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RECENSIONI

VAGLIO

LUCA VAGLIO, IL VUOTO – MORELLINI, MILANO 2019

Con un titolo che nella sua inflessibile durezza ricorda atmosfere esistenzialistiche, Luca Vaglio ha firmato Il vuoto, romanzo scandito in sette giornate comprese tra la fine del 2009 e l’inizio del nuovo anno, il cui protagonista Mattia Ventura si racconta in prima persona, svelando senza alcuna indulgenza, ma anche senza ironia, l’inanità in cui trascina la propria esistenza.

Trentaseienne, single, figlio unico e viziato di due apprensivi genitori che lo sorvegliano da lontano, Mattia è un giornalista in cassa integrazione, che gode della propria improvvisa e comunque ben retribuita disoccupazione per concedersi un anno di disimpegno e pigrizia, “lontano da vincoli e contingenze, da obblighi e necessità”.

Si alza tardi la mattina ed è perennemente in ritardo a ogni appuntamento, per un’insopprimibile tendenza alla dilazione. Vive, insomma, in uno stato di accidiosa solitudine, tranquillamente accettata per i suoi vantaggiosi aspetti di indipendenza: legge, va al cinema, ascolta musica, trascorre ore su Facebook e YouTube, bighellona attraverso la città, frequenta molti bar e si concede qualche esperienza sessuale a pagamento, rimanendone generalmente insoddisfatto e umiliato. Abita a Milano, in un bilocale nella zona di Città Studi regalatogli dal padre, che ha provveduto anche a pagargli un posto macchina nel garage sotto casa.

Il rapporto più esclusivo che Mattia nutre con l’esterno è infatti quello con la propria Alfa Romeo 147 nera metallizzata, che guida a folle velocità per le strade cittadine, contravvenendo a ogni regola, sfidando i semafori, occupando parcheggi riservati e rasentando investimenti: “ne apprezzo la linea essenziale e aggressiva, la chiusura a spigolo del piccolo finestrino posteriore e la fiancata che si allarga, cresce, si gonfia tra il faro posteriore e il montante, a suggerire l’idea dei muscoli, della forza, dello scatto rapinoso di un’Alfa Romeo”. Le pagine narranti queste folli corse in macchina sono tra le più vivaci e riuscite del volume, insieme ai ritratti dei vari bar e caffè frequentati, con la descrizione puntuale di camerieri e avventori: l’Albatros, il Giulia, l’Arcadia, l’Hemingway, il Maya, il Milano, nomi che Luca Vaglio ci aveva già fatto conoscere nei suoi libri di versi, Milano dalle finestre dei bar (2013) e Cosmologie (2022).

Improvvisamente, nella “vita labile e inutile, a bassa intensità” del protagonista, uno strano episodio arriva a sconvolgerne lo stato emotivo, catalizzando i suoi pensieri verso timori prima trascurati. Un carrozziere a cui fa controllare uno pneumatico sgonfio gli rivela che la gomma era stata forata e poi malamente riparata con una bomboletta spray. Mattia sospetta che uno dei tre dipendenti del garage di cui è cliente, abbia nottetempo utilizzato la sua auto senza permesso, incappando in un incidente. Inizia così a indagare sull’accaduto, tormentando i garagisti, i propri genitori e i rari conoscenti con le ipotesi più fantasiose. Questa ossessione finisce per riempirgli giorni e notti di fine dicembre, in una Milano sempre più fredda e deserta, scenario corrispondente al suo vuoto interiore: “Manca poco a Capodanno, e sono da solo, come mi capita quasi sempre in questo momento dell’anno. Eppure ho degli amici. Un numero variabile dai tre ai sei, che nella mia mente oscilla di settimana in settimana, più o meno in base al mio umore. E conosco e vedo molte persone. Frequento alcuni cineforum, aperitivi in lingua straniera e ritrovi delle comunità letterarie milanesi, più o meno vivaci e in polemica aperta o strisciante tra loro”.

A distoglierlo dalla fissazione del furto arriva inaspettata una convocazione della Questura, in cui la Polizia gli contesta due telefonate che lo metterebbero in relazione con l’assassinio di una prostituta. Mattia si difende negando qualsiasi responsabilità, in maniera confusa, mentalmente sospeso nella spessa nube bianca che ha inghiottito tutta la sua esistenza. Rilasciato in attesa di nuove prove che lo scagionino, ripara come è solito fare in un bar dei paraggi, cercando un sollievo protettivo e confortante tra le sue pareti. “Non penso a nulla. Sono immerso in una specie di meditazione, il corpo quasi inerte… Guardo le persone che camminano sul marciapiede e sono lontano da ogni cosa, come inabissato dentro me stesso”. Il romanzo si chiude con quest’ ultima riflessione del protagonista, lasciando il lettore in dubbio sulla reale consistenza delle azioni e dei pensieri da lui raccontati, galleggianti in un’impalpabile ambivalenza, nel vuoto giustamente richiamato dal titolo.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 31 marzo 2025

RECENSIONI

MESSORI

GIORGIO MESSORI, IL PIANETA SUL TAVOLO. GIORGIO MORANDI E LUIGI GHIRRI. CASAGRANDE, BELLINZONA 2025.

Tre emiliani di grande spessore umano e culturale sono i protagonisti dell’(ormai museali)incontro letterario celebrato nel piccolo volume edito da Casagrande Il pianeta sul tavolo. Si tratta del pittore Giorgio Morandi (1890-1964), del fotografo Luigi Ghirri (1943-1992), dello scrittore Giorgio Messori (1955-2006). Ho conosciuto personalmente quest’ultimo nel 1985, quando per un anno è arrivato a Zurigo come supplente negli stessi corsi in cui insegnavo come dipendente del Ministero degli Esteri. Ospite qualche volta a cena da noi, io e mio marito ne avevamo apprezzato non solo i molteplici interessi intellettuali, ma anche la discrezione e la sensibilità con cui sapeva rapportarsi alle persone, pur nell’intensità dei suoi silenzi e degli sguardi. Ritrovo ora la sua gentilezza di allora in queste pagine uscite a quasi vent’anni dalla sua prematura scomparsa, che raccolgono due saggi già pubblicati nel 1992 e nel 2005, e sette fotografie di Luigi Ghirri.

Proprio con il conterraneo Ghirri, che aveva iniziato a frequentare negli anni 80, con sempre maggiore familiarità e amicizia, Messori aveva deciso di rendere omaggio al pittore bolognese Giorgio Morandi nel 1990, visitando le sue due abitazioni-atelier (ormai museali) in Via Fondazza, in centro città, e nella residenza di campagna nel paese di Grizzana, per produrre un reportage fotografico in intensa e fattiva collaborazione.

L’appartamento cittadino in cui Morandi aveva vissuto in affitto per quasi tutta la vita, insieme alla madre e tre sorelle, era sobrio e ordinato: il pittore ne occupava un’unica stanza che fungeva da camera da letto e da laboratorio, a cui accedeva da una piccola porta che lo costringeva ad abbassarsi, nel suo metro e novanta di altezza, con un movimento che suggeriva umiltà e dedizione. Davanti al letto si trovava il tavolo su cui erano disposti gli oggetti privilegiati della sua pittura: “brocche, bottiglie, tazze, scatole, vasi, barattoli, teiere”, che per il loro utilizzo quotidiano implicavano una totale confidenza dello sguardo. Materiali semplici e domestici, a cui Morandi consacrava lunghi momenti di paziente contemplazione prima di accingersi a riprodurli.

