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RECENSIONI

AAVV, POESIE DI NATALE

AAVV, POESIE DI NATALE – IGNAZIO PAPPALARDO EDITORE, ROMA 2025

L’antologia – con prefazione di Padre Enzo Fortunato – che l’editore Ignazio Pappalardo ha dedicato alle Poesie di Natale, raccoglie ventisette composizioni di autori italiani e dodici di poeti stranieri, tutti novecenteschi, di cui uno solo vivente. Il giorno della nascita di Gesù (“Quale nascita è più scandalosa e unica e rivoluzionaria di questa?”, si chiede il prefatore) segna lo spezzarsi di un ciclo eterno di ripetizioni nella natura, inaugurando una diversa direzione del tempo, aperto verso un futuro infinito e inaudito: da quel giorno l’umanità cristiana ha iniziato a misurare la sua storia.

Per celebrare tale evento di portata universale, Francesco d’ Assisi nel 1223 ha ideato il primo presepe in una grotta a Greccio: nelle parole di Bonaventura di Bagnoregio “I frati si radunano, la popolazione accorre; il bosco risuona di voci, e quella venerabile notte diventa splendente di luci, solenne e sonora di laudi armoniose”. I poeti antologizzati nel volume qui recensito celebrano appunto la notte miracolosa in cui Dio si è fatto creatura e messaggio di salvezza per l’umanità. Lo fanno con voci e stili diversi, chi aderendo alla proposta di fede del Vangelo, chi – pur non credente – esprimendo partecipazione affettuosa e nostalgica alla festività più officiata ed evocata al mondo.

Tre le donne presenti: Ada Negri, Maria Luisa Spaziani, Cristina Campo. La prima con la descrizione di un tetro Natale di guerra (“Né campana rintocca, né parola / vibra nell’aria, né si scrolla ramo, / né passo entro la neve si sprofonda”), la seconda con la mestizia di una festa solitaria (“Natale altro non è che quest’immenso / silenzio che dilaga per le strade”), la terza malinconica nell’attesa di una presenza amata (“O tenera tempesta / notturna, volto umano!”). Tra gli italiani, tre premi Nobel (Pirandello, Quasimodo e Montale); i nomi eccelsi di Saba, Gozzano, Ungaretti, Caproni, Sereni, Luzi; due religiosi (Turoldo e Costantini), entrambi con un riferimento ai pastori accanto alla grotta; il dialettale Trilussa (“Ammalapena che s’è fatto giorno, / la prima luce è entrata nella stalla / e er Bambinello s’è guardato intorno / – Che freddo, mamma mia. Chi m’aripara? / Che freddo, mamma mia. Chi m’ariscalla?”); i delicati versi che Carlo Betocchi dedica a sé stesso la sera della Vigilia, e quelli luminosi di Leonardo Sinisgalli nel crepuscolo di Santo Stefano: “Stasera s’indovina al chiaro delle nevi / che il giorno avanza con passi di gallo. //… C’è nell’aria un indizio / di vita nuova, una speranza certa”.

I dodici poeti stranieri, con il testo originale a fronte, hanno voci più discordanti tra di loro, nei toni a volte favolosi, a volte rudi, o addirittura ironici e polemici. Se Thomas Hardy sogna che nella notte santa si inginocchino anche i buoi, Verlaine desidera ritrovare l’innocenza e l’umiltà dell’infanzia. Oscar Wilde avrebbe voluto stupirsi dinanzi a scene gloriose di un Avvento rivelatore, e si ritrova “con cuore e occhi perplessi” a contemplare angeli e colombe. I tre Magi di Yeats spiano insoddisfatti “l’impenetrabile mistero sul pavimento bestiale”, mentre quelli di Eliot si lamentano del freddo, dei villaggi sporchi, dei costi esagerati del viaggio: “questa Nascita fu / un’aspra e amara agonia per noi, come la Morte, la morte nostra”.

