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RECENSIONI

CAPODAGLIO

ENRICO CAPODAGLIO, POESIA E PENSIERO NELLA COMMEDIA DI DANTE

METAURO, PESARO 2025

 

Nella Premessa al suo raffinato commento all‘Inferno dantesco, il Professor Enrico Capodaglio afferma di essersi accinto a questa ardua impresa spinto da ragioni “letterarie, morali e spirituali” e dal bisogno di comprendere e far comprendere in profondità il capolavoro dell’Alighieri, seguendo le indicazioni di illustri critici, quali Giorgio Petrocchi, Natalino Sapegno, Anna Maria Chiavacci Leonardi ed Enrico Malato. Sulle orme di questi eminenti studiosi, l’autore ha firmato il suo impegnativo volume Poesia e Pensiero nella Commedia di Dante, edito da Metauro. I 34 Canti dell’Inferno vengono interpretati in altrettanti capitoli, illustrando la situazione in cui si muove il sommo poeta, il suo abbandono fiducioso alla guida di Virgilio, gli incontri con le anime dannate, le difficoltà materiali dell’arduo cammino intrapreso, i timori, le attese, le speranze che si affollano nell’animo del viaggiatore attraverso gli abissi infernali.

“Dante cammina fin dall’inizio, è l’animale umano, non lo scrivente seduto ma l’uomo incarnato che si muove fisicamente nel mondo, non un animo che si muove soltanto dentro di sé: è un’allegoria incarnata spiritualmente, vicina al sentimento cristiano dell’incarnazione”. Capodaglio accompagna il procedere dantesco tra “la perduta gente” partecipando con osservazioni in prima persona, mettendosi in gioco con richiami alla propria esperienza di docente, cittadino, letterato, a volte rimproverandosi per l’eccesso di partecipazione emotiva: “Sto fantasticando, lo so; … Ma allora mi domando; … Scopro ora, lo confesso; … Eh no, qui mi ribello, come ricordo feci da ragazzo; … Stanotte ho dormito male, con sogni di insuccesso umilianti”.

Parla il critico, ma anche l’uomo che, immerso nella lettura, diventa tutt’uno con essa, lasciando che penetri nei suoi sogni e permei le sue giornate. Consapevole che “in Dante c’è la ripresa, la reazione, la rigenerazione: è il maestro di vita che guidando se stesso guida anche noi”, e ammirando lo stile della Commedia ne viene travolto: “È un vortice di moti contrari, un’altalena rapinosa, un ottovolante di passioni, descritte in modo sciolto e senza enfasi”. Puntuale è anche la sua attenzione ai dati storici, così come affiorano tra le pagine del poema: vengono analizzati e puntualmente ricostruiti nel loro contesto temporale e ambientale gli episodi che hanno tragicamente coinvolto l’esistenza di Dante, costringendolo all’esilio. La lotta tra Cerchi e Donati, i vari protagonisti della vita politica di Firenze e dell’Italia tutta (Bonifacio VIII, Farinata degli Uberti, Jacopo Rusticucci, Filippo Argenti, Cavalcanti, Ciacco, Brunetto Latini ecc.), odi e amori del poeta vissuti intensamente. Ma poiché “la Commedia è sempre e soprattutto opera di poesia e di pensiero libero, nel grembo cristiano”, è il messaggio spirituale del poema a coinvolgerlo particolarmente, da credente convinto e fiducioso in un prosieguo del cammino umano nell’aldilà: “Qualcosa in me segretamente si rigenera, che nessun capolavoro del novecento sarebbe in grado di sanificare, affidato alla dura e sapiente psicoterapia dantesca: il nostro futuro in un’altra vita dipenderà da noi, dalla nostra condotta”.

L’inferno esiste veramente? si chiede Enrico Capodaglio. E risponde, in accordo con Urs von Balthasar, che spera di no. Ma ne giustifica il grande significato di ammonizione e sorveglianza, nel senso di una tutela e di una direttiva dell’agire umano: “Potenti bisogni collettivi, forze straordinarie che si muovono nelle anime collettive, intese in senso non letterale e metafisico, spingono a elaborare e diffondere credenze come questa dell’inferno, che è un’immensa carta assorbente dei dolori”. Per tali radicate motivazioni, così l’autore in quarta di copertina giustifica il suo oneroso lavoro di commento e interpretazione del poema: “Sono stato mosso dal bisogno di comprendere e far comprendere la Commedia, in questa ottica di convivenza tra fede poetica e fede religiosa, che si arricchiscono a vicenda, generando un mondo che percorro come fosse vero… al fine di condividerne i frutti anche con coloro che non hanno avuto ancora la fortuna di studiare in modo intimo e radicale l’opera dantesca”.

 

«SoloLibri», 12 ottobre 2025

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

AAVV, GEDANKEN SIND FREI!

AAVV, GEDANKEN SIND FREI!

 

 

Nel 1899 Gustav Mahler (1860-1911) pubblicò una raccolta di ventiquattro lieder sotto il titolo Des Knaben Wunderhorn (Il corno magico del fanciullo), i cui testi erano più o meno direttamente tratti da un ciclo di poesie e canti popolari curati all’inizio del secolo da Clemens Brentano e Achim von Arnim, i quali intendevano con quest’opera rendere omaggio alla tradizione poetica orale tedesca dal medioevo al XVIII secolo.

Nel secondo gruppo della raccolta mahleriana, l’ottava delle dodici composizioni per voce e orchestra si intitola Lied des Verfolgten im Turm (Canto del perseguitato nella torre), ed è un duetto in cui un prigioniero rivendica perentoriamente la libertà di pensiero, arrivando a rinunciare per essa all’amore della sua fidanzata, che gli risponde con una melodia di intenso lirismo, invitandolo a recedere dai suoi propositi battaglieri per tornare a godere delle bellezze della natura e del profondo sentimento che li lega. La prima strofa del lied è strutturata in otto versi, così modulati con voce roboante dal protagonista rinchiuso nella torre: “Die Gedanken sind frei, / Wer kann sie erraten? / Sie rauschen vorbei / Wie nächtliche Schatten. / Kein Mensch kann sie wissen, / Kein Jäger sie schießen; / Es bleibet dabei, / Die Gedanken sind frei” (“I pensieri sono liberi, / chi può indovinarli? / Passano di corsa / come ombre notturne. / Nessun uomo può conoscerli, / nessun cacciatore colpirli; / questo è certo: / i pensieri sono liberi”). Il ritornello Die gedanken sind frei (I pensieri sono liberi) viene ribadito dal prigioniero alla fine di ogni strofa, insieme all’orgogliosa constatazione del suo stato di recluso, ingiustamente perseguitato da un potere tiranno: “Penso cosa voglio e cosa mi piace / ma tutto in silenzio e come si conviene. / Quel che voglio e desidero nessuno lo può impedire, / questo è certo: i pensieri sono liberi! // … Se anche mi rinchiudessero in una buia galera / sarebbe un’azione inutile / perché i miei pensieri spezzano le sbarre / e i muri in due: i pensieri sono liberi!”

