennone e Clitemnestra che vorrebbe tornare indietro. Nulla di quello che ho fatto ha avuto senso se non in me, tutto è stato governato da Necessità eppure nulla è stato scelto, eppure nulla rinnego”.

In un crescendo di pathos che mantiene qualcosa dell’epos tragico, Valeria Parrella fa della protagonista una vittima del fato e della passione più ottenebrante: “uccidendo Agamennone, uno e unico ho versato il Mio sangue, perché è a me che ho tolto la vita”.

A questo punto, ogni applicazione della giustizia umana risulta sterile e assurda, perché la condanna è ovviamente auto-inflitta ed eterna.

 

© Riproduzione riservata                 6 maggio 2020

 

 

RECENSIONI

PASOLINI

PIER PAOLO PASOLINI, IL FASCISMO DEGLI ANTIFASCISTI – GARZANTI, MILANO 2018

Garzanti ha raccolto nella collana “I piccoli grandi libri” otto interventi che Pier Paolo Pasolini scrisse tra il 1962 e il 1975 sull’evoluzione storica del fascismo, e sulla sua sopravvivenza culturale e politica nell’Italia del dopoguerra. Fascismo inteso come potere massificante e subdolo, capace di modellare i comportamenti delle masse, manipolandone le idee e livellandone aspirazioni e desideri.

Nel primo saggio, pubblicato su Vie Nuove in risposta al quesito di un lettore sull’attrattiva che la destra esercitava sulle nuove generazioni, Pasolini polemizza con un’abitudine diffusa nel giornalismo «che vuole che i suoi personaggi siano come lui crede che siano», e li costruisce artificialmente, blandendo in tal modo la curiosità dei lettori. Alla stessa maniera ai giovani si offre l’immagine di un fascismo falsamente rivoluzionario, antiborghese, incorrotto e giustizialista, in un’Italia che «sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo». Un fascismo rappresentato «come normalità, come codificazione allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società». Questo scriveva Pasolini nel 1962, con il suo stile diretto, coraggiosamente polemico, ponendosi già allora in decisa opposizione contro il pensiero ammorbidito del neocapitalismo, contro i genitori educatamente antifascisti di ragazzi ingenuamente ribelli. E concludeva l’articolo con un epigramma feroce dedicato a padri e madri ipocritamente progressisti: «Che vi vengano figli fascisti, che vi distruggano con le idee nate dalle vostre idee, l’odio nato dal vostro odio».

Anche nei saggi successivi, pubblicati perlopiù sul Corriere della Sera e inclusi poi in Scritti Corsari, gli strali pasoliniani prendono di mira soprattutto l’ideologia edonistica del consumo e la produzione di beni superflui (“che rendono superflua la vita”), così come era stata imposta negli anni 60-70 dalla stampa e dalla televisione, entrambe portavoce in primis degli interessi industriali, capaci di ammorbare con miraggi di ricchezza milioni di persone nel nostro paese. Un’Italia non più contadina, forse nemmeno operaia e certamente non più cattolica, ma abitata da una borghesia miope, attratta da valori ormai distanti da quelli espressi dalla triade Chiesa-Patria-Famiglia. In quest’Italia omologata culturalmente, non esisteva una reale differenza tra fascisti e antifascisti, simili ormai sia nell’estrazione sociale, sia nella psicologia, nel linguaggio, nell’abbigliamento.

La diversità tra il fascismo storico, espressione di una destra caricaturale, rozza, provinciale, e il nuovo fascismo, camaleontico e illiberale, «americanamente pragmatico», viene a più riprese illustrata nei vari articoli presenti nel volumetto garzantiano, insieme alla definizione ironica delle caratteristiche dell’antifascismo postbellico: un antifascismo di maniera, asservito a un Potere non ben definibile, che non essendo più quello politico-ecclesiastico-militare, si manifesta prevalentemente nell’interesse per il mercato, prono alle sue esigenze. L’antifascismo in questione era sostanzialmente antidemocratico, modaiolo, salottiero, parolaio, incapace di prese di posizione realmente di sinistra. Pasolini, pur riconoscendo la propria attitudine donchisciottesca ed estremistica, rivendica a sé il diritto di dissentire, di restare criticamente fuori dal coro, individuando nel conformismo interclassista che permea la società capitalistica internazionale il maggiore pericolo spersonalizzante del linguaggio, dell’etica, della cultura e della politica.