Messori dedica parole commosse al lavoro artigianale del pittore, alla sua volontà di confrontarsi con le cose, che abitano non solo lo spazio ma anche il tempo. Fedele a una vocazione all’immobilità e al silenzio, Morandi secondo Messori era un artista “che sceglie l’esercizio costante del lavoro per entrare nell’intima realtà delle cose. Il silenzio, di cui Morandi ha voluto circondare la sua vita, è quello di uno sguardo contemplativo che testimonia l’apparizione stessa del mondo, il suo costruirsi in uno spazio visibile che si forma davanti agli occhi”. Questo processo metodico di concentrazione sugli oggetti attivava sensorialmente in lui una prassi di conoscenza creativa, permettendogli di avvicinarsi alla loro enigmatica purezza e realizzando l’assenza dal sé, dal soggetto che guarda, e l’immersione estatica nella natura più intima del reale.

Messori individua nell’arte di Morandi alcune caratteristiche fondamentali: la luce, in primo luogo, che dà sostanza anche al colore, senza eclissarlo ma rendendolo più impalpabile. E poi la ripetizione di temi sempre uguali, ripresi secondo infinite modalità, “rifuggendo da un’ansiosa ricerca espressiva del nuovo, che finirebbe soltanto per ritrovare l’identico sotto le apparenze più svariate”.

Questa necessarietà “dell’esserci” intuito dalla pittura di Morandi era stata ben compresa dall’occhio fotografico di Luigi Ghirri, per il quale vedere coincideva con il fotografare, secondo “un progetto di amplificazione delle percezioni e non di una indiscriminata moltiplicazione degli oggetti”. Tale rigorosa pulizia dello sguardo accomunava la pittura di Morandi alla fotografia di Ghirri, e Messori ne offre una preziosa testimonianza nel commentare una foto che viene riprodotta anche nel volume. Il letto della casa di campagna di Grizzana “ha un solo colore, il bianco, così anche il volume e il disegno delle cose vengono dati da lievissime sfumature di bianco, che certo non cancella ma comunque fa sì che il mondo fisico degli oggetti, delle cose, quasi si smaterializzi in un soffio di luce”.

La stima e l’affetto che univa Messori a Ghirri è ben esemplificato in quanto scrive nel secondo saggio del libro: “A differenza di molti altri fotografi, Ghirri non chiudeva il mondo nell’obbiettivo di una macchina fotografica, come se il mondo fosse semplicemente qualcosa da mettere dentro un’inquadratura. Semplicemente guardava, con insaziabile curiosità, e andare in giro con lui si traduceva nell’esperienza di vedere nel mondo tante immagini che poi, solo in alcuni casi, finivano in una stampa fotografica. Perciò la cosa sorprendente ed emozionante era scoprire, attraverso di lui, quante immagini popolassero il mondo, che così finiva di essere quel tutto indistinto in cui normalmente ci muoviamo… E così è riuscito a farmi a capire, meglio di tutti, che dal mondo è anche stupido difendersi. Tanto non siamo che passanti, siamo stranieri anche alla strada che percorriamo ogni giorno”.

La sintonia con gli oggetti che Morandi e Ghirri esperivano, permetteva loro di “varcare la soglia che normalmente separa chi guarda dalla cosa guardata”, annullando la distinzione tra esteriorità e interiorità in un momento epifanico capace di restituire l’anima a ciò che è inanimato. Il tragitto poetico si risolveva per entrambi in un percorso mistico in direzione della luce, della chiarezza, dell’essenzialità ontologica.

In questi due brevi testi Giorgio Messori è riuscito a amalgamare in un’unica visione spirituale le esperienze creative di due grandi artisti, arricchendo le pagine con qualche appena accennata e pudica nota biografica, e con appropriate interpretazioni critiche di filosofi, sociologi, psicanalisti (Bateson, Bachelard, Merleau-Ponty, Fachinelli…), e con citazioni tratte da poeti e scrittori come Rilke, Kafka. Bousquet e Holan. Tra queste, la più in sintonia con il dettato del libro è forse l’affermazione ammonitrice di Cézanne: “Bisogna sbrigarsi a guardare le cose perché tutto sta scomparendo”.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 31 marzo 2025

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MULLER-COLARD

MARION MULLER-COLARD, COME FUNAMBOLI – QIQAJON, BOSE 2025

Una lunga lettera d’amore (inteso non come passione, ma nel senso più esteso – di benevolenza, premura e delicatezza –, che i greci definivano filìa o agàpe) quella che Marion Muller-Colard indirizza a Jeanne, la figlia neonata di un’amica carissima morta di cancro pochi mesi dopo il parto. Una lettera che si rivela testimonianza di fede, non solo in termini cristiani, bensì di fiducia e apertura verso l’esistenza, così come può venire esperita anche dai laici, dagli agnostici, dagli atei. Marion Muller-Colard (Marsiglia 1978) è teologa protestante e scrittrice. Autrice di numerosi saggi e romanzi, ha fatto parte della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella chiesa e dal 2017 è membro del Comitato consultivo nazionale di etica.

Come funamboli è il titolo con cui le edizioni Qiqajon presentano il testo, a indicare la particolare e vertiginosa condizione umana, in equilibrio perenne tra i due momenti basilari e imprescindibili della vita e della morte. La fune su cui gli acrobati volteggiano, lontani dall’appoggio sicuro del terreno e sospesi nell’alto, privi di una rete di protezione, diventa evidente metafora dello stare umano, costantemente in bilico nei momenti decisivi di ogni scelta, azione, pensiero, sentimento. L’epigrafe di Friedrich Hölderlin, “Dove è il pericolo, cresce /anche ciò che dà salvezza”, bene esprime l’ambivalenza della corda tesa tra minaccia e riparo, rischio e difesa, su cui ciascuno di noi si muove.

A Jeanne, bambina che non avrà vicino la propria madre, che non potrà nemmeno ricordarne il viso e la voce, Muller-Colard non rivolge parole di retorica consolazione, né di impietosita compassione, ma di forza e incoraggiamento, addirittura di composta serenità.

Osservando la foto della puerpera e della piccola appena nata, l’autrice intuisce “il segno d’una vulnerabilità piena e raccolta”, su cui aleggia la luminosità dell’evento miracoloso che le ha viste protagoniste, insieme all’ombra che oscura l’inizio e la fine del loro rapporto.

Nell’arco di un anno, la vita della sua giovane amica era stata attraversata da avvenimenti turbinosi, felici e tragici: un matrimonio intensamente desiderato e festoso, seguito subito dopo dalla diagnosi di un tumore incurabile, e infine la nascita di Jeanne. Dodici mesi in cui il tempo è stato misurato da tutti i protagonisti nella sua profondità, più che nella lunghezza, vissuto e percepito come un susseguirsi di attimi nel presente, mentre il futuro assumeva contorni bui. “Tua madre ha il coraggio di rivolgere la parola all’ignoto. E l’ignoto le risponde”, scrive alla bimba, augurandole la stessa generosa fierezza materna.

Quando non si riesce a fornire una giustificazione a una condanna immeritata, si dovrebbe rinunciare a porsi domande, e accontentarsi di rimanere al livello delle sensazioni, imparare a godere di ogni istante di bellezza, riconoscendo nel proprio essere vulnerabili la possibilità di una risorsa. Rinunciare ai “perché”, preferendo i “come”.

