Mostra: 11 - 20 of 1.692 RISULTATI
RECENSIONI

GACCIONE

ANGELO GACCIONE, UNA GIOIOSA FATICA – LA SCUOLA DI PITAGORA, NAPOLI 2025

Arrivati a quella che in passato veniva eufemisticamente definita “terza età”, è giusto e naturale riconsiderare il proprio percorso intellettuale, e tracciare un inventario di quello che si è scritto e pubblicato, meditando anche sulle proprie censure, esclusioni e inclusioni, indulgenti od orgogliose che siano. Lo ha fatto Angelo Gaccione (Cosenza, 1951) – calabrese residente a Milano dagli anni universitari, prolifico autore in prosa e versi, impegnato culturalmente in innumerevoli battaglie civili e politiche, fondatore ventidue anni fa della combattiva rivista Odissea –, pubblicando Una gioiosa fatica, raccolta complessiva delle sue poesie, scritte a partire dal 1964. Si tratta di una selezione antologica curata dal Professor Giuseppe Langella per le edizioni campane La scuola di Pitagora, con tre contributi critici del 2011 di Franco Loi, Tiziano Rossi e Fulvio Papi, che concordemente sottolineano l’impulso etico come prima istanza della produzione letteraria dell’autore.

Se Loi sottolineava i due aspetti preminenti nella lirica di Gaccione (“l’amore verso il prossimo; la tensione verso qualcosa di trascendente – si chiami natura o società”), Tiziano Rossi gli faceva eco negli stessi termini: “Gaccione punta dritto su rigore e onestà… ecco l’indignazione e l’incitamento, il giudizio pacato e la frustata polemica, la confessione inerme, la caricatura e la gelida constatazione”, e il filosofo Fulvio Papi rimarcava la coerenza di uno stile che riassume esperienza e sensibilità, dolore e saggezza, in un lessico capace di accogliere senza alcuna artificiosità l’onda d’urto del reale.

La raccolta si compone di dodici sezioni (Le ritrovate, Le illuminate, Le straniere, Le Milanesi, Le disperse, Le arrabbiate, Le sacre, Le dolenti, Le liete, Le diverse, Le incivili, Le ultime) che raggruppano i testi secondo vari contenuti, certificando in tal modo la complessità e pluralità degli argomenti trattati.

A partire dalle primissime composizioni adolescenziali, già indicative di una delicatezza emotiva che nel tempo continuerà ad approfondirsi, il rapporto di Gaccione con la propria soggettività mette in luce sia aspetti biografici esterni (il paesaggio, gli affetti, le letture predilette), sia lo scavo introspettivo. Come giustamente rilevava Tiziano Rossi, il pronome io insieme ai possessivi mio-mia- miei tornano in moltissime composizioni, e non con la vanità di un’autocelebrazione, ma proprio a indicare una fortemente voluta appartenenza alla vita personale e collettiva (dai versi elegiaci del 1977 “Avvicinatevi alla mia finestra / nuvole mercanti e straniere” fino al Testamento del 2014: “Poiché ho vissuto / tutta la vita di libri / custodite le mie ceneri / siano ben in vista –/ accanto ai libri / – sul ripiano – / di una Biblioteca).

Milano, “grigia e impura”, è presenza costante in tutta la produzione letteraria dell’autore, e anche in questa antologia le viene dedicata un’intera sezione: “Mia amata-odiata città prima che l’alba arrivi avvolgimi fra i tuoi umori”. Il capoluogo lombardo è raccontato, oltre che nei caratteri più noti (sferraglianti tram, grattacieli, palazzi settecenteschi, giardini segreti, “caos, smog e ferocia” …) anche nella centralità attribuitale dai brutali avvenimenti del nostro recente passato, come la strage di Piazza Fontana. L’attenzione che Gaccione riserva alla storia, italiana e internazionale, è ribadita nelle sezioni del volume intitolate alle Dolenti, alle Arrabbiate, alle Incivili, là dove lo sdegno e la collera dell’autore promuovono appelli alla mobilitazione, all’impegno solidale verso gli sfruttati, i migranti, i senza tetto (“la verità è che puzzano… // lo si può constatare se appena vi sfiorano / emanano un tale lezzo… un che di malsano… / Dio ci scampi di autobus, tram e metrò”). La guerra diventa, nelle parole del poeta, il più grande degli scandali, un’offesa verso Dio e l’umanità tutta, insieme ai gulag sovietici, ai campi di concentramento nazisti e al massacro della scuola di Beslan, per arrivare ai delitti di mafia, alle ingiustizie sociali, all’avvelenamento colpevole dell’aria e delle acque.

La dichiarazione del credo di chi scrive è esplicita: “Io sono un uomo di parte, / e sto da una parte sola: // non è la vostra parte, / questo dev’essere chiaro”. Per Angelo Gaccione fare poesia diventa – oltre che “una gioiosa fatica” – una missione, come recita la citazione di Aristotele che fa da esergo al libro: “La poesia è qualcosa di più filosofico ed elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale e la storia il particolare”.

 

«SoloLibri», 7 settembre 2025

 

RECENSIONI

STERI

MARIO STERI, IL PADRE LONTANO? – IGNAZIO PAPPALARDO EDITORE, ROMA 2025

La parabola del figliol prodigo, narrata nel Vangelo di Luca (15:11-32), appartiene di fatto al patrimonio culturale dell’occidente, così come altre figure letterarie quali Ulisse, Amleto, Faust, riconosciuti simboli universali della natura umana, nella sua ricerca di un significato che oltrepassi il puro accadere dell’esistenza mortale. Il sacerdote salesiano Mario Steri (Cagliari, 1952) ha dedicato ad essa un corposo volume (Il padre lontano?, edito da Ignazio Pappalardo), che propone non tanto un commento esegetico, quanto una riflessione teologica intesa a coglierne il valore sapienziale, come rappresentazione simbolica delle vicende umane attraversate dai temi della colpa, del tradimento, del perdono.

Preceduta dalle due famose parabole della pecora perduta e della dramma smarrita, si allinea a loro nel significare il recupero di qualcosa che era andato perso, viene ritrovato e messo in salvo. Tre sono i personaggi che animano la narrazione di Luca: un padre e i suoi due figli, che entrambi ma in maniera diversa si erano allontanati da lui e da lui vengono riaccolti in un abbraccio misericordioso.

Il padre, a cui spetta il ruolo fondamentale della storia, è l’immagine di Dio che Steri presenta nelle sue caratteristiche essenziali e imprescindibili della trascendenza e della vicinanza.

Trascendenza come necessaria lontananza invalicabile, perché Dio è totalmente altro dal mondo, non addomesticabile e non riducibile ai pensieri e ai desideri dell’uomo (“al di là di tutto”, lo definisce San Gregorio di Nissa): la sua distanza è di tipo morale e ontologico rispetto alle creature, che rimangono in uno stato di dipendenza nei suoi confronti, nell’unico atteggiamento possibile e doveroso dell’adorazione. Non della richiesta, non della prepotenza, e nemmeno della conoscibilità: la lontananza di Dio ne preserva il mistero e l’inaccessibilità, pur essendo garanzia di libertà per l’agire dell’uomo.