Mi è tornato alla mente questo lied alcune sere fa, ascoltando uno degli ospiti di un talk show televisivo chiedersi per quanto tempo potremo ancora pensare ed esprimerci apertamente e con indipendenza, senza venire sorvegliati, emendati e censurati in quello che diciamo e scriviamo dalle nuove tecnologie imperanti o da poteri più o meno occulti. Sono andata quindi a cercare informazioni sul testo di Mahler, scoprendo che si tratta di una canzone di protesta diffusa in fogli anonimi alla fine del ’700 nell’area alpina di lingua tedesca (Baviera, Austria, Svizzera tedesca, Südtirol). Venne musicata intorno al 1810, e stampata nella raccolta Lieder der Brienzer Mädchen a Berna, per essere poi pubblicata nel 1842 nella versione che conosciamo in Schlesische Volkslieder da August Heinrich Hoffman von Fallersleben. Il motivo centrale risale però a un periodo molto precedente al romanticismo, addirittura al Medioevo: già il poeta e cantore cortese Walther von der Vogelweide (ca.1170-1230) cantava Sind doch Gedanken frei, mentre il Minnesänger austriaco Dietmar von Aist gli faceva eco pochi anni dopo: Die Gedanken, die sind ledig frei. Il testo risulta reperibile in Freidank (Bemogenheit, 1229). Veniva cantata in altre tonalità, secondo diverse testimonianze, durante la rivolta contadina del 1524/25.

Ha attraversato da allora in poi tutti i momenti in cui in Germania il popolo si è opposto all’oppressione, dalla rivoluzione del 1848 alla resistenza al nazismo, che ne vietò la diffusione, pena il carcere: diventò comunque l’inno del movimento studentesco “Weisse Rose” (Rosa Bianca), che nel 1942/43 si ribellò a Hitler e fu soffocato nel sangue. La canzone è stata ripetutamente ripresa in momenti cruciali di lotta popolare e nelle manifestazioni contro la repressione nel corso di tutto il ’900. Il 9 settembre 1948, al culmine del blocco di Berlino, Ernst Reuter pronunciò un discorso davanti alle rovine del Reichstag, in cui fece appello ai “popoli del mondo” affinché non abbandonassero la città. Dopo questo discorso, la folla intonò spontaneamente Die Gedanken sind frei. Nel 1989, durante la rivoluzione pacifica nella RDT, la canzone fu suonata dai membri dell’Orchestra di Stato di Dresda sulla Theater Platz di Dresda, insieme a migliaia di dimostranti. Nel 1966, il cantante folk americano Pete Seeger ne registrò una versione inglese per il suo album Dangerous Songs. Molti altri artisti e gruppi (Dean Reed, Leonard Cohen, Christof Stahlin, KeinMenscH!, Nena, Evelyn Fischer, Lea) hanno esaltato la tradizione secolare del canto sovversivo. Il 10 dicembre 2010, i sostenitori dello scrittore Liu Xiaobo, incarcerato, hanno interpretato la canzone in inglese di fronte all’edificio in cui gli è stato conferito in contumacia il premio Nobel per la pace. In seguito all’attacco terroristico alla redazione della rivista francese Charlie Hebdo nel 2015, gli artisti alsaziani hanno utilizzato il testo per esprimere la loro resistenza all’intimidazione di matrice islamista.  Il 21 maggio 2017, a Francoforte sul Meno, si è tenuta una lettura di solidarietà per l’autore Deniz Yucel, imprigionato in Turchia, con l’esibizione canora di Jan Boehmermann. Il 15 febbraio 2019, il canto è stata eseguito in tedesco e francese durante la cerimonia funebre per Tomi Ungerer nella cattedrale di Strasburgo. Nel marzo 2019, è stato ripetuto da molti giovani durante diverse manifestazioni nell’ambito delle proteste contro la riforma del diritto d’autore dell’Unione Europea. Dal 2020, è stato riproposto frequentemente contro le misure di contenimento della pandemia di COVID-19.

Una lunga e combattiva storia, dunque, sta alla base di questo motto libertario e democratico, riportato in auge da Mahler, al quale va tuttora la mia gratitudine, perché in anni per me molto dolorosi – emotivamente e psichicamente – mi è venuto in soccorso con gli adagio delle sue sinfonie, e con i messaggi (angosciati, sì, ma anche ricchi di indignata ribellione) dei suoi lieder, Riascoltando adesso l’energica e inflessibile affermazione del suo perseguitato nella torre, sento il desiderio di unire la mia voce al coro: Gedanken sind frei, nella speranza che tali rimangano sempre.

 

 

Riferimenti:

 

 

«Gli Stati Generali», 12 ottobre 2025

 

 

 

Melodia e testi di Gedanken sind frei, da: Canzoni popolari della Slesia con melodie: Dalla bocca   del popolo di August Heinrich Hoffmann von Fallersleben , Ernst Heinrich Leopold Richter , p. 307; Pubblicato da Breitkopf & Härtel , 1842

 

Canzoni contro la guerra: https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=810

 

Alida Airaghi, https://www.glistatigenerali.com/cultura/letteratura/grinzing-lautobus-era-il-n-38/

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VALLORTIGARA

GIORGIO VALLORTIGARA, DESIDERARE – MARSILIO, VENEZIA 2025.

Non appare facilmente definibile l’ultimo libro pubblicato dal Prof. Vallortigara (e prima sua prova narrativa), che si muove con elegante disinvoltura tra i modelli del saggio e del romanzo.

Giorgio Vallortigara (Rovereto, 1959), neurobiologo noto a livello internazionale, autore di innumerevoli articoli scientifici e di molti volumi divulgativi di successo, oggi è Professore di Neuroscienze al Center for Mind/Brain Sciences dell’Università di Trento.

La trama di Desiderare (verbo declinato all’infinito, quasi a esprimere un auspicio non quantificabile o limitabile, oppure un invito imperioso…) si sviluppa su due binari, uno inserito nella contemporaneità, l’altro riportabile all’epoca vittoriana inglese. I luoghi che fanno da sfondo alle vicende narrate sono infatti Brighton, Londra, Cambridge, Trieste, Padova, Capri, Erice, Rovereto. Gli ambienti in cui si muovono i molti personaggi sono decisamente esclusivi: grandi ville padronali, istituti e università scientifiche d’élite, alberghi di lusso, feste in salotti prestigiosi, congressi selettivi. Come afferma a un certo punto il protagonista principale Itzhak, alter ego dell’autore: “Alla nostra età siamo autorizzati all’agio e all’indisciplina ideologica”. L’agio raccontato nel testo è innegabile; l’indisciplina ideologica, meglio qualificabile come incontinente curiosità intellettuale, è altrettanto reale. Infatti i campi del sapere che vengono affrontati, discussi e sezionati con affilatissimi strumenti esplorativi, spaziano da quelli più peculiarmente scientifici (biologia, genetica, medicina, astronomia, fisica, chimica, psicanalisi) ad altri più distesamente umanistici (arte, architettura, letteratura, filosofia, teologia), con un’elencazione davvero impressionante di figure illustri, di aneddoti curiosi e pettegolezzi, di titoli, brani in prosa e in versi riprodotti a suffragare le tesi esposte nei vari capitoli.

Anche lo stile della scrittura di Vallortigara evidenzia un gusto raffinato per la ricercatezza di sostantivi e attributi, talvolta desueti o addirittura arcaici, spessissimo inerenti a una terminologia specialistica di ambito scientifico. Il lettore avverte affiorare qua e là toni ironici e pungenti, mentre diffusa ovunque è la sensibilità attenta ai dettagli, colti nella descrizione di esterni/interni e di persone. Luci, colori, arredamenti sono tratteggiati con cura; le espressioni dei visi e le posture dei corpi vengono delineati con cruda esattezza. Stupisce, ad esempio, l’interessamento costante che l’autore rivolge alle dita dei suoi personaggi: lunghe e affusolate, oppure tozze e respingenti; a ventaglio, unghiute, appoggiate delicatamente alla fronte o al naso, inanellate, intrecciate tra di loro, o esploranti le intimità più seduttive.