La teologa Isabella Guanzini nella prefazione al volume afferma: “Chi deve presto morire mostra ai vivi come si può vivere: ossia come funamboli amanti della propria incertezza, con lo sguardo dritto, la percezione del proprio corpo fino alle punte delle dita e moltissimo affetto per i vivi che ci sono dati, di tutte le generazioni”.

L’imprevedibilità della sorte che ci aspetta provoca ovviamente timore, ma indica anche una possibilità: l’ignoto presuppone sempre un “forse”, un “poter-essere”, e il confronto con la nostra finitudine apre  tuttavia alla grazia di una nascita, di “un’irruzione pugnace e inaspettata della vita”.

Quando Marion Muller-Colard chiedeva all’amica malata come stesse, lei rispondeva “In trasformazione”, oppure “Così è”, riferendosi alla realtà del momento presente che dura senza durata, del kairós (istante) che vince sul chrónos (tempo). E scrivendo alla bambina che avrebbe letto la lettera una volta cresciuta, così conclude: “Tua madre è morta quattro settimane dopo il tuo battesimo, Jeanne… La sua vita è passata nelle nostre, per dirla con le parole di Rilke. È passata nella tua. Questo, lungi dall’incatenarti, ti renda infinitamente libera, Jeanne”.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 29 marzo 2025

 

RECENSIONI

PATARO

LORENZO PATARO, AMULETI – ENSEMBLE, ROMA 2022

Lorenzo Pataro nato a Castrovillari nel 1998, viveva a Laino Borgo, un piccolo paese del Pollino calabrese; si era laureato in Lettere a Salerno e collaborava a quotidiani e riviste, impegnato a diffondere con passione la parola poetica tra i lettori. Alla sua prima raccolta di versi, Bruciare la sete pubblicata nel 2018, era seguita Amuleti, arrivata tra le opere finaliste del Premio Strega Poesia nel 2023 e del Premio Pontedilegno Poesia 2024.

Se il libro d’esordio, da lui chiamato “il primo sogno”, raccontava di un amore “bruciante” tra due adolescenti in termini letterariamente ancora acerbi, è nella dedica iniziale e nei ringraziamenti finali del volume che possiamo intuire la scalfibile delicatezza e il candido entusiasmo di un ragazzo che scopre nella poesia la modalità espressiva capace di metterlo in contatto non solo con l’amata, ma con tutto il mondo che lo circonda, a cui si sente debitore di bellezza, in uno scambio di amicizia e appoggio ribadito nei cinque versi conclusivi della raccolta: “Siamo soli. / Per riflettere / dobbiamo rifletterci, / bruciare la sete / per dissetare l’altro”.

Decisamente più matura e formalmente meditata è la seconda prova di Lorenzo, che in pochi anni aveva saputo affinare la propria competenza critica, grazie anche all’intenso confronto e alla collaborazione con altri poeti, nella redazione di riviste settoriali e nell’avvicinamento a nuove esperienze di scrittura. Al punto che il prefatore Elio Pecora riconosce in Amuleti “un’opera mossa da una sua necessità ed espressa con strumenti saldi e affinati”.

Nelle quattro sezioni di cui si compone il libro, oggetto di esplorazione è di nuovo l’amore, ma qui con una chiara consapevolezza della sua temibilità: “Ancora ritorna lo sparviero / il nibbio a piantare l’urlo nella schiena / a percorrere il dolore come un dito / che tocca la ferita e la ripara // la stagione degli amori ritorna / e spalanca i richiami dei tordi nella nebbia”. Ma si tratta di un amore scorporato, di un tu femminile che appare e scompare, a promettere rifugio e soccorso come un albero frondoso, come acqua nel deserto: “fammi semina e raccolto / fammi fungo che cresce sul tuo ceppo / fammi nascere germoglio e gemma pura / cadi dal mio stelo come fossi la rugiada”.

Tuttavia, più di qualsiasi presenza umana, nel prosieguo delle pagine risulta preziosa e rassicurante la scoperta della sacralità insita negli oggetti, negli animali (pecore, tassi, volpi, cani, e soprattutto uccelli: passeri, merli, rondoni, allodole, falchi…) e nella vegetazione (rovi, querce, muschi, fichi, meli, uva, pioppi…), in un ambiente caratterizzato dalla campagna, da stalle, fienili, masserizie rurali. Niente di urbano, nessun cosmopolitismo in queste poesie, ma il ritmo calmo che si adegua al trascorrere naturale delle stagioni, ed è il solo a proteggere dall’insonnia e dalla febbre, promettendo guarigione e salvezza: “Potremmo dirci salvi soltanto / tra il freddo delle mura nella casa / di campagna, nell’aperto grido dello spazio // salvi soltanto nel vecchio pagliaio”. L’aspirazione alla quiete che risana non si risolve però nell’idillio romantico di visioni bucoliche, in stereotipi paesaggistici di consolante retorica: è invece reale desiderio di liberazione e di grazia, simboleggiato dalla frequente metafora del volo, e insieme scampo dal male, dalle ferite che incidono corpo e anima. Ferite, crepe, tagli, aghi, schegge, oggetti puntuti che trafiggono, graffiano, squarciano: il poeta si aggrappa ad amuleti e talismani, ad antichi riti contadini, a salmi più pagani che cristiani, a voci e apparizioni che esorcizzano gli spettri seduttivi del nulla.

C’è la consapevolezza filosofica, heideggeriana, del destino feroce che condanna l’essere umano alla solitudine del Geworfenheit (“Siamo nati. / Gettati in un nome verso un nome”), ma anche la speranza che il recupero di tradizioni storiche non adulterate, della sapienza produttiva della terra, della ritualità di gesti antichi possa farci riacquistare “la miniera di ciò che abbiamo perso”. Tra i brani in prosa che inframezzano le poesie, non si legge la volontà di razionalizzare il sentimento, ma semmai un più convinto insistere sui motivi che innervano i versi: lo stupore per la bellezza, “il doloroso mistero glorioso” di una rivelazione, la cura per tutto ciò che è vivo e respira, l’attesa di una rinascita: “fuori avvampa / ogni vigilia e resta solo il desiderio / di chi ha visto la luce e la rivuole”.

Sono temi che rasentano una spiritualità laica, formulati – come scrive giustamente Elio Pecora – “in un ritmo denso e pacato con la tenerezza che è pura nostalgia di un esistere senza confini e strutture”. Ma in questo sconfinarsi era presente in Lorenzo Pataro sia un’idea di continua metamorfosi in altre strutture fisiche (“Il ramo-lucertola spezzato, l’incavo / del riccio di castagna ad accogliere / il respiro dei dispersi nella luce, / le mani-radici nella terra, i palmi-catini / colmi d’acqua, la fronte che è un viale / in attesa delle foglie. Quanti corpi / attraversiamo, in quante forme migriamo / braccati come lupi nella notte”), sia il costante interrogarsi sulla morte, quella altrui (le tombe trascurate nel cimitero del paese, gli insepolti, i cancellati da ogni memoria), sia la propria: “Un giorno sarò terra concimata, solco da irrigare. Le mani avranno forma di scodella. E la pelle becchime per gli uccelli. Un giorno avrò dimora dove tutte le dimore hanno dimora. Il sangue sarà linfa per le querce, ossigeno degli olmi. Un giorno sarò vivo e sarò morto. L’anca sarà vaso per le rose. La lingua tappeto per i vermi. Un giorno sarò terra concimata”.

