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RECENSIONI

VANNINI-COSI-REPOSSI

VANNINI-COSI-REPOSSI, NON C’È PIÙ RELIGIONE?  – LINDAU, TORINO 2025

Francesca Cosi e Alessandra Repossi (autrici, traduttrici e firme giornalistiche di numerose testate religiose) in un’approfondita e stimolante intervista hanno proposto al filosofo Marco Vannini una serie di riflessioni sul rapporto esistente oggi in Italia tra fede, pratica religiosa, desiderio di spiritualità e dottrina cattolica. Da questo vivace dialogo a tre, condotto in maniera informale e senza pedanteria, è conseguita la pubblicazione di un volume edito da Lindau con il provocatorio titolo Non c’è più religione? Nell’introduzione le due autrici si soffermano su alcune considerazioni riguardanti la diffusione e l’adesione attuale al cattolicesimo della popolazione italiana, che negli ultimi cinquant’anni ha conosciuto una radicale trasformazione sociale, economica e culturale, con una crescente urbanizzazione e il conseguente spopolamento delle campagne, con una massiccia immigrazione straniera religiosamente eterogenea, con la nuclearizzazione delle famiglie e il calo delle nascite, con l’avvento di una legislazione, di ideologie e costumi liberalizzanti e più laici rispetto al passato. Ciò ha prodotto una disaffezione di larghi strati della popolazione dalle consuetudini religiose radicate per secoli nella tradizione, con meno del 20% degli italiani che frequenta la messa settimanalmente, un aumento dei divorzi e delle unioni civili, nuove aperture a culti alternativi.

Marco Vannini, massimo studioso europeo di Meister Eckhart e di mistica medievale, non si è sottratto alle domande incalzanti delle due giornaliste, aprendosi anche a riferimenti autobiografici e offrendo risposte in grado di sfidare i luoghi comuni e le censure che generalmente la cultura cattolica oppone a chi indaga sulla crisi che la attraversa. Partendo dalla basilare differenza che oppone la fede alla credenza (quest’ultima frutto di miti e leggende prive di fondamento razionale, costruite al servizio degli interessi delle chiese, ed accettate acriticamente per abitudine, per timorosa obbedienza, per ignoranza), Vannini richiama al dovere che abbiamo di aspirare all’assoluto, liberandoci da ogni condizionamento e relativismo accidentale, e attuando un distacco sia dalle superficialità mondane, sia dalle rappresentazioni fallaci del divino. Il richiamo del filosofo a una lettura razionale, priva di suggestioni e ingenuità di molti episodi della Bibbia e dei Vangeli, così come di molti dogmi, è severo e puntuale nell’analisi dei racconti e dei protagonisti delle Scritture (dalle figure dei profeti e dei patriarchi alla verginità di Maria, dalla resurrezione di Lazzaro ad altri miracoli…) e della datazione, dell’autenticità e coerenza letteraria dei testi, di cui vengono sottolineati discrepanze, anacronismi e falsificazioni. L’errore fondamentale compiuto dal cattolicesimo e dal protestantesimo è stato quello di selezionare e divinizzare le Scritture, che sono entrate in crisi filosoficamente con l’avvento dell’illuminismo, e la conseguente consapevolezza della loro inattendibilità storica. Allontanandosi giustamente dalle credenze ingannevoli, la società contemporanea ha purtroppo rinunciato anche a pensare l’assoluto, con gli effetti “tragici” cui assistiamo, di sbandamento morale, di crollo di valori, di malessere esistenziale che ha portato masse di persone a cercare soluzioni al male di vivere nelle droghe, negli psicofarmaci, nell’esasperazione di esperienze inebrianti, nell’esaltazione del sesso, della forma fisica, dell’eleganza, e soprattutto nella sopravvalutazione e frequentazione assidua di metodologie e terapie psicologiche e psicanalitiche. In questo senso anche l’affidamento sempre più diffuso a culti esoterici e new age per trovare nuove strade di esplorazione del sé e di cura del disagio interiore va stigmatizzato come privo di reale fondamento, mentre continuano a meritare stima e rispetto religioni millenarie come il buddhismo e l’induismo, lontane dai sistemi coercitivi e punitivi del cristianesimo: in esse Vannini trova un’encomiabile profondità spirituale e un aiuto a superare la sofferenza, nonostante il persistente pericolo di confondere la meditazione con pratiche contemplative guidate, non realmente liberanti.

Il cammino dell’intelligenza verso Dio si può condurre anche al di fuori delle religioni storiche, come insegnano i mistici, in direzione di un’illuminazione interiore da raggiungere attraverso il silenzio, l’ascolto, il distacco dal possesso e dal dominio, l’amore per la bellezza, la ricerca della beatitudine. Anche lo studio della filosofia può sviluppare tali dimensioni, come l’educazione alla magnanimità dell’anima, o il rimanere nella tradizione religiosa in cui si è stati educati senza cadere tuttavia in ciechi fondamentalismi o in un devozionismo acritico. Quello che Marco Vannini continua ad apprezzare del cristianesimo sono le due verità fondamentali dell’unità e trinità di Dio e dell’umanità e divinità di Cristo. Quest’ultimo concetto, snobbato dalla teologia contemporanea, ci insegna in realtà come qualsiasi creatura umana, pur essendo corpo corruttibile, è partecipe dell’essenza divina, lumen de lumine, esattamente come Cristo. Secondo Meister Eckhart “C’è una luce nell’anima, dove mai è penetrato il tempo e lo spazio… Ed è in questa luce che l’uomo deve permanere”.

Rifuggendo dai miti proposti dalla società attuale (il successo, il denaro, la fama), ed evitando anche di chiudersi in comunità ristrette ed esclusive, troviamo nella meditazione solitaria – non elitaria ma universalizzante – la via che apre a questa luce, donata a noi gratuitamente nella dimensione della grazia diffusa ovunque e per tutti, alla quale dobbiamo fare spazio nell’interiorità di cui parla Agostino nelle Confessioni. L’invito che il filosofo fiorentino ci esorta ad accogliere è quindi di ritrovare noi stessi e Dio, “facendo tesoro dell’esperienza di verità della filosofa antica e della tradizione spirituale cristiana”, senza lasciarci distrarre dall’inessenzialità e superficialità di proposte culturali fuorvianti. Invito che l’indovinata immagine di copertina del volume ribadisce, presentando la chiesa in rovina dell’Abbazia di Beauport a Paimpol, in Francia, dai muri diroccati invasi da muschio ed erbacce, e dalle ogive traforate attraverso cui si intravede l’azzurro del cielo, immagine di un Assoluto a cui molti cristiani non sembrano più aspirare.

 

«Gli Stati Generali», 26 luglio 2025

 

 

RECENSIONI

RODRIGUEZ DIAZ

LAURA RODRIGUEZ DIAZ, ANNUNCIO – ENSEMBLE, ROMA 2025

 

Siglo Presente è una collana di poesia in lingua ibero-americana diretta da Matteo Lefèvre per le edizioni romane Ensemble. L’ultimo volume pubblicato, con testo a fronte, è Annuncio, della giovane poeta Laura Rodriguez Diaz (Siviglia 1998), autrice dallo “sguardo ostinato”, secondo il prefatore e curatore del testo.

Femminilmente ostinato e coraggioso, si dovrebbe aggiungere, perché entrambe le sezioni di cui si compone la raccolta sono animate da una precisa e indomita forza di denuncia, di ribellione contro la violenza (fisica, morale, culturale) che da millenni viene esercitata nei confronti delle donne.

L’annuncio che dà il titolo al libro è quello per antonomasia, con cui l’Arcangelo Gabriele affidava a una mite “poco più che fanciulla” palestinese l’ardua missione di ospitare nel suo ventre il bambino destinato a salvare l’umanità. Ma già in quella figura alata e celeste, che nella mitologia passa per essere foriera di pace, dolcezza, bontà, Rodriguez Diaz vece celarsi l’ombra del dominio e del possesso, attraverso metafore non equivocabili: “ho rotto / la membrana del cielo / con la violenza di / una nuvola / una sponda su ogni lato / per gridare senza voce / io annuncio / la mia spada è un giglio / che costringe a abbandonare / ogni movimento”. Tutta la prima parte del volume è concepita come un intreccio di voci alternate, in cui a tonalità uniformi ma perentorie si oppongono improvvisi e acuti proclami di verità liberanti, dove non sempre è facile distinguere il timbro maschile da quello femminile. Alcuni versi hanno la sfrontatezza di slogan politici, la rabbia delle rivendicazioni di classe: “benedetta la violenza / perché è di tutti gli animali / e dà frutto”, altri la visionarietà di un incubo animato da bestie feroci, agnelli sventrati, ossa spolpate, uccelli parassiti, scorpioni. La brutalità si annida ovunque, non solo nello stupro patito, ma anche nella gravidanza imposta dalla prepotenza che pretende il corpo femminile sempre disponibile e passivo: “il figlio nasce come qualsiasi paura / e sarai accompagnata / dalla solitudine di dio / e dico che il messaggio è / lo scoppio di uno specchio / sul mio volto dipinto di fresco / frammenti di acqua dura / che esplodono nel mio grembo”.

