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INTERVISTE

BETTARINI

MARIELLA BETTARINI, POESIA E IMPEGNO

 

Mariella Bettarini (Firenze, 1942) è una poetessa, saggista, scrittrice e traduttrice italiana. Nel 1973 ha fondato il quadrimestrale di poesia autogestito e autofinanziato Salvo imprevisti, (sottotitolato Quadrimestrale di poesia e altro materiale di lotta), che ha spesso pubblicato numeri monografici dedicati a temi che collegano cultura, poesia e problemi sociali. Nel 1993 Salvo imprevisti ha continuato le pubblicazioni col nuovo nome L’area di Broca, semestrale di letteratura e conoscenza. Ha curato, sulla rivista Poesia (Crocetti) una rassegna dal titolo Donne e poesia, antologia di poesie di circa cento autrici italiane dal ’63 al ’99. Ha collaborato con svariate riviste, quotidiani e periodici. Dal 1984 ha curato, con Gabriella Maleti le Edizioni Gazebo.

 

INTERVISTE

BETTIN

Nato a Venezia nel 1955, Gianfranco Bettin è laureato in Scienze politiche. Ha insegnato e lavorato nel campo della ricerca e degli studi socioeconomici e politici. Giornalista pubblicista, narratore e saggista, ha pubblicato alcuni romanzi e diversi volumi di indagine storica e sociale. Attivista politico e ambientalista, è stato deputato al parlamento, consigliere regionale del Veneto, assessore e prosindaco di Venezia e presidente della Municipalità di Porto Marghera. Attualmente è consigliere comunale a Venezia.

Tra i suoi libri: Qualcosa che brucia, Garzanti 1989; L’erede. Pietro Maso, una storia dal vero, Feltrinelli 1992; Nemmeno il destino, Feltrinelli 1997, 2004; La strage: Piazza Fontana. Verità e memoria, Feltrinelli 1999; Il clima è fuori dai gangheri, Nottetempo 2004; Gorgo: in fondo alla paura, Feltrinelli 2009; Cracking, Mondadori, 2019; I tempi stanno cambiando. Clima, scienza, politica, E/O 2022; La tigre e i gelidi mostri. Una verità d’insieme sulle stragi politiche in Italia, Feltrinelli 2023.

La domanda più scontata che si può fare a un sociologo, in un’intervista sulla poesia, è se tale forma letteraria mantiene una rilevanza non solo culturale, ma anche civile, nell’Italia contemporanea, come per esempio è stato nell’800. La poesia, oggi, serve ancora a qualcosa nella nostra società?

Serve a molto, forse non a molti, ma quelli che ne vengono raggiunti, e che la cercano, ne traggono forza, idee, e a volte arrivano – loro, così alimentati – a tanti altri.

 

A quale età ha iniziato a leggere versi, e privilegiando quali autori nell’arco della sua vita? Ci sono state voci poetiche, anche straniere, che hanno lasciato un’impronta sul suo impegno politico e ambientale?  

 

Ha incontrato personalmente qualche poeta, e traendone quali arricchimenti dal punto di vista umano?

Ho conosciuto diversi poeti. Un po’ meglio, Patrizia Cavalli e Andrea Zanzotto. Cavalli quando ero molto giovane, negli anni Settanta, nell’ambiente di Elsa Morante (che pure ho conosciuto bene, e che considererei anche poeta oltre che romanziera, grandissima, a cui devo molto sia della mia formazione culturale che umana). Alla capacità di condensazione del verso di Cavalli, alla gravitas che cela nella sua grazia e leggerezza apparente (ma anche sostanziale, spesso, mozartiana), ho guardato sempre, cercando di assimilarla, scrivendo spesso di cose pesanti e cupe io stesso. Né le poesie né altri testi “cambieranno il mondo”, ma qualcosa, qualcuno, qualche momento sì, invece, che li cambiano. Patrizia lo sapeva. Zanzotto l’ho incontro quand’ero già adulto, sui 35 anni, alla fine degli anni Ottanta, dunque, ma il rapporto con lui, proseguito fino alla sua morte nel 2011, è stato davvero fecondo, per me, ricco di idee e suggestioni, di discussioni e scambi, in particolare sul territorio di entrambi, il Veneto, nel confronto tra la sua Marca e le mie Venezia e Porto Marghera, mondi estremi e alieni l’un l’altro e tuttavia compresenti in uno spazio ridotto, per i quali Andrea aveva grande interesse.

Che giudizio dà della produzione poetica attuale nel nostro paese? Dopo l’ermetismo, l’impegno politico del dopoguerra, lo sperimentalismo degli anni ’60, il collegamento con le arti visive e musicali, non ritiene ci sia stato un ristringimento di prospettiva, sia in termini di una chiusura solipsistica nel privato, sia nell’abbandono della ricerca formale?

Non ne so abbastanza per azzardare un giudizio. A volte mi imbatto nella poesia contemporanea, a volte mi accorgo di cercarla, e di trovare non di rado versi o testi che mi confermano in quella lontana idea che ne ho sempre avuto e che risale alle prime letture: l’eccezionale capacità della parola poetica di dire, o suggerire o evocare, qualcosa che non si può dire in un altro modo e che esprime una verità, la precisione clinica e artistica per così dire, di ciò di cui parla e, al tempo stesso, di far risuonare in sé tutto quello che fino a quel momento si è letto altrove, in altri testi, in altre circostanze, mettendo tutto insieme in un significato specifico, in quel punto, quel puntino connesso a una vastità incommensurabile, di cui si è parte e in cui ci si perde, tuttavia trovando qualcosa di sé. Tutti i limiti che la domanda rimarca rimangono: solo, non so se riguardino la poesia attuale o siano e siano stati propri di tutta la poesia, sempre. Capita, però, che vengano superati, anche oggi. che una forza e una grazia e una vitalità poetica si producano, in certi casi.

Poesia come spettacolo, esibizione, performance, poetry slam, festival, letture… Eppure le vendite nelle librerie ristagnano, mentre si alza il livello di competizione tra poeti, che rimangono i soli a leggersi tra di loro. Cosa ne pensa?

Ancora una volta, non ne so molto, ma ho l’impressione che tutto ciò sia sempre accaduto (comprese, in Italia, le scarse vendite, purtroppo), che faccia da sempre parte degli “immediati dintorni” della poesia (e della letteratura, e dell’arte). Per il resto, che si moltiplichino occasioni pubbliche – spoken word e poetry slam compresi, di cui pioniere in Italia è stato un altro mio amico valente poeta, Lello Voce – va benissimo: che parole e versi girino, vagando nell’aria e nella testa di chi ascolta, di chi passa e va.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 20 ottobre 2023

 

INTERVISTE

BORDINI

CARLO BORDINI, SCRITTORE E POETA


Intervista allo scrittore Carlo Bordini

Tra le sue pubblicazioni:

Dal fondo, la poesia dei marginali (Savelli, 1978); Strategia (Savelli, 1981); Manuale di autodistruzione (Fazi, 1998); Polvere (Empirìa, 1999); Pezzi di ricambio (Empiria, 2003-2019); Pericolo, Poesie 1975-2001 (Manni, 2004); Gustavo, una malattia mentale (Avagliano, 2006); Sasso (Scheiwiller, 2008); I costruttori di vulcani (Luca Sossella, 2010); Memorie di un rivoluzionario timido (Luca Sossella, 2016); Difesa berlinese (Luca Sossella, 2018).

  • Da quale ambiente familiare e culturale provieni? Come e quanto gli studi, le amicizie e gli amori hanno influenzato la tua scrittura?

Una famiglia autoritaria ha fatto di me un ribelle. Questo spiega il lungo periodo (nove anni) di militanza politica. Ma sono un ribelle anche in letteratura. Non amo l’istituzione letteraria, non amo le regole, non amo le mode di scrittura, non faccio parte di nessun gruppo o tendenza. Sono un po’ anarchico, in campo letterario. Leggo quello che mi interessa e non leggo quello che, al primo incontro, non mi interessa. Non cerco di assomigliare a qualcuno e non imito. In America Latina alcune persone si definiscono così: “Laureato in filosofia della vita studiata nell’università della strada”. Io, letterariamente, mi sento un po’ così.

  • Nella tua vita, viene prima l’impegno politico o quello letterario e come le due passioni si confondono e si nutrono vicendevolmente?

Questa domanda mi obbliga a riflettere. Nel periodo della militanza politica non ho scritto nulla. Pensavo, come lo pensavano in molti, che era più utile un mediocre rivoluzionario che un buon scrittore. Quando ho ricominciato a scrivere, essere di sinistra è rimasto dentro di me, ma come un velo. Come una nebbia leggera. Come qualcosa che dava un colore delicato ad altre cose. Come una sorta di etica. Abbinata alla coscienza che l’idea di cambiare in meglio il mondo è un’utopia che si ripresenta puntualmente nella storia come una perenne illusione. Quasi una religione.

  • Quali sono i poeti, i narratori e i filosofi che più hanno nutrito la tua produzione? Cinema e musica hanno un rilievo importante nella tua quotidianità?

