RAFFAELE LA CAPRIA, LA NEVE DEL VESUVIO – MONDADORI, MILANO 1988

Sulla quarta di copertina, questo ultimo volume di Raffaele La Capria viene definito «un piccolo romanzo di formazione», e in effetti si tratta di circa un centinaio di pagine, suddivise in undici capitoli, che ripercorrono la prima infanzia di un bambino napoletano, Tonino, fino al momento in cui egli si affaccia allo spietato e banale mondo degli adulti. Non ci troviamo davanti, tuttavia, a una semplice rievocazione di episodi infantili, o a una riverniciatura nostalgica del proprio passato: nessun “vestivamo alla marinara”, quindi, nelle intenzioni dell’autore, piuttosto una riflessione critica e struggente sui momenti rivelatori che hanno infranto lo specchio magico dell’innocenza puerile, distruggendo il fantastico assoluto in favore del più realistico relativo. I primi racconti, narrati in tono favolistico e piano, ruotano pertanto intorno alle scoperte fondamentali che porteranno Tonino ad una graduale consapevolezza del suo essere “altro”, rispetto alla realtà che lo circonda: l’implacabilità del tempo, che fa sparire oggetti e persone amate (il palloncino, le foglie, il giorno e la notte); l’identificazione totale e sofferta con la mamma adorata («diffusa intorno», negli odori, nei colori, nei suoni) e, attraverso essa, la scoperta dell’affascinante e misterioso mondo femminile; la magia delle parole che non si lasciano ridurre a ciò che vogliamo, e hanno invece una loro segreta autonomia e dignità che va rispettata e quasi temuta; ma, soprattutto, la scoperta della propria individualità. L’io  si intitola il racconto forse più bello del libro, in cui Tonino, desideroso di inventarsi un fratello che gli faccia compagnia quando è solo, scopre nell’armadio materno, riflesso nello specchio, un altro Tonino che gli risponde con le sue stesse parole e le sue stesse smorfie, e lo elegge subito ad amico ideale, rassegnandosi ad ammettere che si tratta della sua stessa persona riflessa solo quando alle sue spalle compare la mamma, assolutamente identica alla mamma del bambino chiuso nell’armadio. Ecco che il mondo dei grandi, la loro verità a cui bisogna cedere, irrompe nella vita incantata di Tonino e la trasforma, e se ne impossessa. Ormai quasi ragazzo, Tonino scopre che anche i genitori hanno le loro debolezze e meschinità, che la natura (il mare, soprattutto, il mare tanto amato e percorso a nuoto, in barca, oppure solo con gli occhi) può essere crudele e rendere crudeli, che il proprio corpo conosce umiliazioni ed esaltazioni di cui si deve vergognare: impara, insomma, a fare i conti con la vita. E la vita, a sua volta, arriverà ai ferri corti con la storia, negli anni bui che precedono la seconda guerra mondiale. I ragazzi inglesi, compagni di giochi nel cortile di casa, diventano improvvisamente nemici; e la gita programmata insieme sul Vesuvio imbiancato dalla neve verrà rimandata per sempre. A Tonino non resta che cercare rifugio e salvezza nelle parole, che secondo l’insegnamento di un suo professore antifascista, sono sempre sacre:

Le idee non sempre sono sacre, ma le parole sì. Non fatevi incantare dalle parole. Imparate a usarle bene, non a gridarle. Neanche se le vedete scritte a lettere cubitali sui muri. Neanche se tutti le urlano insieme sulle piazze…

 

«Agorà» (Svizzera), 16 novembre 1988