E questa ossessiva idea di trasformazione in altro da sé, fosse buio o sperabilmente luce, provocava in lui “Qualcosa di simile a un dolore. Forse meno lancinante di un dolore. Se ti volti senti solo la chiamata. E se ti chiami ogni cosa dice addio a ogni cosa”.

 

© Riproduzione riservata      «Nazione Indiana», 21 marzo 2025

 

 

RECENSIONI

FOSSE

JON FOSSE, ASCOLTERÒ GLI ANGELI ARRIVARE – CROCETTI, MILANO 2024

Nella motivazione del Premio Nobel assegnato a Jon Fosse nel 2023, leggiamo: “per i suoi drammi e la prosa innovativi che danno voce all’indicibile”. Nato nel 1959 a Haugesund, Fosse crebbe a Strandebarm, un piccolo villaggio adagiato lungo il maestoso fiordo Hardanger, in una famiglia di fede pietista. L’intera sua opera rimane ancorata al Vestland, la costa orientale della Norvegia, al suo clima freddo e grigio, ai paesaggi incontaminati, al mare e alle campagne aperte, alla vegetazione.

Se la sua produzione più nota è quella narrativa e teatrale, anche alla poesia sono stati riservati spazi creativi che hanno accompagnato costantemente la sua scrittura, a partire dal 1986 fino al 2016, con un totale di nove raccolte. L’editore Crocetti ha pertanto ritenuto opportuno illuminare questo suo lato creativo rimasto un po’ in ombra, soprattutto in Italia, pubblicando un’antologia di liriche con il titolo Ascolterò gli angeli arrivare.

Secondo Andrea Romanzi, che scrive un’intensa prefazione al libro ricostruendo le varie fasi della carriera letteraria di Fosse, l’autore norvegese ha sempre insistito nell’esperienza paradossale e faticosa di voler “comunicare l’incomunicabile”. Incomunicabile e indicibile si possono intuire solo uscendo da sé, sospendendo il proprio io in una dimensione trascendentale, capace di attivare risonanze emotive non rilevabili razionalmente, che vengono fatte emergere da insondabili alterità. Presenze angeliche, forse? Jon Fosse ci spera, o meglio, ci crede.

La sua versificazione, nel corso di decenni, non è mutata nella forma: rimane scarna, priva di punteggiatura, franta in continue pause sottolineate da spazi bianchi, segnata dalla ripetizione costante di parole o intere frasi. Invece è cambiata molto nei contenuti, che si scorporizzano, smaterializzandosi in atmosfere oniriche, non sempre rasserenanti, sospese in una progressiva riduzione di significati.

Nelle prime raccolte, fino all’inizio del nuovo secolo, prevalgono le memorie dell’infanzia, visualizzate concretamente in immagini oggettive di cose, ambienti, facce, gesti con una prevalenza di particolari realistici e di un linguaggio quotidiano che spesso mima i refrain delle canzoni: “Mia madre ha / il vento in secchi di plastica arancioni. Lava / il pavimento con movimenti esperti. Mio padre / tiene la testa sotto il braccio e fischietta / alle stelle”, “Fiori morti in un vaso sbeccato / sul davanzale della finestra. Mosche / morte contro vernice bianca sfogliata // Una donna anziana è seduta su una sedia da campeggio / e lavora a maglia, con indosso un grembiule a fiori // Un motore fuoribordo sfreccia tra le grida dei gabbiani”, “Cammina e cammina / e tutti i morti sono con noi / anche i morti camminano e camminano / dentro di noi / cammina e cammina”.

Assolutamente diverso è il clima in cui si muovono le poesie più recenti, che vedono l’autore interrogarsi sulla propria funzione e addirittura sulla stessa esistenza, sua e del mondo, mentre la realtà intorno sfuma, sottraendosi a ogni rappresentazione fattuale: “se sono io che scrivo / allora c’è un io che, ogni singola volta, è diverso, perché / nei movimenti della scrittura c’è sempre / un io che scrive e questo io / non sono io oppure forse sono io / ma questo io è così diverso di volta in volta / da non poter essere io”, “È così che penso // E poi penso / che / quando io sono / e quando non sono / allora sono qui / e allora non sono qui / E finora non sono stato qui”.

Prevale la lingua dell’inconscio, che segnala un’ incapacità espressiva, una mancanza di fiducia nella possibilità di farsi capire: domina allora l’indicibile rimarcato dai giurati del Nobel, il tentativo di raccontare l’assenza, l’ombra, il silenzio, ciò che rimane doppo la morte, l’impalpabile presenza dei defunti o di messaggeri incorporei: “Camminano // Sanno qualcosa / e non possono dire agli altri che cosa sanno //  Camminano / e si fermano raramente // Chi sono / nessuno può dirlo / ma camminano / e camminano”, “tutto era semplicemente presente / chiaro e luminoso / come un giorno senza notte / come una vita senza sonno”, “Nella vita ha conosciuto la morte / e nella morte ha conosciuto l’eterno / sorrideva mentre noi piangevamo / e poi non c’era più // l’anima bella è adesso un cielo”.

L’immagine del camminare verso l’ignoto, che tuttavia si prefigura luminoso, viene ribadita ossessivamente (“E camminiamo / fieri / nell’oscurità reciproca / luminosi come angeli / in ognuno di noi un angelo doppio / immobile nella sua scissione / ed evidente / come luce nera”), in una auspicabile trasformazione, o levitazione, spirituale: “Ma gli angeli mi traggono ogni giorno fuori / dalla mia pietrificazione / nello splendore e nella pietrificazione / Il mio movimento / non è minaccioso / La gioia è senza gioia // Per tutto posso ringraziare gli angeli”.

Se queste composizioni non raggiungono il livello espressivo e stilistico della produzione in prosa di Jon Fosse, tuttavia aiutano il lettore a meglio comprendere il suo mondo interiore, e bene ha fatto dunque Crocetti ad antologizzarle per il pubblico italiano.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 20 marzo 2025

 

 

 

 

 

RECENSIONI

KUBIN

ALFRED KUBIN, DEMONI E VISIONI NOTTURNE – ABSCONDITA, MILANO 2016

Spesso le autobiografie appaiono poco veritiere, più o meno consciamente levigate da chi le ha scritte, con l’obiettivo di rendere più apprezzabili i propri trascorsi esistenziali, le scelte ideologiche, i percorsi artistici o le battaglie politiche. Non fa eccezione il succinto resoconto che nel 1959 Alfred Kubin stese della sua vita, pubblicato da Abscondita nel 2004 e ristampato nel 2016, con il titolo di Demoni e visioni notturne, in cui solo a poche e veniali turbolenze giovanili vengono attribuite l’intemperanza e i conflitti di un’intera vita, trascorsa per lo più con moderata bonomia.

Alfred Kubin (Leitmeritz, Boemia, 1877- Zwickledt, Austria, 1959), tra i più interessanti illustratori del primo ’900, si era ispirato in gioventù alle opere grafiche di O. Redon, J. Ensor, E. Munch, M. Klinger, Goya, e così perfezionatosi nella sua arte aveva poi illustrato la Bibbia, le opere di G. Hauptmann, Dostoevskij, Poe, Gogol’, Hoffmann, Bürger, Kafka, ricavandone grande fama internazionale. I suoi disegni, caratterizzati da tematiche raccapriccianti, manifestavano un gusto quasi maniacale per l’orrido e il misterioso. Il suo mondo onirico aveva trovato felice espressione anche nel romanzo Die andere Seite del 1909 (riproposto da Adelphi nel 2001).

