ITZHAK KATZENELSON, CANTO DEL POPOLO YIDDISH MESSO A MORTE – FELTRINELLI, MILANO 2019

Itzhak Katznelson (Karėličy1886-Auschwitz 1944) è stato un poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto. Nato nel 1886 a Karėličy, vicino a Minsk, si trasferì presto con la famiglia a Łódź, dove crebbe e studiò letteratura. Fu insegnante e drammaturgo: fondò una compagnia teatrale con cui si esibiva in Polonia e Lituania, mettendo in scena suoi testi in yiddish ed ebraico. In seguito all’invasione nazista del 1939, riparò a Varsavia, dove fu recluso con la moglie e i tre figli nel ghetto, riuscendo comunque a crearvi una scuola per l’infanzia. Scampato alla deportazione e all’uccisione dei suoi parenti nel campo di Treblinka, partecipò alla sollevazione del Ghetto di Varsavia il 18 aprile 1943. Gli amici gli procurarono un passaporto falso per l’Honduras, ma prima che potesse mettersi in salvo la Gestapo lo catturò e rinchiuse nel campo di transito francese di Vittel: qui in due mesi compose il suo capolavoro in 900 versi, Canto del popolo yiddish messo a morte, nascondendo il manoscritto in tre bottiglie che sotterrò sotto un albero, da dove venne recuperato nel 1945 grazie alle indicazioni di una compagna di prigionia sopravvissuta, Miriam Novitsch, quindi pubblicato in francese per la prima volta a Parigi nello stesso anno. A fine aprile del 1944, Itzhak Katzenelson e il figlio maggiore Tzyi furono condotti ad Auschwitz e immediatamente inviati alla camera a gas il primo maggio dello stesso anno. Al poeta è stato intitolato il “Museo dei Combattenti dei Ghetti” ad Acri, nel nord di Israele.

Il suo Canto (Dos Lid, in yiddish) conobbe numerose traduzioni e ristampe in tutte le lingue del mondo. In Italia fu pubblicato privatamente a Torino nel 1966 (ediz. Amici di Lohamei Haghettaoth) con prefazione di Primo Levi, poi da Giuntina nel 1995, quindi da Mondadori nel 2009, e ora esce da Feltrinelli con traduzione e postfazione di Erri De Luca. Il testo si articola in quindici brani poetici, ciascuno composto da quindici strofe di quattro versi lunghi, che rievocano le tappe dell’annientamento dell’ebraismo polacco, dall’invasione nazista al rogo del ghetto di Varsavia. Primo Levi così ne scrisse, commentandone la tragica testimonianza di morte, disperazione, cieca e imperdonabile violenza: “È la voce di un morituro, uno fra centinaia di migliaia di morituri, atrocemente consapevole del suo destino singolo e del destino del suo popolo. Non del destino lontano, ma di quello imminente: Katzenelson scrive e canta nel mezzo della strage, la morte tedesca si aggira intorno a lui, ha già compiuto il massacro più che a metà ma la misura non è ancora colma, non c’è tregua, non c’è respiro: sta per colpire ancora e ancora, fino all’ultimo vecchio e all’ultimo bambino, fino alla fine di tutto”.

Si può scrivere mentre si assiste a un genocidio, in attesa della propria indifferibile scomparsa, dopo aver osservato inermi la distruzione di un popolo, il martirio delle persone più care? A un poeta non rimane che un unico modo di esprimersi: l’urlo di dolore, di rabbia feroce, di protesta contro il destino e contro il cielo immobile, nella rievocazione commossa di chi ha perduto. Alle vittime innocenti immolate dalla furia tedesca, Katzenelson chiede, prima di sparire a sua volta, di alzare un grido che risuoni in eterno, scuotendo le coscienze dei posteri:

