ALBERTO MARIA BANTI, IL BALCONE DI EDOUARD MANET  – LATERZA, ROMA-BARI 2013

Alberto Mario Banti (Pisa,1957), professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Pisa, ha pubblicato nel 2017 da Laterza un coinvolgente, polemico e voluminoso saggio sull’industria culturale del ’900 – Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd – , che spazia dal cinema e dal fumetto degli anni ’30 (con la loro idea consolatoria e buonista dell’intrattenimento, e l’imperativo del lieto fine) alla controcultura di massa degli anni Sessanta, (attraversata dai nuovi fenomeni del rock, del cinema e del teatro alternativo, dei movimenti per i diritti civili, del femminismo, della protesta afroamericana), fino agli ultimi decenni rifluiti in una produzione più addomesticata, e omogenea agli interessi del capitalismo internazionale. Ma non è di questo volume che qui mi interessa scrivere, bensì di un libro un po’ più datato, dalla prosa elegante e sfumata, acquistabile in un economico e-book.

Il balcone di Edouard Manet propone un percorso interpretativo snodantesi tra l’iconografia, la storia di genere e la storia sociale dell’Ottocento, a partire dal commento di un dipinto-capolavoro del 1868, esposto al Musée d’Orsay di Parigi. Già dal sottotitolo (Sguardi maschili e corpi femminili nell’Ottocento borghese) possiamo tuttavia intuire che non si tratta solamente di un libro di critica d’arte, ma di una vera e propria decodificazione filosofica delle “differenti strategie dell’apparire”, così come si identificano nella descrizione dei diversi ruoli sessuali e sociali. Il quadro di Edouard Manet, definito da Banti “magnifico ed enigmatico”, ritrae in primo piano due donne e un uomo affacciati al terrazzo di una casa, avvolti da “un velo di astratta tristezza”. Le signore indossano abiti candidi, vaporosi, ornati di ricami e di trine; l’uomo, invece, è vestito in modo austero: camicia bianca sotto un completo nero, cravatta blu scuro. I tre personaggi indicano nel loro abbigliamento e nella capigliatura una “sintassi dell’apparenza” profondamente diversificata.

Da questa divaricazione strategica del costume si diparte la riflessione dell’autore sui differenti ruoli sociali tra i sessi imposti all’interno delle famiglie alto-borghesi nel XIX secolo. Uomini e donne erano chiamati a impegni diversi, che richiedevano atteggiamenti interiori ed esteriori antitetici: i vestiti maschili – abbastanza simili a quelli odierni – dovevano assicurare praticità, serietà, comodità, per permettere a chi li indossava di svolgere le proprie mansioni pubbliche. Le fanciulle, mogli e madri, chiuse nello spazio ristretto della domesticità, o tutt’al più limitate alla frequentazione di salotti, caffè eleganti, raffinati negozi (Émile Zola descrisse, nel romanzo Al paradiso delle signore del 1883, le distrazioni alla moda delle dame francesi), erano obbligate a vestirsi e a pettinarsi in modo consono, ricercato e vistoso insieme, decorato da fronzoli e nastri, accessoriato pesantemente, poiché da loro non si pretendeva lo svolgimento di alcuna attività produttiva, ma una funzione puramente di accompagnamento e di esibizione. Ecco quindi lo sfoggio di gonne ampissime, cappellini, parasole, scarpette, boccoli, gioielli che avevano l’unico scopo di mettere in risalto la ricchezza e lo stato sociale dei padri o mariti da cui figlie e spose dipendevano.

Le donne dell’800 erano “marginalizzate non solo dalle pratiche sociali in uso, ma anche dalle leggi”. A loro si chiedeva solo di rispondere al requisito essenziale della rispettabilità, coerente con “l’onore, la castità, la virtù, la costruzione di un matrimonio equilibrato, finalizzato alla riproduzione e all’educazione dei figli”. Alberto Mario Banti mette in luce come i concetti di amore, matrimonio, fedeltà si siano modificati tra il ’700 e l’800, secolo in cui alla leggerezza e volubilità dei costumi precedenti si sostituì una morigeratezza di facciata e una sostanziale misoginia che impediva alle donne qualsiasi indipendenza non solo sessuale, ma anche intellettuale. Tale rigido moralismo regolava anche la visibilità dei corpi femminili, che andavano coperti e addirittura nascosti nelle occasioni pubbliche diurne, e potevano invece mostrarsi nella loro ammiccante sensualità nei ricevimenti e nei balli riservati tra persone dello stesso ambiente sociale, in cui scollature e nudità si prestavano come oggetto al desiderio maschile. Il corpo della donna per l’occhio dell’uomo diventa un attributo fondamentale della pittura ottocentesca: mentre il nudo maschile nei quadri dell’800 sparisce del tutto, trionfa quello femminile, purché senza riferimenti alla contemporaneità. Dominano “il nudo esotico, di prevalente ambientazione orientale; il nudo mitologico; il nudo di ambientazione storica, possibilmente collocato in una indefinita antichità classica. Questa regola serve a creare un effetto di straniamento, che allontana ogni eventuale senso di colpa dalla mente di chi guarda” (cfr. L’Odalisca o Il Bagno Turco di Ingres).

“Mani maschili che dipingono corpi nudi di donne giovani e belle, a esclusivo beneficio di occhi maschili”: la volontà di dominio e possesso virile sull’universo femminile è reso esplicito, secondo l’autore, proprio dall’arte figurativa, che ama ritrarre donzelle in pericolo salvate da eroici cavalieri, o mercati di schiave. Fu proprio Edouard Manet a compiere due clamorosi gesti di ribellione, infrangendo la morale maschilista dei suoi colleghi pittori in due quadri: Colazione sull’erba e Olympia, entrambi del 1863; entrambi criticatissimi perché collocavano una donna senza veli in un contesto contemporaneo, violando così una delle regole fondamentali del nudo pittorico ottocentesco. La provocazione di Monet era decisamente politica, e rivolta agli spettatori uomini, accusati di un voyeurismo farisaico che ammetteva la fisicità di Veneri classiche e odalische arabe, ma rifiutava scandalizzato ogni riferimento alle disinvolture sessuali maschili dell’800.

Se il clamore suscitato dai due dipinti convinse il pittore francese a evitare per il futuro temi suscettibili di critica morale, il suo insegnamento venne invece riprodotto e sfruttato dai meccanismi pubblicitari dell’epoca, per convincere il pubblico ad acquistare prodotti voluttuari. E le nascenti associazioni femministe fecero proprie la sfida polemica di Monet ai benpensanti servendosi di dimostrazioni eclatanti: come quella dell’attivista venticinquenne Mary Richardson che il 10 marzo del 1914 alla National Gallery di Londra distrusse a colpi di mannaia la Venere allo specchio di Velázquez, perché disturbata da come gli uomini guardavano il corpo di donna lì raffigurato.

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 15 luglio 2019