Il racconto di un’infanzia “selvaggia” e dell’adolescenza inquieta, vissute tra Salisburgo e Zell am See, ci rende l’immagine di una mai cancellata sofferenza, determinata sia dal rifiuto di ogni costrizione (la severità del padre, la rigidità dell’istituzione scolastica), sia da una serie di lutti familiari, tra cui la dolorosa morte della madre a lungo malata di tubercolosi, avvenuta quando Alfred aveva solo dieci anni. In quei primi anni formativi affiorarono elementi del suo carattere che sarebbero rimasti come tipici dell’attività artistica: oltre alla passione per il disegno, l’amore per la natura e il paesaggio, un’inclinazione verso il misticismo, l’interesse per le fiabe e il fantastico, la disposizione alla lettura, e una curiosità morbosa per ogni tipo di violenza, di scene agghiaccianti, di cataclismi distruttivi, di decomposizioni corporali. Il temperamento suscettibile segnato da eccitazione nervosa, convulsioni e frequenti deliri febbrili, lo portò a cambiare spesso scuole e impieghi, inducendolo addirittura a un tentativo di suicidio. Fu il trasferimento a Monaco, e l’iscrizione alla locale Accademia di Pittura a fornirgli un solido appiglio emotivo, indicandogli la strada da percorrere per approfondire la sua vocazione artistica. In quegli anni conobbe personalmente De Chirico, Munch, Klee; studiò gli scritti di Schopenhauer e l’opera grafica dei maggiori illustratori dell’epoca; iniziò a esporre i suoi disegni in diverse gallerie, trovando estimatori e clienti, e infine raggiunse una relativa stabilità economica e familiare sposandosi nel 1904. La scoperta della pittura di Bruegel (“miscuglio di pazzia e santità”), i viaggi a Vienna, a Parigi, a Venezia, lo misero in contatto con nuove forme d’arte. Prima dei trent’anni, Kubin acquistò un piccolo podere sulle rive dell’Inn, a Zwickledt, che diventò il suo rifugio fino alla morte: fu in questi anni che compose il romanzo fantastico L’altra parte, e abbracciò un nuovo personalissimo stile artistico: “Ora mia attirava di più la vita universale, che opera così misteriosamente negli uomini, negli animali, nelle piante, in ogni pietra, in ogni cosa animata e inanimata. Erano ancora masse umane e greggi di animali, splendore e marciume, il vizio rigoglioso e la nauseante putrefazione, il culto del sublime e il dolore incomposto. Insomma tutto ciò che da sempre aveva occupato il mio cuore…”. I sogni, gli incubi, le fantasie più deliranti divennero per lui una miniera di ispirazione per le sue opere grafiche, pubblicate in raccolte divenute celebri (Serie dei sogni, Sette peccati mortali, Danza dei morti, Animali feroci, Notte di brina). Nemmeno la conversione al buddhismo, e una regola di vita spartana, lontana dalle angosce del mondo – allora precipitato nella catastrofe della prima guerra mondiale – riuscirono a rasserenare il suo umore: le allucinazioni visive e sonore che lo tormentavano prendevano corpo nei suoi disegni febbrili, di cui il volume pubblicato da Abscondita rende puntale testimonianza attraverso la riproduzione di scheletri, belve sanguinarie, fantasmi, battaglie, agonie. “Tutti questi oggetti mi venivano incontro come spettri e larve che mi ghignassero in faccia”, Nonostante le tante difficoltà incontrate nell’esistenza, e i demoni interiori che avevano assediato i suoi giorni a partire dall’infanzia, Alfred Kubin rimase convinto che il significato dell’arte fosse quello di coprire come un velo “l’assurdo nonsenso della vita”, e che nel tumulto abissale della coscienza la creazione potesse diffondere uno spiraglio di luce. Nella postfazione, Giacomo Debenedetti così commenta la sua opera: “Kubin, attraverso tutti i suoi disegni, le sue tempere, le sue illustrazioni, finisce in realtà coll’illustrare un solo, inquietissimo testo: la storia di una generazione destinata a scontrarsi, in un misto di atavico terrore e di inaudita lucidità, col caos, i mostri, le rivelazioni informi o sublimi della psiche… La sua breve autobiografia è la goticheggiante e paurosamente moderna confessione psichica di un figlio del tempo che trapassa verso l’era cosmica”.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 19 marzo 2025

 

 

 

RECENSIONI

GACCIONE

ANGELO GACCIONE, POETI. VENTINOVE CAVALIERI E UNA DAMA

DI FELICE, MARTINSICURO (TE) 2025

 

“Accendere una lampada e sparire, / questo fanno i poeti. / Ma le scintille che hanno ravvivato, / se vivida è la luce durano come i soli”. Questa limpida e delicata citazione di Emily Dickinson viene posta da Angelo Gaccione a esergo del suo ultimo volume, Poeti. Ventinove cavalieri e una dama, che raccoglie trenta recenti composizioni, ciascuna delle quali trae spunto e ispirazione da uno o più versi di famosi poeti italiani del ‘900, tutti ormai (e ahimè) scomparsi.

“Chissà per quale scopo / vengono al mondo i poeti”, si chiede l’autore postillando l’epigrafe. Gli risponde nella prefazione Vincenzo Guarracino, suggerendo che i poeti qui presentati sono da immaginare come “Spiriti Guida” dell’autore, pretesto e incentivo per una riflessione sulle trasformazioni sociali e ambientali del mondo, e dello stesso modo di fare poesia.

Nella sua approfondita ed empatica introduzione, Alessandra Paganardi scrive di questo libro –rivelatore della missione non soltanto estetica, ma anche pedagogica della grande poesia italiana del Novecento –: “un singolare Bildungsroman poetico, inventato da chi affianca la propria produzione alla gratitudine verso i maestri scomparsi (alcuni dei quali realmente incontrati nel corso della vita) e fa di tale nobile sentimento un’ulteriore materia di ispirazione. Questo Poeti è dunque molto più di una raccolta di poesie: è un’autobiografia, un documentario, un laboratorio di scrittura, un formidabile archivio fotografico, un petrarchesco Secretum”.

I versi di apertura dei trenta poeti menzionati sono scritti in corsivo, quelli successivi di Gaccione in rotondo: il collegamento tra modelli ed epigono non è solamente un debito culturale, la rievocazione di un’atmosfera letteraria o un’eco sentimentale di vicinanza: spesso ricalca anche stilemi e formule linguistiche degli autori omaggiati, che sono appunto ventinove uomini (due dialettali, Loi e Tessa) e un’unica donna, Antonia Pozzi.

Evidente è l’influsso emotivo, ad esempio, della poetica di Pasolini (“Eccomi nel chiarore di un vecchio aprile… // ma oggi, oggi è un tardo aprile / con le finestre aperte sulla via / e gli operai sulle impalcature”), di Penna (“Forse la giovinezza è solo questo… / Quell’inquietudine /che mi pesava addosso / e mi faceva scontroso / io non sapevo cosa fosse”) e di Rebora (Verrà l’aurora che ti lusinga… / e allungherà la mano verso te. //… Verrà prodiga d’ogni sorta di doni / recando cornucopia d’abbondanza”.