Chi è quindi Itzhak, questo personaggio eclettico, colto, che agisce nei dialoghi, nei gesti, nei pensieri con una sicurezza invidiabile, e un’inscalfibile padronanza di sé? Nativo di Ferrara, si definisce uno storico della scienza, ma in realtà rivela competenze eccezionali non solo nell’indagine del sistema nervoso, della memoria, e della coscienza negli esseri viventi, ma in tutte le ramificazioni della cultura. È interessato, fisicamente e intellettualmente, a Sylvia (giovane ex-matematica passata allo studio dei computer e assunta in una società farmaceutica per occuparsi di sicurezza investigativa), con cui vive una sessualità coinvolgente e disimpegnata, sfuggente nella sua saltuarietà. Intorno a Itzhak ruotano altre figure: il vicentino Pietro Ongaro, professore espatriato in Inghilterra, concreto e graffiante; il grande scienziato Patrick de Gray, misterioso e arrogante, protetto dall’alone sibillino della madre Contessa, dalle inclinazioni e potenzialità insolite; l’ombra del geniale amico Vittorio, suicidatosi in circostanze oscure, di cui un millantatore sconosciuto aspira a fare le veci. Sarà compito del protagonista Itzhak smascherare quali simulazioni e inganni si celano nelle vite di chi lo circonda. Altro suo incombente impegno è la stesura di un romanzo riguardante la personalità fascinosa di Douglas Spalding, biologo britannico che nell’ 800 studiava il comportamento degli animali, vivendo nella lussuosa dimora di Lord John Amberley Russell, come amante ufficiale della di lui moglie Kate e precettore dei loro figli Frank, Rachel e Bertrand Russell. Spalding fu lo scopritore del fenomeno dell’imprinting, cioè dell’interazione tra apprendimento e istinto nel comportamento animale, ben prima del suo epigono Konrad Lorenz: entrambi mitici riferimenti degli interessi scientifici di Itzhak. Interessi che emergono in quasi ogni pagina del libro, ne costituiscono l’ossatura portante, spesso arrivando ad appannare la trama puramente narrativa.

Così i discorsi tra amici diventano colte e talvolta polemiche dissertazioni accademiche, mentre i comportamenti di api, topi, opossum, anguille, maialini, gabbiani, zecche, e in particolare di pulcini e galline vengono analizzati con meticolosità chirurgica (è opportuno ricordare a questo proposito i recenti volumi divulgativi di Giorgio Vallortigara, Cervello di gallina e I pulcini di Kant).

Gli esperimenti di laboratorio descritti anche nella loro crudezza – dissezioni, perforazioni del cranio, mutilazioni – risultano coinvolgenti e insieme inquietanti per la loro trasferibilità sugli umani. L’indagine scientifica viene costantemente applicata dall’autore a ogni fenomeno più o meno rilevante dell’esistenza: dalla passeggiata sul lungomare di cui si contano i passi alle varie fasi del trasporto amoroso, dall’ancheggiamento delle modelle nelle sfilate di moda alla magica sonorità di un violino, dal colore dei fiori in un parco ai fluidi trasmessi con il bacio.

“Dopo che ha raddrizzato le spalle, sulla schiena le si forma una curva sigmoidea che si allaccia al principio dei glutei”; “Lo guarda di sottecchi, le palpebre abbassate riducono le sclere a ellissoidi che cercano di metterlo a fuoco”; “La ghiandola tiroidea dev’essersi risvegliata nelle ultime settimane: ne riconosce la firma quando le sue risposte motorie, gli effetti, sono così veloci da precedere la consapevolezza degli stimoli che ne sono stati la causa”.

La compenetrazione tra invenzione narrativa e informazioni scientifiche è talmente intensa e vitalizzante, che appare in tutta la sua veridicità la frase che l’autore fa pronunciare a uno dei suoi personaggi: “La scienza è sempre stata un’attività riservata a pochi: noi guardiamo dall’alto in basso anche Dio… Per quelli come me fare lo scienziato non è un lavoro, ma una condizione dell’anima”.

Giusto suggello a un romanzo sapiente, impegnativo, decisamente originale anche e soprattutto nei suoi effetti imprevedibilmente spiazzanti.

 

«Gli Stati Generali», 9 ottobre 2025

RECENSIONI

FERRAZZOLI

MARCO FERRAZZOLI, RIDUZIONE DEL DANNO – GATTOMERLINO, ROMA 2025

Il volume che Marco Ferrazzoli ha da poco pubblicato per le edizioni romane Gattomerlino (Riduzione del danno. Rime, versi, distici ed epigrammi) si inserisce in una tradizione millenaria di letteratura satirica, comico-burlesca, realistica, dissacratoria, alternativa alla narrativa e alla poesia aulica, lirica, spirituale, intimistica, assertiva e convenzionale. A partire dal latino di Lucilio, Orazio, Marziale e Giovenale, attraverso i medievali Filippi, Angiolieri, Berni; dai rinascimentali (Ariosto, Tassoni, Folengo) ai settecenteschi e illuministi (Parini, Giusti); dai romantici e popolareschi dialettali  (Porta, Belli, Pascarella, Trilussa) fino alle espressioni novecentesche del futurismo (Farfa, Lucini, Folgore, Palazzeschi) per arrivare infine ai contemporanei Sanguineti, Giuliani, Maraini, Niccolai, Scialoja, Ingarrica, Petrolini, Flaiano, Marchesi, Eco,  tutta una linea ben marcata della nostra letteratura ha evidenziato una tendenza ironica e irriverente nei confronti non solo del malcostume politico e sociale, delle istituzioni e delle ideologie, ma anche dei canoni culturali e delle strutture comunicative più affermate e rispettate. Sulla scia di cotanta encomiabile produzione, Marco Ferrazzoli dedica 22 sferzanti capitoletti a commentare usanze e mancanze nazionali, in versicoli, epigrammi e poesie disinvoltamente zoppicanti e demenziali, utilizzando le tecniche retoriche più collaudate (giochi di parole, calembour, divertissement, anagrammi, rime, rimandi lessicali, onomatopee, assonanze-dissonanze, etimologie…), per creare parodie canzonatorie e sbeffeggiamenti in grado di suscitare nei lettori sconcerto o puro divertimento, riprovazione o sogghigno.

Nato a Roma nel 1964, giornalista professionista a lungo capo ufficio stampa del CNR di cui è ora dirigente tecnologo, Ferrazzoli è attualmente in comando alla Presidenza del Consiglio; insegna Comunicazione della conoscenza all’Università di Roma Tor Vergata e al Master di Comunicazione scientifica dell’Università di Parma, è autore di narrativa e di un imprecisato numero di articoli, saggi e lavori multimediali. “Si è messo a scrivere perché non sapeva né leggere né vivere”, dice di sé in apertura di volume, rincarando la dose di impietosa autoironia in diversi successivi bozzetti: Coerenza: “Com’ero allora così sono adesso / sono rimasto sempre lo stesso. / Per questo non posso / non darmi del fesso”; Torno a dormire: “Oddio, ho sbagliato / mi sono svegliato”.

I versi e gli epigrammi più incisivi e polemici stigmatizzano, con qualche nostalgia per il passato, comportamenti sociali stupidamente imitativi, abitudini-mode-linguaggi codificati e accettati supinamente. Ecco quindi Lessico misto: “Un tempo una persona / era allegra e simpatica, / oggi è solare e tonica”; Riduzione del danno: “Da qualche tempo per il Capodanno / si augura un nuovo anno sereno. / Come se la speranza tirasse il freno / come se ci contentassimo di meno, / una specie di riduzione del danno”; Tutto inutile: “Non ho mai fumato / ho bevuto poco / mangiato sempre sano / e fatto tanto sport. / Perché mai sono mort?”; Non luoghi: “Un tempo in ogni paese / trovavi piazze e chiese / cinema, teatri, case / scuole e municipio / caserma ed ospedale. / Oggi, l’unico centro / è quello commerciale”.

