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RECENSIONI

ECO

UMBERTO ECO, RIFLESSIONI SUL DOLORE – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2025

Con l’abituale e riconosciuta vastità di riferimenti culturali, unita a verve e ironia, Umberto Eco (Alessandria 1932-Milano 2016) in una lectio magistralis tenuta all’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa nel 2014, aveva esposto alcune riflessioni personali sul tema del dolore, oggi riproposte in un libricino pubblicato da La nave di Teseo.

La sofferenza (fisica, psicologica, morale), strettamente collegata alla presenza del male nel mondo, è un’esperienza individuale e collettiva universale, perenne e inestinguibile: Eco qui la esplora attraverso un affascinante itinerario – tra filosofia, poesia, arte, letteratura e spiritualità – non solo nel suo indubbio carattere di negatività, ma anche come possibilità di salvezza e redenzione

A partire dalla mitologia greca, e precisamente da Eris, dea dell’oscurità, fomentatrice di odio e discordie, madre di varie divinità ostili, tra cui Algea (generatrice di dolori), tutte le filosofie e le religioni del mondo si sono interrogate sulla natura del dolore, sulle sue cause e finalità, sui rimedi atti a combatterlo. Pene dell’anima e pene del corpo si influenzano a vicenda, tormenti d’amore e afflizioni per un lutto hanno indubbiamente riflessi avversi sulla salute, così come le indisposizioni fisiche (dal mal di denti alle malattie più gravi) rendono malinconico l’umore, provocano depressione, fino a minacciare la salute mentale. Già dall’antichità sembrava più facile curare il malessere fisico (i medici ippocratici in Grecia lo facevano utilizzando metodi naturali e farmaci vegetali);  problematico risulta tuttora trattare il dolore morale, che si presenta di volta in volta come nostalgia, melanconia, rimpianto, rimorso, angoscia. Su questo tipo di sofferenza si sono intrattenuti i primi filosofi occidentali, dapprima Democrito e poi gli stoici e gli epicurei, che raccomandavano di perseguire l’euthymìa, l’atarassia e l’apatia, cioè la moderazione e l’equilibrio, per arrivare all’imperturbabilità. Anche Aristotele, nell’Etica Nicomachea, scriveva che “Il saggio cerca di raggiungere l’assenza di dolore, non il piacere”.

Con il Cristianesimo il valore dato alla sofferenza, soprattutto corporale, assume un significato positivo e una funzione salvifica, come strumento di redenzione nella sua accettazione rassegnata e addirittura gioiosa. Il modello cui deve ispirarsi il vero cristiano è l’imitazione di Cristo (del Christus patiens, Christus dolens: flagellato, crocefisso, agonizzante), da perseguire fino al sacrificio estremo dei martiri e degli eremiti, celebrati da Agostino e Tertulliano.

Nel Medioevo, sia la predicazione verbale sia le immagini nei luoghi sacri tendevano a ricordare l’imminenza e l’inevitabilità della morte e a coltivare il terrore delle pene infernali, tema particolarmente sentito in quei secoli in cui la vita era più breve di oggi, e minacciata da pestilenze, carestie, guerre e saccheggi permanenti, da cui ci si proteggeva con varie forme di penitenza (cilici, flagelli, digiuni), considerando il soffrire come occasione e promessa di salvezza. Con lo sviluppo della medicina rinascimentale, l’afflizione fisica appare non un bene da perseguire ma un male da eliminare, utilizzando tutte le conoscenze scientifiche a disposizione per diminuirla: al contrario, i filosofi e gli scrittori europei dal romanticismo in poi recuperano laicamente il significato del dolore come strumento di conoscenza di sé e del mondo. Fichte, Hölderlin, Hegel, Schelling, Nerval, Schiller, Leopardi, Schopenhauer, Dostoevskij, Nietzsche, Proust ritrovano nel sentimento del tragico un mezzo di scavo interiore per interrogarsi sullo scopo del vivere, sulla condizione della miseria umana, sul limite imposto dalla morte.

Forse solo nel ‘900 si è tornati giustamente a considerare il dolore, fisico e psicologico, come qualcosa da superare e abbattere, e non più una condanna ineliminabile. In questo la scienza ha favorito un cambiamento positivo nell’atteggiamento con cui ci si pone di fronte alla sofferenza, utilizzando la ricerca scientifica per alleviare le tribolazioni causate dalle malattie e per ridurre le pene dello spirito, come l’ansia o il panico. Concludendo la sua disamina del patire umano, Umberto Eco afferma che andrebbe incoraggiata un’educazione culturale al dolore, perché le persone imparino ad affrontarlo e ad accettarne la funzione biologica, in primo luogo approfondendone cause e rimedi.

 

«Gli Stati Generali», 23 settembre 2025

 

 

RECENSIONI

PENNA

SANDRO PENNA, UN PO’ DI FEBBRE – MONDADORI, 2019.

Colgo l’occasione dell’opportuna e nuovissima pubblicazione mondadoriana in edizione economica delle Poesie di Sandro Penna (Perugia 1906- Roma 1977) per proporre una rilettura delle sue prose uscite nel 2019 con il titolo di Un po’ di febbre. Entrambi i volumi sono risultati da una ponderata scelta dello stesso autore, che così commentava l’antologia poetica del 1973: “Queste sono le poesie che al di fuori di qualsiasi critico io stimo più di tutte. Sarebbero insomma quello che io lascerei ai posteri se posteri esisteranno”. I posteri, che continuano ad amare i suoi versi (e come non amarli?) per fortuna esistono e resistono. Un po’ di febbre raccoglie racconti e pagine di diario, scritti dal 1939 al 1941, in cui si ritrovano i temi tipici di tutta la produzione penniana: l’esaltazione della corporeità, lo stupore per qualsiasi bellezza fisica e naturale, la delicatezza dei sentimenti, la luminosità del paesaggio e l’icona del fanciullo, puer aeternus, simbolo di un’infanzia da celebrare nella sua innocenza primitiva.