Brecht il comunista loda l’orgoglio materno di Maria, mentre l’ateo Jean-Paul Sartre legge sul volto di lei “uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano”. Soltanto Sartre scrive, con solidale delicatezza, di un Giuseppe che soffre senza confessarlo, e in dispare impara “ad accettare”. Ai versi conclusivi di Milosz, Merton e Lowell è affidata la consapevolezza che l’annuncio di salvezza proclamato dal Bambino non troverà sempre rispondenza nei destini dell’umanità: la neve continuerà a essere insanguinata, la luna silenziosa illuminerà il tramonto dei pianeti, il mondo sarà più crudele di Erode.

In tutti questi poeti rimane tuttavia la stessa preghiera: un mite desiderio di bontà e riscatto, nella notte che più di qualsiasi altra notte ha illuso e continua a illudere il genere umano con la promessa di una nuova alba luminosa.

 

«SoloLibri», 6 novembre 2025

 

RECENSIONI

SHIBLI

ADANIA SHIBLI, LA LINGUA RUBATA. DI LETTERATURA, PALESTINA E SILENZIO

EDIZIONI CASAGRANDE, BELLINZONA 2025.

Esistono “dettagli minori” all’interno di storie complesse che rivelano “una memoria affettiva soffocata e tuttavia non spenta”, in grado di “fare da esca al ricordo, all’espressione del lutto, al pianto, al dolore che, verbalizzato, libera e restituisce il respiro”. Così scrive Maria Nadotti nella sua intensa prefazione a La lingua rubata, di Adania Shibli. Un dettaglio minore è il titolo dell’ultimo romanzo (pubblicato da “La nave di Teseo”) di questa autrice palestinese, in cui viene narrata la cattura, lo stupro e l’uccisione da parte di soldati israeliani di una giovan nomade, sepolta poi nel silenzio del deserto del Naqab. Lo stesso silenzio che negli ultimi due anni ha soffocato le voci e le richieste di aiuto del popolo palestinese: lo stesso silenzio che ha reso mute e incapaci di reazione le democrazie occidentali. Ma Adania scrive, denuncia, e la sua testimonianza dà voce a chi non ne ha avuta in passato e non ne ha oggi, e contemporaneamente risveglia le cattive coscienze degli indifferenti, degli impotenti, dei vili: di noi spettatori di un eccidio che qualcuno si ostina a non voler chiamare genocidio.

Adania Shibli, nata in Palestina nel 1974, ha studiato comunicazione e giornalismo a Gerusalemme e oggi si dedica alla scrittura, alla ricerca accademica e all’insegnamento. Nell’ottobre del 2023 alcune istituzioni culturali tedesche, insieme ai media loro satelliti, hanno deciso di silenziarla non offrendole più gli spazi di intervento pubblico programmati alla Fiera del Libro di Francoforte, e rifiutandole la consegna di un premio già accordato. Come postilla la prefatrice de La lingua rubata (edizione Casagrande), “La fabbricazione politica e mediatica dell’invisibilità e del mutismo rende: ciò che non vediamo e non udiamo smette di esistere”. Ma quest’anno è stata restituita ad Adania voce e visibilità anche grazie a questo volume, che raccoglie un intervento di una decina di pagine da lei scritto il 2 febbraio 2024 e pubblicato sulla “Berlin Review”, e la registrazione dell’incontro avvenuto a Chiasso lo scorso maggio con Maria Nadotti (giornalista, traduttrice, saggista, consulente editoriale, documentarista), in cui le due donne conversano – con la vivacità di chi ama la vita -, di alfabeti e di numeri, di infanzia e di animali, di poesia e di traduzioni, in risposta a quanti avrebbero preferito ascoltare solo espressioni di angoscia e vendetta. Ma la descrizione dei dettagli minori è spesso “un antidoto potente tanto alla rimozione quanto all’amnesia”.