L’uomo è predatore, anche nella mitezza di un padre che comunque domina e costringe, e merita dunque una ribellione: “mi piace immaginare che vinco / la tua violenza vecchia e abitudinaria / accettata da uomini buoni / con la mia cattiveria al servizio dei deboli”. Dunque la violenza privata è riconosciuta come collettiva, sociale e politica, e va combattuta ad armi pari, attraverso immagini che si susseguono incalzanti e volutamente tenebrose, allusive a una forza senz’altro più demoniaca che angelica.

La seconda sezione del volume, Las niñas de plata (Le fanciulle d’argento), non è meno agghiacciante della prima, sebbene formalmente più controllata nella forma del poemetto recitato da un’unica voce. Qui le protagoniste sono adolescenti raffigurate come pure, virginali, obbedienti e prone al ruolo che la cultura sociale e religiosa ha predisposto per loro, sia con la forza dominante del pensiero maschile sia con la complice accettazione di una parte cospicua dell’universo femminile. Le niñas, dolci, remissive, educate,

sono vittime predestinate e incolpevoli di un potere subdolamente schiavizzante: “le fanciulle d’argento hanno stomaco / e mangiano fango per essere / immacolate”, “le fanciulle d’argento ripetono / le parole che insieme / formano immagini armoniose / ripetono le fanciulle d’argento / parlano di sé in terza persona plurale / per poter esistere bianche”. Poiché a loro è stata presentato per due millenni il mito irraggiungibile di una donna vergine e madre, simbolo eterno di perfezione nella rinuncia a se stessa e nella donazione sacrificale al disegno divino, proprio nei riguardi di questa Signora incorrotta, immacolata, limpida nella propria incorporea trasparenza, si punta sardonico il loro dileggio: “la donna più bella del mondo / è in qualsiasi luogo / sotto qualsiasi forma / una successione di fotogrammi al rallentatore che / non finisce mai”. Ma la sua figura ricattatoria non ha nulla di rasserenante e mansueto: “le mani della donna più bella del mondo / sono un roveto luminoso nel deserto”.

Le giovani infine meditano rivalse, rappresaglie feroci per ritrovarsi nel corpo e nella mente, padrone di se stesse e non soggette a imposizioni altrui: “le fanciulle d’argento hanno trascorso lunghe stagioni / senza scrivere poesie d’amore / hanno seppellito il cuore sotto terra e hanno attaccato l’orecchio al suolo / perché hanno creduto che questa fosse la migliore delle vendette”. L’obiettivo nemico da combattere viene generalizzato nella rappresentazione di un mondo maschile prevaricante e giudicante: “filologi giornalisti addetti culturali / librai professori universitari soprattutto / professori universitari altri poeti traduttori / postini pittori musicisti giardinieri / piloti di formula uno architetti medici”.

Non mi sembra giusto tuttavia circoscrivere la scrittura di Laura Rodriguez Diaz esclusivamente a interessi, visioni ed espressioni letterarie legate all’ideologia femminista, perché in realtà il grido rivoltoso dell’autrice investe anche altri ambiti culturali, e non solo quello dello sfruttamento sessuale, domestico o pubblico. La notevole competenza compositiva di questa giovane poeta, che mi sentirei di accostare all’angosciante sperimentalismo della nostra Amelia Rosselli, esplicita un argomentato rifiuto della struttura linguistica e sociale contemporanea, che nei più deboli – economicamente e culturalmente – e nei non allineati ai modelli comportamentali imperanti, trovano l’agnello sacrificale per eccellenza.

Nella scrittura, e nella poesia in fattispecie, Rodriguez Diaz recupera la possibilità di un riscatto, la capacità di scardinare giochi prestabiliti, ribaltando ruoli ossidati, in “una missione, una ricerca etica ed estetica che sposa il nostro tempo e la sua sete di sorriso e giustizia”, secondo le parole conclusive dell’intensa prefazione di Matteo Lefèvre.

 

«Gli Stati Generali», 18 luglio 2025

 

INTERVISTE

BIBLIOTECA DI TERZO

Biblioteca Poetica “Guido Gozzano” di Terzo: intervista al responsabile Roberto Chiodo

Biblioteca Poetica “Guido Gozzano” di Terzo: intervista al responsabile Roberto Chiodo

Abbiamo incontrato e posto alcune domande a Roberto Chiodo, segretario dell’Associazione Culturale “Concorso Guido Gozzano” e responsabile dell’unica biblioteca italiana dedicata interamente alla poesia, situata a Terzo, piccolo paese del Monferrato (Via San Sebastiano, 8, 15010 Terzo – Alessandria).

L’intervista a Roberto Chiodo

  • Da quando è attiva la vostra Biblioteca e quanti addetti occupa, tra personale dipendente e volontari?

La biblioteca è stata aperta nel 2015 dall’Associazione Culturale “Concorso Guido Gozzano” nei locali dell’ex asilo nel centro polifunzionale “Mario Mariscotti” e poi ampliata nel febbraio 2023 ed è gestita da tre volontari.

  • Come mai avete scelto di occuparvi soprattutto di poesia? Quanti volumi avete in catalogo e su quale bacino di utenza potete contare, localmente e a livello nazionale?

Il motivo per cui abbiamo deciso di aprirla a Terzo e non in una città è dovuto al fatto che dal 2000 viene organizzato un premio di poesia dedicato a Guido Gozzano. Con il passare delle edizioni è cominciato un lungo lavoro di catalogazione di tutti i libri che hanno partecipato al premio. Sono disponibili circa 10.000 libri di poesia e si possono prendere in prestito gratuitamente, previa un’iscrizione alla biblioteca anche per i non residenti. È consultabile online un catalogo parziale del posseduto.
La nostra biblioteca è rivolta ad appassionati e studiosi. La sua funzione principale resta comunque quella di conservazione, tenendo in considerazione che molte pubblicazioni non vengono più ripubblicate e diventa difficile trovarne una copia.
La biblioteca è presente nel catalogo delle biblioteche piemontesi www.librinlinea.it e, ovviamente, nel catalogo nazionale opac.sbn.

  • In quale maniera la comunità di Terzo ha accolto e appoggiato il vostro progetto?

Nel nostro paese, oltre al concorso di poesia, dal 1989 viene organizzato un concorso per giovani pianisti e vi sono spazi adatti a presentazioni e incontri letterari. È molto attivo il gruppo dei camminatori che vuole valorizzare e far conoscere i sentieri ed è nata una collaborazione organizzando le passeggiate poetiche nei nostri territori patrimonio dell’Unesco. L’Amministrazione comunale ha fornito i locali per la biblioteca.
Cerchiamo di avvicinare i terzesi, e non solo, alla poesia con eventi dedicati ai classici della poesia, a Gozzano, a eventi di musica e poesia, a tornei di poesia slam.

  • Quali attività promuove la Biblioteca, oltre alla consultazione dei testi in sede, per incoraggiare la lettura soprattutto tra i più giovani?

La nostra associazione collabora con le scuole di Acqui coinvolgendo gli studenti, e abbiamo organizzato in passato letture di libri presenti nella nostra biblioteca e in futuro senz’altro cercheremo di organizzare iniziative per favorire la conoscenza degli autori di poesia che purtroppo sono poco presenti nelle librerie e non studiati a dovere nelle scuole e nelle Università.
L’aspetto più interessante riguarda il recente gemellaggio con la Biblioteca di poesia di Canegrate, una cittadina nell’hinterland milanese. I nostri obiettivi saranno quelli di mettere online un catalogo condiviso del patrimonio librario delle due biblioteche, organizzare eventi poetici e pubblicizzare le nostre iniziative.