L’ultimo saggio antologizzato è il famoso articolo sulla scomparsa delle lucciole dalle campagne italiane, che Pasolini pubblicò sul Corriere il 1° febbraio 1975, in una prosa che ci appare dopo quasi cinquant’anni ancora violentemente profetica. Gli insetti minuscoli e innocui che non illuminano più romanticamente campi e periferie nostrani hanno segnato, con il loro sparire, la trasformazione non solo di un ambiente naturale, ma soprattutto di una società e di una cultura politica, che se prima era abbarbicata a valori residuali di patriarcato contadino e cattolico, negli anni ’70 iniziava a rivelare il suo vero volto di inconsistenza, di vuoto, di servilismo ad apparati burocratici senza alcuna presa sulla quotidianità vissuta dai cittadini. Attraverso quali rabbiose e sarcastiche parole Pasolini commenterebbe oggi l’eredità lasciataci dall’ involuzione culturale di allora e la stagnazione civile attuale, possiamo solo immaginare, con malinconica rassegnazione e scarse speranze in un riscatto futuro.

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 21 gennaio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PASOLINI

PIER PAOLO PASOLINI, LETTERA AL FRATELLO E ALTRI SCRITTI

GARZANTI, MILANO 2025

 

Garzanti raccoglie in un piccolo volume testi di Pier Paolo Pasolini, in parte già noti, dedicati al fratello minore Guido, ucciso il 12 febbraio del 1945, poco prima della fine del conflitto mondiale, nel corso di un atroce e controverso episodio della Resistenza, l’eccidio di Porzûs, in cui diciassette partigiani delle Brigate Osoppo furono trucidati da un gruppo di combattenti delle Brigate Garibaldi alleati agli sloveni di Tito, per motivazioni politiche non legate alla lotta contro il nazifascismo. Guido era entrato in clandestinità nel maggio del 1944, subito dopo aver conseguito la maturità scientifica a Pordenone, assumendo il nome di battaglia di “Ermes”. Catturato il 7 maggio del ’45 da un gruppo di partigiani comunisti appartenenti ai GAP friulani, fu processato in modo sommario, e fucilato. Il suo cadavere venne riesumato alla fine della guerra insieme a quelli delle altre vittime dell’eccidio, e il funerale fu celebrato nel giugno dello stesso anno. Ora riposa nel cimitero di Casarsa, a pochi metri dalle tombe di Pier Paolo e della madre Susanna.

Lettera al fratello e altri scritti è organizzata intorno a tre temi principali: storico, artistico, famigliare. Si apre proprio con il commovente testo della lunga missiva del poeta, da lui definita “diario”, scritta giornalmente dal 12 al 18 maggio del 1945, e ritrovata in un fascicolo con il titolo  Scartafaccio Aprile 1945-Dicembre 1945, lasciato nella vecchia casa di Casarsa e recuperato – con altri materiali cartacei – solo dopo il 1975.

Destinatario spirituale della lettera è l’amato ragazzo “pieno di una bontà senza mondo”, da allora in poi divenuto protagonista della maggior parte degli scritti di Pier Paolo, fino all’inizio delle sue produzioni più famose di narrativa, poesia e saggistica. Si apre con una dichiarazione che assomiglia a un vero e proprio patto di sangue (“Caro Guido, ora che so che tu sei morto mi pare di conoscerti veramente; e so cosa vuol dire il nome fratello”), e continua ricordando i momenti più toccanti della loro vita in comune: l’infanzia nella stessa camera da letto e allo stesso tavolo, le camminate in montagna, l’ultima mattina prima della partenza verso una clandestinità fino ad allora ignorata, nell’accompagnamento alla stazione con una valigia che insospettabilmente nascondeva armi: “Eri lì col tuo capo, i tuoi occhi, e i tuoi vestiti; il tuo corpo, ancora assonnato, forse avvertiva il freddo dell’erba bagnata… Abbracciandoci, sentivamo la vergogna di quell’atto; non so che parole ci siamo detti (come vorrei ora riudirle!)”. La rivisitazione dei momenti più teneri e dolorosi della loro vita in comune è raccontata con pudore, con la stessa discrezione appresa nella riservatezza propria dei carnici: “Ci siamo sempre vergognati di certi sentimenti reciproci, e si taceva”.