Amo molto Apollinaire. È il mio poeta preferito.

  • Che cosa rimpiangi di più dell’atmosfera culturale e politica in cui ti sei formato?

Il senso di libertà e di provvisorietà. Adesso essere provvisori è un lusso molto pericoloso. Un tempo era un lusso piacevole, possibile, e anche creativo ed appagante. Era possibile essere contro e fare esperimenti. Cioè: fare esperienze che erano anche esperimenti…

  • Qual è il tuo libro a cui sei più legato e cosa ti piacerebbe ancora scrivere e pubblicare in futuro?

Credo di aver scritto un unico libro, in tutta la mia vita, che poi si è diviso in varie occasioni editoriali. E credo che continuerò a fare la stessa cosa anche in futuro. Posso dire che l’unico libro che sono andato scrivendo fin dalla nascita è composto da una serie di domande, da una serie di interrogazioni su me stesso, e sul mondo che mi circonda. Credo che troverò sempre risposte parziali che mi lasceranno insoddisfatto e che continuerò a cercare. Ma le domande vengono da sole. Non bisogna forzarle. Se vogliamo invece passare al piano editoriale, i miei libri più importanti sono I costruttori di vulcani, che contiene tutte le mie poesie fino al 2010, e Difesa berlinese, che contiene quasi tutta la mia produzione in prosa. Entrambi i libri sono stati pubblicati da Luca Sossella.

  • Sei molto presente nei festival, nelle performance e nei raduni letterari. Credi che queste manifestazioni pubbliche aiutino la diffusione della poesia o viviamo in tempi irrimediabilmente prosaici e indifferenti?

Attenzione. Qualcosa sta cambiando. Nonostante il mondo sia governato da forze sempre più oppressive, esiste (anzi, sta crescendo) una forma di resistenza. Minoritaria ma in crescita. In Italia la cultura è stata privata di ogni appoggio economico e il populismo la considera qualcosa di negativo. Ma si sta moltiplicando tutta una serie di iniziative, anche se sono piccole e prive di mezzi. E una parte minoritaria ma consistente di giovani comincia ad esserne attratta. A Roma è impossibile star dietro a tutto, ci sono un sacco di cose in contemporanea, c’è una vita culturale intensa.

 

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/Intervista-a-Carlo-Bordini.html       25 giugno 2019

 

 

 

 

INTERVISTE

BORGNA

EUGENIO BORGNA E LA POESIA

Eugenio Borgna (Borgomanero 1930), già libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano e Primario emerito dell’ospedale psichiatrico di Novara, è tra i principali esponenti della psichiatria fenomenologica, che sposta il suo oggetto di analisi dalla malattia al paziente. Sostenitore di una “psichiatria dell’interiorità” in grado di ricostruire la dimensione profonda e soggettiva del disagio psichico, indagata attraversando letteratura, filosofia e arte, ha compiuto studi approfonditi sulla depressione e la schizofrenia, come dimostrano numerosi saggi scientifici e pubblicazioni divulgative. Fra i titoli della sua ricca produzione vanno citati: Malinconia (1992); Le figure dell’ansia (1997); Noi siamo un colloquio (1999); L’arcipelago delle emozioni (2001); Le intermittenze del cuore (2003); L’attesa e la speranza (2005); La solitudine dell’anima (2011); La fragilità che è in noi (2014); L’agonia della psichiatria (2022); Sull’amicizia (2022); Mitezza (2023).

Professore, in tutti i suoi libri sulla psichiatria e la psicanalisi, pubblicati soprattutto da Einaudi e Feltrinelli, si è soffermato spesso sull’importanza della poesia come strumento di conoscenza e riflessione interiore. Quali altri meriti attribuisce alla scrittura in versi?

Il leitmotiv dei miei libri, di quelli divulgativi in particolare, che sono i più letti, è sempre stato animato dalla poesia come strumento di conoscenza e di riflessione interiore. Non saprei riassumere meglio le premesse tematiche di questi miei libri che sgorgano, o almeno vorrebbero sgorgare, dalla interiorità. Lo ha scritto Sant’Agostino nelle Confessioni: “in interiore homine habitat veritas”, e in questo cammino la poesia ha una importanza radicale.

 

Quando ha iniziato a leggere con continuità i poeti, e con quali differenti rifrazioni sentimentali, nelle diverse età della vita che ha attraversato?

Ho incominciato a leggere poesia nella mia prima adolescenza. Mio padre, che era avvocato, ritornando da Milano, portava in casa una infinità di libri di letteratura e di filosofia, non solo ovviamente italiani, ma anche francesi e tedeschi. La casa sommersa di libri, e così c’è sempre stata una continuità dalla adolescenza alla età avanzata. Così, ad esempio, ho continuato a leggere dall’adolescenza i versi di Giacomo Leopardi e quelle di Antonia Pozzi, e le Confessioni di Sant’Agostino. Sono state stelle del mattino che non si sono mai spente.

 

Nel valutare la resa poetica di una composizione, viene più colpito dalle immagini, dalla musicalità o dal messaggio trasmesso?

Nel rivivere e nel ricreare uno stato d’animo lirico sono stato abitualmente affascinato dalle immagini più ancora che non dal messaggio trasmesso, o dalla sua musicalità.

I poeti che cita maggiormente nei suoi testi sono Emily Dickinson, Rainer Maria Rilke, Antonia Pozzi. Quali altri nomi le sono particolarmente affini? Trova una differenza di intensità espressiva tra le voci femminili e maschili?

Alla voce poetica di Emily Dickinson, di Rainer Maria Rilke e di Antonia Pozzi si è sempre aggiunta quella suprema di Giacomo Leopardi, quella dei crepuscolari, di Sergio Corazzini e di Guido Gozzano, e non solo ma anche quella di Giovanni Pascoli e di Giuseppe Ungaretti. Ho sempre letto con passione le poesie di Nelly Sachs e di Georg Trakl, non molto conosciuto e conosciuta, quelle dei poeti romantici, come Clemens Brentano. Direi di non trovare differenze di intensità espressiva nelle voci poetiche femminili e maschili, sì, le une diverse dalle altre, ma non diverse nel fascino e nella magia, che si ridestano nel cuore.

 

Legge poesia contemporanea italiana? Che giudizio ne dà?

Non leggo, non ne ho avuta l’occasione, poesie italiane contemporanee,

Recentemente, in un’intervista sul Corriere della Sera, ha postulato una contiguità tra poesia e follia. Nel senso di un’intrinseca originalità della voce poetica, di una sua estraneità alla concretezza dell’esistenza, o di una particolare e quasi temibile fragilità emotiva e psichica?

Le sue domande sul tema della contiguità fra poesia e follia sono originali e profonde, e quello che avvicina l’una all’altra, è la particolare e quasi temibile fragilità emotiva e psichica.

 

È mai stato tentato dal desiderio di cimentarsi in prima persona con la scrittura in versi? Pensa che il suo stile sarebbe più vicino al crepuscolarismo, all’ermetismo, al surrealismo o al quotidiano prosastico in voga oggi?

Non ho mai avuto il desiderio di dare voce ad una poesia personale, che sarebbe stata, direi, quella crepuscolare. Non ne avrei avute in ogni caso le attitudini.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 21 settembre 2023

 

INTERVISTE

BORSO

DARIO BORSO, FILOSOFO E TRADUTTORE

Nato a Cartigliano l’8/12/1949, si è laureato in storia della filosofia alla Statale di Milano con una tesi su Hegel, uscita poi da Feltrinelli. Dopo anni di precariato (correttore di bozze e giornalista a L’Unità, insegnante 150 ore, bibliotecario a Crema, coordinatore delle attività seminariali per Fondazione Feltrinelli), nel 1981 diviene ricercatore confermato e si conferma tale sino a fine carriera (senza partecipare più a un concorso ma tenendo per anni una cattedra di estetica a contratto al Politecnico). Appassionato di traduzione, si prova inizialmente con Hegel, Bloch e Diderot, finché l’interesse per Kierkegaard lo assorbe negli anni 90 come curatore di numerose sue opere.

Il suo basso continuo è rimasto comunque la filosofia tedesca, con slittamenti progressivi verso la letteratura. Microeditore all’alba del millennio (edizioni de Il Ragazzo Innocuo poi Ubiquo), nel 2007 fonda il Premio Baghetta, alla sesta edizione, cui partecipano importanti poeti contemporanei e un folto pubblico. Impegnato da sempre a decifrare la modernità, interviene sulla carta stampata e online, spaziando in vari ambiti culturali e di costume.