Giustificando la propria personale selezione, il poeta umbro così si era espresso: “Queste pagine attestano un rapporto febbrile con la realtà e con il mio lavoro di poeta e le ho sistemate, non secondo un ordine cronologico, poco rilevante, ma una progressiva chiarificazione; per il lettore ovviamente e non per me”. Chiarificazione non tanto stilistica, c’è da immaginare, dato la coerente e costante liricità della sua prosa, quanto sentimentale, accomunante il trasporto emotivo nei riguardi di ciò che a lui pareva degno di attenzione, sgomento, suggestione, meraviglia. “L’atteggiamento percettivo”, di cui parla Roberto Deidier nella sua appassionata introduzione al volume (con commosse parole di poeta che legge e interpreta un poeta), è del tutto evidente in questi racconti, nell’applicazione concentrata con cui l’autore osserva e segnala ciò che appare ai suoi cinque sensi: ogni movimento, espressione, suono, parola, profumo, contatto fisico. Anche quando non attuale e presente, ma rivissuto e riassaporato nella memoria, come viene ribadito nell’uso frequente dei verbi all’imperfetto: andavo/a, guardavo/a, parlavo/a…

Da “flâneur impenitente”, Sandro Penna cammina a lungo e ovunque, si sposta in tram, in corriera o in treno, scruta ed esplora, studia strade, spiagge, fiumi, campagne, osterie, si ferma a parlare con tutti, entra nei negozi e chiede informazioni, non si sottrae a qualsiasi fenomeno atmosferico, dal caldo asfissiante al piovasco leggero fino al diluvio più inclemente. Ma soprattutto appare sensibile alla luce, al chiarore del cielo, all’aria limpida e frizzante. Più di quaranta sono le reiterazioni del sostantivo luce, spesso accompagnato da aggettivi (turchina, fresca, tenera, estiva), oppure riferito agli sguardi e ai sorrisi: “una felice luce canzonatoria negli occhi vividi; gli occhi avevano sempre quella luce scintillante e infantile; la luce era nei denti e nelle labbra perfino”. Come non ricordare i quattro versi semplicissimi, pacati e straordinariamente felici di una sua poesia in cui il mare risplende di una pace serenamente raggiunta e illuminata? “Il mare è tutto azzurro. / Il mare è tutto calmo. / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo”.

Quest’ansia di luminosità, di leggerezza, di candore cercata e amata nell’aria intorno, è ovviamente simbolo e sintomo dell’aspirazione all’innocenza che Penna cercava di trovare sia nell’ambiente naturale, sia nei rapporti personali istintivi e meno costruiti, sia nella visione e frequentazione di adolescenti non ancora corrotti dalle abitudini e dalle imposizioni degli adulti. “Pensavo come evidenti siano le ragioni dell’amore che tutti portiamo ai giovani. Essi hanno la vita, che a noi tutti piace. E non hanno altro piacere che di scambiarla con la nostra povera noia. Vendono una merce preziosa e sovrabbondante, e non hanno bisogno di essere pagati. Di nessuna moneta hanno essi bisogno. Non hanno nulla da comperare”. Un inno alla vita in tutte le sue manifestazioni, talvolta anche le più torbide, ma rese meno brutali dalla profondità del sentirsi parte di un’esistenza condivisa nel bene e nel male del mondo: “Eppure la vita, ogni giorno, fosse sotto un ardente sole, fosse sotto una pioggia autunnale, ci dà, vuol dare ad ogni costo una smentita alla nostra stupida noia, un fresco bacio ora sulla casta fronte, ora sulla fervida bocca”.

Ne abbiamo testimonianza in molti racconti in cui il poeta avvicina dei ragazzi, sentendosi appagato dal solo guardarli, e non restando mai avvilito o contrastato dalla loro totale indifferenza. Spesso è un desiderio fisico, il suo, che sfiora i corpi, turbato, ma non si impone e non si impossessa. Lo sguardo che posa su questi adolescenti è ansioso, stupito, emozionato, a partire dal testo iniziale, in cui il cuginetto Quintilio (“esile e dritto… calmo e lucente”) lo saluta scontrosamente da lontano; così il bruno bigliettaio del vaporetto di Venezia, e ancora il contadinello grossolano osservato in biblioteca, il neghittoso garzone di un bar, l’apprendista del barbiere, i giovincelli seduti al cinema, i marinai che fanno a botte per scherzo e ridono di lui. In questo modo li descrive: “Il ragazzo si volse appena, e allungandosi di più sulla poltrona tirò dalla sigaretta una boccata più languida che mai. I suoi capelli erano proprio quelli dei giovinetti delle statue antiche, e tutto il resto era forse lo stesso con in più il fuoco di quegli occhi e di quella sigaretta nel crepuscolo romano”, “si vedrà quel suo sorriso, quel suo ripiegare la testa dolcemente e malinconicamente e subito dopo, ma subito subito, esplodere in risate aggressive dolcemente, come una grandine primaverile”, “Niente di femminile. Niente di estranea durezza virile. Tutta infantilità. Ma tutta grazia così, come un gatto, un bimbo, inconscia”, “il fanciullo – che è una nuvoletta di riccioli neri coi soliti occhi da meraviglia e il solito colorito di cielo”, “Due ore e più sempre a camminare e durante le quali ho avuto la forza di non toccarlo, di non fare un ragionamento che la triste legge direbbe poi corruttore. Egli è un angelo e non voglio descriverlo … avevo paura della sua bellezza”.

Quando il poeta riconosce in se stesso il peccato, e confessa i suoi rapporti mercenari, allora maledice malinconicamente di non poter semplicemente amare, e di doversi accontentare di avventure fugaci, talvolta umilianti: “A me solo è negata la vera felicità… Per me la legge consente il vizio, non consente il puro amore”. Indifferente alla politica e ai mutamenti sociali, in anni turbinosi di scontri violenti, sangue, repressione, Sandro Penna viveva una classicità senza tempo, quasi mitologica, e le figure che tratteggia, gli episodi che racconta, sfumano in un ideale estetico di armonia e inviolabile purezza: “Fanciullo bello della bellezza delle mie più belle poesie. Tutto è in te delicato senza opulenze e la tua linea semplice e un po’ acerba è così poco amata dal volgo. Hai l’armonia della più grande e più semplice bellezza”.

 

«Gli Stati Generali», 19 settembre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PASOLINI

PIER PAOLO PASOLINI, LETTERA AL FRATELLO E ALTRI SCRITTI

GARZANTI, MILANO 2025

 

Garzanti raccoglie in un piccolo volume testi di Pier Paolo Pasolini, in parte già noti, dedicati al fratello minore Guido, ucciso il 12 febbraio del 1945, poco prima della fine del conflitto mondiale, nel corso di un atroce e controverso episodio della Resistenza, l’eccidio di Porzûs, in cui diciassette partigiani delle Brigate Osoppo furono trucidati da un gruppo di combattenti delle Brigate Garibaldi alleati agli sloveni di Tito, per motivazioni politiche non legate alla lotta contro il nazifascismo. Guido era entrato in clandestinità nel maggio del 1944, subito dopo aver conseguito la maturità scientifica a Pordenone, assumendo il nome di battaglia di “Ermes”. Catturato il 7 maggio del ’45 da un gruppo di partigiani comunisti appartenenti ai GAP friulani, fu processato in modo sommario, e fucilato. Il suo cadavere venne riesumato alla fine della guerra insieme a quelli delle altre vittime dell’eccidio, e il funerale fu celebrato nel giugno dello stesso anno. Ora riposa nel cimitero di Casarsa, a pochi metri dalle tombe di Pier Paolo e della madre Susanna.

