GEORGE STEINER, I LIBRI HANNO BISOGNO DI NOI – GARZANTI, MILANO 2013

Nel primo e nel terzo dei tre saggi che compongono questo volume di George Steiner, l’illustre critico (Parigi, 1929) esibisce una sua appassionata, vibrante, devota, apologia del libro, “oggetto” culturale e di culto a cui ha dedicato tutta la vita, da quando, a sei anni, suo padre iniziò a leggergli Omero, Shakespeare, Heine. E del libro indaga con arguta intelligenza teoremi e corollari, introducendo il lettore alle sottili distinzioni tra testo e percezione del testo, al mistero dell’incontro con la lettura (talvolta casuale) che può cambiare la vita, alla «neurochimica» dell’atto creativo: e poi al ruolo collaborativo del lettore, alla ottusa perfidia del potere che si esprime nella censura, alla vitalità eterna dei personaggi romanzeschi capaci di sopravvivere ai loro creatori, al destino futuro dell’editoria davanti all’implacabile avanzare di nuove tecniche informatiche, al declino inevitabile della lettura tradizionale, basata su memoria, concentrazione, silenzio, competenza letteraria. Ogni grande letteratura è sovversiva, afferma Steiner, perché «dice NO alla barbarie, alla stupidaggine, alla banalizzazione delle nostre attività e dei nostri giorni causata dall’etica consumistica del capitalismo tardivo». E ogni libro dimenticato «è sempre capace di resuscitare… un libro autentico non è mai impaziente». Se questi due saggi sono espressi in uno stile accattivante e con temi totalmente condivisibili, è invece il secondo testo del volume ad offrire al lettore spunti di riflessione più originali e polemici, capaci di suscitare permalosità e discussione. Con il titolo di  Il popolo del libro, Steiner esamina da ebreo il rapporto del popolo ebraico con la scrittura, che per due millenni si è totalmente identificata con Le Scritture: «La sinagoga è accecata dal ‘letteralismo’, dalla chiusura nelle immobili minuzie del testo e del commento, dell’idolatria per la lettera». Sottolineando «il valore morale, la dignità intellettuale della condizione ‘libresca’ dell’ebreo», Steiner ne mette però in luce anche la pericolosa ossessione per l’esegesi, che ha dato luogo a una «produzione interminabile, parassitaria, secondaria e, in definitiva, sterile, come un fiume di sabbia nel deserto della Namibia», e che ha immobilizzato la cultura ebraica in una sostanziale aridità letteraria e filosofica per molti secoli. Solo con Kafka e con i romanzieri contemporanei americani si è finalmente spezzato «il lungo monopolio della testualità rituale e giuridico-esegetica del giudaismo», producendo addirittura una sorta di rivolta edipica, tesa a «demolire il logocentrismo patriarcale» attraverso l’ironia dei media, o il decostruzionismo e il postmodernismo, o i contributi odierni alla logica formale. Molto interessante risulta poi la riflessione di Steiner sulla differenza tra la scrittura normativa, prescrittiva della cultura ebraica, essenzialmente filologica, e invece l’oralità dell’insegnamento di Socrate e di Gesù, basato sull’incontro con l’altro, sulla «vitalità metaforica della parola pronunciata»: quindi sulla distinzione fondamentale, istituita dal cristianesimo, tra “lettera” e “spirito”. Ma proprio in questa sua intransigente fedeltà alla “lettera” Steiner individua la particolare passione del popolo ebraico, che ne ha garantito la millenaria sopravvivenza a dispetto di ogni persecuzione: un popolo «krank an Gott, affetto dal cancro del pensiero», sopravvissuto grazie a «questa grande follia, questa irresistibile sete di conoscenza e di esercizio intellettuale». E la cui minaccia di estinzione può venire oggi non tanto da nuovi pogrom e guerre religiose, quanto dal suo desiderio di omologazione: «il giudaismo si esaurisce nella più distruttiva delle condizioni favorevoli: la normalità».

 

«incroci on line», 23 novembre 2013