Shibli e Nadotti si erano conosciute a Ramallah nel 2003, e da allora non si sono più perse di vista. Il loro dialogo (intessuto in tre lingue diverse: italiano, arabo, inglese, attraverso la mediazione di una traduttrice) prende le mosse dalla riflessione sul ruolo della scrittura nella società contemporanea. “Io non mi vedo e non mi sono mai vista come una scrittrice. Mi vedo però nel verbo scrivere, nell’atto dello scrivere, perché non rimanda a una definizione ma a un coinvolgimento, e il coinvolgimento è essenziale”, afferma Adania, convinta che qualsiasi categorizzazione di stile e contenuti sia fuorviante. Un autore ha diritto anche di giocare con le parole, di inventare situazioni e ruoli differenti dei vari personaggi creati, investendosi di un potere trasformativo che annulla i confini del reale: “mettere in relazione immaginazione e lingua rende possibili cose che la realtà ci preclude”. E la realtà vissuta dalla scrittrice a partire dall’infanzia è stata deprivata di tutto, dei giochi come della lingua. Ricorda che in casa sua i genitori avevano imposto ai figli il silenzio come arma di difesa dalle malvagità del mondo circostante: “I miei avevano quindici anni quando è iniziata la Nakba, hanno visto con i loro occhi la distruzione della Palestina, la distruzione dei legami familiari, dei villaggi e della comunità intorno a noi – fatti di cui tuttora non conosco i dettagli. E capisco come mai siano venute loro meno le parole per raccontarli”. Anche ad Adania, da anni trasferitasi in Europa, riesce difficile parlare al proprio figlio della sofferenza del suo popolo: “Quando soffriamo davvero molto la prima cosa che perdiamo è il linguaggio… Non è poi così strano perdere di colpo il linguaggio quando ci si trova in mezzo alla devastazione”. Infatti, nel corso della conversazione con Nadotti, l’utilizzo di una metafora sostituisce la descrizione diretta dei soprusi e delle crudeltà patiti dai palestinesi: l’uovo che una femmina di piccione ha deposto sul balcone di casa viene rubato da una cornacchia. “È proprio questo che provo, che è successo alla mia lingua: mi è stata rubata come quell’uovo. Ecco, è così che mi sento quando si parla della Palestina. Non ho più la lingua. Mi è stata sottratta, me l’hanno distrutta”.

Quale lingua, poi? I palestinesi parlano un arabo vernacolare, scisso in diversi dialetti. Ma scrivono usando l’arabo classico, letterario, edificato nel corso di una tradizione millenaria: esiste quindi una scissione tra come la gente pensa e parla quotidianamente, e come invece è costretta a scrivere per comunicare all’esterno. Scissione che si amplifica con la traduzione nelle lingue straniere, difficilmente fedeli all’originale. Nei libri di Adania c’è una grande attenzione per i linguaggi diversi (matematica, geometria) e per la fisicità, per il mondo dei sensi, come se in tal modo riuscisse a superare i confini imposti dal numero delle lettere dell’alfabeto: che in arabo sono 28, in farsi 32, in urdu 39. La matematica e i numeri sono un mezzo per continuare a raccontare, quasi all’infinito, quando si fatica a farlo con la lingua. L’incapacità, l’impossibilità di parlare ha lasciato quindi il posto al dovere di scrivere, e non è un caso che in arabo, la parola per indicare la letteratura e l’etica sia la stessa: “Adab”. Raccontare la realtà, aldilà di ogni contraffazione politica e mediatica, vuol dire riconsegnarle significato e concretezza, abbattere i muri fisici e mentali che hanno imprigionato corpi e coscienze della popolazione palestinese.

 

«Gli Stati Generali», 6 novembre 2025

RECENSIONI

FERLINGHETTI

LAWRENCE FERLINGHETTI, FOTOGRAFIE DEL MONDO PERDUTO – SUR. ROMA 2025

Con testo inglese a fronte, la casa editrice SUR pubblica per la prima volta in Italia Fotografie del mondo perduto, volume d’esordio di Lawrence Ferlinghetti, uscito a San Francisco nel 1955 in contemporanea alla nascita della casa editrice di culto City Lights da lui fondata e diretta, che ebbe il merito di tenere a battesimo la Beat generation. Tre gli esordi dell’autore, come giustamente Marco Cassini afferma nella sua interessante e vivace prefazione: come poeta, editore e artista di riconosciute origini italiane. Suo padre Carlo, emigrante bresciano, era stato registrato all’ arrivo negli Stati Uniti con il cognome di Ferling, e solo dopo la pubblicazione di Pictures of the Gone World, Larry Ferling assunse la nuova (o vecchia) identità di Lawrence Ferlinghetti. Cassini ne riscostruisce la tempestosa vicenda biografica, insieme a tutto il periodo che tra il 1950 e il 1960 vide una generazione di poeti e scrittori alternativi imporsi nel panorama contro-culturale degli States.

