LEONARDO SCIASCIA, UNA STORIA SEMPLICE – ADELPHI, MILANO 1989

Una storia semplice è l’ultimo volume dato alle stampe da Leonardo Sciascia prima della sua scomparsa: uscito da Adelphi, nella collana Piccola Biblioteca. Si tratta di un romanzo breve, o di un racconto lungo, nella più schietta tradizione narrativa dello scrittore siciliano. Semplice la vicenda raccontata non pare davvero: semmai esemplare, elementarmente basata più su fatti concreti che su interpretazioni fittizie, più su dati immodificabili che su illazioni moralistiche. Fedele allo stile dell’ultimo Sciascia, poco propenso ormai alla denuncia e all’indignazione civile, la storia si commenta e si condanna da sé: c’è un morto scomodo, che la polizia vorrebbe far passare per suicida; c’è una villa abbandonata di cui sconosciuti si servono per la preparazione e lo spaccio di droga; c’è il consueto scontro tra carabinieri e polizia, l’assoluto disinteresse per la ricerca della verità, il desiderio di non approfondire questioni ambigue o pericolose da parte dell’autorità giudiziaria. Tutto questo, ma anche una vicenda che nelle ultime quindici pagine assume contorni sempre più inquietanti e scandalosi, con i vertici della polizia e personaggi della chiesa coinvolti totalmente e colpevolmente nel caso; il protagonista, allora, diventa l’eroe buono, l’unico a cui la società può affidare la sua sacrosanta volontà di punizione e redenzione: il brigadiere Antonio Lagandara reagisce alla corruzione che lo circonda uccidendo il commissario in capo, rivelatosi responsabile degli avvenimenti. Per ironia o dramma della sorte, questa uccisione non apre la strada ad ulteriori approfondimenti, non riesce a scuotere le coscienze addormentate dei cittadini, ma viene archiviata come “accidentale” e la “storia semplice” viene ricondotta alla sua banalità quotidiana e inoffensiva. Bocca amara, quindi, per il lettore, cui non resta che cercare tra le scarne pagine affidate ad una severa, essenziale prosa, qualche traccia della sofferenza dignitosa dell’autore che si sapeva condannato, non solo dal suo male, ma forse anche dalla storia della sua Sicilia. Un accenno alla malattia: «…ma il professore aveva, proprio quel pomeriggio, da fare la propria e inalienabile dialisi, pena per giorni l’intossicata immobilità». La consapevolezza che spesso sta più in alto chi ne è meno degno: «Il magistrato scoppiò a ridere. -L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è stato poi un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…- . – L’italiano non è l’italiano: è il ragionare – disse il professore. – Con meno italiano, lei sarebbe forse più in alto-». Infine, la più lapidaria delle constatazioni, la più tragicamente laica: «ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza».

 

«Agorà» (Svizzera), 10 gennaio 1990