Lettera al fratello e altri scritti è organizzata intorno a tre temi principali: storico, artistico, famigliare. Si apre proprio con il commovente testo della lunga missiva del poeta, da lui definita “diario”, scritta giornalmente dal 12 al 18 maggio del 1945, e ritrovata in un fascicolo con il titolo  Scartafaccio Aprile 1945-Dicembre 1945, lasciato nella vecchia casa di Casarsa e recuperato – con altri materiali cartacei – solo dopo il 1975.

Destinatario spirituale della lettera è l’amato ragazzo “pieno di una bontà senza mondo”, da allora in poi divenuto protagonista della maggior parte degli scritti di Pier Paolo, fino all’inizio delle sue produzioni più famose di narrativa, poesia e saggistica. Si apre con una dichiarazione che assomiglia a un vero e proprio patto di sangue (“Caro Guido, ora che so che tu sei morto mi pare di conoscerti veramente; e so cosa vuol dire il nome fratello”), e continua ricordando i momenti più toccanti della loro vita in comune: l’infanzia nella stessa camera da letto e allo stesso tavolo, le camminate in montagna, l’ultima mattina prima della partenza verso una clandestinità fino ad allora ignorata, nell’accompagnamento alla stazione con una valigia che insospettabilmente nascondeva armi: “Eri lì col tuo capo, i tuoi occhi, e i tuoi vestiti; il tuo corpo, ancora assonnato, forse avvertiva il freddo dell’erba bagnata… Abbracciandoci, sentivamo la vergogna di quell’atto; non so che parole ci siamo detti (come vorrei ora riudirle!)”. La rivisitazione dei momenti più teneri e dolorosi della loro vita in comune è raccontata con pudore, con la stessa discrezione appresa nella riservatezza propria dei carnici: “Ci siamo sempre vergognati di certi sentimenti reciproci, e si taceva”.

Pier Paolo mette in luce l’ingenuità, la purezza, l’ardore e il coraggio di Guido, quasi però rimproverandogli il candore fanciullesco che l’aveva convinto a immolarsi per una causa non degna di tale sacrificio, e della fiducia eccessiva prestata a persone meschine, pronte a tradire la sua innocenza: “Tu sei morto per la libertà. Ma per me, sei semplicemente morto; io non credo a nessuna di queste illusioni umane, a cui tu hai umanamente creduto, non solo inesperto, ma, insomma, uomo. Ho promesso alla mamma di esaltarti, di cantarti, con tutta la tua vita. Di far conoscere a questi stupidi uomini il tuo eroismo… L’idea per cui tu sei morto, morirà, se ne andrà, sembrerà una parola di tempi inutili perché passati…  e ti sei sacrificato col gratuito entusiasmo dei diciannove anni; è stata la sorte del tuo corpo entusiasta che ti ha ucciso; non potevi sopravvivere al tuo entusiasmo, Guido”.

Ricorda la sofferenza inconsolabile della madre: “lei è lontana e chiusa in un dolore ormai senza lacrime e tutto silenzio, rotto ogni tanto da uno di quei suoi sospiri, che, tu lo sai, riescono incredibilmente dolorosi e quasi insopportabili”.

Nella prima sezione del libro, più documentale, vengono ricostruiti gli eventi relativi alla morte di Guido, a partire da un suo resoconto in prima persona della “situazione penosissima e grave” creatasi all’interno della lotta partigiana. Segue poi il discorso pronunciato da Pier Paolo al funerale e infine lo stralcio di una lettera a un amico, contenente informazioni dettagliate sulla strage di Porzùs, in cui ancora si ricorda con strazio la figura di Guido: “Non ha potuto sopravvivere al suo entusiasmo. Quel ragazzo è stato di una generosità, di un coraggio, di una innocenza, che non si possono credere. E quanto è stato migliore di tutti noi”.

La seconda parte del volume testimonia la partecipazione emotiva del poeta attraverso la sua produzione in friulano e in italiano (Il martire ai vivi, Còrus in muàrt di Guido, La passione del ’45), fino al primo accorato canzoniere, Odi in morte di Guido. Ecco alcuni tra i versi più appassionati ed emozionanti della raccolta: “Tu sei stato fanciullo per sempre / e intanto gli anni mutavano: / ecco, tutto è mutato. / La tua è la fanciullezza di un morto”, “In che giorno sia nato / nella tua vita il martirio / e senza scampo / ti abbia rapito alla tua casa / adesso è chiaro. / È chiaro il tuo volto ferito / è chiaro il tuo riso / è chiaro il tuo pudore / è chiara la tua elezione / è chiara la tua innocenza”, “Ah, non c’è confronto tra il tuo silenzio, / da quando non sei più figlio né fratello, / e ogni voce di questo mondo. / Resti indietro inascoltato…”, “I ti podevis salvati, / ma tu / i no ti às lassat bessoi / i to cumpains a murì (Potevi salvarti, / ma tu / non hai lasciato soli / a morire i tuoi compagni)”.

Infine, altri testi riportano stralci di lettere scambiate tra i vari componenti della famiglia Pasolini, o con altri personaggi ad essa vicini: testimonianze non esaustive della quantità e complessità dei documenti a disposizione negli archivi della Fondazione dedicata al poeta, ma senz’altro importanti per inquadrare una vicenda penosissima, anche da un punto di vista politico, che ha visto l’ingiusta morte di un diciannovenne trovatosi a “scegliere fra la sua vita e la libertà. E ha scelto la libertà, che vuol dire lealtà, generosità, sacrificio”.

 

«Gli Stati Generali», 13 settembre 2025

RECENSIONI

GACCIONE

ANGELO GACCIONE, UNA GIOIOSA FATICA – LA SCUOLA DI PITAGORA, NAPOLI 2025

Arrivati a quella che in passato veniva eufemisticamente definita “terza età”, è giusto e naturale riconsiderare il proprio percorso intellettuale, e tracciare un inventario di quello che si è scritto e pubblicato, meditando anche sulle proprie censure, esclusioni e inclusioni, indulgenti od orgogliose che siano. Lo ha fatto Angelo Gaccione (Cosenza, 1951) – calabrese residente a Milano dagli anni universitari, prolifico autore in prosa e versi, impegnato culturalmente in innumerevoli battaglie civili e politiche, fondatore ventidue anni fa della combattiva rivista Odissea –, pubblicando Una gioiosa fatica, raccolta complessiva delle sue poesie, scritte a partire dal 1964. Si tratta di una selezione antologica curata dal Professor Giuseppe Langella per le edizioni campane La scuola di Pitagora, con tre contributi critici del 2011 di Franco Loi, Tiziano Rossi e Fulvio Papi, che concordemente sottolineano l’impulso etico come prima istanza della produzione letteraria dell’autore.