Partendo dall’ambiente veneto di nascita, passando poi agli studi universitari fino al lavoro di docente: quali eredità affettive e culturali le ha lasciato questo percorso?
In paese (2.700 anime) parlavano italiano il maestro, il parroco e il sindaco, e tutti solo in ambito istituzionale. Iniziai l’apprendimento dell’idioma a sette anni, in ritardo rispetto ai compagni per via di una tbc che m’inchiodò per un biennio a letto, dov’ebbi modo di affinare certe doti, prima fra tutte la capacità d’ascolto: dalla camera sentivo le voci dei clienti giù in bottega (padre fruttivendolo e madre ex-ostessa, lui frequentava il mercato notturno a Bassano, lei serviva di giorno, io vegliavo da solo salvo rare irruzioni genitoriali compatibili col commercio). Altre voci, di cui ero meno curioso che nostalgico, venivano dalla corte comune, dove amichetti chiassosi giocavano. Da lì, penso, la passione per le varie lingue (italiano dalle elementari, più latino e francese dalle medie, più greco al liceo) e per le varie inflessioni individuali entro la stessa lingua. Passione, mentre l’amore andava e va al mio veneto, l’unica lingua che considero viva sebben morente, mentre le altre considero morte ma riportabili in vita traducendole – amore che ha cementato per oltre mezzo secolo l’amicizia infrangibile con pochi eletti pressoché coetanei, una specie di academiuta a sede mobile (= osterie).
Quanto all’odio (seconda superpassione secondo Spinoza), andò così. Giusto mentre mi ammalavo, mio padre ebbe a subire un inatteso linciaggio democristo, lui ch’era il giusto del villaggio. Risultato: cadde in depressione e ammutolì letteralmente. Il clima in famiglia (allargata: genitori, fratelli, zii, nonna e amica sua di filanda) divenne in breve irrespirabile. Catastrofica fu per me la scoperta in granaio di rotoli cartonati su cui a pennello nero s’inveiva (Andrea B. della Mano Nera mi occupò ermeneuticamente in modo particolare, specie la notte) e di cui era vietato parlare.
Salto di decenni: in comune ho preteso (impiegati leghisti allibiti) di esaminare le scartoffie locali, con due risultati definitivi: mio padre fu partigiano, il linciaggio concordato tra sindaco e parroco totalmente vile (a secondaria conferma, don Casto agonizzante invocò perdono).
Divenni comunista a diciassette anni e formammo una cellula, poi sez. Pablo Neruda. Lo dico per giustificare la mia vena polemica, che straborda in tutti i campi, culturale compreso. (Diversamente da Democrito, con mezza faccia rido e con l’altra mezza ringhio). Essa si sviluppò investendo pure i miei che, schiantati da quella tragedia, tremavano all’idea che mi schiantassi anch’io. Risultato: lasciai in malo modo la famiglia e m’iscrissi a Filosofia a Milano. E la pagai: rinchiuso alla Casa dello Studente di Viale Romagna, ogni fine-settimana in treno piangevo (come Democrito stavolta), all’andata per il dissidio in famiglia, al ritorno perché lasciavo gli amici.
Su questo versante, il libro fondamentale fu Lettera a una professoressa, divorato nell’estate 1967: in autunno uscimmo al liceo di Bassano con il numero unico FOGLI, nel cui editoriale Quelli (mia prima pubblicazione!) attaccavo i signorini della A: quelli che vanno a sciare, quelli che parlano italiano, quelli coi pantaloni a mezza gamba ecc. Noi della B eravamo allocati in cortile (una baracca su cui spruzzammo presto Che Guevara); entravamo dal portone delle bici e calcavamo i marmi secenteschi del Brocchi solo quando convocati dal preside. Stranamente uscii con la media più alta di tutti i tempi senza mai studiare, eccetto il trimestre prima degli esami. Stavo attento a scuola, il resto era osteria o campo sportivo; passavo sempre i compiti a tutti (alla maturità pure a quelli della A, essendo segretamente invaghito dell’angelica Luisella); tenevo un controregistro delle interrogazioni a scopo statistico, i compagni entrando in aula chiedevano: “Quando m’interrogano?”; se finita l’ora uno/a si avvicinava al prof per chiedere qualcosa, veniva isolato in quanto leccaculo/a. Prof tutti e sempre supplenti (cinque di filosofia in tre anni di liceo), nessuno stimolo se non la sferza di due zitelle, in matematica e latino-greco. Iniziai a leggere per conto mio a diciassette anni, prima credo di non aver letto un romanzo, neanche metà. Poi a valanga.
Consigliere comunale PCI nei primi anni 70 con mio cugino Roberto (sedici democristi e due lacché socialdemocratici), femmo saltare la giunta a furor di populo (non chiedetemi come: dico solo che il sindaco dimissionario in lacrime esordì in consiglio davanti a un pubblico straripante con la mitica frase: “Siamo in un veicolo [sic] cieco…”).

Dalla razionalità hegeliana alla spiritualità di Kierkegaard, dal cripticismo di Paul Celan al funambolismo di Arno Schmidt: come riesce a conciliare queste diverse esperienze intellettuali?
La mia risposta consegue da quanto detto: sentivo le voci → traduco le voci, le più disparate in una specie di grand guignol o di barufa ciosota, dove la regia è affidata a monna ironia (grande lezione di Kierkegaard, imitatore massimo di voci dal prete al gagà, nonché polemista di natura).

Quali lingue conosce, e da quale di esse sente di trarre maggiore arricchimento?
Conoscere è un termine vago, va dal biblico al renziano (v. i suoi speeches). Restringendo alle lingue da cui ho tradotto: il veneto, nel quale ragiono mentalmente tuttora; il francese (Diderot); il tedesco (parecchio), imparato in più estati institut-goethiane via borsa-di-studio e un anno all’università di Bonn grazie al consiglio di Mario Dal Pra, che mi ha insegnato il mestiere e l’onestà filologica (ho tentato di sdebitarmi in mortem curandone il manoscritto inedito 1947 Storia della guerra partigiana in Italia, immolato il 19 aprile 1948 da Raffaele Cadorna sull’altare della madonna piangente dopo che Dal Pra, già responsabile dell’ufficio stampa & propaganda del CLNAI per il Pd’A, aveva creato materialmente dal nulla l’Istituto della Resistenza); il danese, in mesi e mesi al S.K. Forskningscenteret; l’inglese da sempre, come lingua del mondo (Sasha Dugdale); il russo (Šestov e Blok) per ultimo.
Due mie costanti di metodo: porre l’asticella più in alto possibile (come difficoltà oggettiva e interesse soggettivo); sostanziare l’esercizio di rapporti umani, nell’ordine: francese in anni di convivenza con Nadine Celotti (ora ordinaria di traduzione dal francese a Trieste); tedesco in un rapporto imperituro col mio primo amore Vivetta Vivarelli (ora germanista all’Università di Firenze); danese in un abbaino di via Bramante con Michelle Mafille che di francese ha solo il nome; russo grazie all’arguzia stacanovista della slavista Valentina Parisi; inglese via Beatles.

Oltre alla filosofia, alla letteratura, all’architettura, nutre qualche interesse anche per il cinema, la fotografia e la pittura? Occorrono troppe vite per farne una, scriveva Montale…
Anche qui, interesse per tutto e niente. Di concreto – cinema: la collaborazione con mia moglie Giulia Ciniselli in diversi mediometraggi su Via Padova (l’ultimo, Prossima fermata via Padova sui migranti del ’900, terroni e polentoni); architettura: il saggio Disegnology che sta per uscire in SAFT (cofanetto con nove fanzine di ex-laureandi del Poli che mi hanno ripescato dopo vent’anni, grati di esperienze scolastiche esaltanti); fotografia: zero assoluto da quando nel 1973 fui derubato della mia Olympus OM-1, rullini e tutto il resto da due negroni strafatti che mi tirarono su a St. Louis dopo quasi tre mesi di autostop (fortunatamente mio figlio Dogui ha preso la staffetta, mentre io curo ogni tanto foto altrui, v. Ugo Mulas, Danimarca 1961, uscito mesi fa dalla Humboldt).

Che giudizio dà del panorama poetico attuale in Italia, così ricco di esperienze e iniziative editoriali (festival, blog, premi…)? Ritiene che tutto ciò sia utile o produca in realtà confusione e qualche dilettantismo?
Seguo quanto circola in rete, dove anche vale la massima di De André: “Dal letame nascono i fior”. A me interessano entrambi: i fior va da sé, il letame in quanto sintomo ulteriore del carattere degli italiani: furbi come servi, leccaculi come pochi (v. parecchi sedicenti litblog).

Nei riguardi del nuovo corso politico cui sembra avviarsi il nostro Paese, è più o meno ottimista?
Anch’esso seguo con interesse, soprattutto linguistico. Ad es., il fatto che Di Maio negli ultimi mesi non abbia sbagliato un congiuntivo, mi fa essere moderatamente ottimista.