Ci sono poi divertenti parodie di fenomeni culturali, o pseudo-imitazioni letterarie: Quasi (a) modo: “Basta una cassetta / col coperchio di vetro / qualche seme / un pochino di terra. / Ed è subito serra”; Chiusura ermetica: “Esattamente nel momento / in cui mi aspergono d’incenso / “m’illumino d’immenso”; Alta quota: “In Zarathustra, Nietzsche dice / che l’uomo è una corda tesa / c’è chi fa il funambolo / e chi ci tiene la biancheria appesa”; Cortesie per recensori: “Se il pamphlet è facile / meglio dire agile, / se il tomo è faticoso / definirlo ponderoso”; No bel: “Lo danno a Fo /e a Bo no? Boh…”.

Si sorride di tutto, sempre con una punta di disillusione: guerra e pace, salute e malattia, religione e scienza, turismo e spettacolo, matrimonio e divorzio. A volte l’abilità linguistica di Ferrazzoli si esibisce in pregevoli scioglilingua, come in Rimestando: “Incassati scontrini scontati / incrociati scostanti contratti / incastrati costanti contatti / scostati scontrosi cretini / scansati crostini incrostati”, o in calembour: La domestica smemorata: “Lavò la mattina / e scivolò la sera: /c’era la cera”. Altre volte invece affiorano sconsolate meditazioni filosofeggianti: Basta, grazie: “Ogni giorno ha la sua pena qualcuno, però, più di una”; Il meglio è nemico del bene: “Si dice “passare a miglior vita” / ma in genere prolungare la peggiore / sarebbe la soluzione più gradita”; Non è quasi mai troppo tardi: “Infarto: letale ritardo / nell’arrivo al reparto”. Sempre spiazzante risulta lo scarto tra titolo e testo: Una strage: “Innocenti, attenti / che a Erode gli rode”; Fatti, non parole: “Padre perdona loro / perché non sanno / di cosa si fanno”.

Spietatezza, malignità? No certo, ma disincantata contrarietà, e un dileggio che difficilmente arriva a essere caustico sarcasmo. Persino nella dedica iniziale all’amata sorella che non c’è più, Marco Ferrazzoli riesce a fare dell’ironia su se stesso, pur di evitare la retorica: “A Daniela, che era buona il libro più cattivo (per ora) di suo fratello”.

 

«Gli Stati Generali», 1 ottobre 2025

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ECO

UMBERTO ECO, RIFLESSIONI SUL DOLORE – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2025

Con l’abituale e riconosciuta vastità di riferimenti culturali, unita a verve e ironia, Umberto Eco (Alessandria 1932-Milano 2016) in una lectio magistralis tenuta all’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa nel 2014, aveva esposto alcune riflessioni personali sul tema del dolore, oggi riproposte in un libricino pubblicato da La nave di Teseo.

La sofferenza (fisica, psicologica, morale), strettamente collegata alla presenza del male nel mondo, è un’esperienza individuale e collettiva universale, perenne e inestinguibile: Eco qui la esplora attraverso un affascinante itinerario – tra filosofia, poesia, arte, letteratura e spiritualità – non solo nel suo indubbio carattere di negatività, ma anche come possibilità di salvezza e redenzione

A partire dalla mitologia greca, e precisamente da Eris, dea dell’oscurità, fomentatrice di odio e discordie, madre di varie divinità ostili, tra cui Algea (generatrice di dolori), tutte le filosofie e le religioni del mondo si sono interrogate sulla natura del dolore, sulle sue cause e finalità, sui rimedi atti a combatterlo. Pene dell’anima e pene del corpo si influenzano a vicenda, tormenti d’amore e afflizioni per un lutto hanno indubbiamente riflessi avversi sulla salute, così come le indisposizioni fisiche (dal mal di denti alle malattie più gravi) rendono malinconico l’umore, provocano depressione, fino a minacciare la salute mentale. Già dall’antichità sembrava più facile curare il malessere fisico (i medici ippocratici in Grecia lo facevano utilizzando metodi naturali e farmaci vegetali);  problematico risulta tuttora trattare il dolore morale, che si presenta di volta in volta come nostalgia, melanconia, rimpianto, rimorso, angoscia. Su questo tipo di sofferenza si sono intrattenuti i primi filosofi occidentali, dapprima Democrito e poi gli stoici e gli epicurei, che raccomandavano di perseguire l’euthymìa, l’atarassia e l’apatia, cioè la moderazione e l’equilibrio, per arrivare all’imperturbabilità. Anche Aristotele, nell’Etica Nicomachea, scriveva che “Il saggio cerca di raggiungere l’assenza di dolore, non il piacere”.

Con il Cristianesimo il valore dato alla sofferenza, soprattutto corporale, assume un significato positivo e una funzione salvifica, come strumento di redenzione nella sua accettazione rassegnata e addirittura gioiosa. Il modello cui deve ispirarsi il vero cristiano è l’imitazione di Cristo (del Christus patiens, Christus dolens: flagellato, crocefisso, agonizzante), da perseguire fino al sacrificio estremo dei martiri e degli eremiti, celebrati da Agostino e Tertulliano.

Nel Medioevo, sia la predicazione verbale sia le immagini nei luoghi sacri tendevano a ricordare l’imminenza e l’inevitabilità della morte e a coltivare il terrore delle pene infernali, tema particolarmente sentito in quei secoli in cui la vita era più breve di oggi, e minacciata da pestilenze, carestie, guerre e saccheggi permanenti, da cui ci si proteggeva con varie forme di penitenza (cilici, flagelli, digiuni), considerando il soffrire come occasione e promessa di salvezza. Con lo sviluppo della medicina rinascimentale, l’afflizione fisica appare non un bene da perseguire ma un male da eliminare, utilizzando tutte le conoscenze scientifiche a disposizione per diminuirla: al contrario, i filosofi e gli scrittori europei dal romanticismo in poi recuperano laicamente il significato del dolore come strumento di conoscenza di sé e del mondo. Fichte, Hölderlin, Hegel, Schelling, Nerval, Schiller, Leopardi, Schopenhauer, Dostoevskij, Nietzsche, Proust ritrovano nel sentimento del tragico un mezzo di scavo interiore per interrogarsi sullo scopo del vivere, sulla condizione della miseria umana, sul limite imposto dalla morte.

Forse solo nel ‘900 si è tornati giustamente a considerare il dolore, fisico e psicologico, come qualcosa da superare e abbattere, e non più una condanna ineliminabile. In questo la scienza ha favorito un cambiamento positivo nell’atteggiamento con cui ci si pone di fronte alla sofferenza, utilizzando la ricerca scientifica per alleviare le tribolazioni causate dalle malattie e per ridurre le pene dello spirito, come l’ansia o il panico. Concludendo la sua disamina del patire umano, Umberto Eco afferma che andrebbe incoraggiata un’educazione culturale al dolore, perché le persone imparino ad affrontarlo e ad accettarne la funzione biologica, in primo luogo approfondendone cause e rimedi.

 

«Gli Stati Generali», 23 settembre 2025

 

 

RECENSIONI

PENNA

SANDRO PENNA, UN PO’ DI FEBBRE – MONDADORI, 2019.