Meno esplicita è la dipendenza formale da altri poeti, ma rimane evidente l’insegnamento etico e civile che Gaccione eredita da questi omaggiati maestri. Il tono ammonitore e indignato di Fortini, il tormento religioso di Testori, la desolazione arrabbiata di Turoldo, la dolente malinconia di Luzi, la rassegnata consapevolezza di Roversi: tutti sembrano aver segnato profondamente l’immaginario creativo di Angelo Gaccione.

Nato a Cosenza ma residente a Milano dagli anni universitari, Gaccione è narratore e drammaturgo, ha pubblicato numerosi libri di saggi, racconti, fiabe, aforismi, raccolte poetiche e testi teatrali. Dirige il giornale di cultura “Odissea”, a cui collaborano prestigiose firme della cultura italiana e internazionale, e per il suo impegno civile gli è stato conferito il Premio alla Virtù Civica.

Sia alla sua mai dimenticata terra calabra, sia all’amata città di adozione, cui ha dedicato ben cinque libri, sono rivolte alcune poesie del volume, in cui la memoria di un passato non sempre idilliaco, ma comunque più fraternamente umano e solidale, e di certo più ecologicamente pulito di oggi, viene recuperata per un impietoso confronto con l’attualità.

Milano rimodulata sulla falsariga di Angelo Barile risuona con “stridi di tram e rombi di motori”, mentre per contrasto un verso di Pavese richiama la dolcezza del paese nativo e l’affetto dei genitori: “C’è un giardino chiaro, fra mura basse…/ dove avrei voluto finire i giorni miei / con l’ombra di mia madre alle spalle / i passi di mio padre per le scale”. Allo stesso modo si rincorrono e sovrappongono immagini attuali della città di residenza con le memorie di un folklore paesano mai dimenticato: dal passato riemergono i flagellanti nella processione di Acri, la credenza tarlata della nonna, i carretti dei lattai; nel presente si impongono il volto amato della nipotina Allegra, una passeggiata con il cane attraverso il traffico cittadino, i bambini vocianti al parco.

Ma è soprattutto l’impegno civile di Gaccione che cerca nei poeti di riferimento consonanza e incoraggiamento. Ecco quindi come recupera e rende propria la lezione di Quasimodo, Tessa, Ungaretti, Zanzotto, Giudici.

Quasimodo: “Di te amore m’attrista, mia terra… / calunniata senza colpa alcuna. / Hanno svilito il nome tuo nel mondo / piegati come servi a dire sì”.

Tessa: “In questo mondo infame, pieno di affanni… // Lo inghiottisse pure l’inferno / questo tempo corrotto. // Stringevo i pugni in tasca e stavo in guardia”.

Ungaretti: “Di che reggimento siete, fratelli?… / Abbiamo disertato, fratello”.

Zanzotto: “Siamo ridotti a così maligne ore… / L’epilogo non è mai un bel vedere / ci si rintana come l’elefante / che va a morire lontano dal suo branco”.

Giudici: “Ladri di notti corte… / rubiamo il poco sonno che ci resta. / Tempo breve, fermo, immobile. / Tempo di bilancio in perdita. // … e l’illusione misera di credere / d’essere essenziale al mondo”.

Per finire con Camillo Sbarbaro, a cui Gaccione affida la sua dichiarazione d’amore per la poesia, da sempre e per sempre magistra vitae: “A noi che non abbiamo / altra felicità che di parole…  / sia consentito scrivere versi / fino alla fine dei giorni”.

 

© Riproduzione riservata           «SoloLibri», 3 marzo 2025

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

XUN

JIANWEI XUN, IPNOCRAZIA – TLON, ROMA 2025

Un nuovo modo per abitare, disertare, sabotare il territorio confuso, minaccioso ma anche seducente della contemporaneità, mantenendo un margine di coscienza critica nella colonizzazione delle coscienze imposta dal potere mondiale: è quello suggerito da Jianwei Xun nel suo libro d’esordio Ipnocrazia, edito da Tlon.

Jianwei Xun, nato a Hong Kong e laureato in filosofia politica all’Università di Dublino, è un teorico dei media che studia l’impatto delle tecnologie digitali sulla coscienza collettiva e sulla formazione della soggettività contemporanea. Con uno stile accattivante e veloce, e seguendo le indicazioni della retorica classica, oggi riportate in auge da ChatGPT, che suggeriscono di ripetere  e ribadire i concetti per meglio imprimerli nei lettori, Xun afferma un teoria ormai ben nota e condivisa, quando sostiene che il controllo dell’opinione pubblica non viene più attuato con tecniche coercitive, bensì incoraggiando il consumo smodato e acritico di immagini, suggestioni, informazioni, notizie non sempre verificabili, a cui le persone aderiscono abbandonandosi a uno stato di “sogno guidato” incapace di resistenza.  “L’ipnocrazia è il primo regime che opera direttamente sulla coscienza. Non controlla i corpi. Non reprime i pensieri. Induce piuttosto uno stato alterato di coscienza permanente. Un sonno lucido. Una trance funzionale”.

L’autore insiste su questo concetto, variandolo secondo diverse direzioni, negli undici capitoletti della prima parte, intitolata Diagnosi presente, che analizza lo stato di dipendenza attuale degli individui da stimoli che manipolano i loro stati emotivi, rimodellano le percezioni, ne addormentano le coscienze, mentre “gli schermi brillano incessanti nella notte della ragione”. I sistemi di intelligenza artificiale sono diventati generatori di realtà, co-creatori di culture e di narrative multiple in cui il confine tra verità e illusione, autenticità e menzogna non è più rilevabile, poiché si incarna in un’infinita proliferazione di possibilità. In quest’era digitale i poteri politici, economici e tecnologici convergono nella capacità di stimolare, mantenere e modulare stati alterati di coscienza su scala globale, creando un regime di induzione ipnotica, in cui “l’invasione dell’intimo” diventa pratica quotidiana di controllo e di profitto economico. Sacerdoti e nuovi guru di tali paradigmi esistenziali sono le figure emblematiche di Trump e Musk, che svuotando il linguaggio di significato attraverso la ripetizione di formule vuote, e inondando l’immaginazione collettiva di promesse utopiche, riscrivono le aspettative generali, indirizzano i desideri, colonizzano l’inconscio, dirigono i comportamenti, in un contagio che assorbe e neutralizza ogni critica e dissenso. L’Ipnocrazia non ci rende vittime, ma complici e alleati dialoganti con le intelligenze non umane che coabitano i nostri spazi di vita. Sessualità, cultura del cibo, shopping, godimento artistico sono indirizzati non tanto al possesso quanto a un piacere potenziale e a un desiderio continuamente insoddisfatto, che va alimentato attraverso un ideale mai raggiunto di ottimizzazione.

Dopo pochi capitoli introduttivi, l’autore chiede all’AI un parere su quanto ha scritto, ricevendone un esaustivo commento, che in poche righe riassume il contenuto delle venti pagine iniziali. Tutto è riproducibile, quindi, e riformulabile, in un mondo diventato liminale e gassoso, privo di concretezza e di oggettività.

Jianwei Xun (che il curatore del volume Andrea Colamedici definisce, forse con eccessivo entusiasmo, erede di Jan Baudrillard e di Byung-Chul Han) intramezza le sue considerazioni con brani esploranti la genealogia dell’Ipnocrazia e le sue più recenti applicazioni sperimentali, storicizzando così la nebulosità del concetto. Tecniche ipnotiche si ritrovano negli antichi culti mesopotamici come nei misteri eleusini greci, nella verticalità delle architetture gotiche come negli esperimenti ottocenteschi di magnetismo, nella creazione novecentesca dei mass media, della pubblicità e dei diktat psicanalitici, per arrivare al dominio attuale dei social media in grado di monitorare e influenzare la condotta, l’emotività e l’umore di miliardi di individui, intensificando la pervasività e la permanenza di tali metodi di suggestione, illimitati nel tempo e nello spazio.