A cosa sta lavorando attualmente, e quale progetto sogna di portare a termine in futuro?
Ho sempre fatto quel che volevo, conscio delle conseguenze. In questo senso a non piacermi del mio lavoro è il dopolavoro, ossia piazzarne i frutti sul mercato (nemesi familiare?). Ci ho fatto il callo, limando entusiasmi e frustrazioni con un moderato pessimismo. La cosa che più mi secca è che, essendo io disordinato, tendo a perdere o dimenticare file di lavori che nessuno ha voluto, ad es.: l’edizione critica di un racconto di Parise; il diario di un artigliere semianalfabeta della Prima guerra; i racconti di un Brera giovanissimo che nemmeno gli eredi conoscono; la curatela di un romanzetto ironico di Jean Paul sul coraggio ecc. A me sembrano fior, ma evidentemente per gli editori son letame (“per” pleonastico?).
Ora sto vivendo en souplesse l’ennesima odissea riguardo a un testo che come le mie traduzioni è mio e non è mio, ma in un altro senso: è mio, ma del 1974. Ripescato in condizioni rocambolesche grazie al compagno anarchico di viaggio Pietro Spica che, tornato dagli USA ad abitare in via Padova come me, ha ritrovato le sue foto di allora innestando una reazioncina a catenina, è piaciuto a Valerio Magrelli che lo ha prefato e a Chandra Candiani che lo ha quartacopertinato. Nel giro di un mese ha collezionato tre rifiuti; si chiama Piccolo diario indiano e contiene foto di Spica, che lì mi liberò dei lacci catto-comunisti residui favorendo un situazionismo mentale già covato di mio. Come accennato infatti, sentivo le voci, e ora sto editando per Museo del Novecento, Fondazione Empatia e Coop Lotta contro l’Emarginazione un libro di racconti scritti da persone con disagio psichico (una sente le voci, per l’esattezza dieci, e ciò me lo fa ancor più fratello).
P.S.: Per la prima volta in vita sto traducendo sotto contratto – si fa per dire, ché l’autrice l’avevo scoperta da me e tradotta su L’Internazionale. Così mi sento un po’ più protetto, grazie anche a una clausola in auge in Germania, secondo cui il traduttore scelto dalla casa editrice d’arrivo deve passare il vaglio dell’autore. Bene, lei ha scritto: “Es geht, db ist legendär”.

«Il Pickwick», 24 aprile 2018
INTERVISTE

CAMON

camon         

FERDINANDO CAMON:

ROMANZIERE, POETA, OPINIONISTA

 

  • La materia di Un altare per la madre è la stessa de Il Quinto Stato e de La vita eterna: il mondo contadino. Eppure qui il modo di raccontare è diverso; c’è per esempio un uso meno esplicito del dialetto.

Si tratta infatti di una traduzione da un tipo di dialetto padano a un italiano molto dimesso e scarnificato. Ho fatto questa scelta perché credo sia ora di disilluderci sul fatto che i romanzi possano avere come destinatari un pubblico contadino o proletario. L’arte è un prodotto borghese fatto da dei borghesi che ha per consumatori dei borghesi: l’argomento trattato può anche essere di ambientazione proletaria, ma rimane comunque destinato a dei borghesi. L’importante è non offrire questo argomento al lettore borghese per tranquillizzarlo, per ottenere complicità; bensì si deve, attraverso queste documentazioni, cercare di offenderlo, di insultarlo, di oltraggiarlo, dimostrandogli le sue responsabilità.

  • Quindi, non esiste un pubblico proletario?

No, non c’è. Non si scrive, né si dipinge, né si fa alcuna altra operazione artistica per un tale pubblico, che non recepisce, se ne frega, e ha ragione, dell’arte borghese.

  • Politicamente questa affermazione cosa comporta? Se la classe contadina non è destinataria di alcun messaggio da parte della classe culturalmente dominante, avrà un’evoluzione interna o rimarrà immobile

La classe contadina non ha alcun rapporto con la sinistra, né col PCI né con le altre organizzazioni. Non rimarrà immobile né si evolverà, semplicemente scomparirà. La cultura contadina sta morendo. Morirà, sarà sostituita da un’agricoltura industrializzata, da borghesi che abiteranno in campagna e letterariamente non si potranno più scrivere romanzi su questo mondo, se non per un’operazione “archeologica”, di documentazione colta.

  • Rispetto all’esperienza narrata da Gavino Ledda, di proletario approdato alla cultura borghese, l’esperienza del personaggio di Un altare per la madre è molto differente?

Artisticamente i libri di Ledda mi sono piaciuti, politicamente no. Perché il bersaglio, il nemico di Ledda è il padre, che è a sua volta una vittima, l’ultimo anello di una catena di vinti. Bisogna invece colpire più in alto, dove inizia la violenza e il potere.

  • Se il bersaglio deve essere ciò che sta sopra, non il mondo che subisce la violenza, questo suo ultimo romanzo è coerente in quanto non esprime la minima riserva verso quel mondo di vinti (il padre, la madre). Però, è davvero un’offesa per i borghesi?

I precedenti miei romanzi sul mondo contadino erano libri sulla miseria di quel mondo, sulla sua condizione sfruttata, sottoumana, animale. Questo ultimo romanzo scopre una certa forma di grandezza di quel mondo che sa inventare una forma salvifica, di vittoria sulla morte: perciò è raccontato in maniera epica; ho lasciato perdere i toni sarcastici, parodistici, aggressivi degli altri romanzi. Questo però non significa che qui ci sia una riappacificazione tra sfruttati e sfruttatori: questo è un romanzo interno al mondo contadino, perché la cultura di questo mondo è estranea al mondo dominante. Non è nemmeno una cultura cattolica, perché il cattolicesimo non funziona secondo la morale cristiana. Questo libro è rivolto a lettori borghesi per metterli a parte di qualcosa che essi non conoscono, è una ricognizione dettagliata di una classe “inferiore”: non c’è però solidarietà con quei lettori, anzi è esplicita l’accusa di tradimento di alcuni valori, che invece la cultura contadina conserva. Sono valori pre-cristiani, barbarico-primitivi, morali nel senso naturale del termine: valori che gli sfruttatori cattolici hanno tradito. Il dio di cui parlo non si incarna cattolicamente nella Chiesa, ma pre-cristianamente nel popolo, nella comunità contadina. Questi valori non vanno scherniti, ma devono essere raccontati col massimo di adesione, dall’interno.

  • In questo modo però non c’è opposizione nel senso di ribellione alla cultura borghese. L’indifferenza può diventare accettazione.

No, è rifiuto, è non-collaborazione. E’ un “mettersi di traverso” come dice Benjamin. Non è aperta ribellione perché non è in grado di esserlo.

  • Ma se questa classe contadina, depositaria di rifiuto, sta scomparendo, a chi rimane nella società di oggi il compito di ribellarsi? Nel libro c’è anche una polemica verso l’imborghesimento degli operai.

Noi abbiamo molta cultura e letteratura operaistica, eppure la cultura operaia non esiste. Invece c’è una ricca cultura contadina, che però politicamente si esprime in termini conservatori. La situazione in Italia è contraddittoria: la grossa e media borghesia si schierano al centro, gli operai sono PCI, i contadini ancora DC. Il “movimento” politicamente non ha alcuna rilevanza. La cultura contadina, non il suo voto, è anti-borghese e di questa cultura che scompare io ho parlato nel mio libro. E’ un libro sulla morte privata, quella di mia madre, che per me ha coinciso con quella di un mondo, freudianamente, quindi ha assunto un significato collettivo. Non mi interessava parlare della morte in sé, ma di ciò che avviene dopo, della salvezza del morto e di chi rappresenta. E’ un’invenzione, non un recupero: per salvare dalla morte si inventa prima un monumento simbolico (l’altare costruito da mio padre) e poi un altare simbolico, quello fatto da me, con le parole.

«Quotidiano dei Lavoratori», 13 aprile 1978

INTERVISTE

CAMPETTI

LORIS CAMPETTI, GIORNALISTA E SCRITTORE


In quest’intervista Loris Campetti racconta la sua formazione e il suo apprendistato politico, intellettuale e professionale, senza trascurare di offrirci una sottile analisi dei cambiamenti configuratisi negli ultimi decenni nella società italiana e alcuni interessanti spunti di riflessione sul futuro prossimo di quel che resta della sinistra.

Nato a Macerata nel 1948, consegue la laurea in Chimica nel 1972, insegnando poi a lungo nella scuola media. Entra nel mondo del giornalismo sul finire degli anni Settanta, dirigendo per circa dieci anni la redazione torinese de Il Manifesto, e in seguito occupandosi di economia, lavoro e sindacato come capo-redattore. Tra i suoi libri: “Non Fiat” (Castelvecchi, 2002), “Ilva connection” (Manni, 2013), “Non ho l’età” (Manni, 2015), “Ma come fanno gli operai” (Manni, 2018).

  • In quale ambiente familiare e culturale si è formato?

Sono figlio di un sarto, ex partigiano, comunista (eretico) in una città bianca. Sul muro del municipio è scolpita in pietra la scritta “Civitas Mariae” anche se sotto c’è una lapide dedicata a Giordano Bruno, “vittima della tirannide sacerdotale”. Mio padre è morto quando io avevo appena dieci anni, il suo è stato il primo funerale laico nella storia della città con tanto di bandiere rosse e di porte delle chiese che venivano chiuse al passaggio del feretro e del corteo. Mia madre, anche lei sarta, ha lavorato a testa bassa per consentire a mia sorella e a me di studiare e laurearci. Era la stagione del mito del riscatto sociale (e della cultura), era il tempo oggi scaduto in cui si sapeva che i figli avrebbero vissuto meglio dei loro genitori.