Nato a Yonkers nel 1919 e morto ultracentenario a San Francisco nel 2021, vissuto nell’infanzia tra l’America e l’Europa, il poeta aveva partecipato al D-Day in Normandia come capitano di un cacciasommergibili della Marina Militare degli Stati Uniti. Ottenuta una laurea alla Columbia University e un dottorato in letterature comparate alla Sorbona di Parigi, scelse di stabilirsi in California perché – a suo dire –attratto dalla qualità del vino rosso locale. Giornalista, pittore, traduttore, insegnante, la sua attività letteraria successiva venne decisa in base a incontri e avvenimenti accidentali: come l’acquisto della mitica libreria nella Columbus Avenue dopo un incontro casuale con il proprietario in cerca di soci, la decisione di ampliarla per farne un punto di readings e performance underground, la volontà di inventarsi creatore ed editore di poesia alternativa, lontana dai circuiti accademici, aperta a sperimentalismi e a voci provenienti “dalla strada”.

Ecco dunque le prime firme della collana tascabile Pocket Poets Series: Kenneth Patchen, Kenneth Rexroth, William Carlos Williams, a cui si affiancarono le voci giovani e sconosciute di Allen Ginsberg, Marie Ponsot, Denise Levertov e Gregory Corso. Nel 1956 il processo per oscenità per la raccolta Howl and Other Poems di Ginsberg regalò alla piccola casa editrice una fama inaspettata.

I ventisette testi compresi in Fotografie del mondo perduto (pubblicati in un’edizione di cinquecento esemplari fatta di fogli stampati con caratteri mobili e spillati al centro, nel formato tascabile di 15,5 per 12,5 centimetri), trovarono subito una nuova importante riedizione con i tipi di New Directions, che già nel 1958 curò il lancio del secondo libro di versi di Ferlinghetti, A Coney Island of the Mind, uno dei maggiori long seller di poesia del mondo, con oltre un milione di copie vendute. Le Fotografie compongono un album di istantanee che con la loro originalità di stile e contenuti hanno imposto sulla scena letteraria mondiale una voce originale e inconfondibile, capace di usare timbri molteplici, dall’elegiaco all’ironico, dal nostalgico al provocatorio, servendosi di disposizioni grafiche irregolari, di neologismi spiazzanti, e di riferimenti colti alla cultura e all’arte di tutti i tempi, dalla Bibbia a Picasso, da Dante a Yeats, da Rimbaud a Rilke. La prima composizione, molto famosa e antologizzata, giovanilmente fresca e impudica, inquadra una donna che sulla terrazza stende le lenzuola matrimoniali umide d’amore, bianche come sudari svolazzanti “verso il regno dei cieli”. La seconda è già più malinconicamente ironica, nel descrivere i difficili amori degli anziani che “hanno viaggiato sugli stessi / vecchi binari troppo a lungo”, e finiscono in una stazione-cimitero senza via d’uscita. Pazzamente visionaria e surrealista è poi la poesia che narra di un pittore molto felice di avere al posto della testa uno specchio, in cui possono riflettersi cose persone e animali concreti e mitologici, mentre cerca ovunque la sua Beatrice perduta, “ma con appena un tocco / di diabolico rossetto / proprio sulla punta / del suo stesso naso”. Quindi visioni caleidoscopiche e comicissime che radunano confusamente arabi e il Papa, pesci ipnotizzati e un Arlecchino nudo tra le bambinaie con le dita nel naso, ambasciatori e streghe, pompieri e orchestrine, Londra e Parigi.

Questi versi vogliono trasmettere significati particolari? Secondo Lawrence Ferlinghetti “Come un campo di girasoli, una poesia non andrebbe mai spiegata… Se una poesia deve essere spiegata, è un errore di comunicazione”.