Se la prima parte del libro di Xun si occupa dell’homo social e delle sue vulnerabilità, nella seconda parte vengono suggerite le tecniche di resistenza da opporre all’assoggettamento universale. Per sottrarci ad esso va sviluppata “una forma di lucidità nella trance, di follia controllata” che permetta di navigare consapevolmente gli stati alterati mantenendo un nucleo di presenza critica. “Sospesi tra consapevolezza e immersione, dobbiamo applicare una forma di resistenza all’Ipnocrazia: non il rifiuto della simulazione ma la sua abitazione consapevole, rendendoci capaci di muoverci fluidamente tra realtà multiple, generandole e abitandole come si abita un sogno, con piena consapevolezza della loro natura costruita…L’Ipnocrazia non può essere sconfitta. Non perché sia invincibile, ma perché è un flusso. La sua forza risiede nella capacità di mutare, di adattarsi, di incorporare tutto ciò che cerca di resisterle”. Qualsiasi ribellione o ipotesi di rivoluzione viene riassorbita, edulcorata, monetizzata, trasformata in performance: dall’attivismo climatico al femminismo, dalle proteste pacifiste a quelle contro il razzismo.

Come attuare allora una resistenza efficace? Non basta opporsi alla disinformazione, smascherandola e cercando verifiche e correzioni (attraverso il fact-checking), perché l’Ipnocrazia continuerà a creare verità contrapposte e molteplici, ugualmente plausibili. Né servirà disconnettersi, ma bisognerà inventare forme di realtà condivise e alternative, anche se temporanee, attraverso la manipolazione mediatica coordinata, che il sistema non possa rilevare e mercificare: Xun cita con ammirazione le beffe mediatiche di Luther Blisset degli anni novanta. Inventare storie, introdurre inciampi nei processi ingannevoli, rivalutare positivamente l’incertezza, l’inefficienza, il disordine, la contraddizione, la gratuità dei sentimenti, la non produttività, la non competizione, il sogno e la fantasia: insomma tutto ciò che evita la tracciabilità e la definizione da parte del potere, e si rivela elemento finalmente liberatorio in un mondo preordinato, come risorsa e strumento di sovversione. Sapendo che alcuni aspetti dell’esistenza umana – il dolore, il silenzio, la gioia – non saranno mai riducibili e quantificabili algoritmicamente, e sperando che attraverso il digitale si possa manifestare un piano alternativo per condurci a nuove forme ontologiche di coscienza, più evolute, e oggi non ancora chiaramente definibili.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 3 marzo 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTERVISTE

CENTOFANTI

Fabrizio Centofanti e la poesia

Un religioso e letterato si confronta con la poesia.

 

1 Marzo 2025

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Fabrizio Centofanti, laureato in Lettere moderne con una tesi su Italo Calvino, prima della vocazione sacerdotale è stato collaboratore di Mario Petrucciani nella cattedra di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. Numerosi suoi saggi e recensioni sono stati pubblicati in quegli anni su “Letteratura italiana contemporanea”, e su “La Discussione”. Suo un saggio su Leopardi e Rebora inserito nella raccolta di Atti del convegno di Ancona sull’autore di Recanati, dal titolo Leopardi e noi. La vertigine cosmica, Edizioni Studium. Ha partecipato a diversi convegni letterari fino al giorno in cui è entrato in seminario. È sacerdote diocesano a Roma dal 1996, parroco dal 2005. Dal 2014 opera al Santuario della Madonna del Divino Amore, nel campo della spiritualità e dell’approfondimento della Sacra Scrittura. Studioso dei Vangeli, tiene da molti anni una lectio divina settimanale.
È tra i fondatori della rivista L’Attenzione, e fondatore, insieme con Franz Krauspenhaar, del blog collettivo La poesia e lo spirito(https://www.lapoesiaelospirito.it), dove attualmente scrive.
Omelie e riflessioni sono raccolte nel blog Gesù per atei.

Ha pubblicato:

Italo Calvino. Una trascendenza mancata, Istituto Propaganda Libraria 1993; Il segreto del poeta. Clemente Rebora: la santità che compie il canto, Istituto Propaganda Libraria 1987; Le parole della felicità, Laurus Robuffo 2005; Pret(re) à portér, Effatà 2010; Non superare le dosi consigliate, Effatà 2011. In collaborazione con Sabrina Trane: Salva L’anima e Il Vangelo come non l’avete mai letto, Effatà 2013; Piccolo manuale di spiritualità e Piccolo manuale di santità, Palumbi 2013; La forma della felicità, Effatà 2021; Il cammino per l’uomo e Una nuova visione dell’uomo. Scritti di don Mario Torregrossa. Volume primo e Volume secondo, Youcanprint 2021- 2022Le poesieVoce in moto contrario, Feaci Edizioni 2008; Nomen omen, Photocity 2012. I racconti: Guida pratica all’eternità, Effatà 2008. I romanziEcco l’uomo, Effatà, 2011; Nessuno è più importante di te, Amazon, 2012; nel 2012, E’ la scrittura, bellezza!, Clinamen 2012; Stelle, Effatà 2012; Yehoshua, Clinamen 2013.

 

  • Presso l’editore Einaudi usciva nel 1997 “Il libro delle preghiere” a cura di Enzo Bianchi, fondatore della comunità di Bose. In quell’antologia erano presenti, accanto a preghiere delle tre religioni monoteistiche, anche poesie classiche e moderne internazionali. Cosa collega, secondo lei, la preghiera alla poesia?

La preghiera è una comunicazione rivolta a Dio. Come tale, è in qualche modo ispirata, se è forma autentica di relazione con l’Altro. L’orante implora: Kyrie eleison. Chiede a Dio l’elemosina non solo di una risposta, ma anche di una domanda adeguata, che si ponga sulla lunghezza d’onda del Destinatario. La preghiera è bellezza, perché il contatto con Dio trasforma. Mosè aveva il volto illuminato da questa relazione “faccia a faccia”. La preghiera, come la poesia, attinge alle profondità dell’umano. È celeberrimo l’incontro di Elia con Dio, che si rende presente in una “qol demamah daqqah”, una voce di silenzio sottile. Durante una messa una bambina, dall’ambone, se ne uscì così: “dal libro del poeta Isaia”. Tutti scoppiarono a ridere, ma io la difesi: Isaia è noto come il Dante ebraico, come non definirlo poeta? Non bisogna dimenticare che il testo biblico è disseminato di inni, ossia di preghiere-poesie.

 

  •  Nell’Antico Testamento leggiamo toccanti espressioni poetiche, dai Salmi al Qohelet, fino ai libri profetici e sapienziali. Un patrimonio lirico che sembra disseccarsi nel Nuovo Testamento, se si fa eccezione per alcune parti dell’Apocalisse. Forse per una maggiore esigenza di razionalità e di proselitismo, o per quali altre motivazioni?