  • Spronate i vostri frequentatori anche alla produzione di componimenti in prima persona attraverso corsi di scrittura?

Al momento in biblioteca organizziamo corsi di lingue straniere ma non si è ancora pensato a un corso di scrittura.

  • Ci può descrivere in maniera più dettagliata in cosa consiste il Concorso Guido Gozzano?

Il Concorso Guido Gozzano è stato istituito nel luglio del 2000. Del vecchio gruppo di organizzatori siamo rimasti solo io e il Prof. Carlo Prosperi. Il premio letterario si divide in quattro sezioni: tre dedicate alla poesia edita ed inedita e una al racconto breve inedito.
Ogni anno il bando viene pubblicato tra fine marzo e metà aprile e la cerimonia di premiazione si svolge solitamente a metà ottobre. Al concorso anche quest’anno si è vista una partecipazione di oltre mille iscritti provenienti da tutta Italia e anche dall’estero.
L’Associazione mette a disposizione premi in denaro e tutto il lavoro degli organizzatori e della giuria è svolto in maniera gratuita. La valutazione dei testi inediti è in formato anonimo e l’obiettivo è di premiare la qualità delle opere in concorso mantenendo la caratteristica di un premio indipendente.

«SoloLibri», 18 luglio 2025

 

RECENSIONI

SIMONSEN

KIM SIMONSEN, LA COMPOSIZIONE BIOLOGICA DI UNA GOCCIA DI ACQUA DI MARE PORTA CON SÉ L’ECO DEL SANGUE NELLE MIE VENE  – I LIBRI DI MOMPRACEN, FIRENZE 2025

 

L’arcipelago delle Fær Øer, appartenente alla Danimarca, è situato tra l’Atlantico settentrionale e il Mar di Norvegia, e a metà strada tra le Isole Shetland e l’Islanda. Gli abitanti parlano una lingua più simile all’islandese che a quelle scandinave, e in questa sua non facile lingua nativa Kim Simonsen, poeta e docente di letteratura a Reykjavik, ha composto i versi recentemente pubblicati dalle edizioni I libri di Mompracen con un titolo lunghissimo e suggestivo: La composizione biologica di una goccia di acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene.

Curatore del volume è Giovanni Agnoloni, che nell’approfondita e appassionata postfazione si sofferma sia sulla personalità di Simonsen – da lui conosciuto parecchi anni fa – sia sulla propria traduzione dall’edizione inglese del volume, sorretta da un puntuale confronto con la specifica terminologia faorese.

Già dal titolo possiamo intuire quali sedimentazioni di pensiero nutrano la raccolta: la convinzione, intellettuale e morale, che esseri umani e non umani appartengano a un’unica realtà fisica condivisa, e in particolare che sia l’acqua, nelle sue varie nature costitutive, il comune denominatore della fisicità

universale. Le isole Fær Øer (dove Ingmar Bergman si era ritirato e ha voluto essere seppellito nel 2007, dopo avervi girato i suoi film più emotivamente intensi), sono battute dal vento e avvolte nella nebbia, sferzate da piogge violente per la maggior parte dell’anno. In questo paesaggio, umido e malinconico, sono ambientate le liriche di Simonsen, nutrite non solo da una visione olistica (in cui convergono tracce di eco-criticismo, post-umanismo e neo-materialismo), ma anche da profonde conoscenze biologiche, chimiche, geografiche.

Le quattro sezioni di cui si compone il volume (Prima mattina sulla terra, La storia naturale dello spinarello, La filosofia dei pesci, Umani) abbracciano scenari diversi, da quelli più personali e intimistici ad altri che prendono in considerazione ambienti e specie animali, vegetali, minerali tutte in qualche modo fluttuanti, immerse, galleggianti nel mondo liquido: fiumi, laghi, mari, preesistenti a noi e destinati a durare oltre al nostro limitato ciclo vitale di esseri umani, in un moto ondoso perenne, nel “flusso e riflusso del tempo”.

Nella sezione di apertura del libro, Simonsen racconta del ritorno alle sue isole dopo vent’anni di assenza negli ultimi giorni di vita del padre, fino al decesso (“Stamani è morto mio padre; / per tutta la vita ha navigato / gli oceani del mondo”, “Forse c’è qualcosa che non riusciamo a vedere / e di cui nella mia famiglia non parlavamo mai, / ed è per questo che sono tornato nel luogo in cui nacqui / come la trota di mare nascosta nel fiume / che scorre attraverso il villaggio”.

Nella sua “prima mattina / sulla terra / senza un padre” il poeta cammina sulla spiaggia in “sciaguattanti stivali di gomma verde”, osservando le onde che si infrangono tra le rocce, e prendendo nota della vita brulicante che lo circonda nel mare (meduse, alghe, attinie, patelle e mitili), nell’aria (un pettirosso e vari insetti), tra la vegetazione (lombrichi, scarafaggi, funghi, un gatto, una lepre, pecore nere dello Shetland), consapevole di essere lui stesso parte di una natura in continua trasformazione e disfacimento: “Sono virus, / sono alga, / Sono ciò che è ammuffito. // Sono uno / che sa che, / se non altro, tutti questi agenti / un giorno / lo decomporranno / proprio come l’afide / e la lumaca spagnola / divorano la pianta”. E questa consapevolezza torna negli ultimi versi della raccolta: “Ben presto mio padre s’infrangerà come un’onda contro gli scogli e sparirà”.

L’essenza fisica del reale costituisce “una rete intercomunicante” che collega cielo, terra, acque e viventi in “uno stato di flusso liqueforme” in cui “il corpo è una sorta di anima, / e che è attraverso quest’anima / che il mondo entra in noi, / che noi entriamo nel mondo”, in un’eterna distruzione e rinascita che si protrae da millenni: “L’oceano sta erodendo queste sponde; / i flutti s’infrangeranno su questa terra / finché l’ultimo faraglione non sarà abbattuto”. Perché “dall’oceano siamo venuti tutti, / all’oceano tutti ritorneremo”, come già affermava Anassimandro, asserendo che “tutto ciò che sta morendo / ritorna all’elemento / da cui proveniva”. E noi veniamo da lì, da un amnio che ci ha formato e cullato, grande utero marino che di nuovo ci accoglierà, cellule piene d’acqua come siamo, pronte a scioglierci “nell’offuscarsi del flusso evolutivo”

Quindi nelle due parti centrali della silloge, l’attenzione del poeta si sofferma sui pesci, nostri progenitori, dai minuscoli spinarelli alle trote con cui giocava da bambino, sapendo che bisogna dare voce a chi non ha voce, ma esiste, vive, sente esattamente come noi: “Ascolta ciò che non può essere udito, e poi scrivine. / Ascolta gli alberi più antichi, rendi omaggio a quelli morti da poco. / Ascolta Glisomigliamo ad altri esseri viventi / dai corpi non umani”, “Siamo umani / anche quando il Neanderthal che è in noi / afferra una mosca / e, per una frazione di secondo, / valuta se mangiarla”.

Siamo umani, ripete il poeta, e siamo anche animali, pesci, batteri, virus, alghe, funghi, manifestazione di un’energia vitale della materia che ci rende parte di un tutto cosmico pulsante, vibrazioni destinate a perpetuarsi nel cambiamento, “rigagnolo tra epoche diverse”.

 

«Gli Stati Generali», 8 luglio 2025

 

RECENSIONI

KING

STEPHEN KING, A VOLTE RITORNANO – BOMPIANI, MILANO-FIRENZE 2025

 

Non sono tra coloro che considerano la giallistica una letteratura di secondo livello rispetto alla narrativa tradizionale: la ritengo degna di interesse e di stima, e non solo perché attira un numero sempre crescente di lettori e costituisce una fonte insopprimibile di entrate per la nostra editoria. Ma anche perché tra gli scrittori di thriller, di horror, di polizieschi esistono autori ragguardevoli, che leggo e ho letto sempre con piacere.

Il nostro Scerbanenco, ad esempio, che è stato un appassionato scrutatore della malavita milanese, e un profondo conoscitore degli abissi tormentosi dell’animo umano. Ma anche Simenon, acuto ed elegante nello scandagliare i sentimenti, gli ambienti, le imprevedibili azioni dei protagonisti dei suoi romanzi e dei suoi racconti.