 

«L’Indice dei Libri del Mese» n. XI. novembre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

THOMAS

DYLAN THOMAS, CONVERSAZIONE SUL NATALE

IGNAZIO PAPPALARDO EDITORE, ROMA 2024

 

Il rosso, etilista, provocatore, dissoluto Dylan Thomas scrisse incredibilmente un delicato racconto sul Natale, che oggi esce per la prima volta in italiano nelle edizioni di Ignazio Pappalardo, con testo a fronte in inglese, illustrato da dieci acquerelli originali del pittore romano Roberto Pavoni.

Nato a Swansea, in Galles, nel 1914, Thomas morì a New York nel 1953 per una polmonite curata erroneamente con una dose eccessiva di morfina, che stroncò il suo fisico molto debilitato dall’alcol. Amato e odiato sia per l’esibita trasgressività della sua vita, sia per la labirintica e immaginosa originalità della sua poesia, in reazione all’algido intellettualismo di Eliot e al classicismo di Auden allora dominanti nel mondo anglosassone, Dylan Thomas conobbe già giovanissimo un grande successo internazionale, galvanizzando soprattutto gli entusiasmi giovanili, e fungendo da apripista alla Beat Generation. Si andò formando intorno alla sua persona in quegli anni un mito, cui contribuirono non poco la personalità rabelesiana del poeta, la vita disordinata, l’alcolismo, e la simpatia umana che ispirava.

Nelle sue lettere scriveva di sé: “Sono un gallese, sono un ubriacone, e amo il genere umano, specialmente la parte femminile”. E “Contengo in me una bestia, un angelo e un pazzo”. Ma anche un bambino, potremmo aggiungere, ancora immerso nell’atmosfera nostalgica del passato nel “piccolo mondo” di Swansea, con le stradine acciottolate, le campagne brinose, il vento freddo dell’oceano, e le case piene di oggetti e di parenti, immerse nelle tradizioni folkloriche e contadine, nutrite da una religione antica, più panteistica che cristiana. Impressioni che si fanno più vive e malinconiche in occasione delle feste di fine anno, quando le famiglie si riuniscono per scaldarsi intorno alla stufa e in una reciproca affettuosa vicinanza. Così ricordava il poeta: “Nevicava sempre a Natale. Dicembre, nella mia memoria, è bianco come la Lapponia, solo che non c’erano renne. Ma c’erano gatti”, postillando: “I ricordi d’infanzia non hanno ordine né fine”. I suoi racconti in prosa ricalcano le suggestioni dei versi: “Conobbi il messaggio dell’inverno, / Le frecce della grandine, la neve infantile”, “Se fossimo bambini potremmo arrampicarci, / Catturare nel sonno le cornacchie, senza spezzare un rametto, / E, dopo l’agile ascesa, / Cacciare la testa al disopra dei rami / Per ammirare stupiti le immancabili stelle”.

Conversazione sul Natale faceva parte di una serie di radiodrammi scritti per la BBC e indirizzati soprattutto al pubblico giovanile: l’edizione attuale ne preserva l’intendimento didattico, con la sua stampa a larghi caratteri e il testo a fronte in inglese, e con le belle illustrazioni a colori di Roberto Pavoni, che richiamano gli album scolastici delle classi elementari di anni fa.

Tenerezza, rimpianto, ambientazione fiabesca in questo dialogo intessuto tra un Ragazzino (small boy) e un Io adulto (Self) su quanto la festa natalizia sia mutata nelle diverse esperienze delle loro due differenti età (“What was Christmas like?”) Il bambino chiede, con insistita curiosità: “Years and years ago, when you were a boy…” E l’adulto risponde che le cose non sono molto cambiate, da allora: “It snowed”. La neve forse cadeva più abbondante, cresceva di notte sui tetti come il muschio, copriva il naso e le scarpe dei postini che portavano regali utili e noiosi (guanti, sciarpe, libri) e regali inutili ma divertenti (dolci, soldatini, fischietti, monetine). Poi gli zii e le zie arrivavano carichi di pacchetti e di cibo, la mamma cucinava tacchino e pudding flambé. “Nevicava”, ripete l’adulto, e il bambino gli fa eco: “Anche l’anno scorso ha nevicato: io avevo fatto un pupazzo di neve e mio fratello l’ha buttato a terra e io ho buttato a terra mio fratello e poi abbiamo preso il the”. L’adulto diventa romantico: “Guardando attraverso la finestra della mia camera da letto, fuori, nella luce della luna e nella neve volante infinita color del fumo, potevo vedere le luci nelle finestre di tutte le altre case sulla nostra collina, e sentire la musica che si innalzava da esse su verso la notte che continuava a precipitare”.

