MARIO STERI, IL PADRE LONTANO? – IGNAZIO PAPPALARDO EDITORE, ROMA 2025
La parabola del figliol prodigo, narrata nel Vangelo di Luca (15:11-32), appartiene di fatto al patrimonio culturale dell’occidente, così come altre figure letterarie quali Ulisse, Amleto, Faust, riconosciuti simboli universali della natura umana, nella sua ricerca di un significato che oltrepassi il puro accadere dell’esistenza mortale. Il sacerdote salesiano Mario Steri (Cagliari, 1952) ha dedicato ad essa un corposo volume (Il padre lontano?, edito da Ignazio Pappalardo), che propone non tanto un commento esegetico, quanto una riflessione teologica intesa a coglierne il valore sapienziale, come rappresentazione simbolica delle vicende umane attraversate dai temi della colpa, del tradimento, del perdono.
Preceduta dalle due famose parabole della pecora perduta e della dramma smarrita, si allinea a loro nel significare il recupero di qualcosa che era andato perso, viene ritrovato e messo in salvo. Tre sono i personaggi che animano la narrazione di Luca: un padre e i suoi due figli, che entrambi ma in maniera diversa si erano allontanati da lui e da lui vengono riaccolti in un abbraccio misericordioso.
Il padre, a cui spetta il ruolo fondamentale della storia, è l’immagine di Dio che Steri presenta nelle sue caratteristiche essenziali e imprescindibili della trascendenza e della vicinanza.
Trascendenza come necessaria lontananza invalicabile, perché Dio è totalmente altro dal mondo, non addomesticabile e non riducibile ai pensieri e ai desideri dell’uomo (“al di là di tutto”, lo definisce San Gregorio di Nissa): la sua distanza è di tipo morale e ontologico rispetto alle creature, che rimangono in uno stato di dipendenza nei suoi confronti, nell’unico atteggiamento possibile e doveroso dell’adorazione. Non della richiesta, non della prepotenza, e nemmeno della conoscibilità: la lontananza di Dio ne preserva il mistero e l’inaccessibilità, pur essendo garanzia di libertà per l’agire dell’uomo.
Il padre della parabola di Luca, immagine di Dio, rimane nella sua casa, lascia che i figli si allontanino dalla dimora familiare: il minore, spinto da ribellione e volontà di indipendenza, partito “per un paese lontano” (makran, in greco), il maggiore fuori da solo a lavorare nei campi. Entrambi senza considerare il valore della distanza dal genitore e senza onorarla, chiedono rispetto dei loro diritti di figliolanza: l’uno pretendendo la sua parte di eredità da sperperare in modo dissoluto, l’altro esigendo per i propri servizi una ricompensa maggiore. Le loro pretese rispecchiano il fondamentale egoismo del do ut des, non esprimono amore né riverenza: in ciò consiste il loro peccato, nell’allontanamento e nella cieca rivendicazione.
Mario Steri indica nella contrapposizione dei loro comportamenti quella esistente ed esistita tra paganesimo (il minore trasmigra in un paese pagano) ed ebraismo (il maggiore esprime un rigidismo farisaico, obbediente a una logica padronale di interesse). Il padre “lontano” – aggettivo ribadito nel titolo del volume, ma giustamente accompagnato da un punto interrogativo –, non si impone, non contrasta, lascia fare. Li chiama “figli”, comprende la loro ribellione e non la castiga, ma alla fine esce di casa per avvicinarli: “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”, “Suo padre allora uscì a supplicarlo” (vv. 15, 20 e 28).
Il padre accorre, abbraccia, perdona, prepara un banchetto per entrambi ammazzando il vitello grasso. Da lontano e inaccessibile si fa vicino e amoroso, e appunto la vicinanza, oltre alla trascendenza, rappresenta secondo l’autore l’attributo peculiare della divinità e della paternità accogliente. Vicinanza come accettazione, premura, affetto, disponibilità. Il genitore della parabola così parla ai due figli irriconoscenti, gratificandoli: “Presto, portate qui il vestito più bello…mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato (vv. 22-24): “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo (v, 31).
L’autore osa suggerire un’ipotesi trascurata dagli esegeti: che in realtà i due fratelli siano un’unica persona, accomunati dal rifiuto, dalla presunzione e dall’egoismo, in un’unità caratteriale indistinta e percepita attraverso una sfasatura temporale. Uguale sono la loro protervia e la protesta, poi riassorbite nella conversione finale, nell’abbraccio pentito e nel banchetto escatologico, offerti dalla sovrabbondanza dell’amore paterno.
La riflessione teologica di Mario Steri si espande poi alla considerazione di altri fondamentali aspetti dell’azione di Dio nei riguardi dell’umanità, sempre dettati dal bene incondizionato: il suo rapporto con la storia, quella personale degli individui e quella collettiva delle società; la sua reazione al peccato degli uomini; il rispetto per il libero arbitrio; la fede, la conversione, il perdono come momenti caratterizzanti del rapporto tra il Creatore e il mondo.
La parabola narrata da Luca in sostanza vuole indicare l’incontro tra l’amore di Dio e l’amore dell’uomo, al di là delle fragilità e dei tradimenti di quest’ultimo. L’autore che ci aiuta a penetrarne il significato ha dedicato il suo lavoro “a chi cerca e ha chi ha trovato, a chi vuole cercare e a chi è stato trovato”, in una volontà reciproca di apertura e comprensione.
«La Poesia e lo Spirito», 7 settembre 2025