E poi c’è il fenomeno Stephen King, venduto e tradotto in milioni di copie in tutto il mondo, trasposto in decine di pellicole cinematografiche, preso ad esempio, ammirato e imitato da moltissimi volonterosi giallisti. Il suo stile così “americano”, rapido e secco, intessuto di dialoghi spesso frenetici, e i suoi contenuti ricchi di intrecci complicati e soluzioni ad effetto mi hanno sempre colpito, anche se confesso che rimango maggiormente legata alla scrittura ponderata e complessa, minuziosa nelle descrizioni e ricca di subordinate, cui ci ha abituato la nostra tradizione classica europea.

Bompiani ha ripubblicato da poco una raccolta di venti raccontiA volte ritornano, uscita negli States nel 1978 con il titolo Night Shift ed edita in Italia nel 1981. L’affettuosa introduzione all’antologia è dovuta alla penna di John D. Mac Donald, uno degli autori preferiti di King, e la prefazione è dello stesso King, che per la prima volta si rivolge direttamente al lettore raccontando di sé e della propria scrittura: “Parliamo, io e te. Parliamo della paura”. E provocare paura, anzi vero e proprio terrore in chi legge, sembra sia stata la principale intenzione dell’autore, secondo quanto ha dichiarato commentando queste pagine: “Nei miei racconti incontrerete esseri notturni di ogni genere: vampiri, amanti dei demoni, una cosa che vive nell’armadio, ogni sorta di altri terrori. Nessuno di essi è reale. L’essere che, sotto il letto, aspetta di afferrarmi la caviglia non è reale. Lo so. E so anche che se sto bene attento a tenere i piedi sotto le coperte, non riuscirà mai ad afferrarmi la caviglia”.

Presentare un riassunto dei venti racconti antologizzati sarebbe inutile e controproducente per chi volesse affrontarne la lettura. Introdurrò sommariamente la trama di quelli che più mi hanno colpito, senza rivelarne la conclusione. Tra i primi, Secondo turno di notte, in cui un giovane operaio viene reclutato da un sadico datore di lavoro per ripulire lo scantinato dello stabilimento invaso da sporcizia e da colonie di ratti enormi e famelici, pronti a vendicarsi atrocemente dell’invasione umana nei loro territori sotterranei. Io sono la porta è la vicenda di un astronauta che durante una spedizione su Venere subisce delle mutazioni causate da un gene alieno, che permettono a un’intelligenza extraterrestre di controllare il suo corpo, spingendolo a commettere efferatezze, e a spiare il mondo degli umani. Ne Il baubau un paziente psicotico racconta al suo psichiatra come una creatura assassina nascosta negli armadi di casa abbia ucciso i suoi tre figli. Camion (Trucks), due volte riadattato per il cinema, in cui un gruppo di persone bloccate in un ristorante sull’autostrada viene assediato da camion e autotreni animati da una forza misteriosa, che farà di loro i futuri dominatori del pianeta. A volte ritornano, dove un professore vittima in gioventù di un atto di violenza da parte di teppisti che gli avevano ucciso il fratello, invoca il soccorso di un demone per castigare alcuni alunni in cui vede reincarnati i propri aguzzini. L’ultimo piolo della scala, privo di elementi orrifici ma intriso di suspence e di dolore, nel resoconto di un episodio infantile che aveva drammaticamente segnato la vita del protagonista e di sua sorella. L’uomo che amava i fiori, storia di un serial killer dall’animo gentile e ingenuo che di notte si trasforma in feroce assassino inseguendo il fantasma della fidanzata morta.

Omicidi, mostri, pazzi schizofrenici, alieni, spettri che forse non ci fanno più tremare, abituati come siamo a ben altre quotidiane scene di violenza, ma certo ci lasciano un senso di inquietudine, come già cinquant’anni fa si era prefisso di creare in noi l’indiscusso maestro dell’horror Stephen King.

 

«SoloLibri», 3 luglio 2025

RECENSIONI

SQUIZZATO

GILBERTO SQUIZZATO, IL SOVVERSIVO DI NAZARETH – GABRIELLI, VERONA 2025

 

Gilberto Squizzato (Busto Arsizio, 1949) ha iniziato la carriera giornalistica dirigendo un periodico del dissenso cattolico della provincia di Varese. Come assistente cinematografico, ha collaborato con Mario Amendola, José Luis Merino in Spagna, Alberto Lattuada e Carlo Lizzani. Assunto in RAI, ha lavorato per vari TG, mettendosi in luce come autore di trasmissioni e inchieste televisive, per passare poi alla regia con alcuni importanti docufilm sulla rete diretta da Angelo Guglielmi. Dal 2007 è stato docente sia all’Università Statale sia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano. Tra i suoi libri: La tv che non c’è (Minimum Fax, Roma, 2010), Libera Chiesa (Minimum Fax, Roma, 2012), Il Dio che non è ‘Dio’ (Gabrielli, Verona, 2012), Il miracolo superfluo (Gabrielli, Verona, 2014), Se il cielo adesso è vuoto (Gabrielli, Verona, 2018), Sussurri e grida. Salmi laici e cristiani per il nostro tempo” (Gabrielli, Verona 2021).

Sempre per l’editore veronese Gabrielli ha da poco pubblicato un nuovo volume di argomento teologico Il sovversivo di Nazareth. La conversione dell’operaio che non voleva essere il Messia. Il suo appassionato interesse per la teologia si esprime anche nei numerosi interventi registrati su YouTube, volti a liberare l’immaginario religioso tradizionale attraverso l’adesione a una fede laica, consapevole e liberante.

Una lettura, se non sovversiva, certamente polemicamente atipica e coraggiosa, quella che Squizzato propone di un Gesù lontano da canoni religiosi e accademici, da molti travisamenti moralistici, e da rozze deformazioni sedimentate nei secoli. La sua rigorosa indagine storica, suffragata da un ingente apparato di note e citazioni, contesta la dottrina del monofisismo (IV secolo d.C.), secondo cui la natura divina di Cristo avrebbe completamente assorbito e subordinato le sue caratteristiche più specificamente umane, e quella del duofisismo (Concilio di Calcedonia del 451) che sosteneva la coesistenza in Gesù Cristo di entrambe le nature, umana e divina. Rivendica invece l’autentica e concreta realtà dell’uomo Gesù: “Se non fosse stato perfettamente e compiutamente uomo, tutta la sua vicenda si sarebbe ridotta alla pura messa in scena di un copione deciso prima dell’inizio dei tempi nell’alto dei cieli”. Non avrebbe infatti sofferto, dubitato, pregato come ci raccontano i Vangeli.

A proposito dell’originalità e affidabilità dei quali, l’autore non nasconde la propria diffidenza. Scritti tra i quaranta e i settanta anni dopo la morte di Gesù, da redattori che non si conoscevano tra loro, essi sono hypomnemata, semplici appunti, promemoria fluidi e aperti, che dovevano servire come sommari per la predicazione, essendo destinati a comunità differenti e geograficamente lontane, spesso da tutelare politicamente attraverso censure, utilizzando addirittura stratagemmi drammaturgici per invogliare all’ascolto masse semianalfabete. Nelle diverse narrazioni evangeliche Squizzato sottolinea discrepanze, illogicità, ridondanze, rimaneggiamenti ed errori di traduzione dall’aramaico al greco (valga l’esempio del termine Dio che proviene dal sanscrito “dv”, “esperienza di luce”, tramutato nel “theòs” greco che indica “il divino”): gli episodi dell’uccisione di Giovanni Battista, della chiamata dei dodici apostoli, del Discorso della Montagna fino alla moltiplicazione dei pani risultano, insieme a molti altri, incoerenti e discutibili.

Nei quattro Vangeli e in seguito nell’interpretazione paolina, ripresa in toto da Agostino, l’umanità di Gesù fu progressivamente eclissata per consegnarci una figura a-storica, avulsa dalla sua vicenda terrena davvero rivoluzionaria, e assorbita in una dimensione esclusivamente metafisica. L’esaltazione del valore sacrificale della croce diede vita alla dottrina dell’espiazione come nucleo portante di tutta la predicazione gesuana, al fine di ottenere la redenzione dell’umanità dal peccato attraverso l’immolazione dell’Agnello di Dio, decontestualizzando tutta la portata storica del suo agire e circondando di un’aura magica e soprannaturale la sua creaturalità già a partire dal concepimento virginale. “Sarebbe parziale, insufficiente e perfino falsa anche una lettura dei vangeli che li riducesse a un messaggio esclusivamente etico”, e la puntuale disamina filologia dell’autore mira infatti a ricostruire la realtà personale, familiare, culturale, religiosa del carpentiere di Nazareth, ambientandola nel contesto e nel momento temporale precisi in cui essa ha preso corpo: la Galilea e la Giudea dell’inizio del I secolo.