  • La sua scelta politica di schierarsi dichiaratamente e con coerenza a sinistra in che anni è maturata, e seguendo quali Inclinazioni o suggestioni caratteriali e intellettuali?

La mia scelta di campo, con gli ultimi, i più deboli, forse l’avevo già impressa nel DNA, o più probabilmente è maturata negli anni intorno al ’68 e alla rivolta contro tutti gli autoritarismi. All’università occupata di Camerino portavamo a parlare i primi delegati operai eletti e alla notte noi studenti andavamo ai presidi operai davanti alla Lebole e alla Merloni. La laurea in Chimica mi è servita, dopo un periodo in cui ho fatto il collaudatore di automobili, per andare a lavorare in una multinazionale farmaceutica per pochi mesi, il tempo necessario a capire che con un uso puramente speculativo degli ormoni si poteva rovinare la vita di un sacco di persone. Poi la scuola, otto anni di insegnamento accompagnati da lavoro giornalistico volontario, meglio dire militante, e infine Il Manifesto oltre che per piacere per lavoro. Era un giornale dalla parte del torto, il mio giornale.

  • Quali sono stati gli autori e le esperienze esistenziali che hanno inciso più profondamente nella costruzione della sua identità umana e professionale?

Leopardi (tutto), Richard Wright (“Ragazzo negro”), Steinbeck (“Furore”), Che Guevara (“Il diario in Bolivia”), Tex Willer, Pasolini, Brecht, Rosa Luxemburg….

  • Quarant’anni di collaborazione attiva con Il Manifesto che eredità di pensiero e sentimenti le ha lasciato? Ritiene che questo quotidiano abbia ancora una sua funzione di stimolo e critica nella società italiana, o pensa che abbia perso parte della sua capacità propulsiva e propositiva?

Potrei rispondere “sono un comunista non ho altro da dichiarare”, non lo farò. Al manifesto ho dato tanto e ricevuto ancora di più: il pensiero critico, la cultura del dubbio. Credo che ogni cosa abbia un inizio e debba avere una fine una volta esaurita la sua spinta propulsiva; se il nuovo manifesto, quello che si è emancipato dai suoi fondatori e da qualche fondamento, va ancora in edicola credo dipenda da due fattori: il vuoto editoriale a sinistra e la legge sull’editoria.

  • Esiste ancora, ideologicamente e politicamente, un futuro per la sinistra in Europa e nel mondo? Integralismi e populismi troveranno un argine nella coscienza civile internazionale? A molti commentatori sembra che il capitalismo, con le sue feroci leggi del mercato, abbia trionfato ovunque, e il comunismo sia ormai relegato in un ruolo di irrealizzabile utopia egualitaria.

Se sapessi rispondere a queste domande potrei aspirare a guidare la rivoluzione mondiale. Finché ci sarà sfruttamento dell’uomo sull’uomo, finché cresceranno le diseguaglianze, ci sarà bisogno di conflitto e utopia, chiamiamola sinistra o come ci pare. Se un altro mondo sul piano morale, politico, ambientale, umano è desiderabile – e non serve essere comunisti per desiderarlo – e necessario – chiedetelo ai migranti, agli operai e all’orso polare – dovrà pure essere possibile. Il comunismo è un fantasma, se non lo vediamo aleggiare nei cieli d’Europa, sarà per colpa dell’inquinamento? O magari dobbiamo cambiare gli occhiali? Chi si batte per un ideale può essere sconfitto, chi rinuncia a battersi ha perso in partenza.

© Riproduzione riservata   https://www.sololibri.net/Intervista-a-Loris-Campetti.html     18 aprile 2018

INTERVISTE

CANDIANI

CHANDRA LIVIA CANDIANI: RESPIRO, ASCOLTO, SPAZIO VUOTO

Chandra Livia Candiani (Milano 1952) è poetessa e traduttrice di testi buddhisti; tiene corsi di meditazione e conduce seminari di poesia nelle scuole elementari, nelle case alloggio per malati e per i senza casa. I suoi libri più noti sono «Io con vestito leggero» (Campanotto 2005); La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi 2014); «Bevendo il tè con i morti» (Interlinea 2015); «Ma dove sono le parole?» (Effigie, 2015); «Fatti vivo» (Einaudi 2017); Il silenzio è cosa viva (Einaudi 2018).

Ci puoi raccontare brevemente delle tue origini familiari e degli studi che ti hanno plasmato come poeta?

Sono la quarta e ultima figlia di una famiglia dolorosa, genitori difficili da definire senza usare parole gravi e figli segnati dall’abbandono a se stessi e da quella che Herta Muller chiama ‘la sottrazione quotidiana dell’ovvietà delle cose’. Un’infanzia in cui inventarsi la vita e un modo di stare al mondo senza essere troppo scherniti ed esclusi non è stata facile da sostenere ma è stata un buon terreno per la poesia. Mi ha insegnato la solitudine del lavoro, la gratuità del dono, l’attesa della parola vera. Ho fatto con fatica gli studi classici, troppi pesi sulle spalle per andare bene a scuola, troppa estraneità a un sapere che non si collegava alla vita interiore e descriveva un mondo per me difficile da abitare. Mi sono iscritta a filosofia, mi sembrava più adatta per coltivare il pensiero che veglia sotto ogni poesia che non lettere. Ma non ho terminato gli studi. Ci mettevo tantissimo tempo a preparare un esame, avevo bisogno di riflettere su ogni cosa che leggevo, e poi sono andata via di casa giovanissima e lavorare e studiare era troppo faticoso per me. Ho lavorato tanto con i bambini e anche questo ha formato la mia poesia. Raggiungere i bambini senza infantilizzazioni è un traguardo forse irraggiungibile e mi dà tuttora devozione per la parola.
Ho letto tanto fin da piccola, senza un metodo, cercando chi cerca. I poeti russi più di tutti, oltre a Rilke, mi hanno impresso una direzione poetica della trasfigurazione dei fatti della vita privata in segni da decifrare e in parola per rispondere all’esistenza che scorre con noi.

A quando risale il tuo incontro con il buddhismo e come ha nutrito e continua a nutrire il tuo rapporto con la spiritualità?

Verso i trent’anni ho incontrato in India la pratica della meditazione. In India, che pure è il paese della materia per eccellenza, tutto irradia energia dell’anima, anima individuale e anima del mondo, denso silenzio che fa da sfondo al traffico quotidiano. In India, si sta a casa, una casa ancestrale, eppure i disagi fisici sono spesso estremi. Meditare è significato per me nascere nel corpo, prima ero un’astrazione senziente. Mi ha dato un contenitore e una sensibilità non più alla mercé degli altri, ma collegata a un centro di silenzio dentro di me e dentro gli alberi e gli animali, le rocce e le acque, dentro il mondo della vita, quel mondo che in città è quasi sepolto dal mondo dei ruoli e delle personalità, delle prepotenze.
Il Buddhismo non è una religione a cui aderire, non ha dogmi, né verità rivelate. Nella mia scuola, il Theravada, si dice che il Dharma, l’insegnamento, la realtà, è ehipassiko, che alla lettera significa ‘vieni e vedi’, cioè si tratta di esplorare in prima persona, non si eredita alcun sapere che non sia vagliato dall’esperienza individuale. Nessuna visione in cui dover forzatamente entrare ma percorrere un sentiero per risvegliarsi e guardare con i propri occhi ripuliti dalla polvere del pre-giudizio.
Grazie dell’ampiezza di questa domanda che sottintende che la spiritualità è un percorso proprio che può nutrirsi degli affluenti delle religioni e delle visioni ma deve poi sfociare in una vastità senza separazioni, nomi, definizioni, muri.
Praticare l’essere vivi e vulnerabili, incontrare la vita partendo da un cuore pulsante e da una mente e un corpo svegli significa anche sapersi proteggere e agire con giustizia. Non è difficile per me sentire l’unità e la bellezza commovente del cosmo, quello che ho da imparare è lo stare al mondo, avere una vita quieta e attenta, dormire, mangiare, abitare, lavorare.

Secondo te, quali sono le parole che salvano, nel rapporto con sé stessi e con gli altri?

Respiro, silenzio, ascolto, tenera follia, poesia, spazio, mistero, bontà schietta, vero, sogno.

La tua è una poesia gentile, attenta alle cose, ai gesti, agli esseri viventi più umili e in qualche modo indifesi. Ritieni che questa tua disposizione empatica all’ascolto sia più una dote caratteriale o una precisa scelta etica e ideologica?

Penso che ci sia un’attenzione alle creature mute o ammutolite che è nata dalle esplorazioni infantili. Sono stata una bambina e un’adolescente molto silenziosa e vedevo tutto ed è arrivato presto il desiderio di offrire la voce a chi non ce l’ha. Era una simpatia, in senso elementare, una risonanza con gli invisibili e gli inascoltati perché ero un’invisibile e un’inascoltata e non volevo cambiare condizione, volevo ‘parlare’ questa.
Poi, certamente il Buddhismo ha contribuito a farne un atteggiamento consapevole, non rivendicativo o ostile verso chi non è umile o indifeso, ma un essere al fianco di chi lo è, perché tra indifesi ci si può intendere, ogni tanto, e perché è bello fare spazio e imprestare la voce.
E poi mi sembra che la poesia sia la quintessenza dell’ascolto e forse è quindi venuta prima l’attitudine al mettersi in ascolto e dopo la ricezione delle parole.