Se Loi sottolineava i due aspetti preminenti nella lirica di Gaccione (“l’amore verso il prossimo; la tensione verso qualcosa di trascendente – si chiami natura o società”), Tiziano Rossi gli faceva eco negli stessi termini: “Gaccione punta dritto su rigore e onestà… ecco l’indignazione e l’incitamento, il giudizio pacato e la frustata polemica, la confessione inerme, la caricatura e la gelida constatazione”, e il filosofo Fulvio Papi rimarcava la coerenza di uno stile che riassume esperienza e sensibilità, dolore e saggezza, in un lessico capace di accogliere senza alcuna artificiosità l’onda d’urto del reale.

La raccolta si compone di dodici sezioni (Le ritrovate, Le illuminate, Le straniere, Le Milanesi, Le disperse, Le arrabbiate, Le sacre, Le dolenti, Le liete, Le diverse, Le incivili, Le ultime) che raggruppano i testi secondo vari contenuti, certificando in tal modo la complessità e pluralità degli argomenti trattati.

A partire dalle primissime composizioni adolescenziali, già indicative di una delicatezza emotiva che nel tempo continuerà ad approfondirsi, il rapporto di Gaccione con la propria soggettività mette in luce sia aspetti biografici esterni (il paesaggio, gli affetti, le letture predilette), sia lo scavo introspettivo. Come giustamente rilevava Tiziano Rossi, il pronome io insieme ai possessivi mio-mia- miei tornano in moltissime composizioni, e non con la vanità di un’autocelebrazione, ma proprio a indicare una fortemente voluta appartenenza alla vita personale e collettiva (dai versi elegiaci del 1977 “Avvicinatevi alla mia finestra / nuvole mercanti e straniere” fino al Testamento del 2014: “Poiché ho vissuto / tutta la vita di libri / custodite le mie ceneri / siano ben in vista –/ accanto ai libri / – sul ripiano – / di una Biblioteca).

Milano, “grigia e impura”, è presenza costante in tutta la produzione letteraria dell’autore, e anche in questa antologia le viene dedicata un’intera sezione: “Mia amata-odiata città prima che l’alba arrivi avvolgimi fra i tuoi umori”. Il capoluogo lombardo è raccontato, oltre che nei caratteri più noti (sferraglianti tram, grattacieli, palazzi settecenteschi, giardini segreti, “caos, smog e ferocia” …) anche nella centralità attribuitale dai brutali avvenimenti del nostro recente passato, come la strage di Piazza Fontana. L’attenzione che Gaccione riserva alla storia, italiana e internazionale, è ribadita nelle sezioni del volume intitolate alle Dolenti, alle Arrabbiate, alle Incivili, là dove lo sdegno e la collera dell’autore promuovono appelli alla mobilitazione, all’impegno solidale verso gli sfruttati, i migranti, i senza tetto (“la verità è che puzzano… // lo si può constatare se appena vi sfiorano / emanano un tale lezzo… un che di malsano… / Dio ci scampi di autobus, tram e metrò”). La guerra diventa, nelle parole del poeta, il più grande degli scandali, un’offesa verso Dio e l’umanità tutta, insieme ai gulag sovietici, ai campi di concentramento nazisti e al massacro della scuola di Beslan, per arrivare ai delitti di mafia, alle ingiustizie sociali, all’avvelenamento colpevole dell’aria e delle acque.

La dichiarazione del credo di chi scrive è esplicita: “Io sono un uomo di parte, / e sto da una parte sola: // non è la vostra parte, / questo dev’essere chiaro”. Per Angelo Gaccione fare poesia diventa – oltre che “una gioiosa fatica” – una missione, come recita la citazione di Aristotele che fa da esergo al libro: “La poesia è qualcosa di più filosofico ed elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale e la storia il particolare”.

 

«SoloLibri», 7 settembre 2025

 

RECENSIONI

STERI

MARIO STERI, IL PADRE LONTANO? – IGNAZIO PAPPALARDO EDITORE, ROMA 2025

La parabola del figliol prodigo, narrata nel Vangelo di Luca (15:11-32), appartiene di fatto al patrimonio culturale dell’occidente, così come altre figure letterarie quali Ulisse, Amleto, Faust, riconosciuti simboli universali della natura umana, nella sua ricerca di un significato che oltrepassi il puro accadere dell’esistenza mortale. Il sacerdote salesiano Mario Steri (Cagliari, 1952) ha dedicato ad essa un corposo volume (Il padre lontano?, edito da Ignazio Pappalardo), che propone non tanto un commento esegetico, quanto una riflessione teologica intesa a coglierne il valore sapienziale, come rappresentazione simbolica delle vicende umane attraversate dai temi della colpa, del tradimento, del perdono.

Preceduta dalle due famose parabole della pecora perduta e della dramma smarrita, si allinea a loro nel significare il recupero di qualcosa che era andato perso, viene ritrovato e messo in salvo. Tre sono i personaggi che animano la narrazione di Luca: un padre e i suoi due figli, che entrambi ma in maniera diversa si erano allontanati da lui e da lui vengono riaccolti in un abbraccio misericordioso.

Il padre, a cui spetta il ruolo fondamentale della storia, è l’immagine di Dio che Steri presenta nelle sue caratteristiche essenziali e imprescindibili della trascendenza e della vicinanza.

Trascendenza come necessaria lontananza invalicabile, perché Dio è totalmente altro dal mondo, non addomesticabile e non riducibile ai pensieri e ai desideri dell’uomo (“al di là di tutto”, lo definisce San Gregorio di Nissa): la sua distanza è di tipo morale e ontologico rispetto alle creature, che rimangono in uno stato di dipendenza nei suoi confronti, nell’unico atteggiamento possibile e doveroso dell’adorazione. Non della richiesta, non della prepotenza, e nemmeno della conoscibilità: la lontananza di Dio ne preserva il mistero e l’inaccessibilità, pur essendo garanzia di libertà per l’agire dell’uomo.

Il padre della parabola di Luca, immagine di Dio, rimane nella sua casa, lascia che i figli si allontanino dalla dimora familiare: il minore, spinto da ribellione e volontà di indipendenza, partito “per un paese lontano” (makran, in greco), il maggiore fuori da solo a lavorare nei campi. Entrambi senza considerare il valore della distanza dal genitore e senza onorarla, chiedono rispetto dei loro diritti di figliolanza: l’uno pretendendo la sua parte di eredità da sperperare in modo dissoluto, l’altro esigendo per i propri servizi una ricompensa maggiore. Le loro pretese rispecchiano il fondamentale egoismo del do ut des, non esprimono amore né riverenza: in ciò consiste il loro peccato, nell’allontanamento e nella cieca rivendicazione.

