BEN LERNER, ODIARE LA POESIA – SELLERIO, PALERMO  2017

Ben Lerner (1979), narratore, poeta e saggista statunitense, insegna Creative Writing al Brooklyn College. Ha vinto numerosi e prestigiosi premi, ha pubblicato diverse raccolte di versi e due romanzi (tradotti anche in italiano), molto ben accolti da pubblico e critica: Un uomo di passaggio e Nel mondo a venire.  La casa editrice Sellerio propone un suo saggio dal titolo provocatoriamente curioso: Odiare la poesia, cioé la più innocua e forse inutile delle attività artistiche umane, che però mantiene anche oggi (dopo millenni di storia) una «formidabile valenza sociale… mista al senso della sua formidabile marginalizzazione  nella società».

Lerner commenta alcune composizioni di classici della lingua inglese (Keats, Shelley, Dickinson, Whitman, Eliot, Pound) e dei contemporanei Sylvia Plath, Robert Lowell, Charles Olson, Amiri Baraka, Claudia Rankine, sbeffeggiando poi con sarcasmo l’incompetenza formale del peggior poeta esistente nella letteratura mondiale: William McGonagall. Giusto per esemplificare cosa sia e cosa non sia poesia (non ne parlava già Croce un secolo fa?). Conforta le sue tesi con i giudizi critici di Allen Grossman, ma contesta violentemente il parere negativo che altri accademici esprimono su quasi tutta la produzione attuale: Mark Edmundson, ad esempio, accusa i poeti americani contemporanei di essere troppo individualisti, soggettivi, disinteressati alla politica e agli ideali nazionalistici, indifferenti alla cultura popolare e alla tradizione letteraria del paese, incapaci di farsi universali, parlando a tutti e per tutti: «Non soddisfano, nel lettore, la sete di significati che vadano al di là dell’esperienza del singolo poeta e illuminino il mondo che abbiamo in comune».

Più in generale, e senza limitare lo sguardo alla contemporaneità, Ben Lerner individua la diffidenza e il fastidio che il mondo ha nutrito e nutre nei riguardi della poesia (da Platone in poi), in tre punti fondamentali. In primo luogo, nella sua inadeguatezza a raggiungere l’obiettivo supremo cui tende: la poesia non riesce «a superare la dimensione finita e storica – il mondo umano fatto di violenza e differenza – e a raggiungere il trascendente e il divino», in quanto «il canto dell’infinito viene compromesso dalla finitezza dei suoi termini». Secondariamente, nell’aspirazione dei poeti a esprimere una particolarissima sensibilità e umanità che li differenzi dalle persone comuni, nelle quali si sviluppa un ovvio risentimento di esclusione e inferiorità, che spesso si tramuta in disprezzo e irrisione. Infine, nell’imbarazzo che nasce sia in chi scrive sia in chi legge poesia constatando l’abisso esistente tra la promessa di una rivelazione emotiva capace di trasformare le coscienze e la società, e l’effettivo risultato politico e culturale che ne deriva, in pratica nullo. La poesia non serve a niente, secondo la maggioranza delle persone; è un’arte illusoria che circola in ambienti elitari, un’attività privata che non aiuta il mondo ad essere migliore, ma si limita a soddisfare l’ambizione dei pochi che la praticano: una sorta di passatempo intellettuale che si spaccia per arte nobile e gratuita, in contrapposizione al volgare utilitarismo di una societò materialistica. Secondo Ben Lerner, proprio per questi motivi deve vantarsi di essere odiata, e deve continuare a combattere per sopravvivere.

 

«Poesia» n. 328, luglio/agosto 2017