Il padre della parabola di Luca, immagine di Dio, rimane nella sua casa, lascia che i figli si allontanino dalla dimora familiare: il minore, spinto da ribellione e volontà di indipendenza, partito “per un paese lontano” (makran, in greco), il maggiore fuori da solo a lavorare nei campi. Entrambi senza considerare il valore della distanza dal genitore e senza onorarla, chiedono rispetto dei loro diritti di figliolanza: l’uno pretendendo la sua parte di eredità da sperperare in modo dissoluto, l’altro esigendo per i propri servizi una ricompensa maggiore. Le loro pretese rispecchiano il fondamentale egoismo del do ut des, non esprimono amore né riverenza: in ciò consiste il loro peccato, nell’allontanamento e nella cieca rivendicazione.

Mario Steri indica nella contrapposizione dei loro comportamenti quella esistente ed esistita tra paganesimo (il minore trasmigra in un paese pagano) ed ebraismo (il maggiore esprime un rigidismo farisaico, obbediente a una logica padronale di interesse). Il padre “lontano” – aggettivo ribadito nel titolo del volume, ma giustamente accompagnato da un punto interrogativo –, non si impone, non contrasta, lascia fare. Li chiama “figli”, comprende la loro ribellione e non la castiga, ma alla fine esce di casa per avvicinarli: “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”, “Suo padre allora uscì a supplicarlo” (vv. 15, 20 e 28).

Il padre accorre, abbraccia, perdona, prepara un banchetto per entrambi ammazzando il vitello grasso. Da lontano e inaccessibile si fa vicino e amoroso, e appunto la vicinanza, oltre alla trascendenza, rappresenta secondo l’autore l’attributo peculiare della divinità e della paternità accogliente. Vicinanza come accettazione, premura, affetto, disponibilità. Il genitore della parabola così parla ai due figli irriconoscenti, gratificandoli: “Presto, portate qui il vestito più bello…mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato (vv. 22-24): “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo (v, 31).

L’autore osa suggerire un’ipotesi trascurata dagli esegeti: che in realtà i due fratelli siano un’unica persona, accomunati dal rifiuto, dalla presunzione e dall’egoismo, in un’unità caratteriale indistinta e percepita attraverso una sfasatura temporale. Uguale sono la loro protervia e la protesta, poi riassorbite nella conversione finale, nell’abbraccio pentito e nel banchetto escatologico, offerti dalla sovrabbondanza dell’amore paterno.

La riflessione teologica di Mario Steri si espande poi alla considerazione di altri fondamentali aspetti dell’azione di Dio nei riguardi dell’umanità, sempre dettati dal bene incondizionato: il suo rapporto con la storia, quella personale degli individui e quella collettiva delle società; la sua reazione al peccato degli uomini; il rispetto per il libero arbitrio; la fede, la conversione, il perdono come momenti caratterizzanti del rapporto tra il Creatore e il mondo.

La parabola narrata da Luca in sostanza vuole indicare l’incontro tra l’amore di Dio e l’amore dell’uomo, al di là delle fragilità e dei tradimenti di quest’ultimo. L’autore che ci aiuta a penetrarne il significato ha dedicato il suo lavoro “a chi cerca e ha chi ha trovato, a chi vuole cercare e a chi è stato trovato”, in una volontà reciproca di apertura e comprensione.

 

«La Poesia e lo Spirito», 7 settembre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DE BEAUVOIR

SIMONE DE BEAUVOIR, SIMONE DE BEAUVOIR INTERROGA SARTRE SUL FEMMINISMO

IL SAGGIATORE, MILANO 2025

 

Un piccolo libro che in Italia ha conosciuto diverse edizioni a partire dal 1976, e ora viene ripreso da Il Saggiatore, questo Simone de Beauvoir interroga Sartre sul femminismo: testo che ancora oggi ha qualcosa da dire, non solo sulla più nota coppia di filosofi francesi, ma anche su quanto è (e non è) cambiato nella percezione dei diversi ruoli sessuali nella società occidentale dal dopoguerra a oggi.

All’epoca di questa pubblicazione, i due grandi intellettuali avevano già scritto singolarmente opere di rilevante spessore letterario e filosofico, che li avevano resi famosi a livello mondiale: romanzi, racconti, saggi, pièce teatrali, ma anche numerosi pamphlet di critica sociale e politica, di notevole impatto provocatorio sull’opinione pubblica (Sartre: Abbiamo ragione a rivoltarci, De Beauvoir: Bruciare Sade?, Brigitte Bardot e la sindrome di Lolita).

Per la prima volta decidono nel 1975 di confrontarsi pubblicamente in una conversazione riguardante la condizione della donna, il femminismo, il patriarcato, sviscerando atteggiamenti e convinzioni personali sull’argomento. Ne deriva uno stimolante colloquio, in cui Simone De Beauvoir riassume il proprio percorso di emancipazione da retaggi culturali sedimentati nei secoli, ed elenca le sfide che attendono l’universo femminile per liberarsi da tali vincoli, incalzando il compagno – sodale di studi e conquiste intellettuali -, sulle sue riluttanze rispetto ai cambiamenti ideologici e comportamentali in atto nella società. L’intervista si dipana tra i due (che si danno del “lei”, come sembra facessero anche in privato), manifestando un corretto e obiettivo controllo della reciproca individualità.

Beauvoir conferma di esser sempre stata incoraggiata da Sartre nelle sue ricerche e pubblicazioni, ad esempio dopo l’uscita del rivoluzionario “Il secondo sesso”, contestato invece da illuminati pensatori di sinistra, come Camus. Entrambi concordano di aver mantenuto negli anni un rapporto di assoluta parità e uguaglianza.

Con sincerità Sartre ammette di non aver mai preso ufficialmente un’esplicita posizione relativamente all’oppressione esercitata dagli uomini sulle donne, perché cresciuto ed educato in un ambiente femminile, in cui certamente avvertiva la violenza della supremazia patriarcale e la subordinazione del ruolo della donna, ritenendoli tuttavia prodotti da una naturale insensibilità maschile e da una passiva accettazione femminile, tratti più caratteriali che culturali. Non ne era insomma scandalizzato, nella stessa misura in cui invece lo turbava lo sfruttamento padronale e imperialistico nei confronti delle classi subalterne e di etnie diverse.

A Sartre, uomo nato a Parigi nel 1905, pareva quindi naturale un certo atteggiamento di superiorità sia verso le donne, sia verso molti uomini ritenuti non al suo livello intellettuale, ma mitigava tale presuntuosa affermazione confessando di sentirsi più a proprio agio e meno competitivo nella conversazione informali con le signore piuttosto che in quelle professionali e competitive con i maschi. Titubante appare comunque la posizione sartriana su come collegare la lotta di classe alla lotta della liberazione delle donne, giustificata dalla convinzione che può esistere complicità tra donne appartenenti a classi differenti, mentre la contrapposizione tra datore di lavoro e subalterno è sempre totale. In una visione prettamente maschilista, Sartre considera la donna borghese solo in quanto sposata con un uomo appartenente alla borghesia, e del tutto disposta ad assumerne i valori, il prestigio e i privilegi economici: “Una borghese non ha mai quel rapporto con la vita economica e sociale che ha l’uomo … è molto di rado in rapporto con il capitale. È legata sessualmente a un uomo che ha questi rapporti”.