Mario Steri indica nella contrapposizione dei loro comportamenti quella esistente ed esistita tra paganesimo (il minore trasmigra in un paese pagano) ed ebraismo (il maggiore esprime un rigidismo farisaico, obbediente a una logica padronale di interesse). Il padre “lontano” – aggettivo ribadito nel titolo del volume, ma giustamente accompagnato da un punto interrogativo –, non si impone, non contrasta, lascia fare. Li chiama “figli”, comprende la loro ribellione e non la castiga, ma alla fine esce di casa per avvicinarli: “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”, “Suo padre allora uscì a supplicarlo” (vv. 15, 20 e 28).

Il padre accorre, abbraccia, perdona, prepara un banchetto per entrambi ammazzando il vitello grasso. Da lontano e inaccessibile si fa vicino e amoroso, e appunto la vicinanza, oltre alla trascendenza, rappresenta secondo l’autore l’attributo peculiare della divinità e della paternità accogliente. Vicinanza come accettazione, premura, affetto, disponibilità. Il genitore della parabola così parla ai due figli irriconoscenti, gratificandoli: “Presto, portate qui il vestito più bello…mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato (vv. 22-24): “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo (v, 31).

L’autore osa suggerire un’ipotesi trascurata dagli esegeti: che in realtà i due fratelli siano un’unica persona, accomunati dal rifiuto, dalla presunzione e dall’egoismo, in un’unità caratteriale indistinta e percepita attraverso una sfasatura temporale. Uguale sono la loro protervia e la protesta, poi riassorbite nella conversione finale, nell’abbraccio pentito e nel banchetto escatologico, offerti dalla sovrabbondanza dell’amore paterno.

La riflessione teologica di Mario Steri si espande poi alla considerazione di altri fondamentali aspetti dell’azione di Dio nei riguardi dell’umanità, sempre dettati dal bene incondizionato: il suo rapporto con la storia, quella personale degli individui e quella collettiva delle società; la sua reazione al peccato degli uomini; il rispetto per il libero arbitrio; la fede, la conversione, il perdono come momenti caratterizzanti del rapporto tra il Creatore e il mondo.

La parabola narrata da Luca in sostanza vuole indicare l’incontro tra l’amore di Dio e l’amore dell’uomo, al di là delle fragilità e dei tradimenti di quest’ultimo. L’autore che ci aiuta a penetrarne il significato ha dedicato il suo lavoro “a chi cerca e ha chi ha trovato, a chi vuole cercare e a chi è stato trovato”, in una volontà reciproca di apertura e comprensione.

 

«La Poesia e lo Spirito», 7 settembre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DE BEAUVOIR

SIMONE DE BEAUVOIR, SIMONE DE BEAUVOIR INTERROGA SARTRE SUL FEMMINISMO

IL SAGGIATORE, MILANO 2025

 

Un piccolo libro che in Italia ha conosciuto diverse edizioni a partire dal 1976, e ora viene ripreso da Il Saggiatore, questo Simone de Beauvoir interroga Sartre sul femminismo: testo che ancora oggi ha qualcosa da dire, non solo sulla più nota coppia di filosofi francesi, ma anche su quanto è (e non è) cambiato nella percezione dei diversi ruoli sessuali nella società occidentale dal dopoguerra a oggi.

All’epoca di questa pubblicazione, i due grandi intellettuali avevano già scritto singolarmente opere di rilevante spessore letterario e filosofico, che li avevano resi famosi a livello mondiale: romanzi, racconti, saggi, pièce teatrali, ma anche numerosi pamphlet di critica sociale e politica, di notevole impatto provocatorio sull’opinione pubblica (Sartre: Abbiamo ragione a rivoltarci, De Beauvoir: Bruciare Sade?, Brigitte Bardot e la sindrome di Lolita).

Per la prima volta decidono nel 1975 di confrontarsi pubblicamente in una conversazione riguardante la condizione della donna, il femminismo, il patriarcato, sviscerando atteggiamenti e convinzioni personali sull’argomento. Ne deriva uno stimolante colloquio, in cui Simone De Beauvoir riassume il proprio percorso di emancipazione da retaggi culturali sedimentati nei secoli, ed elenca le sfide che attendono l’universo femminile per liberarsi da tali vincoli, incalzando il compagno – sodale di studi e conquiste intellettuali -, sulle sue riluttanze rispetto ai cambiamenti ideologici e comportamentali in atto nella società. L’intervista si dipana tra i due (che si danno del “lei”, come sembra facessero anche in privato), manifestando un corretto e obiettivo controllo della reciproca individualità.

Beauvoir conferma di esser sempre stata incoraggiata da Sartre nelle sue ricerche e pubblicazioni, ad esempio dopo l’uscita del rivoluzionario “Il secondo sesso”, contestato invece da illuminati pensatori di sinistra, come Camus. Entrambi concordano di aver mantenuto negli anni un rapporto di assoluta parità e uguaglianza.

Con sincerità Sartre ammette di non aver mai preso ufficialmente un’esplicita posizione relativamente all’oppressione esercitata dagli uomini sulle donne, perché cresciuto ed educato in un ambiente femminile, in cui certamente avvertiva la violenza della supremazia patriarcale e la subordinazione del ruolo della donna, ritenendoli tuttavia prodotti da una naturale insensibilità maschile e da una passiva accettazione femminile, tratti più caratteriali che culturali. Non ne era insomma scandalizzato, nella stessa misura in cui invece lo turbava lo sfruttamento padronale e imperialistico nei confronti delle classi subalterne e di etnie diverse.

A Sartre, uomo nato a Parigi nel 1905, pareva quindi naturale un certo atteggiamento di superiorità sia verso le donne, sia verso molti uomini ritenuti non al suo livello intellettuale, ma mitigava tale presuntuosa affermazione confessando di sentirsi più a proprio agio e meno competitivo nella conversazione informali con le signore piuttosto che in quelle professionali e competitive con i maschi. Titubante appare comunque la posizione sartriana su come collegare la lotta di classe alla lotta della liberazione delle donne, giustificata dalla convinzione che può esistere complicità tra donne appartenenti a classi differenti, mentre la contrapposizione tra datore di lavoro e subalterno è sempre totale. In una visione prettamente maschilista, Sartre considera la donna borghese solo in quanto sposata con un uomo appartenente alla borghesia, e del tutto disposta ad assumerne i valori, il prestigio e i privilegi economici: “Una borghese non ha mai quel rapporto con la vita economica e sociale che ha l’uomo … è molto di rado in rapporto con il capitale. È legata sessualmente a un uomo che ha questi rapporti”.