Viene rivisitata così tutta la storia di Israele già dalla dominazione assira fino al periodo ellenistico e romano nel turbolento, caotico fervore apocalittico che agitava la religiosità popolare di allora. Più di duecento pagine del corposo volume sono dedicate a una minuziosa esplorazione delle vicende e della geografia dell’intera regione, con un ricco apparato iconografico e la comparazione delle fonti bibliche e letterarie. Particolarmente interessante risulta il resoconto dell’occupazione romana, determinata da motivi più logistico-militari che economici: il territorio palestinese non risultava infatti produttivo come quello spagnolo, siculo o nord africano, ma andava sorvegliato in quanto corridoio obbligato per raggiungere l’Egitto, da poco assoggettato, e le rotte più orientali del Mediterraneo. La presa di potere da parte dei dominatori fu da subito avversata dagli ebrei che, rigidamente monoteisti, mal sopportavano le molte divinità romane, né le fastose celebrazioni imperiali da sostenere con imposte esose, e il rancore verso gli occupanti si espresse non solo in una resistenza ostile, ma anche attraverso azioni terroristiche messe in atto da bande di zeloti.

Lo spaccato della vita quotidiana nell’ Israele del I secolo viene raccontato dall’autore con dovizia di particolari: dal lavoro contadino e artigianale alla condizione delle donne, dalla vita familiare (alimentazione, educazione dei figli, situazione edilizia) ai severi rituali religiosi imposti dai Sacerdoti. In questo ambiente politicamente teso, animato da forti dissidi sociali tra latifondisti aristocratici e salariati sfruttati, si situa l’infanzia, la cerchia parentale, il lavoro manuale, il percorso religioso, le amicizie, la scelta dei discepoli, l’ideologia e soprattutto l’azione politica di Gesù, a cui Gilberto Squizzato offre precipua attenzione, rivelandoci un profilo del Galileo molto più concreto, determinato e combattivo di quanto normalmente si creda: un autentico sovversivo che, prendendo risolutamente le parti degli esclusi, dei discriminati, di chi subisce violenza, propose ai suoi conterranei una radicale rivoluzione antropologica da cui potesse scaturire un nuovo assetto economico, sociale e politico del suo paese. Gesù esprime “una visione per il futuro, un’autorità morale di cui Scribi, Farisei e Sacerdoti non dispongono, un carisma che gli deriva da una straordinaria capacità di empatia per i sofferenti: e, oltre a questo, egli dispone di un coraggio unico che gli viene dalla sua fiducia assoluta e indiscutibile nel Signore Jahvè, che ha perso i tratti del Dio punitivo a cui si inchina il Battista e ha assunto, ai suoi occhi, quelli di una misericordia sconfinata”.

Di questa missione più umana che religiosa del carpentiere di Nazareth, così spesso sottovalutata o volutamente taciuta, i lettori possono trovare nelle quasi cinquecento pagine del vivace e arditamente innovativo volume di Gilberto Squizzato numerose, documentate e inattese testimonianze.

 

 

«Odissea», 22 giugno 2025

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SÜREYA

CEMAL SÜREYA, TUTTE LE CANZONI DI ISTANBUL – BOMPIANI 2025

 

Cemal Süreya (1931-1990) è stato un poliedrico intellettuale turco (fondatore di riviste letterarie, saggista, vignettista, traduttore dal francese), e soprattutto poeta, tra i più amati e iconici del suo paese. I suoi versi vengono tuttora riprodotti sui manifesti pubblicitari, trascritti e imitati sui social (con l’hashtag #şiirsokakta – “poesia in strada”), dipinti sui muri, imparati a memoria grazie alla loro icastica musicalità, l’esibita sensualità e l’assenza di qualsiasi pretestuoso cerebralismo. Economista di formazione e funzionario di alto livello in diversi ministeri nazionali, Süreya ebbe una vita familiare e sentimentale movimentata, e proprio dalle sue turbinose esperienze affettive trasse particolare ispirazione per la propria scrittura.

Attivo letterariamente dalla fine degli anni ’50, la sua produzione poetica ha attraversato diverse fasi: dal simbolismo più visionario al descrittivismo oggettivo, ma sempre rifuggendo da un troppo ostentato impegno politico e sociale e dallo sperimentalismo linguistico: i suoi versi accentuavano invece la carica ironica, l’aspetto erotico e l’abbandono sensuale. Così infatti il poeta si esprimeva, difendendo la propria linea poetica: “Nel suo senso più nobile, l’erotismo è il tentativo di cambiare il mondo […]. Lo humour e l’erotismo sono due aspetti che, senza che me ne accorgessi mai, sono penetrati nella mia opera. Evidentemente sono riflessi della mia vita e delle mie letture. Ma ho sempre sentito anche il desiderio di trasferire questi due aspetti, da soli o insieme, su un piano lirico, perfino tragico”.

Nelle prime raccolte il tema amoroso è dominante, nel trasporto esaltante di un canzoniere dalla forza comunicativa immediata, basato su un lessico semplice, volutamente banalizzato e colloquiale, che utilizza modalità espressive vicine alla canzone, con refrain facilmente memorizzabili: “Ti prendo le mani e le carezzo fino al mattino / Le mani tue bianche e ancora bianche e bianche / Sono bianche da farmi paura le tue mani / In stazione il treno si ferma un po’ / A volte sono l’uomo che non trova la stazione”, “Guarda che non mento lo giuro / Sei così bella che più non si può // Ecco anche i tuoi occhi sono qui / La tua coda dell’occhio è abituata a vivere qui / E meno male ch’è qui sennò cosa farei”, “Ora ti alzi e te ne vai. Va’. / I tuoi occhi non restano certo, vanno via. Vadano pure”, “Anch’io sono nudo ma non mangio mele / Non fanno per me le mele così / Ne ho viste tante di mele così ohooo”.

Il poeta ribadisce con forza la gioia procurata dall’innamoramento e dal rapporto fisico, dalle bellezze naturali, dal desiderio di felicità in una Istanbul repressa dalla cappa poliziesca e religiosa, cui non risparmia critiche risentite: “Sono arrivate le canzoni, non potete farne a meno / Le canzoni, ovvero la pace, ovvero il cielo /… Sono arrivati gli Allah, e non c’è modo di liberarsene”, “Stando all’egregio Dio, giacere con te è peccato, ci mancava solo questo”.

Nelle pubblicazioni che si succedono dal 1965 alla morte, Cemal Süreya assume tonalità più accorate e malinconiche, anche nella descrizione delle delusioni e dei tradimenti amorosi (“Io sono andato via da una candida insonnia / Chinando il berretto sul mio dolore / Donna sono stato esiliato sul tuo viso / Eri in ogni strada buia ogni angolo nascosto//… Si sa che sono maestro nell’arte del lamento / Nutro con la mia anima questi uccelli di tristezza”), lasciando spesso prevalere argomenti di un’intimità struggente, mentre l’ironia ha un sapore amaro e sconsolato: “Poi andava a lavarsi la voce / Per aver fatto l’amore al telefono per ore”,  “C’è questa tua voce sinuosa sai / Oscena come un donnone che mangia il gelato, // Comica quanto un sedere poggiato alla ringhiera del balcone”, “Con frasi d’amore e tutto il resto / Non una, non dieci, ma tutte le notti del buon Dio / Mia moglie mi tradiva con la mia ombra”, e in una ventina di poesie dedicate a diverse occasioni ispiratrici il sorriso si tinge di rimpianto nella conclusione sempre uguale: “T’avessi amata anche solo per questo”.

Nella maturità del poeta, il lavoro testuale diventa più complesso, attraverso l’allungamento dei versi e nella loro giustapposizione secondo processi associativi sonori e visivi, nelle continue ellissi-ripetizioni-elenchi marcati dall’assenza di punteggiatura, con un ritorno a formule tipiche del surrealismo. Anche i temi si differenziano, più frequenti risultano i richiami storici, mitologici, religiosi e le esplorazioni geografiche del territorio turco, come nelle articolate composizioni Città vista dall’esterno, Medioriente, Breve storia della Turchia.

