FIIPPO STRUMIA, POZZANGHERE – EINAUDI, TORINO 2011

Viviamo in tempi e latitudini che proclamano a gran voce la frattura esistente tra mondo e soggettività, interno ed esterno, cultura (in tutte le sue accezioni) e natura. Una disarmonia che ferisce l’individuo e la collettività, rendendo entrambi prigionieri di una condizione esistenziale di sofferenza e di impotente sterilità. In tale terreno, scabro e irredimibile, si muovono i versi di Filippo Strumia, psicanalista romano cinquantenne, alla sua prima pubblicazione di poesia. Un poeta che si scopre soprattutto nella sua fragilità di uomo scalfibile e votato alla sconfitta («Sono nato scoperchiato // mi scopro nuovamente / qualcosa senza guscio. / E non so che fare», «sono un verme nel becco del mondo», «un esiliato ultraterrestre / come me», «io mi so mezza cartuccia», «io che sono esperto di fughe e sottrazioni»), se il vocabolo a più riprese ripetuto nei suoi versi è proprio «paura»: «anche il suono / delle foglie fa paura», «Ho diritto alla paura», «la paura morde la pelle», «in un bagno di paura e dolcezza», «Non so che paure mi versi nelle ossa».

Per cui l’unica àncora che lega all’esistente è l’osservazione disincantata e asettica di ciò che ci circonda, dall’immensamente grande (universo, stelle, nebulose, eoni, galassie) all’infinitamente piccolo (batteri, insetti, microrganismi), con una sensibilità particolare sia per la bellezza folgorante, sia per ciò che appare inquinato, corrotto, fangoso (le pozzanghere, appunto). E soprattutto è il mondo animale quello a cui il poeta presta più partecipe attenzione: il lupo con le zanne grondanti sangue, le «arcaiche scimmie», ma soprattutto i pesci, nostri ancestrali progenitori: sempre inseguiti e «infilzati dall’arpione», sempre prede di una natura feroce. E non c’è nessuna visione laica o paganeggiante, bensì un continuo rimando a un’emotività cattolicamente intrisa di senso del peccato e della colpa. Anche la professione intellettuale è vissuta come un allontanamento dalla sana vitalità del «mondo scanzonato» del lavoro manuale: «Come vorrei parlare da uomini / e andare con loro all’osteria / un po’ di vino, calcio e allegria, / vorrei mostrare che sono simile a loro / non sono migliore non sono un padrone». La psicanalisi di cui vive Strumia è quasi un raggiro: «Un altro giorno da brigante / diligente dondolando sui rami ad aspettare / i pochi viandanti smarriti per la via», e questo risentimento della coscienza finisce per esprimersi in esacerbati manifesti di intenti, in programmatiche dichiarazioni di fede o di pensiero che risultano tra le prove meno riuscite del volume. Che invece si fa più risolto quando si alleggerisce nella descrizione di una «inclita dea barista», o della riposante sala d’aspetto del dentista, con uno stile sempre oscillante tra lirismo e narrazione, prosaicità e elegia, ossequio alla tradizione e volontà di innovazione, ironia e disperazione.

 

«Orizzonti» n.43, giugno2014