Considera comunque la lotta di liberazione delle donne come necessaria e primaria, perché esse si possano svincolare dal giogo dell’oppressione maschile, con gli stessi diritti di accedere a posizioni d’élite e dirigenziali nella scala sociale.

Il quesito finale posto dalla De Beauvoir rimane tutt’oggi non del tutto risolto: “Le donne devono rifiutare interamente l’universo maschile o aprirsi un varco in esso? Devono appropriarsi dello strumento oppure cambiarlo? Intendo la scienza, come il linguaggio, come l’arte. Tutti i valori portano il marchio della mascolinità. Bisogna per questo rifiutarli completamente e tentare di reinventare un’altra cosa, radicalmente, partendo da zero? Oppure bisogna assimilare questi valori, impadronirsene, servirsene, per fini femministi? Cosa ne pensa?” Diplomaticamente, Sartre risponde che l’avanzare delle rivendicazioni femministe, la liberalizzazione dei costumi, il progresso delle conquiste mediche e scientifiche giocheranno in favore delle donne. “L’uomo medio si scontra con delle condizioni esterne che lo rendono propriamente comico… Più facilmente vittima d’inganno e più facilmente comico. La società degli uomini è una società comica… La donna, in quanto oppressa, è in un certo senso quasi più libera dell’uomo. Ha un numero minore di principi che le dettano la sua condotta. È più irriguardosa”.

Pronunciate cinquant’anni fa da uno dei maggiori filosofi del ’900, queste parole suonano quasi come un complimento.

 

«Gli Stati Generali», 3 settembre 2025

 

 

 

 

RECENSIONI

GINZBURG

LISA GINZBURG, UNA PIUMA NASCOSTA – RIZZOLI, MILANO 2023

Il titolo dell’ultimo romanzo di Lisa Ginzburg, Una piuma nascosta, viene suggerito dall’autrice come metafora dell’attenzione dovuta, con leggerezza non esibita, nel rapportarsi ai sentimenti altrui.

Il testo racconta infatti una storia di sentimenti, più che di fatti o azioni, che si instaurano tra i due protagonisti, Rosa e Tan, e nelle relazioni intrecciate da loro con pochi altri comprimari.

Rosa è una undicenne sensibile e riservata, figlia dei custodi della villa padronale dei coniugi Manera, nel podere toscano della Quercetana. Tan, suo coetaneo, è un ragazzino ombroso e irruente di origini moldave, adottato dai Manera dopo un percorso burocratico complicato e sfiancante, tra viaggi all’estero, colloqui con psicologi e ispezioni di assistenti sociali.

I due adolescenti tendono a dissimulare le loro ferite, cercando di curarle in un rapporto via via più solidale di vicinanza e conforto reciproco. Rosa soffre della rigidità materna e di un senso di inferiorità culturale nei riguardi dei proprietari della villa, mitigato dall’ammirazione devota per la madre di Tan. Il ragazzo non riesce a superare l’angoscia dell’abbandono del suo paese, il trauma dei molti anni vissuti in orfanatrofio, la rabbia verso l’ambiente raffinato che lo ha accolto: pertanto sfoga violentemente il proprio rancore per i genitori adottivi, che presto entrano in crisi come coppia, arrivando alla separazione.

I due giovani nutrono la loro amicizia attraverso una frequentazione assidua fatta di giochi con le carte, di linguaggi criptici incomprensibili agli estranei, e di intere giornate trascorse nei campi: Rosa all’ombra di una grande quercia percepita come protezione e accoglienza, Tan accovacciato in un’enorme buca scavata per ripararsi e nascondersi da un fuori minaccioso.

Negli anni del liceo le loro strade si dividono: il carattere rissoso del ragazzo induce i genitori a trasferirlo in un severo convitto di Milano, mentre Rosa, sempre più matura e consapevole delle sue capacità, si avvia a un luminoso avvenire universitario. Divenuta con gli anni un’affermata chirurga oftalmica, dedita con abnegazione al proprio lavoro, si allontana dalla tenuta della Quercetana, e anche dal ricordo di Tan, che nel frattempo si è perso tra vari amori, lavori improvvisati e viaggi tormentosi alla ricerca del passato. Tuttavia si rivedono, in un Ferragosto torrido, tornati entrambi in visita dai parenti: “Camminano senza parlare, un silenzio che dice la fatica di stare in strada con quel caldo, ma in cui vibra anche altro, l’intensità di una strana tensione che monta da sé, spontanea, un’impalpabile aspettativa – qualcosa succederà, ma non si sa cosa”.

E infatti qualcosa tra i due succede, un breve e appassionato riavvicinamento, vissuto nel trasporto dei sensi senza una reale adesione emotiva. La decisione di Rosa di trasferirsi negli Stati Uniti per dedicarsi a un prestigioso progetto di ricerca segna ormai un’irriducibile estraneità, e il congedo che la donna invia online all’amico ritrovato e nuovamente perduto, risulta quasi imbarazzante nella sua logica razionalità: “Però, ecco, c’è che io non so come proseguire, che un tratto successivo di strada da fare insieme proprio non lo vedo… Sono una persona che ha bisogno di calma, metodica, perfezionista. Che per lavorare bene deve avere ritmi sempre uguali…Anche a te auguro di partire, anzi di ripartire… Incontrerai altre persone, succederanno altre cose. Io ti porto con me, oltreoceano”.

Una storia semplice, quella raccontata con garbo da Lisa Ginzburg, di un incontro arricchente e denso di significato, e che tuttavia il trascorrere del tempo rende malinconicamente meno rilevante, quando la pretesa di far rivivere il passato rivela la sua pretestuosa inconsistenza.

 

«SoloLibri», 31 agosto 2025

 

 

 

RECENSIONI

ZWEIG

STEFAN ZWEIG, ADDIO A RILKE – IBIS, COMO 2023, pagine 69

Un poeta e un narratore, tra i massimi letterati novecenteschi in lingua tedesca: Stefan Zweig (Vienna, 1881-Petropolis,1942) e Rainer Maria Rilke (Praga,1875-Montreaux,1926)): si erano conosciuti ed erano diventati amici, ammirandosi vicendevolmente, e alla morte del poeta il narratore (romanziere e saggista) gli dedicò un commovente discorso celebrativo. Addio a Rilke, è il titolo di questo libricino pubblicato da Ibis, in cui Zweig omaggia con profonda stima e sincero entusiasmo la scrittura e la persona dell’amico praghese in un’orazione funebre tenuta il 20 febbraio 1927 allo Staatstheater di Monaco. Ne ripercorre la vita, dall’infanzia in cui, appena appresa la scrittura, giocava con le rime, e poi lungo l’adolescenza e prima giovinezza, già votate alla composizione, con impegno responsabile e perfezionista. Zweig cita tutti i suoi volumi, via via più complessi e meditati, dal Libro d’ore (“forse la più pura elevazione religiosa che un poeta dei nostri giorni abbia sperimentato”) alla luce “asciutta e trasparente” delle Nuove poesie, con la loro “tagliente durezza, vittoria di una oggettività consapevole sulla pura intuizione, trionfo definitivo di una lingua divenuta completamente scultorea”. Per arrivare ai Sonetti a Orfeo e alle Elegie duinesi, “ascesa verso la solitudine che lui stesso aveva scelto”, per “rappresentare il quasi irrapresentabile”.