Considera comunque la lotta di liberazione delle donne come necessaria e primaria, perché esse si possano svincolare dal giogo dell’oppressione maschile, con gli stessi diritti di accedere a posizioni d’élite e dirigenziali nella scala sociale.

Il quesito finale posto dalla De Beauvoir rimane tutt’oggi non del tutto risolto: “Le donne devono rifiutare interamente l’universo maschile o aprirsi un varco in esso? Devono appropriarsi dello strumento oppure cambiarlo? Intendo la scienza, come il linguaggio, come l’arte. Tutti i valori portano il marchio della mascolinità. Bisogna per questo rifiutarli completamente e tentare di reinventare un’altra cosa, radicalmente, partendo da zero? Oppure bisogna assimilare questi valori, impadronirsene, servirsene, per fini femministi? Cosa ne pensa?” Diplomaticamente, Sartre risponde che l’avanzare delle rivendicazioni femministe, la liberalizzazione dei costumi, il progresso delle conquiste mediche e scientifiche giocheranno in favore delle donne. “L’uomo medio si scontra con delle condizioni esterne che lo rendono propriamente comico… Più facilmente vittima d’inganno e più facilmente comico. La società degli uomini è una società comica… La donna, in quanto oppressa, è in un certo senso quasi più libera dell’uomo. Ha un numero minore di principi che le dettano la sua condotta. È più irriguardosa”.

Pronunciate cinquant’anni fa da uno dei maggiori filosofi del ’900, queste parole suonano quasi come un complimento.

 

«Gli Stati Generali», 3 settembre 2025

 

 

 

 

RECENSIONI

GINZBURG

LISA GINZBURG, UNA PIUMA NASCOSTA – RIZZOLI, MILANO 2023

Il titolo dell’ultimo romanzo di Lisa Ginzburg, Una piuma nascosta, viene suggerito dall’autrice come metafora dell’attenzione dovuta, con leggerezza non esibita, nel rapportarsi ai sentimenti altrui.

Il testo racconta infatti una storia di sentimenti, più che di fatti o azioni, che si instaurano tra i due protagonisti, Rosa e Tan, e nelle relazioni intrecciate da loro con pochi altri comprimari.

Rosa è una undicenne sensibile e riservata, figlia dei custodi della villa padronale dei coniugi Manera, nel podere toscano della Quercetana. Tan, suo coetaneo, è un ragazzino ombroso e irruente di origini moldave, adottato dai Manera dopo un percorso burocratico complicato e sfiancante, tra viaggi all’estero, colloqui con psicologi e ispezioni di assistenti sociali.

I due adolescenti tendono a dissimulare le loro ferite, cercando di curarle in un rapporto via via più solidale di vicinanza e conforto reciproco. Rosa soffre della rigidità materna e di un senso di inferiorità culturale nei riguardi dei proprietari della villa, mitigato dall’ammirazione devota per la madre di Tan. Il ragazzo non riesce a superare l’angoscia dell’abbandono del suo paese, il trauma dei molti anni vissuti in orfanatrofio, la rabbia verso l’ambiente raffinato che lo ha accolto: pertanto sfoga violentemente il proprio rancore per i genitori adottivi, che presto entrano in crisi come coppia, arrivando alla separazione.

I due giovani nutrono la loro amicizia attraverso una frequentazione assidua fatta di giochi con le carte, di linguaggi criptici incomprensibili agli estranei, e di intere giornate trascorse nei campi: Rosa all’ombra di una grande quercia percepita come protezione e accoglienza, Tan accovacciato in un’enorme buca scavata per ripararsi e nascondersi da un fuori minaccioso.

Negli anni del liceo le loro strade si dividono: il carattere rissoso del ragazzo induce i genitori a trasferirlo in un severo convitto di Milano, mentre Rosa, sempre più matura e consapevole delle sue capacità, si avvia a un luminoso avvenire universitario. Divenuta con gli anni un’affermata chirurga oftalmica, dedita con abnegazione al proprio lavoro, si allontana dalla tenuta della Quercetana, e anche dal ricordo di Tan, che nel frattempo si è perso tra vari amori, lavori improvvisati e viaggi tormentosi alla ricerca del passato. Tuttavia si rivedono, in un Ferragosto torrido, tornati entrambi in visita dai parenti: “Camminano senza parlare, un silenzio che dice la fatica di stare in strada con quel caldo, ma in cui vibra anche altro, l’intensità di una strana tensione che monta da sé, spontanea, un’impalpabile aspettativa – qualcosa succederà, ma non si sa cosa”.

E infatti qualcosa tra i due succede, un breve e appassionato riavvicinamento, vissuto nel trasporto dei sensi senza una reale adesione emotiva. La decisione di Rosa di trasferirsi negli Stati Uniti per dedicarsi a un prestigioso progetto di ricerca segna ormai un’irriducibile estraneità, e il congedo che la donna invia online all’amico ritrovato e nuovamente perduto, risulta quasi imbarazzante nella sua logica razionalità: “Però, ecco, c’è che io non so come proseguire, che un tratto successivo di strada da fare insieme proprio non lo vedo… Sono una persona che ha bisogno di calma, metodica, perfezionista. Che per lavorare bene deve avere ritmi sempre uguali…Anche a te auguro di partire, anzi di ripartire… Incontrerai altre persone, succederanno altre cose. Io ti porto con me, oltreoceano”.

Una storia semplice, quella raccontata con garbo da Lisa Ginzburg, di un incontro arricchente e denso di significato, e che tuttavia il trascorrere del tempo rende malinconicamente meno rilevante, quando la pretesa di far rivivere il passato rivela la sua pretestuosa inconsistenza.

 

«SoloLibri», 31 agosto 2025

 

 

 

RECENSIONI

ZWEIG

STEFAN ZWEIG, ADDIO A RILKE – IBIS, COMO 2023, pagine 69

Un poeta e un narratore, tra i massimi letterati novecenteschi in lingua tedesca: Stefan Zweig (Vienna, 1881-Petropolis,1942) e Rainer Maria Rilke (Praga,1875-Montreaux,1926)): si erano conosciuti ed erano diventati amici, ammirandosi vicendevolmente, e alla morte del poeta il narratore (romanziere e saggista) gli dedicò un commovente discorso celebrativo. Addio a Rilke, è il titolo di questo libricino pubblicato da Ibis, in cui Zweig omaggia con profonda stima e sincero entusiasmo la scrittura e la persona dell’amico praghese in un’orazione funebre tenuta il 20 febbraio 1927 allo Staatstheater di Monaco. Ne ripercorre la vita, dall’infanzia in cui, appena appresa la scrittura, giocava con le rime, e poi lungo l’adolescenza e prima giovinezza, già votate alla composizione, con impegno responsabile e perfezionista. Zweig cita tutti i suoi volumi, via via più complessi e meditati, dal Libro d’ore (“forse la più pura elevazione religiosa che un poeta dei nostri giorni abbia sperimentato”) alla luce “asciutta e trasparente” delle Nuove poesie, con la loro “tagliente durezza, vittoria di una oggettività consapevole sulla pura intuizione, trionfo definitivo di una lingua divenuta completamente scultorea”. Per arrivare ai Sonetti a Orfeo e alle Elegie duinesi, “ascesa verso la solitudine che lui stesso aveva scelto”, per “rappresentare il quasi irrapresentabile”.