Colgo l’occasione dell’opportuna e nuovissima pubblicazione mondadoriana in edizione economica delle Poesie di Sandro Penna (Perugia 1906- Roma 1977) per proporre una rilettura delle sue prose uscite nel 2019 con il titolo di Un po’ di febbre. Entrambi i volumi sono risultati da una ponderata scelta dello stesso autore, che così commentava l’antologia poetica del 1973: “Queste sono le poesie che al di fuori di qualsiasi critico io stimo più di tutte. Sarebbero insomma quello che io lascerei ai posteri se posteri esisteranno”. I posteri, che continuano ad amare i suoi versi (e come non amarli?) per fortuna esistono e resistono. Un po’ di febbre raccoglie racconti e pagine di diario, scritti dal 1939 al 1941, in cui si ritrovano i temi tipici di tutta la produzione penniana: l’esaltazione della corporeità, lo stupore per qualsiasi bellezza fisica e naturale, la delicatezza dei sentimenti, la luminosità del paesaggio e l’icona del fanciullo, puer aeternus, simbolo di un’infanzia da celebrare nella sua innocenza primitiva.

Giustificando la propria personale selezione, il poeta umbro così si era espresso: “Queste pagine attestano un rapporto febbrile con la realtà e con il mio lavoro di poeta e le ho sistemate, non secondo un ordine cronologico, poco rilevante, ma una progressiva chiarificazione; per il lettore ovviamente e non per me”. Chiarificazione non tanto stilistica, c’è da immaginare, dato la coerente e costante liricità della sua prosa, quanto sentimentale, accomunante il trasporto emotivo nei riguardi di ciò che a lui pareva degno di attenzione, sgomento, suggestione, meraviglia. “L’atteggiamento percettivo”, di cui parla Roberto Deidier nella sua appassionata introduzione al volume (con commosse parole di poeta che legge e interpreta un poeta), è del tutto evidente in questi racconti, nell’applicazione concentrata con cui l’autore osserva e segnala ciò che appare ai suoi cinque sensi: ogni movimento, espressione, suono, parola, profumo, contatto fisico. Anche quando non attuale e presente, ma rivissuto e riassaporato nella memoria, come viene ribadito nell’uso frequente dei verbi all’imperfetto: andavo/a, guardavo/a, parlavo/a…

Da “flâneur impenitente”, Sandro Penna cammina a lungo e ovunque, si sposta in tram, in corriera o in treno, scruta ed esplora, studia strade, spiagge, fiumi, campagne, osterie, si ferma a parlare con tutti, entra nei negozi e chiede informazioni, non si sottrae a qualsiasi fenomeno atmosferico, dal caldo asfissiante al piovasco leggero fino al diluvio più inclemente. Ma soprattutto appare sensibile alla luce, al chiarore del cielo, all’aria limpida e frizzante. Più di quaranta sono le reiterazioni del sostantivo luce, spesso accompagnato da aggettivi (turchina, fresca, tenera, estiva), oppure riferito agli sguardi e ai sorrisi: “una felice luce canzonatoria negli occhi vividi; gli occhi avevano sempre quella luce scintillante e infantile; la luce era nei denti e nelle labbra perfino”. Come non ricordare i quattro versi semplicissimi, pacati e straordinariamente felici di una sua poesia in cui il mare risplende di una pace serenamente raggiunta e illuminata? “Il mare è tutto azzurro. / Il mare è tutto calmo. / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo”.

Quest’ansia di luminosità, di leggerezza, di candore cercata e amata nell’aria intorno, è ovviamente simbolo e sintomo dell’aspirazione all’innocenza che Penna cercava di trovare sia nell’ambiente naturale, sia nei rapporti personali istintivi e meno costruiti, sia nella visione e frequentazione di adolescenti non ancora corrotti dalle abitudini e dalle imposizioni degli adulti. “Pensavo come evidenti siano le ragioni dell’amore che tutti portiamo ai giovani. Essi hanno la vita, che a noi tutti piace. E non hanno altro piacere che di scambiarla con la nostra povera noia. Vendono una merce preziosa e sovrabbondante, e non hanno bisogno di essere pagati. Di nessuna moneta hanno essi bisogno. Non hanno nulla da comperare”. Un inno alla vita in tutte le sue manifestazioni, talvolta anche le più torbide, ma rese meno brutali dalla profondità del sentirsi parte di un’esistenza condivisa nel bene e nel male del mondo: “Eppure la vita, ogni giorno, fosse sotto un ardente sole, fosse sotto una pioggia autunnale, ci dà, vuol dare ad ogni costo una smentita alla nostra stupida noia, un fresco bacio ora sulla casta fronte, ora sulla fervida bocca”.

Ne abbiamo testimonianza in molti racconti in cui il poeta avvicina dei ragazzi, sentendosi appagato dal solo guardarli, e non restando mai avvilito o contrastato dalla loro totale indifferenza. Spesso è un desiderio fisico, il suo, che sfiora i corpi, turbato, ma non si impone e non si impossessa. Lo sguardo che posa su questi adolescenti è ansioso, stupito, emozionato, a partire dal testo iniziale, in cui il cuginetto Quintilio (“esile e dritto… calmo e lucente”) lo saluta scontrosamente da lontano; così il bruno bigliettaio del vaporetto di Venezia, e ancora il contadinello grossolano osservato in biblioteca, il neghittoso garzone di un bar, l’apprendista del barbiere, i giovincelli seduti al cinema, i marinai che fanno a botte per scherzo e ridono di lui. In questo modo li descrive: “Il ragazzo si volse appena, e allungandosi di più sulla poltrona tirò dalla sigaretta una boccata più languida che mai. I suoi capelli erano proprio quelli dei giovinetti delle statue antiche, e tutto il resto era forse lo stesso con in più il fuoco di quegli occhi e di quella sigaretta nel crepuscolo romano”, “si vedrà quel suo sorriso, quel suo ripiegare la testa dolcemente e malinconicamente e subito dopo, ma subito subito, esplodere in risate aggressive dolcemente, come una grandine primaverile”, “Niente di femminile. Niente di estranea durezza virile. Tutta infantilità. Ma tutta grazia così, come un gatto, un bimbo, inconscia”, “il fanciullo – che è una nuvoletta di riccioli neri coi soliti occhi da meraviglia e il solito colorito di cielo”, “Due ore e più sempre a camminare e durante le quali ho avuto la forza di non toccarlo, di non fare un ragionamento che la triste legge direbbe poi corruttore. Egli è un angelo e non voglio descriverlo … avevo paura della sua bellezza”.

Quando il poeta riconosce in se stesso il peccato, e confessa i suoi rapporti mercenari, allora maledice malinconicamente di non poter semplicemente amare, e di doversi accontentare di avventure fugaci, talvolta umilianti: “A me solo è negata la vera felicità… Per me la legge consente il vizio, non consente il puro amore”. Indifferente alla politica e ai mutamenti sociali, in anni turbinosi di scontri violenti, sangue, repressione, Sandro Penna viveva una classicità senza tempo, quasi mitologica, e le figure che tratteggia, gli episodi che racconta, sfumano in un ideale estetico di armonia e inviolabile purezza: “Fanciullo bello della bellezza delle mie più belle poesie. Tutto è in te delicato senza opulenze e la tua linea semplice e un po’ acerba è così poco amata dal volgo. Hai l’armonia della più grande e più semplice bellezza”.