In una recente intervista hai definito la poesia “un contatto con le ferite, ma anche con la luce che le attraversa”. Più ferite o più luce, nel mondo e nella tua esperienza esistenziale? Da chi o cosa attendere salvezza?

Mi sembra che ferite e luce siano insieme, quando le ferite sono accolte, ospitate con rispetto, allora la luce ci passa attraverso e possiamo vedere e far trasparire qualcosa che va oltre il male, perché una ferita è una crepa nelle certezze, è un varco verso l’insondabile. Forse ci sono state molte più ferite che luce nella prima parte della mia vita, anzi diciamo fino ai cinquant’anni. Poi mi sono affrancata dal farmi male senza saperlo attraverso gli altri e ho percorso la Via che porta a se stessi e all’abbandono alla vastità. Sto camminando e c’è luce, c’è anche tanto buio, ma se lo abito, lo respiro, lo ‘attendo’ , si riempie di lucciole.
L’ho attesa tanto dall’esterno la salvezza, da un incontro, da un libro, da una religione, da un pensiero. Non è arrivata così. Quando ti lasci andare senza alcuna sicurezza, ma solo perché non hai più altra scelta, allora… Non so, c’è un soffio, una mano, quando non pretendi più l’aiuto esterno e ti tuffi, c’è proprio la sensazione di una smisurata mano.

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/intervista-Chandra-Livia-Candiani.html            28 settembre 2018

 

INTERVISTE

CARAFOLI

ernesto

ERNESTO CARAFOLI,

CHIMICO E DOCENTE UNIVERSITARIO

 

  •  Attraverso quali percorsi – di studio e di vita – è arrivato a occuparsi di biochimica e a insegnare al Politecnico Federale di Zurigo?

Ho studiato medicina, e a dire il vero l’ho fatto senza possedere una vocazione vera e propria, per una sorta di imperativo interno: vengo da una famiglia di medici, mio padre aveva dovuto abbandonare la ricerca in ambiente clinico universitario per dedicarsi alla professione, e si sentiva (e io lo sentivo) un po’ sprecato. Quindi ho scelto di frequentare medicina per fargli piacere, offrendogli quasi la possibilità di una rivincita morale. Allora ero forse più interessato a studi letterari o filologici, d’altra parte non ho vissuto questa decisione come un sacrificio o un’imposizione, conscio com’ero e come sono che vi è del positivo nel fare qualcosa che magari piace meno di altro ma è più gradito (serve di più) a chi ci sta intorno. Un discorso difficile da accettare oggi; comunque per me è stato così. Mi sono quindi laureato in medicina, scegliendo di lavorare nell’Istituto di Patologia generale di Modena, affascinato anche dalla figura morale e scientifica di Massimo Aloisi, un vero maestro, per me e per la cultura italiana dell’epoca. Un uomo di grande cultura, direi un uomo rinascimentale, e mi considero fortunato, molto fortunato, per averlo conosciuto. Non mi ha solo insegnato il mestiere, mi ha insegnato a vivere. Ho passato poi alcuni anni in Psichiatria, sentendo il richiamo un po’ misterioso un po’ romantico della malattia mentale; allora tuttavia questa scienza era insieme primitiva e violenta, non aveva tutti i supporti farmacologici che ha oggi e quindi mi ha stancato presto. Ero assistente universitario, e vinsi una borsa di studio del CNR per specializzarmi a Baltimora, all’Università John Hopkins: rimasi in America tre anni, e ne uscii biochimico. Per tutti gli anni ’60 feci la spola tra Modena e Baltimora, approfondendo sempre di più i miei interessi in campo biochimico: tornato definitivamente in Italia nel ’68, vissi con disagio sempre maggiore la difficoltà di fare ricerca nel nostro paese, e quando dovetti scegliere tra la cattedra di biochimica che mi veniva offerta da Politecnico di Zurigo e la cattedra di Patologia Generale che avevo nel frattempo vinto a Padova, optai per Zurigo, nel ’73. E non me ne pento.

  • Come si svolge la sua attività di ricerca e quella didattica?

In pratica si devono distinguere tre momenti fondamentali: c’è la lezione su un argomento di biochimica, poi l’attività didattica con i laureandi e gli specializzandi, e infine il lavoro di ricerca e di laboratorio su cui ovviamente non subisco controlli di nessun genere, ma che è fondamentale e scontato dover proseguire ai più alti livelli, visti anche i mezzi che mette a disposizione il Politecnico. Il nostro primo corso di biochimica – al terzo semestre – è seguito da circa 150 studenti delle facoltà di farmacia, e delle diverse suddivisioni della Facoltà di scienze naturali. Di questi, una trentina scelgono di laurearsi in biochimica e 5-6 fanno la tesi con me.

  • A quali rami della ricerca biochimica si interessa di più, e di cosa si occupa attualmente?

Per alcuni anni mi sono occupato di bioenergetica, cioè dei meccanismi di produzione di energia nelle cellule; in seguito ho studiato il controllo della biochimica cellulare, cioè i segnali che le cellule ricevono e decodificano; questi segnali sono trasmessi da tanti elementi diversi, il più importante dei quali è sicuramente il calcio. Mi occupo quindi di calcio, come elemento chimico “veicolo”, diciamo così, trasportatore di segnali.

  • So che lei è un’autorità a livello mondiale su questo argomento.

C’è un po’ di retorica su questo: il fatto stesso di occupare una cattedra al Politecnico di Zurigo crea questa fama di autorità, non so poi quanto reale. Senz’altro molto comoda però, perché permette di ottenere riconoscimenti, di svolgere una funzione traente nell’organizzazione della ricerca internazionale, di avere finanziamenti molto più facilmente di quanto può accadere a un professore di un’università italiana.

  • In quale lingua tiene le sue lezioni?

Per i primi due anni in inglese, oggi, dopo aver rinfrescato il tedesco con cui avevo familiarità da bambino, faccio lezione in questa lingua. In realtà, essendo il Politecnico un’istituzione federale, potrei esprimermi in una qualsiasi delle quattro lingue ufficiali in Svizzera (sì, anche in romancio che, essendo io friulano, mi è particolarmente vicino). Non ho mai accettato il dialetto svizzero come lingua di comunicazione, sia perché lavoro in un ambiente internazionale (una notevole proporzione dei docenti è straniera), sia perché lo svizzero è una lingua priva di tradizioni culturali vere, soprattutto una lingua che non si può scrivere, e con un vocabolario molto limitato, quindi sostanzialmente inadatta alla comunicazione scientifica. Piaccia o non piaccia, la lingua della scienza è oggi l’inglese: i nostri libri, i seminari, i congressi sono tenuti in inglese. E quindi uso soprattutto questa lingua.

  • Quali sono le risposte più innovative che possiamo aspettarci dalla biochimica, oggi, nelle sue applicazioni concrete?

Di regola, la gente si aspetta risposte e applicazioni concrete in ambito medico: e infatti già possiamo fornire indicazioni precise su meccanismi di malattia che possono aprire la porta alla scoperta di interventi curativi, per esempio nella lotta al cancro. Ma ci sono altri campi di ricerca in cui la biochimica offre possibilità enormi di ricadute pratiche: la biochimica delle piante può essere utilizzata nello studio dei pesticidi, nel controllo dei raccolti, eccetera. La biochimica sta facendo progressi enormi e soprattutto progressi rapidi: si scoprono cose nuove ogni giorno, si ampliano orizzonti, scostandosi magari sempre più dalla chimica per avvicinarsi alla biologia, cioè ai processi della vita affrontati con metodiche genetiche, tossicologiche e così via.

  • E a proposito di applicazioni pratiche della scienza, le recenti polemiche sull’ingegneria genetica la vedono ottimista o pessimista, riguardo al senso di responsabilità degli scienziati?

La coscienza collettiva è turbata dal problema etico, filosofico, posto dalle ricerche dell’ingegneria genetica: teme ad esempio che si possano sviluppare ceppi batterici nuovi e non debellabili, e che per dolo o per errore possano diffondersi tra gli uomini; oppure teme la creazione in laboratorio di mostri, o esperimenti su cavie umane. C’è, in questi timori, qualcosa di fantascientifico, un misto di demagogia e ignoranza; il compito più prossimo dell’ingegneria genetica è quello di intervenire su errori esistenti nei geni, e ancora non è pronta a fare ciò. Figuriamoci se si riesce a creare la vita in provetta! Le previsioni su questi punti che si leggono periodicamente nella grande stampa fanno sorridere.

  • È indubbio però che il potere nella mani degli scienziati è enormemente aumentato; sono loro, oggi, i nuovi chierici? A loro è demandata l’interpretazione critica del reale, e magari anche la proposta di interventi correttivi? In altre parole, sono gli scienziati a guidare le regole del gioco oggi, o sono “guidati”?