Una missione, quella che Rilke incarnava nel suo dialogo con l’infinito, al di là delle cose e del più facile sentimentalismo, difendendo il significato ultimo e profondo della scrittura in versi, come rivelò in un brano famoso tratto dal suo unico romanzo, I Quaderni di Malte Laurids Brigge: “Perché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si acquistano precocemente), sono esperienze. Per scrivere un verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna capire il volo degli uccelli e comprendere il gesto con cui i piccoli fiori si schiudono al mattino. Bisogna saper ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e congedi previsti da tempo, a giorni dell’infanzia ancora indecifrati, ai genitori che eravamo costretti a ferire quando ci porgevano una gioia e non la comprendevamo (era una gioia per qualcun altro), a malattie infantili che cominciavano in modo così strano con tante profonde e gravi trasformazioni, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattine sul mare, al mare soprattutto, ai mari, a notti di viaggio che passavano alte rumoreggianti e volavano assieme alle stelle, e non basta ancora poter pensare a tutto questo. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche accanto ai moribondi bisogna esser stati, bisogna essere rimasti vicino ai morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori a folate. E ancora avere ricordi non basta. Bisogna saperli dimenticare, quando sono troppi, e avere la grande pazienza d’attendere che ritornino. Perché i ricordi in sé ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, anonimi e non più distinguibili da noi stessi, solo allora può darsi che in una rarissima ora si levi dal loro centro e sgorghi la prima parola di un verso”.

Poesia come esperienza totale, quindi, rivelatrice e trasformativa, che lo segnò anche fisicamente, portandolo a una morte precoce, a una lenta consunzione mai raccontata ad altri. Zweig non lesina i dettagli anche sull’esistenza materiale dell’amico, sui suoi viaggi solitari da “eterno senzapatria, pellegrino di tutte le strade”, in Russia, Spagna, Italia, Francia, Egitto, Africa, per assorbite atmosfere che diventassero silenziosamente voce e musica poetica. Il suo apprendistato da assistente allo scultore Rodin, da cui apprese la resistenza e l’impassibilità che la materia oppone alla volontà addomesticatrice di chi scrive. Il generoso dedicarsi a corrispondenze epistolari mai superficiali, con giovani aspiranti poeti e le molte ammiratrici. La fragilità fisica di “quest’uomo mite, appartato, silenzioso”, che dall’esterno “appariva delicato, lamentoso e debole”, e invece interiormente era fatto di quarzo, capace di sfinirsi sulle pagine pur di raggiungere l’esito desiderato.

Rilke fu poeta vero, nelle parole contemplanti e meravigliate di Stefan Zweig. Poeta: “parola antichissima e sacra, densa e importante e raffinata, adatta a lui … puro nel volto e nel respiro … che come sempre le cose divine, appare di rado nel tempo… Davanti a un evento così alto, così raro, anche il lutto si trasforma in umiltà e il lamento si scioglie in gratitudine”.

 

«Gli Stati Generali», 28 agosto 2025

 

 

RECENSIONI

AAVV, IL GATTO DI BAUDELAIRE

AAVV, IL GATTO DI BAUDELAIRE E ALTRI GATTI POETICI

LA VITA FELICE, MILANO 2023

 

Sembra che i gatti siano molto amati dagli scrittori, e in particolare dai poeti. Le edizioni milanesi La vita felice hanno pubblicato nel 2019, e riedito nel 2023, una piccola antologia in cui nomi famosissimi della letteratura mondiale celebrano in versi il felino più curato e viziato del mondo: quasi un lare domestico, che con le sue fusa accompagna molte solitudini, o partecipa sornione e senza invadenza alla vita di nuclei familiari numerosi.

Il gatto di Baudelaire e altri gatti poetici (con introduzione e cura di Franco Venturi, che si è occupato anche della traduzione dei testi stranieri, presenti pure in lingua originale), raccoglie tredici autori internazionali omaggianti il gatto. A partire dai due più antichi, Lope de Vega e Jean de la Fontaine, che hanno tratteggiato delle favolette in stile esopiano, fino al più vicino a noi Pablo Neruda, il quale in una sua famosa Ode celebra l’indecifrabilità dell’animale, il suo sottrarsi a ogni superficiale descrizione: “Oh fiera indipendente / della casa, arrogante / vestigio della notte, / neghittoso, ginnastico / ed estraneo, / profondissimo gatto”.

Questa particolare inconoscibilità del gatto, che sembra sottrarsi a una definizione caratteriale precisa, è invece antitetica alla sua concretissima fisicità, che nei poeti qui antologizzati viene raccontata in tre elementi fondamentali: la morbidezza del pelo, la pericolosità degli artigli, l’insondabile profondità degli occhi. Caratteristiche che per molti di loro lo rendono simile alla figura della donna amata. Ne è un esempio riconosciuto lo splendido sonetto di Baudelaire, che mi pare giusto riportare nella sua interezza: “Vieni mio bel gatto, sul mio cuore innamorato; / trattieni gli artigli della tua zampa, / e lasciami sprofondare nei tuoi begli occhi / misti di agata e metallo. // Quando a bell’agio le mie dita a lungo / ti carezzano la testa e il dorso elastico, / e gode la mia mano ebbra / al toccare il tuo corpo elettrico, // vedo in spirito la mia donna: il suo sguardo, / come il tuo, amabile bestiolina, / profondo e freddo, penetra e fende come freccia, // e dai piedi su fino alla testa / un’aria sottile, un pericoloso effluvio, / tutt’intorno fluttua sul suo corpo bruno”.

Altrettanto comune, nell’ispirazione poetica, è il sentimento di sospeso stupore di fronte all’immagine ieratica del gatto, che sembra giungere a noi da tempi arcaici e insieme proiettarci verso un aldilà sconosciuto, come scriveva Borges: “Per opera indecifrabile di un decreto / divino ti cerchiamo invano; / più remoto del Gange e del Ponente / tua è la solitudine, tuo il segreto. // … Sei in un altro tempo. Sei il padrone / di un abito chiuso in un sogno”. Concetto che già Baudelaire aveva preannunciato nei Les Fleurs du mal: “È lui il genio tutelare della casa: giudica, governa e ispira / ogni cosa nel suo impero; / è forse una fata? È un dio?”.  Anche T.S. Eliot (di cui è opportuno ricordare Il libro dei gatti tuttofare) riteneva che in questo animale si celasse qualche misteriosa facoltà, forse celestiale forse demoniaca, nascosta in un nome conosciuto a lui solo: “Quando vedete un gatto in profonda meditazione, / La ragione, io vi dico, è sempre la stessa: / La sua mente è perduta in estatica contemplazione / Del pensiero, del pensiero, del pensiero del suo nome: / Del suo ineffabile effabile / Effineffabile / Profondo e inscrutabile Nome”.

Nicola Lagioia, unico italiano citato nel libro di cui ci occupiamo, se pure solo nella prefazione) ha così ribadito: “I gatti creano l’illusione di metterti in contatto con il mondo di sotto, il mondo dell’inconscio, dell’intangibile, e il rapporto che si crea tra lo scrittore e la propria scrittura non è distante da rapporto tra lo scrittore e il proprio gatto, perché anche la scrittura non è facilmente addomesticabile”.

