ELIO PECORA, NEL TEMPO DELLA MADRE – LA VITA FELICE, MILANO 2011

Elio Pecora, prolifico e stimato poeta salernitano, dedica questo delicato poemetto (definito alla greca “epicedio”) alla figura della madre, morta centenaria dopo una lunga e invalidante malattia. E il contrasto tra gli anni ultimi, sofferti e in ombra, nonostante il traguardo raggiunto («cent’anni, ad aprile, un sabato: / come una meta, un traguardo / il premio di questo disfarsi / in un torpore che annaspa»), e la vita piena, felice, ormai trascorsa, risalta prepotente già nei versi di apertura: «Che n’è di quella di un tempo? / Dov’è mai stata? ma quando?». Non esistono più piedi leggeri, capelli vaporosi, le mille attività in casa e nell’orto, i discorsi con le amiche e i parenti che invadono l’abitazione. Gli anni della vecchiaia sono segnati da «l’arco dei denti nel bicchiere, / ecchimosi sugli avambracci, / livido il cranio, le dita / palpano il fazzoletto, le pupille velate…». E poi ancora la casa vuota, ricordi annebbiati e confusi, fotografie ingiallite, la badante moldava…
Allora al figlio poeta non resta che cantare, con strazio e malinconia, la «minima storia» di sua madre, che faceva Elena di nome, nata ultima e indesiderata dopo tredici fratelli e sorelle: ma subito vezzeggiata e amata più degli altri. Il paese campano, all’inizio del novecento, era «scosceso / fra le colline e la valle, / dietro gli ulivi e le selve / di castagne e di abeti», tormentato da dissesti geologici, incuria e povertà. La storia ufficiale veniva subita con rassegnazione, e maledetta: guerre, emigrazioni, fascismo… Ma la bambina Elena cresceva slanciata e dolce, suonava il piano, cantava in chiesa: fino a raggiungere l’età da marito, quindi il matrimonio con uno sposo sempre lontano («L’uomo dagli occhi azzurri / andava per mare, / ritornava distratto, / tornava per ripartire») e la nascita di due figli maschi. Il primo, il poeta che racconta: «A quel bimbo la madre / si mostrò uguale e compagna / nell’aspro amato viaggio / che non s’è ancora compiuto».
All’interno del tanto tempo condiviso dai due si è incuneata la storia di tutti, diventata individuale nel dolore di lutti familiari, stenti economici, sogni disillusi, abitudini domestiche cui aggrapparsi per andare avanti. Cose piccole, che poco aggiungono alla profondità insondabile dell’amore filiale: «Resta una ressa di oggetti, / anche rotti, perduti… E tutto il resto che è stato? / Le ansie, le febbri, i ritorni? / Che n’è delle notti, dei giorni / trascorsi, che delle attese? / … E’ tutto e così poco, / ma questo tempo è dato. / Pure da questo poco / non vuole partire, / se pure è un sogno, un gioco».

Gli anni recenti sono i più penosi, con la madre «curva, rimpicciolita», chiusa nell’egoismo senza parole dei suoi pochi gesti, e il poeta intristito, forse rancoroso: «Il primo figlio, quello / non s’allontana, / entra, socchiude le imposte, / la siede in poltrona, / è quasi vecchio, / si pretende felice, / grida che è stanco, / s’infuria, la maledice».
Un rapporto intenso, sofferto e travagliato, quello tra la madre e il figlio scrittore, se ancora adesso lui si interroga: «Da che può intendere il figlio / se la madre l’ha amato?», e conclude il poemetto con una constatazione angosciata: «Si sono traditi entrambi, / il figlio e la madre».
L’elegante edizione de La vita felice, che in copertina riporta una vecchia fotografia color seppia della madre di Elio Pecora, è corredata da un’approfondita e partecipe nota critica di Gabriella Fantato.

 

«Incroci» n. 29, giugno 2014