Pier Paolo mette in luce l’ingenuità, la purezza, l’ardore e il coraggio di Guido, quasi però rimproverandogli il candore fanciullesco che l’aveva convinto a immolarsi per una causa non degna di tale sacrificio, e della fiducia eccessiva prestata a persone meschine, pronte a tradire la sua innocenza: “Tu sei morto per la libertà. Ma per me, sei semplicemente morto; io non credo a nessuna di queste illusioni umane, a cui tu hai umanamente creduto, non solo inesperto, ma, insomma, uomo. Ho promesso alla mamma di esaltarti, di cantarti, con tutta la tua vita. Di far conoscere a questi stupidi uomini il tuo eroismo… L’idea per cui tu sei morto, morirà, se ne andrà, sembrerà una parola di tempi inutili perché passati…  e ti sei sacrificato col gratuito entusiasmo dei diciannove anni; è stata la sorte del tuo corpo entusiasta che ti ha ucciso; non potevi sopravvivere al tuo entusiasmo, Guido”.

Ricorda la sofferenza inconsolabile della madre: “lei è lontana e chiusa in un dolore ormai senza lacrime e tutto silenzio, rotto ogni tanto da uno di quei suoi sospiri, che, tu lo sai, riescono incredibilmente dolorosi e quasi insopportabili”.

Nella prima sezione del libro, più documentale, vengono ricostruiti gli eventi relativi alla morte di Guido, a partire da un suo resoconto in prima persona della “situazione penosissima e grave” creatasi all’interno della lotta partigiana. Segue poi il discorso pronunciato da Pier Paolo al funerale e infine lo stralcio di una lettera a un amico, contenente informazioni dettagliate sulla strage di Porzùs, in cui ancora si ricorda con strazio la figura di Guido: “Non ha potuto sopravvivere al suo entusiasmo. Quel ragazzo è stato di una generosità, di un coraggio, di una innocenza, che non si possono credere. E quanto è stato migliore di tutti noi”.

La seconda parte del volume testimonia la partecipazione emotiva del poeta attraverso la sua produzione in friulano e in italiano (Il martire ai vivi, Còrus in muàrt di Guido, La passione del ’45), fino al primo accorato canzoniere, Odi in morte di Guido. Ecco alcuni tra i versi più appassionati ed emozionanti della raccolta: “Tu sei stato fanciullo per sempre / e intanto gli anni mutavano: / ecco, tutto è mutato. / La tua è la fanciullezza di un morto”, “In che giorno sia nato / nella tua vita il martirio / e senza scampo / ti abbia rapito alla tua casa / adesso è chiaro. / È chiaro il tuo volto ferito / è chiaro il tuo riso / è chiaro il tuo pudore / è chiara la tua elezione / è chiara la tua innocenza”, “Ah, non c’è confronto tra il tuo silenzio, / da quando non sei più figlio né fratello, / e ogni voce di questo mondo. / Resti indietro inascoltato…”, “I ti podevis salvati, / ma tu / i no ti às lassat bessoi / i to cumpains a murì (Potevi salvarti, / ma tu / non hai lasciato soli / a morire i tuoi compagni)”.

Infine, altri testi riportano stralci di lettere scambiate tra i vari componenti della famiglia Pasolini, o con altri personaggi ad essa vicini: testimonianze non esaustive della quantità e complessità dei documenti a disposizione negli archivi della Fondazione dedicata al poeta, ma senz’altro importanti per inquadrare una vicenda penosissima, anche da un punto di vista politico, che ha visto l’ingiusta morte di un diciannovenne trovatosi a “scegliere fra la sua vita e la libertà. E ha scelto la libertà, che vuol dire lealtà, generosità, sacrificio”.

 

«Gli Stati Generali», 13 settembre 2025

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