Poesia del gatto, poesia sul gatto, poesia e il gatto: qualcosa li accomuna, di inquietante, di non del tutto decifrabile, forse consolante e forse temibile, ma comunque seducente nella sua misteriosa, ostinata indipendenza dal banale e dal consueto.

 

«Gli Stati Generali», 24 agosto 2025

 

 

 

RECENSIONI

MANSFIELD

KATHERINE MANSFIELD, FELICITÀ – GARZANTI, MILANO 2025

La collana Piccoli grandi libri dell’editore Garzanti ha l’apprezzabile merito di offrire ai lettori pregevoli testi (in prosa e in versi, cartacei o digitali), con cui trascorrere un’ora del proprio tempo, magari durante un tragitto in treno, o in una sala d’aspetto, a un prezzo irrisorio.

Tra le ultime proposte troviamo autori come Salinas, Fitzgerald, Caproni, Woolf, Lovecraft e questo piccolo gioiello di Katherine Mansfield, Felicità.

Sono otto racconti brevi, di cui il primo dà il titolo alla raccolta, ed è giustamente il più noto e ammirato. Hanno tutti come protagonista una figura femminile, in genere appartenente alla middle class americana, se non addirittura a un ceto decisamente benestante e socialmente influente.

Mansfield (1888-1923) li ha pubblicati tra il 1920 e il 1923, e dopo un secolo mantengono ancora tutta la loro freschezza e abilità intuitiva, segnata da una sottile malinconia che mai si appesantisce di rancore o lamentosità.

Le signore narrate in queste novelle inseguono con giovanile ingenuità un desiderio intenso di felicità personale, pur sapendolo o temendolo effimero, all’interno del loro ruolo familiare e coniugale, scontrandosi infine con cocenti delusioni e umiliazioni, che tendenzialmente sono portate a non riconoscere, a rimuovere, nel tentativo di non soffrire troppo, e di non veder sbriciolarsi il loro universo affettivo.

Bertha Young, ad esempio, protagonista del primo racconto, è una giovane donna appagata, moglie di un affermato uomo d’affari, madre di una bella bambina, che vive in un’elegante abitazione con l’appropriata servitù pronta a soccorrerla nelle incombenze domestiche e nei festosi ricevimenti allestiti per amici e amiche influenti. Consapevole dei suoi privilegi, li vive con orgogliosa spensieratezza e senza complessi, radiosa nella propria fortunata condizione: “Cosa ci puoi fare se hai trent’anni e, svoltando l’angolo della tua via, ti invade all’improvviso una sensazione di felicità – felicità assoluta! – quasi avessi inghiottito un pezzo luminoso del sole di fine pomeriggio e quello ti ardesse nel petto, sprizzando una scarica di scintille in ogni particella, fino a ogni dito delle mani e dei piedi?”, “Davvero – davvero – aveva tutto. Era giovane. Lei e Harry erano più innamorati che mai, andavano d’accordissimo ed erano davvero grandi amici. Aveva una bambina adorabile. Non dovevano preoccuparsi per i soldi. Avevano questa casa col giardino assolutamente adeguata. E amici – amici moderni, interessanti, scrittori, pittori, poeti o persone appassionate di questioni sociali – proprio il genere di amici che desideravano. E c’erano i libri, e c’era la musica, e aveva trovato una sartina meravigliosa, e in estate sarebbero andati all’estero, e la nuova cuoca faceva delle omelette superbe…”. Bertha è molto felice, quindi, addirittura raggiante, e lo rimane nel corso della cena

offerta a ragguardevoli ospiti, condita di complimenti reciproci, sorrisi, pettegolezzi, commenti sulla moda e sulla politica. Solo quando, a fine serata, tutti si accomiatano, si accorge di un inequivocabile gesto affettuoso del marito nei riguardi di una raffinata commensale: sospesa e incredula, preferisce non interrogarsi sull’accaduto e sulle amare sorprese che potrebbe riservarle il futuro, volgendo uno sguardo timoroso, ma comunque grato, alla bellezza immobile del giardino oltre i vetri della finestra.

La stessa normalità agognata e improvvisamente infranta da un’inattesa rivelazione fa da sfondo agli altri sette racconti, in cui l’intreccio degli avvenimenti rimane in secondo piano rispetto alla descrizione attenta delle atmosfere domestiche, dei sentimenti dei personaggi, senza osare approfondimenti psicologici, sfiorati appena con una lievità sensibile e non superficiale alle increspature delle anime. Nessuna recriminazione o rivendicazione femminista, però: solamente un’adesione solidale alla sofferenza delle donne, e uno sguardo indulgente sulle fragilità umane.

Ecco quindi la ragazzina imbarazzata dalle attenzioni seduttive del maestro di pianoforte (“La sua voce è troppo, troppo gentile”); i due amanti che si rivedono dopo sei anni, riscoprendo in se stessi le stesse meschinità e gelosie del passato; il tormentoso viaggio in carrozza di due sposi che non si sopportano; l’anziana che per evitare la solitudine frequenta il parco sotto casa spiando le vite altrui; la debuttante complessata al primo ballo in società; due sorelline povere esiliate dalla scuola dei ricchi; una domestica innamorata del suo canarino, a cui Katherine Mansfield  fa pronunciare la frase più rivelatrice di tutti gli otto racconti: “Forse non importa poi tanto cos’è che si ama al mondo. Ma qualcosa si deve amare”.

 

«Gli Stati Generali», 20 agosto 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PIGOZZI

ELENA PIGOZZI, LE SARTE DELLA VILLAREY – MONDADORI, MILANO 2025, pagine 212

L’ultimo romanzo di Elena Pigozzi, Le sarte della Villarey, edito da Mondadori, presenta una struttura meditata e compiuta sia nella parte storica che in quella di invenzione. Ambientato ad Ancona nel 1943, prende spunto da una vicenda realmente accaduta, che vide come eroica protagonista una sarta semianalfabeta, Alda Renzi Lausdei, la quale con la collaborazione di molti coraggiosi volontari, riuscì a mettere in salvo dalla deportazione nazista 400 soldati, tra gli oltre 3000 imprigionati nella caserma di Villorey.

L’autrice, basandosi su documenti d’archivio dell’epoca e su ricostruzioni saggistiche recenti, offre ai lettori un quadro ambientale molto particolareggiato nella descrizione paesaggistica e topografica della città marchigiana, come nel resoconto dei drammatici eventi bellici.

Sotto i nostri occhi riappare quindi la disposizione di piazze, strade, chiese, quartieri centrali e periferici (dal più povero e animato, il Pantano, coraggiosamente attivo nel sostegno reciproco tra vicini di casa) e la commossa raffigurazione del panorama naturale: “È lì che si trova il faro vecchio. Ed è da lì che il mare si spalanca, il garbino è una brezza tiepida che ristora, cespugli di capperi l’accolgono in un’esplosione di festa”, “L’odore di pesce fritto che si diffonde nelle strade. I panni che sventolano da un balcone all’altro, l’azzurro del cielo pulito dalle nuvole”.

Altrettanto puntuale è la presentazione dei protagonisti delle vicende narrate. Dal rabbino Elio Toaff, allora al suo primo incarico come guida della comunità ebraica locale, al Parroco Bernardino Piccinelli, successivamente divenuto Vescovo del capoluogo dorico e dichiarato beato nel 2006; dal Prefetto fascista Scassellati Sforzolini, così proditoriamente ostile alla popolazione civile, fino al Ministro degli Interni Ricci: insieme ad altri umili personaggi gravitanti intorno alla caserma assediata dai tedeschi.