Ci sono senz’altro scienziati “guidati”, che lavorano al servizio di grandi industrie, o di potenze militari. Il pericolo più diffuso è tuttavia un altro: quello cioè che l’uomo di scienza sia talmente affascinato dalla propria ricerca da non occuparsi di ciò che ne deriva, che insomma “veda i rami ma non la foresta”, e si chiuda nella classica torre d’avorio. C’è forse un peccato di presunzione, o di orgoglio, insito nell’animo umano: ed è quello di voler a tutti i costi aumentare la conoscenza, raggiungendo sempre nuovi obiettivi, ma disinteressandosi delle finalità ultime, della motivazione della propria ricerca. Fare lo scienziato “puro” è quindi cosa rischiosa ma sempre meno di quanto non sia fare lo scienziato “manager”, affarista; in questo senso anche la biochimica si è “corrotta”, e molti uomini di studio sono attirati dal miraggio di guadagni facili. Non vedo nulla di male nel collaborare con l’industria, ad esempio con la grande industria farmaceutica, per risolvere problemi di mutuo interesse, anzi. Vedo però molto di male, molto di corrompente, nell’adattare i propri piani di lavoro alle domande industriali, nel decidere il tipo di ricerca che si fa, in base alle domande dell’industria. Domande che ovviamente hanno una contropartita per il ricercatore che vi si adatta. Il punto di incontro deve essere diverso, e cioè basato sull’avanzamento della conoscenza, senza condizionamenti da parte del ricercatore universitario e sull’uso di questo avanzamento da parte di chi si rivolge alle applicazioni pratiche. Che queste poi siano fonte di guadagno mi pare del tutto normale.

  • So dei suoi vasti interessi letterari, della sua conoscenza non superficiale del mondo dell’arte. Esistono ancora, secondo lei, “le due culture”? Capita spesso di conoscere umanisti interessati alla scienza e viceversa?

Le due culture esistono, eccome, e questa è un po’ la maledizione che incombe sulla cultura italiana dai tempi di Croce, la convinzione cioè che per essere colto non sia necessario conoscere il significato della parola neutrino o quale sia il principio di Pauli, mentre è fondamentale conoscere Montale. Io ritengo invece, con buona pace di don Benedetto, che nel XX secolo anche la scienza si debba considerare parte essenziale della cultura che nobilita l’uomo. Mi addolora il fatto che quando si parla di “fuga dei cervelli” dall’Italia, non si dia abbastanza peso all’enorme perdita che il nostro paese ha subito con la partenza di schiere di specialisti di scienza del calibro di Dulbecco o di Luria, di Segre, o di Rossetti, mentre si scatena un pandemonio per commentare l’annunciato (solo annunciato, naturalmente) esilio di storici o peggio di tuttologi di cui noi abbiamo ben poco bisogno. Certo, il linguaggio della scienza è un linguaggio difficile, che scoraggia chi non vi è preparato: ma anche gli altri linguaggi specifici (quello della musica come quello della poesia) non sono facili, eppure molti riescono a spacciarsi per intenditori, magari barando; invece nella scienza non si può barare: o uno sa o non sa. Nessuno può improvvisarsi esperto, e ciò scoraggia i mistificatori, i parolai.

  • Lei fa la spola tra diverse università: USA, Svizzera, Giappone, Italia. Quali le sembrano le differenze sostanziali tra i vari metodi di ricerca? Come giudica la preparazione scolastica dei giovani universitari di questi paesi? Davvero l’Italia è tanto indietro nella preparazione scientifica dei suoi studenti?

Sono paesi molto diversi per tradizione culturale e per organizzazione sociale; direi poi che il Giappone costituisce una realtà a sé, non confrontabile con quelle occidentali. E’ un paese oggi all’avanguardia nel lavoro scientifico, soprattutto nel mio campo di studi, ed è sostenuto da un’etica professionale rigorosa, che lo imparenta un po’ alla Svizzera, ma forse ancora più esasperata che qui. Negli Stati Uniti si assiste a un fenomeno preoccupante e di tendenza opposta: per più di un decennio ormai le amministrazioni di governo hanno demotivato i giovani brillanti intenzionati ad abbracciare la carriera scientifica. Di fatto, questo paese sta perdendo il ruolo faro della ricerca mondiale, anzi negli ultimi anni, con il taglio ai fondi per l’università, la situazione è notevolmente peggiorata, e finirà per aggravarsi ulteriormente alle soglie del duemila; al punto che noi europei abbiamo concrete possibilità di superare i nostri maestri. La Svizzera è un paese ben organizzato, che dà condizioni di lavoro ottimali e sfrutta qualsiasi possibilità di migliorare il suo livello scientifico, per esempio servendosi anche di ricercatori stranieri o affidando i vertici della sue università a docenti non svizzeri: quale sia l’apporto originario svizzero a questa rosea situazione scientifica è difficile dire, perché appunto ricorre molto spesso a persone che sono state preparate altrove. Non bisogna sottovalutare però il materiale umano su cui noi possiamo lavorare al Politecnico: gli studenti, che al Politecnico di Zurigo sono eccezionali, molto ben preparati, anche perché la selezione – drastica e traumatizzante per i ragazzi – si fa a monte, e all’università arrivano effettivamente solo i migliori. In Italia, invece, è tutto molto diverso: c’è dell’ottimo materiale umano, sia tra i docenti sia tra gli studenti, un enorme entusiasmo, direi quasi un’eccitazione per ogni “avventura” scientifica. Però nei ragazzi trovo delle lacune culturali spaventose, frutto della demagogia e dell’approssimazione che sono state la regola nella nostra università da circa un ventennio. Il ’68 è stata un’esperienza importante, una grossa ventata di aria fresca che ha spazzato via l’accademismo feudale in cui ci dibattevamo, ma ha segnato anche l’inizio di uno sfascio a cui le forze politiche e culturali non hanno saputo porre rimedio. Temo che per lungo tempo si sia voluto tentare di cavalcare la tigre, e i nodi, come d’altronde era ovvio prevedere, ora arrivano puntualmente al pettine. Un grosso problema consiste nella struttura dell’università, che garantisce un posto a vita a ricercatori poco più che adolescenti che avrebbero assoluto bisogno di frequentare ambienti di lavoro diversi, anche e soprattutto all’estero, per imparare e per sprovincializzarsi. Si blocca così qualsiasi avvicendamento, ma anche ogni possibilità di premiare i meritevoli. E’ un malinteso senso di democrazia, quello che vuole assicurare il “nulla” a tutti. Purtroppo, per parafrasare Gobetti, “l’università è l’autobiografia di una nazione”, rispecchia bene i problemi che l’Italia ha laddove vince l’ottusità burocratica, il malcostume politico, la chiacchiera vuota. Ci sono alcune isole che si salvano, delle facoltà in cui si lavora e si produce, ma grazie al sacrificio personale e culturale dei professori che sono rimasti, e di cui ho il più grande rispetto. Mi è difficile non pensare per loro al tempo degli amanuensi.

  • Lei è anche membro del Consiglio Direttivo del Liceo Artistico Italo-Svizzero di Zurigo. Cosa pensa di questa iniziativa?

Raggiungerà senz’altro il suo obiettivo di fornire uno sbocco ai ragazzi svizzeri e agli italiani che vivono qui, spesso ingiustamente penalizzati da questo sistema scolastico che nella selezione è crudele e usa troppa poca elasticità. Avrebbe potuto essere, questo Liceo, qualcosa in più: aprirsi anche agli italiani che risiedono in Italia e costituire un momento d’incontro tra due culture diverse e complementari. Indipendentemente da ciò, è fondamentale il fatto che una istituzione svizzera si serva di personale italiano per fornire un servizio culturale ai suoi cittadini: questa è una novità che speriamo tutti gravida di implicazioni e suggerimenti per il futuro.

«Agorà»» (Svizzera), 17 gennaio 1990

INTERVISTE

CASELLI

SEI DOMANDE A ROBERTO CASELLI

 

Roberto Caselli è giornalista, critico musicale e voce storica di Radio Popolare, ha al suo attivo lunghe collaborazioni con quotidiani, giornali specializzati, enciclopedie e siti web. È stato direttore della rivista Hi Folks! e del mensile musicale Jam. Tra i suoi numerosi libri che spaziano tra rock, blues e musica d’autore si ricordano il saggio Hallelujah (Arcana 2014) sui testi commentati di Leonard Cohen, La storia del blues (Hoepli 2015), Jim Morrison (Hoepli 2016), Storia della canzone italiana (Hoepli 2018), La storia del rock in Italia (Hoepli 2019).

Qual è stato il percorso di studi e professionale che ti ha portato a essere uno dei più stimati e seguiti critici musicali italiani?


