REMO PAGNANELLI, QUASI UN CONSUNTIVO – DONZELLI, ROMA 2017

Remo Pagnanelli, poeta e critico letterario, nacque il 6 maggio 1955 a Macerata, dove morì suicida il 22 novembre 1987, trentaduenne. Fondatore nel 1980 della rivista «Verso», esordì l’anno successivo come poeta con la plaquette Dopo, cui fecero seguito Musica da Viaggio, Atelier d’inverno e il poemetto L’orto botanico, per il quale ottenne il premio internazionale “Montale 1985”. Vennero pubblicati postumi l’ultima raccolta di versi Preparativi per la villeggiatura ed Epigrammi dell’inconsistenza. Tra i suoi scritti critici, due studi su Vittorio Sereni e su Franco Fortini. Nel 2000 Daniela Marcheschi curò per “Il lavoro editoriale” l’antologia Le poesie, e oggi la stessa Marcheschi ripropone per Donzelli una ricca scelta di versi di Pagnanelli tesa a indicare al lettore la compattezza tematica, la profondità meditativa e gli sviluppi della ricerca formale della sua scrittura, mettendo in luce come il giovane intellettuale marchigiano abbia vissuto la cultura “con uno slancio di integrale umanità, con una serietà di studi e generosità rare, [facendo] della poesia il crogiuolo della sua esistenza e dell’intera sua esperienza di uomo”.

Pagnanelli lesse con attenzione critica la maggior parte dei poeti italiani contemporanei, ricavandone insegnamenti estetici e morali, convinto com’era che la letteratura fosse necessariamente maestra di vita e occasione di crescita interiore: ad essa demandava soprattutto la riflessione sulle domande fondamentali dell’esserci, interrogandosi laicamente sul destino dell’uomo e sulla morte, sull’inconsistenza del reale e sull’imprevedibilità del caso, sul rapporto con la propria corporeità e sull’amore. Leggere oggi le sue poesie, così eticamente severe e crudelmente interrogative, alla luce della sua scelta finale è ovviamente pretestuoso e sbagliato: eppure la delusione per la banalità del quotidiano, per la sordità dei più verso la bellezza della natura e dell’arte, per la decadenza corrotta della politica per cui aveva nutrito ingenue aspettative, fece presto di lui e della sua lotta contro la banalità un combattente spuntato, sfinito. «L’hidalgo è stanco», scriveva in una delle ultime composizioni. Che possiamo commentare forse proprio partendo da quella che conclude il volume in questione, dal titolo umilmente dichiarato (Quasi un consuntivo): «La luce più vasta è il buio, / questo già lo sapevamo, / non la più penetrante però…, / come la luna ch’è un faretto, / sul palcoscenico all’aperto. / Centra e si sposta ovunque, / al contrario non si muove / ma è dappertutto la medesima. / Detto tutto».

La luce, il faro a cui guardare perché illumini la nostra strada, aldilà di ogni illusoria e semplicistica fede, è un richiamo costante in questi versi: «quella luce non la potrai raccontare / non c’è uomo o donna assiepati ad ascoltarla / dato che estremamente muore e dice addio…», «mi godo questa Luce ultima / della fine senza fine. // Profonda / quanto più nel ritrarsi / pare scalfire. / Che non possiede, / che spossessa le cose e te, / riducendo all’osso e al bianco. // Quant’altra sotto ne dorme / che la pioggia non offusca».

Consapevole della sua estraneità nei riguardi dell’esistenza comune («Mia ombra mio doppio, / talvolta amico ma più spesso / straniero che mi infuria ostinato, / mio calco che nessuna malta riempie…»), Remo Pagnanelli  sapeva di non poter contare su alcuna «divinità felpata» protettrice o consolatrice («Riprova Zaccheo, risali sul sicomoro / per vedere il Signore se mai passi»), e allora tentava di appellarsi alle persone intorno: amici, parenti, donne da amare, già certo di non poterne ottenere ascolto o aiuto: «Che altro di strabiliante chiedevo per me, / da lasciarvi tutti così sorpresi e non piacevolmente, / niente che già non si sapesse e di cui fosse / taciuto e da tanto», « ‒  starò, è certo, fra amici ma non / volevo dire questo, domandavo / ben altro». Eppure, superando ogni delusione, ogni ostica resistenza esterna, da poeta dell’interiorità qual era, riusciva a comunicare nella sua scrittura la splendida gratuità di ogni apparizione naturale, della luna come della vegetazione più minuta, delle sfumature umbratili del paesaggio, delle movenze leggiadre di «strane fanciulle», dell’attesa delle festività, del ricordo di gioie infantili: insomma qualsiasi «beltà ornata e beltà disadorna», erede in questo del luminoso esempio dell’amato Leopardi. «In questa fase dell’anno tutto sanguina. / Il fiume sfinendosi non s’inazzurra più, / lo percorre un alito di schegge cenere / che espelle gli ori del tramonto. // pare impossibile, ma dalla magrezza /degli olivi tremanti, dalla magrezza / arida e esangue, fluisce non so che / polline o sudore».

In uno stile tutto suo, classico senza essere tradizionalista, limpido e consueto nel lessico, indifferente a metrica, rime e artifici sintattici, rivelando talvolta qualche eco montaliana (ad esempio nel bellissimo trittico I lari), ma fatta propria e riassimilata con originalità, Pagnanelli si affidava a un ritmo modulato dal pensiero, perché era proprio la riflessione filosofica a costituire l’ossatura del suo poetare, condizionandolo, sorvegliandone le soluzioni stilistiche, con coerenza stringente. Testamentaria e tombale, indice del «rigore insanguinato» di cui si sapeva orgogliosamente vittima, ci appare una sua austera e razionale definizione della morte, che potrebbe essere assunta ad esergo dell’intero volume: «La morte sta nell’eliminazione di ogni suono e residuo linguistico. Di conseguenza non sarebbero praticabili incontro con ombre, dèi, fate, cioè alcuna consolazione da scribi. Attraverso questa porta senza referenti si può dimenticare e essere dimenticati, non possedere né essere posseduti. Addio storia, addio natura». Non dimentichiamolo, questo giovane favoloso e inflessibile. Continuiamo a leggerlo, a capirlo.

© Riproduzione riservata      «Il Pickwick», 13 gennaio 2018