A tutto tondo è soprattutto il ritratto di Alda, vedova cinquantenne e madre di quattro figlie, che giorno e notte si logora nelle mansioni sfiancanti di sarta, calzolaia e panettiera, animata sia da una fede ingenua e devota, sia da slanci altruistici verso chiunque si trovi in difficoltà. “Non ha mai un cedimento, una rinuncia o un rifiuto. Sempre avanti, a occuparsi in qualche faccenda. Sempre con le mani che lavorano”, “Non sa scrivere, ma sa leggere negli animi, e forse per questo sa cosa significhi la generosità, il darsi all’altro senza ricompensa, un gesto che è offerta fine a se stessa, niente in cambio, nemmeno un grazie”.

Il lavoro all’interno della caserma, in cui vengono impiegate donne “spazientite, arrabbiate, stanche di soprusi” provenienti dalle zone disagiate della città, consiste nel lavare, rammendare, stirare la biancheria e le divise dei soldati, affezionati in maniera filiale a queste figure femminili, e ricambiati con sentimenti di sollecita protezione materna. Tra le sarte si sviluppa un senso civico e collaborativo di resistenza nei riguardi del potere militare fascista, inaspritosi dopo l’armistizio dell’8 settembre, mentre Ancona sprofonda nel caos, tra fazioni politiche opposte, delazioni, rastrellamenti, razzie: “Ci sono pantaloni, giacche e camicie da imbastire, ma anche cerniere, bottoni e morsine da attaccare, la fatica nel capirci qualcosa. Che fare? Con chi stare? Se il fascismo è finito, allora chi ci comanda? Il re? I carabinieri?”

Quando i tedeschi occupano la città con carri armati, presidi militari, mitragliatrici appostate ovunque, torpediniere attraccate nel porto, e la caccia agli ebrei e agli oppositori politici si fa più feroce, la solidarietà tra i quartieri assediati diventa concreta e tangibile, perché “fare del bene è contagioso. Forse perché è fatto così, il bene: un rivolo che si allarga fino a diventare mare”.

Scatta nella popolazione la ribellione contro la violenza dei nazisti che ammassano nella caserma Villarey migliaia di soldati, con l’intenzione di deportarli nei campi di lavoro in Germania. A questo punto interviene il coraggio e l’iniziativa di Alda, a ideare un incredibile piano di evasione che porterà in salvo 400 giovani militari, con l’appoggio non solo delle lavoratrici interne, ma di tutti gli abitanti dei rioni limitrofi, pronti a rischiare in segreto cooperando nel progetto di soccorso.

Non mi sembra opportuno rivelare in cosa consistesse lo stratagemma ideato dalla protagonista per liberare i prigionieri, benché sia facile intuire dal titolo del romanzo, e soprattutto dal sottotitolo (“La Resistenza con ago e filo”), la sua connessione con il lavoro sartoriale.

Tra chi più si adopera nell’appoggiare Alda e le altre operaie nella loro straordinaria impresa, è la giovane Laura, “delicata quanto un vaso di cristallo”, figura di invenzione che Elena Pigozzi introduce con particolare empatia già nelle prime pagine del volume.

Laura, rimasta orfana dei genitori, vive con il fratellino undicenne Milo, a cui pure è riservato un ruolo attivo nello svolgimento della vicenda. Introdotta e addestrata ai lavori di cucito dall’amica anziana, si applica con dedizione agli incarichi che le vengono affidati, pur ritagliandosi spazi di tempo e riflessione dedicati alla lettura delle poesie di Rilke lasciatele in eredità dal padre insegnante, all’amicizia affettuosa con Pietro, un gentile soldato veneto invaghito di lei, e alla cura attenta del fratello. Laura, Milo, Pietro e altri personaggi sapientemente tratteggiati dall’autrice riusciranno a salvarsi dai bombardamenti aerei e navali con cui la città viene ridotta a un ammasso di polvere, “come un presepe schiacciato”, mentre Alda muore nell’abbattimento del rifugio di Santa Palazia, insieme a 700 concittadini. Il suo sacrificio e la sua abnegazione troveranno la giusta ricompensa nella memoria collettiva anconetana, e in quella particolare dei giovani militari messi in salvo dal suo ingegnoso stratagemma.

Questa pagina poco conosciuta della storia della Resistenza, riportata alla luce e giustamente celebrata dalla scrittura piana ed elegante di Elena Pigozzi, rimane come un luminoso esempio di valorosa audacia femminile, e della capacità di resilienza di tutta una comunità nei momenti più duri della storia.

 

«La Poesia e lo Spirito», 12 agosto 2025

 

 

 

 

RECENSIONI

SEGALEN

VICTOR SEGALEN, THIBET – SMERILLIANA, VENEZIA 2025

Il poemetto Thibet, da poco uscito da Smerilliana con testo francese a fronte, è stato composto da Victor Segalen tra il 1917 e il 1919, ma pubblicato solamente nel 1979 presso i tipi di Mercure de France, in un’edizione critica curata da Michael Taylor.

Personaggio complesso, versatile e affascinante, il medico-archeologo-etnologo-romanziere-critico d’arte e poeta Victor Segalen (Brest 1878-Huelgoat, Finistère, 1919), si era laureato in medicina marittima a Bordeaux con una tesi sulle nevrosi nella letteratura contemporanea. Nel corso degli studi si era avvicinato alla poesia simbolista, frequentando una vasta cerchia di intellettuali e scrittori coevi, tra cui Joris-Karl Huysmans. Imbarcatosi per Tahiti nel 1902 come medico di bordo, si stabilì nell’isola per due anni, interessandosi alla pittura di Gauguin, e in seguito viaggiò a lungo, visitando Giappone, Birmania, Algeria e Cina, dove risiedette per molto tempo con moglie e figli. Appassionato di ogni aspetto della cultura orientale, studiò i miti polinesiani, il buddhismo e il sanscrito. Morì in circostanze misteriose a quarantuno anni, e il suo corpo dissanguato venne ritrovato in un bosco accanto a una copia dell’Amleto. Les immémoriaux, Stèles e Peintures sono le sue opere più famose.

Notizie più approfondite sulla sua avventurosa esistenza si possono leggere nell’argomentata e dotta prefazione di Raffella Poldelmengo, che ha curato anche la traduzione di Thibet insieme a Emanuela Turri, mettendo in luce le difficoltà di resa in italiano del testo francese, scritto in una lingua sonoramente visionaria, insofferente di regole sintattiche e prosodiche, e in grado di giostrare ambiguamente tra metafore e metonimie, con il frequente utilizzo di termini crudamente erotici. Poco accessibile in prima lettura nel suo significato letterale e simbolico, può risultare addirittura ostico nella forma, estranea alla misura razionale della grammatica europea, e vicina invece al modo di comporre orientale, più distesamente libero. A livello lessicale e sintattico, il lettore si trova di fronte a continue inversioni di genere, di numero, di ruoli tra soggetto e oggetto, a neologismi e arcaismi; nel ritmo, nell’uso ribadito delle rime, nella punteggiatura incalzante, pare evidente l’intento del poeta di accompagnare con la prosodia il cammino cadenzato dello scalatore che si inerpica tra le montagne tibetane, “marciatore insolito e sovraffaticato”. Di tale difficoltà interpretativa fu ben consapevole Jorge Luis Borges, che in un’intervista ebbe a dire dell’autore: “I francesi non sanno che in Victor Segalen hanno uno dei più intelligenti scrittori del nostro tempo, forse il solo ad aver realizzato un’innovativa sintesi tra estetica e filosofia occidentale e orientale? Si può leggere Segalen in meno di un mese, ma occorre il resto della vita per iniziare a comprenderlo”.