Si avverte nelle ultime produzioni la consapevolezza dell’ingiusta prevaricazione del potere sulla libertà individuale, il peso di una violenza patita collettivamente a cui tuttavia risulta quasi impossibile ribellarsi. La prepotenza sofferta dal popolo turco viene riconosciuta ideologicamente, ma accettata con rassegnato fatalismo, e non troviamo nei testi di Süreya un esplicito dissenso, o un appello all’insubordinazione: “Ci siamo spezzati e ci spezziamo ancora // Nessuno potrà toccare la nostra

innocenza”, “Il giorno in cui la libertà arriva / Quel giorno è vietato morire!”, “Siamo abituati alle mancanze o forse all’infelicità?”, “Sei tu la mia patria, o precipizio”. Osserviamo invece una continua aspirazione alla purezza del sentimento, un’ansia di elevazione rispetto alle costrizioni sociali, mentre prevale la nostalgia di rapporti autentici tra gli esseri umani: sentimenti che trovano la loro espressione negli assidui richiami alla luminosità del cielo, al volo degli uccelli, all’indifesa verginità della natura.

La sensazione che rimane al lettore dopo aver scorso le ultime pagine del volume di Süreya è di aver scoperto un poeta che ha fatto della scrittura non solo un metodo di esplorazione lirica della propria interiorità, ma soprattutto il modo di espandere nel canto un’energia vitale sovrabbondante, capace di investire i diversi ambiti dell’esistenza. Intento che è stato ben riassunto in questo suo smagliante verso privo di punto interrogativo, perché afferma e non domanda: “A che serve la poesia se non trascende il buonsenso”.

 

«Gli Stati Generali», 19 giugno 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CELADA BALLANTI

ROBERTO CELADA BALLANTI – MEMORIA, AUTOBIOGRAFIA, ALTERITÀ

MIMESIS, MILANO 2024

 

Roberto Celada Ballanti, Professore Ordinario di Filosofia all’Università di Genova, ha pubblicato presso Mimesis il saggio Memoria, Autobiografia, Alterità nella collana diretta da Duccio Demetrio e Stefano Raimondi Quaderni di Anghiari, che raccoglie strumenti per la formazione, sia in campo autobiografico che biografico. Il testo è la rielaborazione di una conferenza tenuta il 29 settembre 2023 al 25° Festival dell’autobiografia organizzato dalla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Con il sottotitolo Dalla sapienza delle Muse all’infinito nulla dell’uomo contemporaneo, indaga in undici densi capitoli (corredati da un ricco apparato di note) in che modo il racconto autobiografico che recupera la memoria personale e collettiva abbia saputo e sappia intrecciare le linee di passato-presente-futuro, sprofondando nel tempo delle origini e risalendo all’oggi.

Già gli autori delle epigrafi introduttive al volume (Platone, Goethe, Blanchot, Pessoa) indicano quanto Celada Ballanti spazi nella sua ricerca dall’antichità al mondo attuale, dalla filosofia alla letteratura, prendendo in esame anche il mito, i testi religiosi e la storiografia classica.

Memoria, autobiografia e alterità si intrecciano indissolubilmente nel percorso storico e teoretico offerto dall’autore: perché autos-bios-graphein, scrivere della propria vita, è anche scrivere dell’heteron

– dell’altro –, che comunque interviene a incidere in ogni esistenza, modulandola, arricchendola, solcandola di “intermittenze, fratture, strappi, pieghe, interstizi di tenebra”. Siamo fatti del linguaggio che abbiamo ricevuto, della cultura ereditata, e delle esperienze man mano vissute: l’apporto del fuori da noi è innegabile, auto-biografia è in fondo sempre etero-biografia. A partire da questo assunto, Celada Ballanti ricompone le tracce della memoria culturale che ci ha forgiato, nel rapporto con il divino dell’universo greco ed ebraico-cristiano, con l’interiorità personale del primo cattolicesimo, con gli avvenimenti storici antichi e contemporanei, con la problematica relazionalità affettiva dell’oggi, nella volontà di dare “senso al non-senso della nostra opacità originaria, per trasformare il caos in cosmo”.

Le Muse, figlie di Mnemosyne dea della memoria, sono divinità della voce, del racconto e del mythos, che secondo Esiodo narra “ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu”, il tempo eterno delle origini: la comparsa delle Muse significa quindi la nascita della parola, del sogno, del ricordo, del canto, al di là delle barriere temporali. Il legame tra divino e umano viene espresso attraverso di loro nella poesia, mediatrice tra cielo e terra, rivelazione del mistero e rapporto con l’alterità. Da qui, dal canto delle Muse è iniziato un sapere dell’altro che si è prolungato nella scrittura, nella filosofia e nella teologia, propiziando l’avvento dell’autobiografia come conoscenza di sé. Un’esplorazione che tuttavia non è mai limpida e lineare, ma include spazi di oscurità, di non detto e non dicibile, di silenzio e di segreto impronunciabile. Solo la parola poetica è in grado di schiudere la notte e illuminarla, senza imporsi, sottraendosi al senso nella propria chiara innocenza, come suggerisce Celan: “La poésie ne s’impose plus, elle s’expose”. La parola del poeta ispirata dalle Muse è parola originaria che riporta all’essenza del dire, smarrito nei linguaggi quotidiani, futili e ridondanti: nella sua natura magico-religiosa la poesia svela il mistero dell’indecifrabile, facendolo accadere. Per questo il canto delle Muse inquieta, perché richiama a un’essenzialità che rivela l’assenza di significato del parlare consueto, abusato. L’evocazione dell’origine divina e misteriosa della parola, con il richiamo a un’alterità indistruttibile, rimane intatta anche nella scrittura autobiografica, quando un autore scandagliando incontra l’altro, quando sollecitando un ricordo schiude l’abisso del suo “continente interiore”, e ne svela il segreto.

Al canto delle Muse, trasmesso oralmente, è conseguito con uguale desiderio di sconfinamento il sapere dei filosofi greci, comunicato utilizzando la scrittura alfabetica: ricerca della verità, spiegazione razionale di ciò che nel mito veniva esperito emotivamente, poeticamente. Mito e filosofia sono i primi due cardini su cui si radica l’esperienza comunicativa dell’autobiografia. Il terzo fondamento che occorre citare sono i testi sacri. Troviamo in Abramo, visitato dalla voce di Dio, e nella protesta sofferente di Giobbe, l’antecedente biblico delle Confessioni di Agostino: confessione come uscita da sé e dalla propria ferita (“domanda, grido, lamento, invocazione”), e rivelazione dell’altro. Con le Confessioni agostiniane nasce la scrittura autobiografica che conosciamo, siglata anche da Montaigne e Rousseau, in cui il soggetto che racconta fa del suo io una singolarità storica, vicenda inserita nel divenire temporale. Pur conservando tracce del pensiero pagano e cristiano antecedente, qui la novità assoluta consiste nella saldatura attuata tra universale e singolare nella parola confessante, che assume dignità filosofica e teologica perché redenta dall’incarnazione di Cristo, trasformante l’orizzontalità della situazione umana nella verticalità del rapporto con Dio.

Agostino confessa a Dio ciò che Dio sa già da sempre di lui, testimoniando l’evento della grazia e l’impossibilità della padronanza di sé, in una pratica di spoliazione che lo invera e ricapitola in una verità più grande, poiché è Dio che lo agisce e conosce nella sua interiorità più intima (“interior intimo meo et superior summo meo”). Così il soggetto agostiniano si identifica solo perdendosi in un’apertura infinita di sé, destrutturandosi e svuotandosi, arrendendosi a un’alterità che lo eccede e a cui si consegna nella sua povertà e “indecenza” di singolo, però salvata dall’intervento divino.

Sarà Montaigne nei suoi Saggi a scrivere la prima autobiografia secolarizzata della modernità, in cui il Dio cristiano evapora dall’orizzonte umano, permettendo all’uomo di circoscrivere il suo spazio come esperienza, mentre crolla la dipendenza da modelli e autorità costituite e si apre la strada alle rivoluzionarie teorie scientifiche di Cartesio, Galileo, Newton. La denuncia delle guerre di religione, delle crudeltà compiute in nome della fede in cui non c’è alcuna traccia di divinità, fa crollare ogni credenza nelle metafisiche, ontologie e teologie del passato, sostituite dal dubbio radicale nel guidare la ragione. In conseguenza di ciò, si universalizza l’idea del singolare, del ritorno dell’uomo in se stesso, fuori dalla scena del sacro: “Ogni uomo porta la forma intera dell’umana condizione”.