“Come faccio a cantare se per me il mondo è vuoto? / Come posso suonare con le mani spezzate? / Dove sono i miei morti? / Cerco i miei morti, Dio, in ogni letame, / in ogni mucchio di cenere, ditemi dove siete. // Gridate, da ogni sabbia, gridate, da sotto ogni pietra / da tutte le polveri gridate e da tutte le fiamme, da ogni fumo. / C’è il vostro sangue e succo, c’è il midollo delle vostre ossa, / c’è vostra carne e vita. Gridate forte, in alto. // Gridate dalle viscere delle bestie selvatiche del bosco, dal pesce nello stagno. / Vi hanno inghiottito. Gridate dalle fornaci della calce, grandi e piccoli gridate. / Voglio da voi un grido di pericolo, un grido di dolore, una voce, / grida popolo yiddish messo a morte, grida e grida forte. // […] Venite tutti da Treblinka, da Sovibor, da Oshventshim, / da Belgiz venite, venite da Ponari e da altri posti ancora e ancora e ancora. / Con gli occhi fuori dalle orbite, un grido congelato di soccorso ma senza la voce, / dalle paludi, dal fango in cui foste sprofondati, dalle muffe marcite. // Venite, disseccati, tritati, macinati, venite, disponetevi / in cerchio, una ruota gigante intorno a me, un solo girotondo. / Nonni, nonne, padri, madri con i bambini in grembo, / ossa yiddish venite dalla polvere, dai pezzi di sapone. // Apparitemi, mostratevi a me tutti, venite tutti, / voglio vedervi tutti, voglio guardarvi, voglio / sul popolo mio messo a morte posare lo sguardo zitto / ammutolito. / Allora canterò, sì, ecco l’arpa, io suono”.

Canta in versi, Katzenelson, e ricostruisce la storia ebraica, a partire dal profetismo dell’Antico Testamento, cadenzato dalle implorazioni dei Salmi, già premonitore delle sofferenze del popolo eletto, per attraversare poi la diaspora, i pogrom medievali, e arrivare alle persecuzioni novecentesche, alla Shoah, al dolore collettivo dei giudei polacchi e a quello suo individuale: “Dolori voi v’ingrandite in me, crescete di misura / per quale tormento? Per trapanarmi dentro o per strapparvi via? / Non vi strappate via da me, dolori. Crescete dentro di me, state in silenzio, / zitti mentre mi lacerate, dolori miei che diventate grandi”.

Itzhak Katzenelson rivive nelle strofe del suo poema l’invasione nazista del ’39, la fuga disperata di intere popolazioni dalle proprie città, il tentativo di cercare scampo a Varsavia: quindi la reclusione nel ghetto con la paura di una cattura improvvisa, il sospetto nei riguardi dei vicini, le delazioni reciproche. Infine i rastrellamenti, le prime deportazioni, il freddo e la denutrizione degli scampati. Ricompone con nostalgia il ricordo della moglie Hanna e dei due bambini più piccoli che non è riuscito a salvare (“Ti ho chiamato fuori dalla tua pace, / non riposare, Hannele, che mai possa guarire in un dimenticare l’ulcera mia infinita. // Siediti qui con me, ti amo così tanto”), la rabbia contro i collaborazionisti e l’indifferenza degli ignavi, il rimorso per la propria vigliaccheria incapace di ribellarsi (“Guai a me, perché sapevo e i miei vicini pure e ogni e qualunque yid, / noi tutti, grandi e piccoli, dal vecchio al giovane, noi lo sapevamo. / Ma dalla bocca non è uscito niente, sst. / Hanna, se gli sparavo in quel momento, se in quel minuto avevo tra le mani di che farlo, / salvavo tutto il popolo, te, me stesso, pure i nostri bambini”.

Tutto ciò viene espresso dal poeta in tono concitato, impetuoso, privo di filtri. L’odio verso i nazisti invasori, capaci di affamare e trucidare infanti e anziani, fuoriesce irrefrenabile, come una maledizione e una condanna senza appello, che si estende a tutto il popolo tedesco, complice di ogni atrocità nel suo silenzio corrivo, e agli ebrei conniventi e corresponsabili dell’orrore: “Sfondavano le porte, irrompevano gridando per ingiuria ‘Aiuto, aiuto’ / dentro le case yiddish barricate, sollevando bastoni tra le mani. / Ci hanno scovati, bastonati e spinti nei vagoni … “.

Dio non c’è, in questi versi acri, esasperati, come fa giustamente notare Erri De Luca nel suo commento: Dio qui è una presenza irrilevante, muta, mai partecipe a ciò che accade: “È solo un bene che non esista un dio, anche se è male, assai, senza di lui. / Ma se ci fosse, pure peggio sarebbe”. La responsabilità degli eventi storici è solamente umana, di chi li provoca e di chi ci si adegua. Non esiste giustificazione per chi ha commesso e permesso la strage: “Per che cosa? Non chiedete, nessuno al mondo, eppure tutto, tutto chiede: per cosa? Per che cosa? / Ascolta, ascolta. // … C’è stato un popolo, c’è stato, e non esiste più. / C’è stato un popolo, c’è stato, e adesso niente”.

 

© Riproduzione riservata                  «La poesia e lo spirito», 24 maggio 2019