Una missione, quella che Rilke incarnava nel suo dialogo con l’infinito, al di là delle cose e del più facile sentimentalismo, difendendo il significato ultimo e profondo della scrittura in versi, come rivelò in un brano famoso tratto dal suo unico romanzo, I Quaderni di Malte Laurids Brigge: “Perché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si acquistano precocemente), sono esperienze. Per scrivere un verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna capire il volo degli uccelli e comprendere il gesto con cui i piccoli fiori si schiudono al mattino. Bisogna saper ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e congedi previsti da tempo, a giorni dell’infanzia ancora indecifrati, ai genitori che eravamo costretti a ferire quando ci porgevano una gioia e non la comprendevamo (era una gioia per qualcun altro), a malattie infantili che cominciavano in modo così strano con tante profonde e gravi trasformazioni, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattine sul mare, al mare soprattutto, ai mari, a notti di viaggio che passavano alte rumoreggianti e volavano assieme alle stelle, e non basta ancora poter pensare a tutto questo. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche accanto ai moribondi bisogna esser stati, bisogna essere rimasti vicino ai morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori a folate. E ancora avere ricordi non basta. Bisogna saperli dimenticare, quando sono troppi, e avere la grande pazienza d’attendere che ritornino. Perché i ricordi in sé ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, anonimi e non più distinguibili da noi stessi, solo allora può darsi che in una rarissima ora si levi dal loro centro e sgorghi la prima parola di un verso”.

Poesia come esperienza totale, quindi, rivelatrice e trasformativa, che lo segnò anche fisicamente, portandolo a una morte precoce, a una lenta consunzione mai raccontata ad altri. Zweig non lesina i dettagli anche sull’esistenza materiale dell’amico, sui suoi viaggi solitari da “eterno senzapatria, pellegrino di tutte le strade”, in Russia, Spagna, Italia, Francia, Egitto, Africa, per assorbite atmosfere che diventassero silenziosamente voce e musica poetica. Il suo apprendistato da assistente allo scultore Rodin, da cui apprese la resistenza e l’impassibilità che la materia oppone alla volontà addomesticatrice di chi scrive. Il generoso dedicarsi a corrispondenze epistolari mai superficiali, con giovani aspiranti poeti e le molte ammiratrici. La fragilità fisica di “quest’uomo mite, appartato, silenzioso”, che dall’esterno “appariva delicato, lamentoso e debole”, e invece interiormente era fatto di quarzo, capace di sfinirsi sulle pagine pur di raggiungere l’esito desiderato.

Rilke fu poeta vero, nelle parole contemplanti e meravigliate di Stefan Zweig. Poeta: “parola antichissima e sacra, densa e importante e raffinata, adatta a lui … puro nel volto e nel respiro … che come sempre le cose divine, appare di rado nel tempo… Davanti a un evento così alto, così raro, anche il lutto si trasforma in umiltà e il lamento si scioglie in gratitudine”.

 

«Gli Stati Generali», 28 agosto 2025

 

 

RECENSIONI

AAVV, IL GATTO DI BAUDELAIRE

AAVV, IL GATTO DI BAUDELAIRE E ALTRI GATTI POETICI

LA VITA FELICE, MILANO 2023

 

Sembra che i gatti siano molto amati dagli scrittori, e in particolare dai poeti. Le edizioni milanesi La vita felice hanno pubblicato nel 2019, e riedito nel 2023, una piccola antologia in cui nomi famosissimi della letteratura mondiale celebrano in versi il felino più curato e viziato del mondo: quasi un lare domestico, che con le sue fusa accompagna molte solitudini, o partecipa sornione e senza invadenza alla vita di nuclei familiari numerosi.

Il gatto di Baudelaire e altri gatti poetici (con introduzione e cura di Franco Venturi, che si è occupato anche della traduzione dei testi stranieri, presenti pure in lingua originale), raccoglie tredici autori internazionali omaggianti il gatto. A partire dai due più antichi, Lope de Vega e Jean de la Fontaine, che hanno tratteggiato delle favolette in stile esopiano, fino al più vicino a noi Pablo Neruda, il quale in una sua famosa Ode celebra l’indecifrabilità dell’animale, il suo sottrarsi a ogni superficiale descrizione: “Oh fiera indipendente / della casa, arrogante / vestigio della notte, / neghittoso, ginnastico / ed estraneo, / profondissimo gatto”.

Questa particolare inconoscibilità del gatto, che sembra sottrarsi a una definizione caratteriale precisa, è invece antitetica alla sua concretissima fisicità, che nei poeti qui antologizzati viene raccontata in tre elementi fondamentali: la morbidezza del pelo, la pericolosità degli artigli, l’insondabile profondità degli occhi. Caratteristiche che per molti di loro lo rendono simile alla figura della donna amata. Ne è un esempio riconosciuto lo splendido sonetto di Baudelaire, che mi pare giusto riportare nella sua interezza: “Vieni mio bel gatto, sul mio cuore innamorato; / trattieni gli artigli della tua zampa, / e lasciami sprofondare nei tuoi begli occhi / misti di agata e metallo. // Quando a bell’agio le mie dita a lungo / ti carezzano la testa e il dorso elastico, / e gode la mia mano ebbra / al toccare il tuo corpo elettrico, // vedo in spirito la mia donna: il suo sguardo, / come il tuo, amabile bestiolina, / profondo e freddo, penetra e fende come freccia, // e dai piedi su fino alla testa / un’aria sottile, un pericoloso effluvio, / tutt’intorno fluttua sul suo corpo bruno”.