Anche Rousseau ribadisce nelle sue Confessioni la consapevolezza della propria unicità di individuo, deciso a emanciparsi dai pregiudizi sociali che lo soffocano in un’autodifesa polemica e indignata contro le contraddizioni e la sopraffazione delle istituzioni. La sua autobiografia diventa un atto relazionale in cui l’altro è chiamato come semplice testimone: espropriato della propria verità interiore, Rousseau esplora l’abisso della sua anima, relegando al rango di spettatori e non più interlocutori gli altri e Dio stesso. La sua esperienza diretta della degradazione umana e delle contraddizioni sociali lo rende accusatore impietoso dell’ingiustizia umana, proprio attraverso la ricostruzione autobiografica, ripresa ossessivamente anche in opere posteriori nel cui inestricabile labirinto finirà per smarrirsi.

Roberto Celada Bellanti conclude la sua disamina della scrittura di sé affrontando la Lettera al padre di Franz Kafka. Si tratta di una lettera mai inviata a un padre “spettrale”, come quello di Amleto, un padre assente che non può ricevere la confessione né può perdonare. L’asimmetria all’interno del colloquio è totale: il figlio si autoaccusa dando voce al padre, facendosi parlare dal padre; è sopraffatto, invaso, svuotato da lui: “Nei miei scritti parlavo di Te, sfogavo sulla carta quello che non potevo sfogare sul Tuo petto”. La figura paterna si trasfigura nel Tribunale del Processo e nella Legge del Castello. Anche la lettera al padre, dunque, è una scrittura dell’altro: autobiografia come etero-biografia. Scrive Celada Ballanti: “L’ingombro paterno è totale. Ma la fuoriuscita da sé, l’estasi, qui, non è verso il canto delle Muse o il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, e poi il Dio cristiano, non è la grazia di Agostino, e neppure sono gli altri contro cui si scaglia l’indignazione di Rousseau, ma è verso il Nulla. È un’estasi, quella kafkiana, del Nulla”. È lo stesso nihil che domina il nichilismo contemporaneo, il niente di senso e di valore della creatura di fronte alla trascendenza senza volto e senza nome che la domina e la schiaccia. Tuttavia Kafka riesce a trasfigurare il niente di sé attraverso la scrittura letteraria, percorrendo un cammino di ricerca verso un altrove che non è da nessuna parte. Sarà appunto l’esigenza di scrivere a diventare autonoma rispetto alla soggettività personale, nel suo essere altro dalla biografia.

La scrittura autobiografica è quindi parola naufragante, racconto dell’incontro impossibile con l’io, fantasma, spettro inconoscibile che faceva dire a Goethe nel Faust: “Definisci te stesso, è già un enigma”. Si scrive per questo, alla fine: per trasfigurare e trasfigurarsi.

 

«Gli Stati Generali», 10 giugno 2025

 

 

RECENSIONI

VAUDO-FRANCIOSI

 VAUDO-FRANCIOSI, PRIMA MORTE – IGNAZIO PAPPALARDO EDITORE – ROMA 2025

Asia Vaudo e Allegra Franciosi, docenti di FreeFromChains, un’associazione che realizza laboratori di scrittura creativa nelle carceri, hanno pubblicato per i tipi delle edizioni romane Ignazio Pappalardo un volume intitolato Prima morte. Da anni le due giovani insegnanti esperimentano, con la collaborazione della poetessa Zingonia Zingone, cammini di poesia negli istituiti penitenziari di Rebibbia, Regina Coeli e Poggioreale, e dal loro impegno culturale e umanitario è nata l’iniziativa di raccogliere le testimonianze del percorso interiore compiuto dai detenuti, trasformativo e arricchente in termini personali e intellettuali.

Il poeta Davide Rondoni nella prefazione al volume si chiede cosa abbia portato Asia e Allegra, dopo la laurea e un’intensa esperienza spirituale, a dedicare le loro giornate a quest’opera di formazione e riscatto sociale, “a contatto con le storie e le sofferenze più buie … portando con sé il Cantico delle creature di San Francesco e altre poesie”. Entrambe le autrici rispondono manifestando la stessa acuta sensibilità e generosità nel confrontarsi con dolori e rabbie dei reclusi: “Il carcere è uno scrigno. È il luogo delle cose perdute, di un’umanità che arranca, ferita, e che s’aggrappa a te con violenta tenerezza”, “Dalla cattedra dell’aula in cui faccio lezione a Rebibbia si vedono un pino e uno squarcio abbastanza ampio di cielo… Mi domando osservando quello stralcio di mondo come ci si debba sentire a essere esclusi da tanta bellezza, da tutta quella luce, e poterla semplicemente ammirare sapendo di non possederne neanche un frammento”.

Infatti Emilio, uno dei partecipanti ai corsi di letteratura, confessa di sentirsi umiliato e affranto nella detenzione: “È il peggior carcere del mondo, questo di Regina Coeli. Non c’è un campetto per giocare, una palestra. Siamo qui come in uno zoo. Siamo tutti degli uccelli. Vengono le persone da fuori e fanno guarda questo, guarda quello! Degli uccelli”.

Asia e Allegra vengono anche loro da fuori, da un mondo privilegiato e libero, ma a motivarle nell’ insegnamento non è la curiosità o un vago buonismo, il compiacimento cattolico di chi si sa “dalla parte giusta” ed è animato da ansia di conversione. No. Il loro è un lavoro convinto, e senza falsi pietismi, di vicinanza e solidarietà, di passione per la cultura, con la volontà di diffonderla soprattutto là dove potrebbe sembrare superflua.

Gli allievi (perlopiù giovani, tra cui molti stranieri), pur gravati da sensi di colpa e sconforto, da rancore e desiderio di rivalsa e riscatto, partecipano attivamente e con entusiasmo alla loro proposta educativa. Che si concretizza attraverso lezioni di arte (da Bernini a Picasso) e di letteratura (da Seneca a Alda Merini) accompagnate dalla produzione di testi in prima persona, sia in prosa che in versi. Prendendo ispirazione dal Cantico delle creature di San Francesco, splendido inno a Dio e alla natura di cui quest’anno si celebra l’VIII centenario, sono nate le composizioni dei reclusi sull’aria, sull’acqua, sul fuoco, sul sole e la luna. Ne scrivono Claudio (“Io sogno di veleggiare / in una gemma di mare vivo / e gli occhi mi si riempiono / d’oro fuso nel cielo”), Vincenzo (“Cerco il sole cocente / in inverno”), Roberto (“Fuoco che accende amore / fuoco che purifica / anche il vuoto”).

Altro argomento che attira l’attenzione dei detenuti, stimolandone la fantasia e il bisogno di contatto fisico, è l’amore. Ne parla con struggimento Antonio (“Guardavamo insieme le stelle / parlavamo del niente / … ero sete che cercava la tua sete / ci mescolavamo come l’acqua / col fuoco”), e gli fa eco Domenico (“I tuoi occhi – la mia strada / I tuoi orecchi – il mio richiamo / Il tuo naso – il mio profumo / Il tuo volto – il mio amore”). Asia racconta il proprio turbamento quando avverte gli sguardi maschili che la attraversano, esibendo “l’insopportabilità di un desiderio castrato, quello della carne, che muore ogni giorno dentro una gabbia”.

Altrettanto pesante da sopportare per le giovani insegnanti è la nostalgia dei loro studenti per la vita di familiari e amici che scorre escludendoli da ogni bellezza, affetto, possibilità di cambiamento: e allora si cerca di alleviare rimpianto e angoscia discutendo di tanti argomenti diversi, incoraggiando la libera espressione sulle paure, i sogni, le speranze di ognuno.

Il libro, illustrato dal pittore Roberto Pavoni, si conclude con l’intervento di Maurice Bignami, che negli anni di piombo fu condannato per la militanza nell’organizzazione terroristica Prima Linea, divenendo poi promotore del Movimento Dissociazione Politica: nei suoi vent’anni di carcere (la “prima morte”), ha conosciuto la conversione a Cristo e la rinascita nella libertà offerta dal perdono.