 

«Gli Stati Generali», 19 settembre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PASOLINI

PIER PAOLO PASOLINI, LETTERA AL FRATELLO E ALTRI SCRITTI

GARZANTI, MILANO 2025

 

Garzanti raccoglie in un piccolo volume testi di Pier Paolo Pasolini, in parte già noti, dedicati al fratello minore Guido, ucciso il 12 febbraio del 1945, poco prima della fine del conflitto mondiale, nel corso di un atroce e controverso episodio della Resistenza, l’eccidio di Porzûs, in cui diciassette partigiani delle Brigate Osoppo furono trucidati da un gruppo di combattenti delle Brigate Garibaldi alleati agli sloveni di Tito, per motivazioni politiche non legate alla lotta contro il nazifascismo. Guido era entrato in clandestinità nel maggio del 1944, subito dopo aver conseguito la maturità scientifica a Pordenone, assumendo il nome di battaglia di “Ermes”. Catturato il 7 maggio del ’45 da un gruppo di partigiani comunisti appartenenti ai GAP friulani, fu processato in modo sommario, e fucilato. Il suo cadavere venne riesumato alla fine della guerra insieme a quelli delle altre vittime dell’eccidio, e il funerale fu celebrato nel giugno dello stesso anno. Ora riposa nel cimitero di Casarsa, a pochi metri dalle tombe di Pier Paolo e della madre Susanna.

Lettera al fratello e altri scritti è organizzata intorno a tre temi principali: storico, artistico, famigliare. Si apre proprio con il commovente testo della lunga missiva del poeta, da lui definita “diario”, scritta giornalmente dal 12 al 18 maggio del 1945, e ritrovata in un fascicolo con il titolo  Scartafaccio Aprile 1945-Dicembre 1945, lasciato nella vecchia casa di Casarsa e recuperato – con altri materiali cartacei – solo dopo il 1975.

Destinatario spirituale della lettera è l’amato ragazzo “pieno di una bontà senza mondo”, da allora in poi divenuto protagonista della maggior parte degli scritti di Pier Paolo, fino all’inizio delle sue produzioni più famose di narrativa, poesia e saggistica. Si apre con una dichiarazione che assomiglia a un vero e proprio patto di sangue (“Caro Guido, ora che so che tu sei morto mi pare di conoscerti veramente; e so cosa vuol dire il nome fratello”), e continua ricordando i momenti più toccanti della loro vita in comune: l’infanzia nella stessa camera da letto e allo stesso tavolo, le camminate in montagna, l’ultima mattina prima della partenza verso una clandestinità fino ad allora ignorata, nell’accompagnamento alla stazione con una valigia che insospettabilmente nascondeva armi: “Eri lì col tuo capo, i tuoi occhi, e i tuoi vestiti; il tuo corpo, ancora assonnato, forse avvertiva il freddo dell’erba bagnata… Abbracciandoci, sentivamo la vergogna di quell’atto; non so che parole ci siamo detti (come vorrei ora riudirle!)”. La rivisitazione dei momenti più teneri e dolorosi della loro vita in comune è raccontata con pudore, con la stessa discrezione appresa nella riservatezza propria dei carnici: “Ci siamo sempre vergognati di certi sentimenti reciproci, e si taceva”.

Pier Paolo mette in luce l’ingenuità, la purezza, l’ardore e il coraggio di Guido, quasi però rimproverandogli il candore fanciullesco che l’aveva convinto a immolarsi per una causa non degna di tale sacrificio, e della fiducia eccessiva prestata a persone meschine, pronte a tradire la sua innocenza: “Tu sei morto per la libertà. Ma per me, sei semplicemente morto; io non credo a nessuna di queste illusioni umane, a cui tu hai umanamente creduto, non solo inesperto, ma, insomma, uomo. Ho promesso alla mamma di esaltarti, di cantarti, con tutta la tua vita. Di far conoscere a questi stupidi uomini il tuo eroismo… L’idea per cui tu sei morto, morirà, se ne andrà, sembrerà una parola di tempi inutili perché passati…  e ti sei sacrificato col gratuito entusiasmo dei diciannove anni; è stata la sorte del tuo corpo entusiasta che ti ha ucciso; non potevi sopravvivere al tuo entusiasmo, Guido”.

Ricorda la sofferenza inconsolabile della madre: “lei è lontana e chiusa in un dolore ormai senza lacrime e tutto silenzio, rotto ogni tanto da uno di quei suoi sospiri, che, tu lo sai, riescono incredibilmente dolorosi e quasi insopportabili”.

Nella prima sezione del libro, più documentale, vengono ricostruiti gli eventi relativi alla morte di Guido, a partire da un suo resoconto in prima persona della “situazione penosissima e grave” creatasi all’interno della lotta partigiana. Segue poi il discorso pronunciato da Pier Paolo al funerale e infine lo stralcio di una lettera a un amico, contenente informazioni dettagliate sulla strage di Porzùs, in cui ancora si ricorda con strazio la figura di Guido: “Non ha potuto sopravvivere al suo entusiasmo. Quel ragazzo è stato di una generosità, di un coraggio, di una innocenza, che non si possono credere. E quanto è stato migliore di tutti noi”.

La seconda parte del volume testimonia la partecipazione emotiva del poeta attraverso la sua produzione in friulano e in italiano (Il martire ai vivi, Còrus in muàrt di Guido, La passione del ’45), fino al primo accorato canzoniere, Odi in morte di Guido. Ecco alcuni tra i versi più appassionati ed emozionanti della raccolta: “Tu sei stato fanciullo per sempre / e intanto gli anni mutavano: / ecco, tutto è mutato. / La tua è la fanciullezza di un morto”, “In che giorno sia nato / nella tua vita il martirio / e senza scampo / ti abbia rapito alla tua casa / adesso è chiaro. / È chiaro il tuo volto ferito / è chiaro il tuo riso / è chiaro il tuo pudore / è chiara la tua elezione / è chiara la tua innocenza”, “Ah, non c’è confronto tra il tuo silenzio, / da quando non sei più figlio né fratello, / e ogni voce di questo mondo. / Resti indietro inascoltato…”, “I ti podevis salvati, / ma tu / i no ti às lassat bessoi / i to cumpains a murì (Potevi salvarti, / ma tu / non hai lasciato soli / a morire i tuoi compagni)”.

Infine, altri testi riportano stralci di lettere scambiate tra i vari componenti della famiglia Pasolini, o con altri personaggi ad essa vicini: testimonianze non esaustive della quantità e complessità dei documenti a disposizione negli archivi della Fondazione dedicata al poeta, ma senz’altro importanti per inquadrare una vicenda penosissima, anche da un punto di vista politico, che ha visto l’ingiusta morte di un diciannovenne trovatosi a “scegliere fra la sua vita e la libertà. E ha scelto la libertà, che vuol dire lealtà, generosità, sacrificio”.

 

«Gli Stati Generali», 13 settembre 2025

RECENSIONI

GACCIONE

ANGELO GACCIONE, UNA GIOIOSA FATICA – LA SCUOLA DI PITAGORA, NAPOLI 2025

Arrivati a quella che in passato veniva eufemisticamente definita “terza età”, è giusto e naturale riconsiderare il proprio percorso intellettuale, e tracciare un inventario di quello che si è scritto e pubblicato, meditando anche sulle proprie censure, esclusioni e inclusioni, indulgenti od orgogliose che siano. Lo ha fatto Angelo Gaccione (Cosenza, 1951) – calabrese residente a Milano dagli anni universitari, prolifico autore in prosa e versi, impegnato culturalmente in innumerevoli battaglie civili e politiche, fondatore ventidue anni fa della combattiva rivista Odissea –, pubblicando Una gioiosa fatica, raccolta complessiva delle sue poesie, scritte a partire dal 1964. Si tratta di una selezione antologica curata dal Professor Giuseppe Langella per le edizioni campane La scuola di Pitagora, con tre contributi critici del 2011 di Franco Loi, Tiziano Rossi e Fulvio Papi, che concordemente sottolineano l’impulso etico come prima istanza della produzione letteraria dell’autore.