Thibet è composto da 58 sequenze, ciascuna di 18 versi alternativamente lunghi e brevi, che creano sulla pagina una sorta di disegno richiamante i calligrammi della scrittura cinese tanto ammirata dal poeta. Racconta un viaggio di illuminazione interiore e di ascensione spirituale, concepito a Pechino ma scritto nell’ultimo periodo di vita del poeta, che aveva per anni idealizzato il paese asiatico subendo il fascino del territorio e della sua lingua conosciuti tramite le parole dell’amico Charles Goustave Toussaint. Il testo è articolato in tre tappe: TO-BOD, il luogo raggiunto, LHA-SSA, il paese dove si arriverà, e infine PO-YOUL, la terra non raggiungibile.  Questo “poema esaltante” riflette l’ammirato stupore dell’artista verso la purezza della natura percepita attraverso l’esaltazione del pensiero, una mappa geografica che non ha nulla di concreto, ma personifica terra e cielo in una creazione dello spirito: “Thibet, d’un balzo tu mi sei apparso, – mutato il mondo, – vergine immensa / Al di là dei monti del mio desiderio”.

Le vette irraggiungibili, i misteriosi silenzi, le acque rispecchianti la luce del sole, il canto sottile sussurrato dalle rocce si animano nei versi trasformando l’oggetto della poesia in un soggetto capace di autocrearsi: “Ma tu, Thibet, tu ti sei plasmato, innalzato sulla parte più forte di te stesso, /Eroe che atterra e che commuove: / Non vasaio ma poeta; e non artigiano ma poema / Non dal fuori ma dal dentro; / Dio statuario e dio che è sorto, forbice fuoco e roccia ardente”. Di questo paesaggio divinizzato, assolutizzato, Segalen si fa sciamano ed evocatore, interprete celebrante, investito di una missione rivelatrice e da rivelare: “Trattengo a due [mani] le mie ricchezze: i tuoi metalli e le tue pietre… i tuoi monti e laghi e rocce… // … La sequenza delle mie preziose parole, / La successione incastonata delle mie pietre, la caduta dei miei cristalli tintinnanti / E che, non spaventato dalla mia opera, / Piccolo, in basso, ma non cancellato, né troppo umiliato / Il mio nome come un conio sia nuovamente decifrato!” Lui, “mendicante dell’infinito” è uno dei tre protagonisti del poema, che si accompagna alla raffigurazione paesaggistica di un Thibet “inumano” in quanto aldilà dell’umano, e alla presenza-assenza di una Lei indecifrabile e arcana, divinità in continua camaleontica apparizione (“Lei è estrema, mio demone…// mia multiforme compagna”; “solitaria, penetrante e nuda”). Lei, l’Autre, che in francese definisce sia il maschile sia il femminile, è amante, dea e demone, vergine e vampira, incorporea eppure carnale, “concubina nello spirito e complice nella cosa”, sembianza universale del femminile che contemporaneamente salva e condanna, innalza e umilia.

Il poeta non si sottrae al fascino della terra e della donna, lo affronta vigorosamente, nella baldanza di un cammino che percorre i sentieri e si eleva tra le cime, tra fisicità e sublimazione, consapevole della forza dell’inno di gloria che sta componendo, e che lo renderà celebre agli occhi dell’umanità. Nella sua ascesi non fa spazio allo svuotamento interiore cui si appellano i mistici occidentali, ma rimane vigile e pronto a inverarsi proprio nella realtà della bellezza che lo circonda, come benissimo esplicita Raffaella Poldelmengo: “Un’ascesi tutta terrestre che, mentre va, annota i balenii di tutto ciò che si muove sulla superficie di Thibet, questo dio statuario e sempre nascente: le feste, le processioni, gli yak intrappolati nel ghiaccio, le fanciulle che appaiono e subito scompaiono simili a comete, i ponti aerei da superare, la fatica e la stanchezza conseguente, meravigliose compagne delle soste, l’ebbrezza del vino, le valli immacolate e inaccessibili dove fioriscono piante rarissime: insomma tutta una serie di epifanie in cui si sfrangia il Thibet”.

È proprio il Thibet, anche nella sua incarnazione muliebre, che si divinizza nei versi del poeta, e permane inconoscibile nella sua segreta sublimità, reso manifesto solo dal prodigio della parola poetica: “Io ti ho fatto, scoraggiato Pellegrino, l’Altitudine, il Simbolo, – il Dio”, “Possa io, io – nella tua grandezza scandire a colpi di reni / Questo inno in movimento, questo indomito dono, / Tributo che con slancio si inerpica a Te, il più alto dei paesi! / – Mio cuore, che pulsi in te ogni parola”. Orgogliosamente certo della sua funzione di vate del bello, Segalen demanda ai suoi versi il compito di auto-rivelarsi, di spiegarsi nel dispiegarsi canoro, chiamando anche il lettore a una complicità interpretativa: “Dov’è il suolo, dov’è il sito, dov’è il luogo, – il centro, Dov’è il paese promesso all’uomo? / Il viaggiatore viaggia e va… il veggente lo tiene sotto i propri occhi…”.  Il veggente è diverso dagli altri viaggiatori, desiderosi di impossessarsi con spirito predone dell’anima tibetana: missionari gesuiti, conquistatori avidi di ricchezze, trafficanti e mercanti, disprezzati dalla stessa nobile Terra: “Le tue Potenze ridevano sopra le loro teste”. Se il cammino intrapreso tra cuore e mente non ha portato il poeta alla conquista della cima, irraggiungibile e intoccabile, ha ottenuto però di lasciare in eredità al mondo dei viventi la preziosità di un canto che rimarrà eterno: “– Se c’è qui un uomo, un solo uomo per scalare e lodare te, / Malgrado la spaventosa debolezza. / Fa’ allora, – o Thibet paziente, Thibet che subí le troppo numerose avanie / Che si ricordi questo canto, / Questo poema, da te solo e per te generato nelle sue sequenze, /Questo grido ritmato dalla tua potenza”.

Sia Raffaella Poldelmengo nella prefazione sia Mauro Francesco Minervino nella postfazione mettono in luce quale sia il merito culturale, oltre che letterario, del lavoro di Victor Segalen. Senz’altro l’aver acquisito, proposto e sottolineato, più di un secolo fa, una nuova accezione dell’ignoto, della differenza, di un mondo totalmente “altro” rispetto a quello occidentale, assetato di dominio economico e smanioso di progresso tecnologico, colonialista e bellicoso. Victor Segalen, osteggiato e tacciato di esotismo antieuropeo da scrittori come Paul Claudel, Saint John-Perse, Tzvetan Todorov, fu senz’altro uno spirito eccentrico, antimoderno, ribelle, ma del tutto privo di pregiudizi verso la diversità. Aveva trovato nell’incanto dell’Oriente l’origine favolosa della libertà dello spirito, la luce di una verità che, pur essendo basata su solide conoscenze antropologiche e etnografiche, viene resa più ricca e lungimirante dallo sguardo della poesia: “Io accetto di salire lassù a patto che nei Tempi delle risate beffarde / Si dica che la mia caduta fu bella”.