 

 

Il Nuovo Testamento, come accennavo, è anch’esso ricco di testi innici, a cominciare dal Magnificat di Maria. La conversione folgorante  di Paul Claudel avvenne mentre ascoltava quest’inno, cantato dai bambini nella cattedrale di Notre-Dame, a Parigi. Soprattutto le lettere di san Paolo sono attraversate da brani innici, ereditati dalla prassi liturgica delle prime comunità. Che dire, poi, del prologo del Vangelo di Giovanni? È uno dei capolavori della letteratura mondiale.

Diventare se stessi. Cosa ho capito della vita

  •    Nel suo blog La Poesia e lo Spirito, dedica molte rubriche alla diffusione della parola poetica. Quali sono quelle più seguite dai lettori, e a quali redattori o collaboratori vengono affidate?

Qui il discorso si fa serrato, perché nel tempo si sono succedute molte rubriche capaci di suscitare un vasto interesse tra i lettori, a cominciare dalla “Scuola di poesia” di Massimo Sannelli, i cui interventi sono confluiti in un prezioso volumetto. Tra le rubriche poetiche più recenti vorrei ricordare “La poesia vista dalla luna. Trenta righe di Alberto Bertoni”, “Parole, Poesia” di Paolo Valesio, “La Spagna in lettere” di Annelisa Addolorato, “Venti righe per niente facili” di Pasquale Vitagliano, “Postille sulla poesia” di Maurizio Soldini, “La poesia prima della fine del (o di un) mondo” di Rita Pacilio, “Rendez vous. Poeti che si parlano” in collaborazione con Luca Pizzolitto, “Tre fisse (domande semplici e concrete” di Patrizia Baglione, fino alle interviste della rubrica “La parola ai poeti” (che verranno raccolte in volume) e a quelle della rubrica parallela “Lo stato dell’arte”, sul destino della poesia ai tempi dell’intelligenza artificiale. Ma non bisogna dimenticare la costellazione legata alla narrativa e alla scrittura, a cominciare da “Narratori del nuovo millennio” di Monica Mazzitelli, “L’arte dello scrivere” di Gualberto Alvino, “La scuola di Serena Bedini”, fino alle incursioni nella filosofia, nella spiritualità, nella scuola, nel cinema (“Filosofia delle narrazioni contemporanee”, di Edoardo Sant’Elia, “Lucerne nella luce”, di Lucio Brandodoro, “Vivalascuola”, di Giorgio Morale, “Frammenti di cinema” di Pasquale Vitagliano, la rubrica sulla musica di Guido Michelone). Con Antonio Sparzani, Monica Mazzitelli, Pasquale Vitagliano, cerchiamo di tenere unita una compagine variegata di redattori, per fare del blog un luogo d’incontro aperto a sempre nuove esperienze.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», I marzo 2025

 

 

RECENSIONI

INFANTINO

ANTONIO INFANTINO, I DENTI CARIATI E LA PATRIA E ALTRE POESIE

ERETICA, BUCCINO 2024

 

Nel 1967 Feltrinelli pubblicò un libretto di Antonio Infantino, che ora viene ripreso dalle edizioni Eretica con la stessa storica introduzione di Fernanda Pivano, e con il titolo leggermente modificato in I denti cariati e la patria e altre poesie. Questo libro venne all’epoca considerato uno dei primi esempi italiani di poesia beat, e come tale l’autore fu invitato a tenere delle letture insieme ad Allen Ginsberg.

Infantino (Sabaudia 1944.Firenze 2018), architetto, pittore, docente universitario, musicista, poeta, è stato tra i maggiori esponenti della musica etnica meridionale. Artista poliedrico e originalissimo, nel 1975 aveva fondato i “Tarantolati di Tricarico”, reinventando il repertorio tradizionale della Basilicata, coniugando il folklore a messaggi di impegno sociale e politico, basati su ritmi ossessivi suonati con strumenti poveri in uso nella storia locale. A questa esperienza dirompente affiancò altre espressioni artistiche, come la creazione di colonne sonore, la collaborazione con musicisti jazz e classici d’avanguardia, performance teatrali di poesia visiva, esibizioni dal vivo sia in cabaret sia al Premio Tenco a Sanremo e partecipazioni a manifestazioni artistiche internazionali.

Fernanda Pivano, nel presentare il libro di Infantino dal titolo così provocatorio e irriverente, lo definiva “una critica alla civiltà del consumo” ottenuta accostando, con il metodo della composizione “a catena aperta”, temi di vita quotidiana con simboli più criptici e allusivi ad ambienti elitari, ma sarcasticamente contestabili. L’autore veniva da lei riconosciuto come “un personaggio che incarna in senso letterale alcune tra le cose migliori della cultura e dello spettacolo di questi ultimi quarant’anni”. Sfogliando le pagine de I denti cariati e la patria, ci troviamo immersi in un’atmosfera di impianto letterario e artistico sperimentale, che accompagna ai testi fotografie, disegni e bozzetti improntati sempre all’irrisione o al desiderio di sfrontata ilarità.

Gli scritti alternano pagine di diario a descrizioni di sogni e ricordi infantili, fino a esperimenti di composizione automatica, attuati attraverso l’uso di calembour e battute canzonatorie, spaziature irregolari e riproduzioni (in corsivo, in tondo e in stampatello, in grassetto e in dimensioni alterate) di segni alfabetici e numerici. Tale tecnica di composizione-scomposizione grafica, ereditata dai movimenti del primo Novecento del Futurismo e del Dadà, aveva in Infantino senz’altro una finalità ludica, coniugata però a un’esigenza di denuncia delle ingiustizie sociali passate e contemporanee nei riguardi delle classi subalterne.

Dal punto di vista contenutistico, l’autore tendeva a produrre nel lettore un effetto di straniamento giustapponendo concetti diversi: dalla ripetizione ribadita e impositiva di slogan (DEVE ESSERE COSÍ; VENERATE I PADRI DELLA PATRIA; Chissà perché; ma cosa fai ??!! ma dove vai ??!!; Morso dalla Tarantola), alla parodia di testi sacri (il discorso evangelico delle Beatitudini, il francescano Cantico delle creature) o letterari (Shakespeare, Foscolo, Leopardi, Manzoni), e alla contraffazione pungente di slogan pubblicitari coevi.

Frequente nei vari testi è la chiamata in causa dei lettori a esprimere un giudizio (“io chiedo a voi / se / credete che / c’è la libertà // io chiedo a voi se credete che la minigonna / è una rivoluzione sociale / oppure no”; NON SEI CHE UN NUMERO / anonimo cittadino del ventesimo secolo / PSICANTROPO / come va la vita”). Il perseguimento di un divertimento funambolico è poi evidente nell’utilizzo canzonatorio di onomatopee e palilalie: “ta tatatintan tatita // siccome sono innamorato ho bisogno di un gran / gelato ed anche nel caffè ho messo il sale /// tataita tataita tataita tataita”; “titinc titanc tichitichitanc / che c’è nei denti cariati che non ti va / tutto va // ah sì”.

La quarta di copertina riporta un lusinghiero giudizio di Vinicio Capossela, che fu amico e sodale di Infantino in molte collaborazioni, definendolo “Un filosofo, un profeta, uno sciamano e soprattutto uno che insegnava il modo di unire le cose. Quando c’erano i suoi concerti, lui era il tramite, il tramite per far accadere delle cose. Attraverso di lui la gente si univa e sprigionava delle energie. Era un tramite per far circolare le energie”.

 

© Riproduzione riservata     «SoloLibri», 25 febbraio 2025

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