Se Loi sottolineava i due aspetti preminenti nella lirica di Gaccione (“l’amore verso il prossimo; la tensione verso qualcosa di trascendente – si chiami natura o società”), Tiziano Rossi gli faceva eco negli stessi termini: “Gaccione punta dritto su rigore e onestà… ecco l’indignazione e l’incitamento, il giudizio pacato e la frustata polemica, la confessione inerme, la caricatura e la gelida constatazione”, e il filosofo Fulvio Papi rimarcava la coerenza di uno stile che riassume esperienza e sensibilità, dolore e saggezza, in un lessico capace di accogliere senza alcuna artificiosità l’onda d’urto del reale.

La raccolta si compone di dodici sezioni (Le ritrovate, Le illuminate, Le straniere, Le Milanesi, Le disperse, Le arrabbiate, Le sacre, Le dolenti, Le liete, Le diverse, Le incivili, Le ultime) che raggruppano i testi secondo vari contenuti, certificando in tal modo la complessità e pluralità degli argomenti trattati.

A partire dalle primissime composizioni adolescenziali, già indicative di una delicatezza emotiva che nel tempo continuerà ad approfondirsi, il rapporto di Gaccione con la propria soggettività mette in luce sia aspetti biografici esterni (il paesaggio, gli affetti, le letture predilette), sia lo scavo introspettivo. Come giustamente rilevava Tiziano Rossi, il pronome io insieme ai possessivi mio-mia- miei tornano in moltissime composizioni, e non con la vanità di un’autocelebrazione, ma proprio a indicare una fortemente voluta appartenenza alla vita personale e collettiva (dai versi elegiaci del 1977 “Avvicinatevi alla mia finestra / nuvole mercanti e straniere” fino al Testamento del 2014: “Poiché ho vissuto / tutta la vita di libri / custodite le mie ceneri / siano ben in vista –/ accanto ai libri / – sul ripiano – / di una Biblioteca).

Milano, “grigia e impura”, è presenza costante in tutta la produzione letteraria dell’autore, e anche in questa antologia le viene dedicata un’intera sezione: “Mia amata-odiata città prima che l’alba arrivi avvolgimi fra i tuoi umori”. Il capoluogo lombardo è raccontato, oltre che nei caratteri più noti (sferraglianti tram, grattacieli, palazzi settecenteschi, giardini segreti, “caos, smog e ferocia” …) anche nella centralità attribuitale dai brutali avvenimenti del nostro recente passato, come la strage di Piazza Fontana. L’attenzione che Gaccione riserva alla storia, italiana e internazionale, è ribadita nelle sezioni del volume intitolate alle Dolenti, alle Arrabbiate, alle Incivili, là dove lo sdegno e la collera dell’autore promuovono appelli alla mobilitazione, all’impegno solidale verso gli sfruttati, i migranti, i senza tetto (“la verità è che puzzano… // lo si può constatare se appena vi sfiorano / emanano un tale lezzo… un che di malsano… / Dio ci scampi di autobus, tram e metrò”). La guerra diventa, nelle parole del poeta, il più grande degli scandali, un’offesa verso Dio e l’umanità tutta, insieme ai gulag sovietici, ai campi di concentramento nazisti e al massacro della scuola di Beslan, per arrivare ai delitti di mafia, alle ingiustizie sociali, all’avvelenamento colpevole dell’aria e delle acque.

La dichiarazione del credo di chi scrive è esplicita: “Io sono un uomo di parte, / e sto da una parte sola: // non è la vostra parte, / questo dev’essere chiaro”. Per Angelo Gaccione fare poesia diventa – oltre che “una gioiosa fatica” – una missione, come recita la citazione di Aristotele che fa da esergo al libro: “La poesia è qualcosa di più filosofico ed elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale e la storia il particolare”.

 

«SoloLibri», 7 settembre 2025

 

RECENSIONI

STERI

MARIO STERI, IL PADRE LONTANO? – IGNAZIO PAPPALARDO EDITORE, ROMA 2025

La parabola del figliol prodigo, narrata nel Vangelo di Luca (15:11-32), appartiene di fatto al patrimonio culturale dell’occidente, così come altre figure letterarie quali Ulisse, Amleto, Faust, riconosciuti simboli universali della natura umana, nella sua ricerca di un significato che oltrepassi il puro accadere dell’esistenza mortale. Il sacerdote salesiano Mario Steri (Cagliari, 1952) ha dedicato ad essa un corposo volume (Il padre lontano?, edito da Ignazio Pappalardo), che propone non tanto un commento esegetico, quanto una riflessione teologica intesa a coglierne il valore sapienziale, come rappresentazione simbolica delle vicende umane attraversate dai temi della colpa, del tradimento, del perdono.

Preceduta dalle due famose parabole della pecora perduta e della dramma smarrita, si allinea a loro nel significare il recupero di qualcosa che era andato perso, viene ritrovato e messo in salvo. Tre sono i personaggi che animano la narrazione di Luca: un padre e i suoi due figli, che entrambi ma in maniera diversa si erano allontanati da lui e da lui vengono riaccolti in un abbraccio misericordioso.

Il padre, a cui spetta il ruolo fondamentale della storia, è l’immagine di Dio che Steri presenta nelle sue caratteristiche essenziali e imprescindibili della trascendenza e della vicinanza.

Trascendenza come necessaria lontananza invalicabile, perché Dio è totalmente altro dal mondo, non addomesticabile e non riducibile ai pensieri e ai desideri dell’uomo (“al di là di tutto”, lo definisce San Gregorio di Nissa): la sua distanza è di tipo morale e ontologico rispetto alle creature, che rimangono in uno stato di dipendenza nei suoi confronti, nell’unico atteggiamento possibile e doveroso dell’adorazione. Non della richiesta, non della prepotenza, e nemmeno della conoscibilità: la lontananza di Dio ne preserva il mistero e l’inaccessibilità, pur essendo garanzia di libertà per l’agire dell’uomo.

Il padre della parabola di Luca, immagine di Dio, rimane nella sua casa, lascia che i figli si allontanino dalla dimora familiare: il minore, spinto da ribellione e volontà di indipendenza, partito “per un paese lontano” (makran, in greco), il maggiore fuori da solo a lavorare nei campi. Entrambi senza considerare il valore della distanza dal genitore e senza onorarla, chiedono rispetto dei loro diritti di figliolanza: l’uno pretendendo la sua parte di eredità da sperperare in modo dissoluto, l’altro esigendo per i propri servizi una ricompensa maggiore. Le loro pretese rispecchiano il fondamentale egoismo del do ut des, non esprimono amore né riverenza: in ciò consiste il loro peccato, nell’allontanamento e nella cieca rivendicazione.

Mario Steri indica nella contrapposizione dei loro comportamenti quella esistente ed esistita tra paganesimo (il minore trasmigra in un paese pagano) ed ebraismo (il maggiore esprime un rigidismo farisaico, obbediente a una logica padronale di interesse). Il padre “lontano” – aggettivo ribadito nel titolo del volume, ma giustamente accompagnato da un punto interrogativo –, non si impone, non contrasta, lascia fare. Li chiama “figli”, comprende la loro ribellione e non la castiga, ma alla fine esce di casa per avvicinarli: “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”, “Suo padre allora uscì a supplicarlo” (vv. 15, 20 e 28).