Altrettanto comune, nell’ispirazione poetica, è il sentimento di sospeso stupore di fronte all’immagine ieratica del gatto, che sembra giungere a noi da tempi arcaici e insieme proiettarci verso un aldilà sconosciuto, come scriveva Borges: “Per opera indecifrabile di un decreto / divino ti cerchiamo invano; / più remoto del Gange e del Ponente / tua è la solitudine, tuo il segreto. // … Sei in un altro tempo. Sei il padrone / di un abito chiuso in un sogno”. Concetto che già Baudelaire aveva preannunciato nei Les Fleurs du mal: “È lui il genio tutelare della casa: giudica, governa e ispira / ogni cosa nel suo impero; / è forse una fata? È un dio?”.  Anche T.S. Eliot (di cui è opportuno ricordare Il libro dei gatti tuttofare) riteneva che in questo animale si celasse qualche misteriosa facoltà, forse celestiale forse demoniaca, nascosta in un nome conosciuto a lui solo: “Quando vedete un gatto in profonda meditazione, / La ragione, io vi dico, è sempre la stessa: / La sua mente è perduta in estatica contemplazione / Del pensiero, del pensiero, del pensiero del suo nome: / Del suo ineffabile effabile / Effineffabile / Profondo e inscrutabile Nome”.

Nicola Lagioia, unico italiano citato nel libro di cui ci occupiamo, se pure solo nella prefazione) ha così ribadito: “I gatti creano l’illusione di metterti in contatto con il mondo di sotto, il mondo dell’inconscio, dell’intangibile, e il rapporto che si crea tra lo scrittore e la propria scrittura non è distante da rapporto tra lo scrittore e il proprio gatto, perché anche la scrittura non è facilmente addomesticabile”.

Poesia del gatto, poesia sul gatto, poesia e il gatto: qualcosa li accomuna, di inquietante, di non del tutto decifrabile, forse consolante e forse temibile, ma comunque seducente nella sua misteriosa, ostinata indipendenza dal banale e dal consueto.

 

«Gli Stati Generali», 24 agosto 2025

 

 

 

RECENSIONI

MANSFIELD

KATHERINE MANSFIELD, FELICITÀ – GARZANTI, MILANO 2025

La collana Piccoli grandi libri dell’editore Garzanti ha l’apprezzabile merito di offrire ai lettori pregevoli testi (in prosa e in versi, cartacei o digitali), con cui trascorrere un’ora del proprio tempo, magari durante un tragitto in treno, o in una sala d’aspetto, a un prezzo irrisorio.

Tra le ultime proposte troviamo autori come Salinas, Fitzgerald, Caproni, Woolf, Lovecraft e questo piccolo gioiello di Katherine Mansfield, Felicità.

Sono otto racconti brevi, di cui il primo dà il titolo alla raccolta, ed è giustamente il più noto e ammirato. Hanno tutti come protagonista una figura femminile, in genere appartenente alla middle class americana, se non addirittura a un ceto decisamente benestante e socialmente influente.

Mansfield (1888-1923) li ha pubblicati tra il 1920 e il 1923, e dopo un secolo mantengono ancora tutta la loro freschezza e abilità intuitiva, segnata da una sottile malinconia che mai si appesantisce di rancore o lamentosità.

Le signore narrate in queste novelle inseguono con giovanile ingenuità un desiderio intenso di felicità personale, pur sapendolo o temendolo effimero, all’interno del loro ruolo familiare e coniugale, scontrandosi infine con cocenti delusioni e umiliazioni, che tendenzialmente sono portate a non riconoscere, a rimuovere, nel tentativo di non soffrire troppo, e di non veder sbriciolarsi il loro universo affettivo.

Bertha Young, ad esempio, protagonista del primo racconto, è una giovane donna appagata, moglie di un affermato uomo d’affari, madre di una bella bambina, che vive in un’elegante abitazione con l’appropriata servitù pronta a soccorrerla nelle incombenze domestiche e nei festosi ricevimenti allestiti per amici e amiche influenti. Consapevole dei suoi privilegi, li vive con orgogliosa spensieratezza e senza complessi, radiosa nella propria fortunata condizione: “Cosa ci puoi fare se hai trent’anni e, svoltando l’angolo della tua via, ti invade all’improvviso una sensazione di felicità – felicità assoluta! – quasi avessi inghiottito un pezzo luminoso del sole di fine pomeriggio e quello ti ardesse nel petto, sprizzando una scarica di scintille in ogni particella, fino a ogni dito delle mani e dei piedi?”, “Davvero – davvero – aveva tutto. Era giovane. Lei e Harry erano più innamorati che mai, andavano d’accordissimo ed erano davvero grandi amici. Aveva una bambina adorabile. Non dovevano preoccuparsi per i soldi. Avevano questa casa col giardino assolutamente adeguata. E amici – amici moderni, interessanti, scrittori, pittori, poeti o persone appassionate di questioni sociali – proprio il genere di amici che desideravano. E c’erano i libri, e c’era la musica, e aveva trovato una sartina meravigliosa, e in estate sarebbero andati all’estero, e la nuova cuoca faceva delle omelette superbe…”. Bertha è molto felice, quindi, addirittura raggiante, e lo rimane nel corso della cena

offerta a ragguardevoli ospiti, condita di complimenti reciproci, sorrisi, pettegolezzi, commenti sulla moda e sulla politica. Solo quando, a fine serata, tutti si accomiatano, si accorge di un inequivocabile gesto affettuoso del marito nei riguardi di una raffinata commensale: sospesa e incredula, preferisce non interrogarsi sull’accaduto e sulle amare sorprese che potrebbe riservarle il futuro, volgendo uno sguardo timoroso, ma comunque grato, alla bellezza immobile del giardino oltre i vetri della finestra.

La stessa normalità agognata e improvvisamente infranta da un’inattesa rivelazione fa da sfondo agli altri sette racconti, in cui l’intreccio degli avvenimenti rimane in secondo piano rispetto alla descrizione attenta delle atmosfere domestiche, dei sentimenti dei personaggi, senza osare approfondimenti psicologici, sfiorati appena con una lievità sensibile e non superficiale alle increspature delle anime. Nessuna recriminazione o rivendicazione femminista, però: solamente un’adesione solidale alla sofferenza delle donne, e uno sguardo indulgente sulle fragilità umane.

Ecco quindi la ragazzina imbarazzata dalle attenzioni seduttive del maestro di pianoforte (“La sua voce è troppo, troppo gentile”); i due amanti che si rivedono dopo sei anni, riscoprendo in se stessi le stesse meschinità e gelosie del passato; il tormentoso viaggio in carrozza di due sposi che non si sopportano; l’anziana che per evitare la solitudine frequenta il parco sotto casa spiando le vite altrui; la debuttante complessata al primo ballo in società; due sorelline povere esiliate dalla scuola dei ricchi; una domestica innamorata del suo canarino, a cui Katherine Mansfield  fa pronunciare la frase più rivelatrice di tutti gli otto racconti: “Forse non importa poi tanto cos’è che si ama al mondo. Ma qualcosa si deve amare”.

 

«Gli Stati Generali», 20 agosto 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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