Apparentemente una laurea in Scienze Biologiche c’entra poco o niente con il percorso musicale che ho poi seguito ma in realtà a unirli c’è un sottile filo rosso esistenziale: la necessità di allargare la conoscenza su quel poco che si conosce della vita.
Da ragazzo pensavo che la scienza, con la sua apparente oggettività, potesse aiutare a risolvere tutti i miei dubbi, ma presto ho realizzato che non sarei mai riuscito a superare una certa soglia di comprensione e così ho virato con più convinzione sul percorso parallelo della letteratura e della poesia. Ho poi scoperto che poesia e canzone avevano origini comuni, anzi che all’inizio erano proprio la stessa cosa e ho proseguito in quella direzione. Certo, dire oggi che canzone e poesia si compenetrano è forse presuntuoso, ma aldilà della diffusa banalità, che tuttavia si riscontra in qualsiasi ambito, è vero che la canzone può fare pensare. Visto che la poesia la leggono ormai in pochi, la canzone d’autore potrebbe avere qualche chance: è una sintesi di pensiero interessante e nello stesso tempo un veicolo di comunicazione straordinario. Ecco, ho pensato che un pensiero originale espresso da una melodia che intriga fosse un bel percorso da seguire per ragionare sulla vita e così è cominciata una lunga avventura che dura ancora oggi. Ho iniziato a occuparmi professionalmente di musica con l’avvento delle radio libere e poi ho proseguito con quotidiani come Il Manifesto e l’Unità per arrivare infine alle fanzine di settore e alla scrittura di libri monografici e di genere.

 

Ti sei occupato di blues e rock in due importanti volumi pubblicati da Hoepli. Quali sono i tre artisti che ritieni più rappresentativi nei rispettivi due generi musicali?


Difficile fare una sintesi così estrema, ma per il rock direi Bob Dylan, il grande indagatore di tutti gli aspetti più significativi della vita (amore, società, esistenza, utopia) con una scrittura non convenzionale, spesso onirica, talvolta surreale, poi direi Leonard Cohen per la sua meravigliosa vena intimista in cui cozzano costantemente aspetti antitetici come la mistica e la passione che riescono tuttavia a trovare, nel suo Hallelujah, un’impensabile compenetrazione, e infine i Rolling Stones che hanno saputo coniugare nello stesso suono originale il rock con il blues e rappresentare la trasgressione per eccellenza che unisce l’eros al demonio. La “simpathy for the devil” che cantano in una loro celebre canzone è in realtà un patto col diavolo che permette, a settantacinque anni suonati, di continuare a salire sul palco senza essere patetici.


Per il blues direi senz’altro Robert Johnson per il suo essere artista maledetto ante litteram, il primo del famigerato “Club 27” cioè delle rock star morte a ventisette anni (Janis Joplin, Jimi Hendrix, Brian Jones, Jim Morrison, fino a arrivare a Kurt Cobain e Amy Winehouse). Johnson ha vissuto il suo tempo e la sua condizione con sregolatezza e fretta di vivere esagerati, riassunti in ventinove blues per narrare di amore, sesso e superstizione, tre argomenti che debitamente elaborati sarebbero diventati gli elementi chiave del repertorio rock successivo. Muddy Waters non ha minore importanza per avere introdotto il blues elettrico e avere creato con la sua band un sound ancora oggi identificabile come il blues di Chicago e infine B.B. King per avere codificato quel suono inconfondibilmente puro e nello stesso tempo lacerante, amato e copiato da musicisti di mezzo mondo.

 

Hai recentemente pubblicato un corposo volume sulla storia della canzone italiana degli ultimi settant’anni. Analizzando gli sviluppi della canzone, possiamo comprendere meglio anche l’evoluzione dei costumi e delle ideologie del nostro Paese?


Non c’è alcun dubbio, anzi il taglio che ho voluto dare al libro è stato proprio questo. La canzone è spesso considerata una forma d’arte minore, ma non si può negare che, nei migliori casi, abbia in sé una capacità di sintesi immediata che ha pochi eguali. Naturale quindi possa anche fungere da veicolo di trasmissione di nuove idee e bisogni capaci di mettere in discussione il vecchio e desueto modo di pensare.


Se si considera una canzone degli anni ’30 si può fare una seria analisi del suo linguaggio e della musica che lo accompagna e accorgersi che era perfettamente coerente con l’etica vigente del tempo, assolutamente non più proponibile oggi. I sentimenti sono sempre gli stessi, ma sono vissuti in modo molto diverso in funzione del momento storico e di costume che regola la società. Per trattare di epoche più vicine a noi basta pensare a quanto ha influito la musica beat nel cambiamento del costume giovanile. Capelli lunghi, minigonne, camice floreali sono elementi apparentemente poco importanti, ma in realtà sono un preciso sintomo dell’urgenza con cui i giovani di quel periodo attendevano un cambiamento. Più che i testi sacri del socialismo, credo siano stati certi modelli di libertà raccontati dalle canzoni a promuovere un primo cambiamento che ha poi portato al Sessantotto. Per dirla tutta, a diciotto anni mi ha certamente più influenzato Bob Dylan che Gramsci.

 

Quali sono e sono stati secondo te gli autori e gli interpreti più originali nella creazione di un proprio stile e di una tendenza condivisa, e verso quali voci nuove riponi maggiori aspettative?


Credo che i due generi che hanno raccolto un maggior seguito per almeno trent’anni siano stati il cantautorato e il rock, due filoni che inizialmente erano poco comunicanti tra loro. Fino alla fine degli anni Settanta solo De André aveva avuto l’intuizione di legare la sua opera alla musica di un gruppo rock. Il suo sodalizio con i New Trolls permise la nascita di quel piccolo capolavoro che fu Senza orario senza bandiera, in cui figurano molte canzoni che erano in realtà poesie scritte da Riccardo Mannerini e solo aggiustate da Fabrizio. I primi cantautori erano molto attenti ai testi che scrivevano e abbastanza indifferenti alla musica con cui si accompagnavano. Bastava una chitarra che tenesse il tempo ed era più che sufficiente.
Al contrario i musicisti rock degli inizi erano molto concentrati sulla musica lasciando ai testi una pura funzione riempitiva. Col tempo si è capito che i due aspetti potevano parlarsi tra loro per concepire canzoni migliori. È stato ancora De André a sperimentare il grande salto e ad affidare alla Premiata Forneria Marconi il compito di rivisitare in chiave rock il suo repertorio. De André anche per il seguito di epigoni che ha avuto è stato certamente, insieme a Francesco Guccini, il mentore di un’intera generazione impegnata. Non si possono tuttavia dimenticare tra i cantautori storici Luigi Tenco, Paolo Conte, Francesco De Gregori, Ivano Fossati e Gino Paoli che ha dato il via alla stagione. Tra le nuove generazioni mi piace Brunori Sas anche se ormai non è proprio quel che si dice un ragazzino.

 

Ritieni ci siano oggi interpreti italiani che possano ambire a un riconoscimento a livello internazionale? In che considerazione tieni l’attuale produzione nazionale di musica rap?


Un conto è considerare le voci, un altro lo spessore di quello che si canta. Le belle voci non mancano di certo, un po’ più difficile è trovare repertori importanti. Jovanotti ha avuto una bella evoluzione e le sue canzoni sono spesso interessanti, ma sul piano internazionale non ha avuto la stessa fortuna di Ramazzotti o della Pausini che sono delle autentiche pop star, con tutto quello che si può dire di bene e di male a riguardo. Per emergere nel mercato anglofono e quindi mondiale devi avere alle spalle una casa discografica che ci crede e ti spinga con determinazione, ma questo, qui da noi, succede solo per la musica pop.
Per quel che riguarda il rap credo, invece, che sia l’unica espressione giovanile che abbia qualcosa da dire. È un genere che si è evoluto in mille direzioni con influenze multiple che punta comunque sempre molto sul testo. È ormai fuori da ogni regolamentazione perché la maggior parte dei musicisti che lo interpreta si auto-produce e proprio per questo può permettersi di essere uno dei potenziali esempi di critica sociale più efficaci.

 

La tua lunga collaborazione a Radio Popolare ha avuto anche un peso nella formazione di una coscienza civile e politica, oltreché di gusti culturali, degli ascoltatori. Com’è cambiato il pubblico di chi segue i tuoi programmi, e come sono cambiati anche indirizzi e finalità dei tuoi programmi stessi?

Diciamo che trasmettendo per Radio Popolare, che è un’emittente schierata, sono seguito da un pubblico che ha già in potenza una coscienza civile e politica ben definita con cui è facile dialogare e fare delle proposte musicali di un certo tipo. In questi tanti anni di collaborazione ho trasmesso un po’ di tutto privilegiando naturalmente le mie passioni e cioè il blues, il rock e la canzone d’autore, costruendo monografie e ambientazioni musicali che tenessero sempre presenti i contesti sociali in cui si sono sviluppati e si sono evoluti. Sono stati proprio questi programmi, in cui spesso dialogavo con ospiti importanti della scena musicale, che mi hanno permesso di archiviare materiale di prima mano che poi è servito a scrivere i miei libri. Capita spesso di fare anche semplici conduzioni generiche nelle quali si può spaziare attraverso vari mondi musicali e trasmettere belle canzoni pop che sono comunque gradite anche da un pubblico impegnato. La canzone è momento di riflessione, ma è anche gioia espressiva e quando c’è una melodia accattivante è un piacere ascoltarla.

 

© Riproduzione riservata             «Il Pickwick», 28 gennaio 2020