Il padre accorre, abbraccia, perdona, prepara un banchetto per entrambi ammazzando il vitello grasso. Da lontano e inaccessibile si fa vicino e amoroso, e appunto la vicinanza, oltre alla trascendenza, rappresenta secondo l’autore l’attributo peculiare della divinità e della paternità accogliente. Vicinanza come accettazione, premura, affetto, disponibilità. Il genitore della parabola così parla ai due figli irriconoscenti, gratificandoli: “Presto, portate qui il vestito più bello…mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato (vv. 22-24): “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo (v, 31).

L’autore osa suggerire un’ipotesi trascurata dagli esegeti: che in realtà i due fratelli siano un’unica persona, accomunati dal rifiuto, dalla presunzione e dall’egoismo, in un’unità caratteriale indistinta e percepita attraverso una sfasatura temporale. Uguale sono la loro protervia e la protesta, poi riassorbite nella conversione finale, nell’abbraccio pentito e nel banchetto escatologico, offerti dalla sovrabbondanza dell’amore paterno.

La riflessione teologica di Mario Steri si espande poi alla considerazione di altri fondamentali aspetti dell’azione di Dio nei riguardi dell’umanità, sempre dettati dal bene incondizionato: il suo rapporto con la storia, quella personale degli individui e quella collettiva delle società; la sua reazione al peccato degli uomini; il rispetto per il libero arbitrio; la fede, la conversione, il perdono come momenti caratterizzanti del rapporto tra il Creatore e il mondo.

La parabola narrata da Luca in sostanza vuole indicare l’incontro tra l’amore di Dio e l’amore dell’uomo, al di là delle fragilità e dei tradimenti di quest’ultimo. L’autore che ci aiuta a penetrarne il significato ha dedicato il suo lavoro “a chi cerca e ha chi ha trovato, a chi vuole cercare e a chi è stato trovato”, in una volontà reciproca di apertura e comprensione.

 

«La Poesia e lo Spirito», 7 settembre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DE BEAUVOIR

SIMONE DE BEAUVOIR, SIMONE DE BEAUVOIR INTERROGA SARTRE SUL FEMMINISMO

IL SAGGIATORE, MILANO 2025

 

Un piccolo libro che in Italia ha conosciuto diverse edizioni a partire dal 1976, e ora viene ripreso da Il Saggiatore, questo Simone de Beauvoir interroga Sartre sul femminismo: testo che ancora oggi ha qualcosa da dire, non solo sulla più nota coppia di filosofi francesi, ma anche su quanto è (e non è) cambiato nella percezione dei diversi ruoli sessuali nella società occidentale dal dopoguerra a oggi.

All’epoca di questa pubblicazione, i due grandi intellettuali avevano già scritto singolarmente opere di rilevante spessore letterario e filosofico, che li avevano resi famosi a livello mondiale: romanzi, racconti, saggi, pièce teatrali, ma anche numerosi pamphlet di critica sociale e politica, di notevole impatto provocatorio sull’opinione pubblica (Sartre: Abbiamo ragione a rivoltarci, De Beauvoir: Bruciare Sade?, Brigitte Bardot e la sindrome di Lolita).

Per la prima volta decidono nel 1975 di confrontarsi pubblicamente in una conversazione riguardante la condizione della donna, il femminismo, il patriarcato, sviscerando atteggiamenti e convinzioni personali sull’argomento. Ne deriva uno stimolante colloquio, in cui Simone De Beauvoir riassume il proprio percorso di emancipazione da retaggi culturali sedimentati nei secoli, ed elenca le sfide che attendono l’universo femminile per liberarsi da tali vincoli, incalzando il compagno – sodale di studi e conquiste intellettuali -, sulle sue riluttanze rispetto ai cambiamenti ideologici e comportamentali in atto nella società. L’intervista si dipana tra i due (che si danno del “lei”, come sembra facessero anche in privato), manifestando un corretto e obiettivo controllo della reciproca individualità.

Beauvoir conferma di esser sempre stata incoraggiata da Sartre nelle sue ricerche e pubblicazioni, ad esempio dopo l’uscita del rivoluzionario “Il secondo sesso”, contestato invece da illuminati pensatori di sinistra, come Camus. Entrambi concordano di aver mantenuto negli anni un rapporto di assoluta parità e uguaglianza.

Con sincerità Sartre ammette di non aver mai preso ufficialmente un’esplicita posizione relativamente all’oppressione esercitata dagli uomini sulle donne, perché cresciuto ed educato in un ambiente femminile, in cui certamente avvertiva la violenza della supremazia patriarcale e la subordinazione del ruolo della donna, ritenendoli tuttavia prodotti da una naturale insensibilità maschile e da una passiva accettazione femminile, tratti più caratteriali che culturali. Non ne era insomma scandalizzato, nella stessa misura in cui invece lo turbava lo sfruttamento padronale e imperialistico nei confronti delle classi subalterne e di etnie diverse.

A Sartre, uomo nato a Parigi nel 1905, pareva quindi naturale un certo atteggiamento di superiorità sia verso le donne, sia verso molti uomini ritenuti non al suo livello intellettuale, ma mitigava tale presuntuosa affermazione confessando di sentirsi più a proprio agio e meno competitivo nella conversazione informali con le signore piuttosto che in quelle professionali e competitive con i maschi. Titubante appare comunque la posizione sartriana su come collegare la lotta di classe alla lotta della liberazione delle donne, giustificata dalla convinzione che può esistere complicità tra donne appartenenti a classi differenti, mentre la contrapposizione tra datore di lavoro e subalterno è sempre totale. In una visione prettamente maschilista, Sartre considera la donna borghese solo in quanto sposata con un uomo appartenente alla borghesia, e del tutto disposta ad assumerne i valori, il prestigio e i privilegi economici: “Una borghese non ha mai quel rapporto con la vita economica e sociale che ha l’uomo … è molto di rado in rapporto con il capitale. È legata sessualmente a un uomo che ha questi rapporti”.

Considera comunque la lotta di liberazione delle donne come necessaria e primaria, perché esse si possano svincolare dal giogo dell’oppressione maschile, con gli stessi diritti di accedere a posizioni d’élite e dirigenziali nella scala sociale.

Il quesito finale posto dalla De Beauvoir rimane tutt’oggi non del tutto risolto: “Le donne devono rifiutare interamente l’universo maschile o aprirsi un varco in esso? Devono appropriarsi dello strumento oppure cambiarlo? Intendo la scienza, come il linguaggio, come l’arte. Tutti i valori portano il marchio della mascolinità. Bisogna per questo rifiutarli completamente e tentare di reinventare un’altra cosa, radicalmente, partendo da zero? Oppure bisogna assimilare questi valori, impadronirsene, servirsene, per fini femministi? Cosa ne pensa?” Diplomaticamente, Sartre risponde che l’avanzare delle rivendicazioni femministe, la liberalizzazione dei costumi, il progresso delle conquiste mediche e scientifiche giocheranno in favore delle donne. “L’uomo medio si scontra con delle condizioni esterne che lo rendono propriamente comico… Più facilmente vittima d’inganno e più facilmente comico. La società degli uomini è una società comica… La donna, in quanto oppressa, è in un certo senso quasi più libera dell’uomo. Ha un numero minore di principi che le dettano la sua condotta. È più irriguardosa”.

Pronunciate cinquant’anni fa da uno dei maggiori filosofi del ’900, queste parole suonano quasi come un complimento.

 

«Gli Stati Generali», 3 settembre 2025

 

 

 

 

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