Il volume di Asia Vaudo e Allegra Franciosi verrà presentato a Roma Sabato 14 giugno (ore 16:15, Basilica Santa Maria Ausiliatrice al Tuscolano) e il 30 giugno (ore 19:30, Chiesa Nuova di Santa Maria in Vallicella), con la partecipazione delle autrici e importanti relatori.

 

«SoloLibri, 8 giugno 2025»

RECENSIONI

MOSER

SABINA MOSER, UNA SANTITÀ GENIALE – LE LETTERE, FIRENZE 2024

Sabina Moser (1961), di formazione filosofica e teologica, studia da tempo la figura di Simone Weil, su cui ha pubblicato diversi saggi e volumi. Questo suo ultimo testo, uscito da Le Lettere con prefazione di Marco Vannini, esplora in maniera finora inedita il legame che ha unito la filosofa ebrea francese (1911-1934) a San Francesco, accostando la ricerca severamente razionale di lei, originale pensatrice laica novecentesca, alla fede immediata e limpida del frate di Assisi vissuto sette secoli prima: in entrambi ritroviamo infatti la stessa volontà di adesione alla parola di Gesù e la scelta di un cammino esistenziale di purificazione e riduzione all’essenzialità della vita.

Weil aveva un approccio illuminista alla storia delle religioni, ed era fortemente polemica nei confronti dell’autorità ecclesiastica, Francesco aderiva totalmente al dettato delle Scritture, alla rivelazione cristiana e alla sacralità della Chiesa. Ma pur non conoscendo nello specifico il movimento francescano, Weil aveva provato relativamente a esso una forte attrazione emotiva durante un viaggio in Italia, e così ne scriveva: “Nel 1937 ho trascorso ad Assisi due giorni meravigliosi. Là, mentre ero sola nella piccola cappella romanica del secolo XII di Santa Maria degli Angeli, incomparabile miracolo di purezza, in cui san Francesco ha pregato tanto spesso, qualcosa più forte di me mi ha costretta, per la prima volta in vita mia, a inginocchiarmi”.

Francesco come alter Christus le sembrava incarnare il massimo esempio di vita evangelica, caratterizzato non solo dal rapporto interiore tra l’anima e Dio, ma anche dal profondo desiderio di rinnovare positivamente la comunità umana, attraverso la condivisione degli stessi ideali trasformativi, che nella sua introduzione il Professor Vannini identifica in povertà, umiltà, obbedienza, amicizia fraterna, accettazione della sofferenza, rinuncia a sé stessi, apertura gioiosa alla bellezza del mondo.

Sabina Moser nei cinque capitoli di Una santità geniale (accompagnati da un’appendice con accurate note biografiche, letture di brani originali e un’essenziale bibliografia attinente alle figure dei due protagonisti) sottolinea i tratti caratteriali, intellettuali e di fede che accomunavano o distinguevano Weil e Francesco, entrambi segnati da un’uguale e coerente dedizione alla parola evangelica, seppure nelle sostanziali differenze. Tra queste, prendendo a prestito il titolo di un noto testo della filosofa francese – La Pesanteur et la Grâce –, la gravità che contraddistingueva la ricerca approfondita, colta e tormentata di lei, discordava dalla leggerezza e dalla “perfetta letizia” attraverso cui il santo di Assisi rispondeva al richiamo divino.

La comune aspirazione alla spiritualità che li induceva a una spoliazione dei beni materiali aveva in loro modalità contrapposte: se Francesco aveva scelto di abbracciare positivamente una vita povera e peregrina attraverso una decisione personale e volontaria, Simone riteneva giusto attendere che fossero circostanze costrittive a ridurla in indigenza, abbandonandosi in tal modo alla sola volontà di Dio e rinunciando a imporre il proprio desiderio egoista, convinta che “dire io è mentire”.

Così infatti si esprimeva a questo riguardo: “Sono stata conquistata da san Francesco fin da quando ne ebbi conoscenza… Ho sempre creduto e sperato che la sorte un giorno mi avrebbe spinta a forza in quella condizione di vagabondaggio e mendicità che egli accettò liberamente… Sin dall’adolescenza ambivo al matrimonio di San Francesco con la povertà, ma sentivo che non dovevo essere io a darmi la pena di sposarla, perché un giorno lei stessa sarebbe venuta a prendermi a viva forza”.

Inoltre, non li animava un’uguale visione della fede: se l’assisiate coglieva l’aspetto personale della Provvidenza, Weil ne sottolineava l’impersonalismo, inteso come accettazione della volontà di Dio subìta e non intenzionalmente scelta, in ciò proponendo un’interpretazione stoica della rivelazione cristiana, basata sull’umiltà e la totale obbedienza, in grado di svuotare pensieri e azioni, sottraendoli a ogni imposizione soggettiva. Un’ulteriore difformità caratterizzava le loro esperienze di vita: Francesco diffidava della cultura e della scienza, ritenendole pericolosamente seduttrici e manipolatorie, lontane dalla semplicità e dallo spirito di carità. Simone al contrario era permeata di ogni sapere, conosceva a perfezione diverse lingue moderne e antiche, compreso il sanscrito; era consapevole delle ultime conquiste della fisica e della matematica; penetrava con acume critico sia le sacre scritture sia la filosofia, l’arte e la letteratura greca, con una predilezione particolare verso l’Iliade, e non le era estranea la sapienza orientale.

Cosa tuttavia accomunava queste due figure portatrici di una spiritualità luminosa e radicale, nonostante le evidenti diversità storiche, culturali e caratteriali?

Sabina Moser individua numerosi elementi che permettono di rilevare una consonanza effettiva nel loro agire e pensare, aldilà dei secoli di storia che li dividevano. Entrambi morti in giovane età (Francesco a 44, Simone a 34 anni) consunti dall’inedia, dai sacrifici e dalle malattie, erano attratti dal miracolo della bellezza, ovunque essa si esprimesse. Il primo aveva trovato in gioventù nell’ideale cavalleresco un modello di aristocratica cortesia, liberalità e coraggio disinteressato, che dopo la conversione mantenne depurandolo da ogni materialità nella difesa ammirata della magnificenza del creato e di tutte le creature. Simone era affascinata dalla purezza e armonia espressa dall’arte classica, risultato della perfetta concordanza tra l’elemento sensibile e quello ideale, in grado di volgere l’anima verso l’alto: “La bellezza è veramente, come dice Platone, una incarnazione di Dio”.

Altro fattore che metteva in relazione i due era la comune, profonda disposizione all’imitazione di Cristo, esempio di povertà, umiltà, pazienza, giustizia, compassione e carità cui conformare la propria vita. Un Christus patiens, della Passione e della Crocefissione, definito dalla kénosis (cfr. Fil 2,6-11), cioè dallo svuotamento di ogni forza, potenza e imperiosità, che Francesco intendeva come positivo atto di amore verso le creature, mentre Simone in maniera più radicale indicava come mortificazione, nullificazione dell’io: “per diventare qualcosa di divino, non ho bisogno di uscire dalla mia miseria, vi debbo solo aderire… È al fondo estremo della mia miseria che io tocco Dio”.

Moser si sofferma sul complesso concetto weiliano di de-creazione, processo grazie al quale il nostro io, sparendo, distruggendosi, astenendosi dall’affermarsi nel mondo, scorge un dio che per amore ha abdicato egli stesso alla forza, rinunciando all’onnipotenza, e facendosi uomo ha accettato di scomparire per fare posto a noi creature: “Dio non ha potuto creare che nascondendosi. Altrimenti non ci sarebbe che lui”.

Francesco e Simone hanno entrambi compreso di essere stati chiamati a trasformare, nel segno dell’autentica fede cristiana, il modo di vivere della società in cui erano immersi, rinnovandola alla radice.  La loro santità è consistita nell’operare affinché il mondo fosse prossimo al regno di Dio, promuovendo sentimenti di fratellanza, amicizia e pace, aprendosi alla grazia e alla trascendenza.

Rileggerli oggi significa constatare la necessità di un cristianesimo completamente rinnovato, come auspicava Weil: “Oggi non è sufficiente essere santo: è necessaria la santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch’essa senza precedenti […] Un nuovo tipo di santità è qualcosa che scaturisce d’improvviso, una invenzione […] Esige più genio di quanto sia occorso ad Archimede per inventare la meccanica e la fisica: una santità nuova è un’invenzione più prodigiosa […] Il mondo ha bisogno di santi che abbiano genio come una città dove infierisce la peste ha bisogno di medici”.

 

 

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