 

«Gli Stati Generali», 4 agosto 2025

 

 

RECENSIONI

VANNINI-COSI-REPOSSI

VANNINI-COSI-REPOSSI, NON C’È PIÙ RELIGIONE?  – LINDAU, TORINO 2025

Francesca Cosi e Alessandra Repossi (autrici, traduttrici e firme giornalistiche di numerose testate religiose) in un’approfondita e stimolante intervista hanno proposto al filosofo Marco Vannini una serie di riflessioni sul rapporto esistente oggi in Italia tra fede, pratica religiosa, desiderio di spiritualità e dottrina cattolica. Da questo vivace dialogo a tre, condotto in maniera informale e senza pedanteria, è conseguita la pubblicazione di un volume edito da Lindau con il provocatorio titolo Non c’è più religione? Nell’introduzione le due autrici si soffermano su alcune considerazioni riguardanti la diffusione e l’adesione attuale al cattolicesimo della popolazione italiana, che negli ultimi cinquant’anni ha conosciuto una radicale trasformazione sociale, economica e culturale, con una crescente urbanizzazione e il conseguente spopolamento delle campagne, con una massiccia immigrazione straniera religiosamente eterogenea, con la nuclearizzazione delle famiglie e il calo delle nascite, con l’avvento di una legislazione, di ideologie e costumi liberalizzanti e più laici rispetto al passato. Ciò ha prodotto una disaffezione di larghi strati della popolazione dalle consuetudini religiose radicate per secoli nella tradizione, con meno del 20% degli italiani che frequenta la messa settimanalmente, un aumento dei divorzi e delle unioni civili, nuove aperture a culti alternativi.

Marco Vannini, massimo studioso europeo di Meister Eckhart e di mistica medievale, non si è sottratto alle domande incalzanti delle due giornaliste, aprendosi anche a riferimenti autobiografici e offrendo risposte in grado di sfidare i luoghi comuni e le censure che generalmente la cultura cattolica oppone a chi indaga sulla crisi che la attraversa. Partendo dalla basilare differenza che oppone la fede alla credenza (quest’ultima frutto di miti e leggende prive di fondamento razionale, costruite al servizio degli interessi delle chiese, ed accettate acriticamente per abitudine, per timorosa obbedienza, per ignoranza), Vannini richiama al dovere che abbiamo di aspirare all’assoluto, liberandoci da ogni condizionamento e relativismo accidentale, e attuando un distacco sia dalle superficialità mondane, sia dalle rappresentazioni fallaci del divino. Il richiamo del filosofo a una lettura razionale, priva di suggestioni e ingenuità di molti episodi della Bibbia e dei Vangeli, così come di molti dogmi, è severo e puntuale nell’analisi dei racconti e dei protagonisti delle Scritture (dalle figure dei profeti e dei patriarchi alla verginità di Maria, dalla resurrezione di Lazzaro ad altri miracoli…) e della datazione, dell’autenticità e coerenza letteraria dei testi, di cui vengono sottolineati discrepanze, anacronismi e falsificazioni. L’errore fondamentale compiuto dal cattolicesimo e dal protestantesimo è stato quello di selezionare e divinizzare le Scritture, che sono entrate in crisi filosoficamente con l’avvento dell’illuminismo, e la conseguente consapevolezza della loro inattendibilità storica. Allontanandosi giustamente dalle credenze ingannevoli, la società contemporanea ha purtroppo rinunciato anche a pensare l’assoluto, con gli effetti “tragici” cui assistiamo, di sbandamento morale, di crollo di valori, di malessere esistenziale che ha portato masse di persone a cercare soluzioni al male di vivere nelle droghe, negli psicofarmaci, nell’esasperazione di esperienze inebrianti, nell’esaltazione del sesso, della forma fisica, dell’eleganza, e soprattutto nella sopravvalutazione e frequentazione assidua di metodologie e terapie psicologiche e psicanalitiche. In questo senso anche l’affidamento sempre più diffuso a culti esoterici e new age per trovare nuove strade di esplorazione del sé e di cura del disagio interiore va stigmatizzato come privo di reale fondamento, mentre continuano a meritare stima e rispetto religioni millenarie come il buddhismo e l’induismo, lontane dai sistemi coercitivi e punitivi del cristianesimo: in esse Vannini trova un’encomiabile profondità spirituale e un aiuto a superare la sofferenza, nonostante il persistente pericolo di confondere la meditazione con pratiche contemplative guidate, non realmente liberanti.

Il cammino dell’intelligenza verso Dio si può condurre anche al di fuori delle religioni storiche, come insegnano i mistici, in direzione di un’illuminazione interiore da raggiungere attraverso il silenzio, l’ascolto, il distacco dal possesso e dal dominio, l’amore per la bellezza, la ricerca della beatitudine. Anche lo studio della filosofia può sviluppare tali dimensioni, come l’educazione alla magnanimità dell’anima, o il rimanere nella tradizione religiosa in cui si è stati educati senza cadere tuttavia in ciechi fondamentalismi o in un devozionismo acritico. Quello che Marco Vannini continua ad apprezzare del cristianesimo sono le due verità fondamentali dell’unità e trinità di Dio e dell’umanità e divinità di Cristo. Quest’ultimo concetto, snobbato dalla teologia contemporanea, ci insegna in realtà come qualsiasi creatura umana, pur essendo corpo corruttibile, è partecipe dell’essenza divina, lumen de lumine, esattamente come Cristo. Secondo Meister Eckhart “C’è una luce nell’anima, dove mai è penetrato il tempo e lo spazio… Ed è in questa luce che l’uomo deve permanere”.

Rifuggendo dai miti proposti dalla società attuale (il successo, il denaro, la fama), ed evitando anche di chiudersi in comunità ristrette ed esclusive, troviamo nella meditazione solitaria – non elitaria ma universalizzante – la via che apre a questa luce, donata a noi gratuitamente nella dimensione della grazia diffusa ovunque e per tutti, alla quale dobbiamo fare spazio nell’interiorità di cui parla Agostino nelle Confessioni. L’invito che il filosofo fiorentino ci esorta ad accogliere è quindi di ritrovare noi stessi e Dio, “facendo tesoro dell’esperienza di verità della filosofa antica e della tradizione spirituale cristiana”, senza lasciarci distrarre dall’inessenzialità e superficialità di proposte culturali fuorvianti. Invito che l’indovinata immagine di copertina del volume ribadisce, presentando la chiesa in rovina dell’Abbazia di Beauport a Paimpol, in Francia, dai muri diroccati invasi da muschio ed erbacce, e dalle ogive traforate attraverso cui si intravede l’azzurro del cielo, immagine di un Assoluto a cui molti cristiani non sembrano più aspirare.

 

«Gli Stati Generali», 26 luglio 2025

 

 

error: Content is protected !!