Al ragazzino il Natale del passato sembra “come un Natale qualunque… per niente diverso dal Natale di adesso”. In realtà era diverso, risponde l’adulto: perché ciascuno ha il suo Natale, quello che vive nel presente e quello che ricorda degli anni trascorsi.

La prefatrice del volume Giorgia Latini, Vicepresidente della Commissione cultura, scienza ed istruzione della Camera dei Deputati, nel sottolineare l’universalità della festa che celebra la nascita di Gesù, ne indica il mistero che la rende nuova e irripetibile anche nel suo riproporsi uguale ogni volta, “conservando la dimensione incantata dell’infanzia”: un senso di innocenza che il dissacrante Dylan Thomas ha saputo rendere nel tono fiabesco e privo di retorica di questa sua Conversazione sul Natale.

 

«Gli Stati Generali», 30 ottobre 2025

INTERVISTE

BIBLIOTECA DI AFFI

 Intervista al comitato di gestione della Biblioteca di Affi (Verona)

Con sede in un edificio che prima ospitava la stazione della città, la Biblioteca di Affi, comune di 2500 abitanti in provincia di Verona, è un ottimo esempio di quanto un’istituzione culturale possa essere il cuore pulsante di un’intera comunità. Abbiamo intervistato Silvia Recalcati, presidente del Comitato Biblioteca di Affi, e Barbara Loro, curatrice del GDL Biblioteca e membro del Comitato Biblioteca di Affi, per conoscerne meglio la storia, le attività e il rapporto fra i concittadini e la lettura.

Ormai nei comuni di quasi tutte le province italiane, le biblioteche esercitano molteplici funzioni, tra cui quella di conservare, collezionare e distribuire in lettura volumi di narrativa, saggistica e poesia non è l’unica, e forse nemmeno la principale. A questo utilizzo si affiancano infatti iniziative di diverso tipo: dai gruppi di lettura agli incontri con gli autori, dagli interventi etici di protezione del patrimonio naturale ai progetti di book sharing. Questo ruolo di coesione territoriale e sociale, di conoscenza e confronto reciproco, di dialogo tra cittadini, diffusione e partecipazione culturale, fino a qualche decennio fa era esercitato dalle parrocchie – oggi perlopiù disertate –, e prima ancora dalle sagre, dagli spacci alimentari e dalle osterie del paese. Oggi viene positivamente e fortunatamente assegnato appunto alle biblioteche locali. Tra queste, particolarmente attiva è quella di Affi, comune di 2500 abitanti in provincia di Verona, chiave di accesso alla parte centrale del lago di Garda e importante snodo autostradale in direzione del Brennero, che si è recentemente distinto per un’attenta politica di rispetto ecologico dell’ambiente circostante.

L’intervista al comitato di gestione della biblioteca

Rispondono alle domande Silvia Recalcati, presidente del Comitato Biblioteca di Affi, e Barbara Loro, curatrice del GDL Biblioteca e membro del Comitato Biblioteca di Affi.

  • Quando si è costituita la vostra Biblioteca, quanti addetti occupa (tra personale dipendente e volontari), e a che tipo di utenza si rivolge, in termini numerici, di genere e livello professionale-studentesco?

Il Comitato di Gestione della Biblioteca Comunale nasce nel 1997 e nel 1998 la biblioteca è stata aperta al pubblico in via sperimentale mettendo a disposizione degli utenti oltre 1500 volumi tra i generi principali e un computer per le ricerche. Col passare degli anni la sede della Biblioteca di Affi, situata nella sala civica di Ca’ del Ri, si è rivelata inadeguata; si è trovata una nuova sistemazione nell’edificio della vecchia stazione della ferrovia Verona – Caprino. La biblioteca, nella nuova sede della ex stazione di Affi, ha aperto al pubblico nell’autunno del 2005. Questa nuova ambientazione ha permesso la realizzazione di mostre, presentazione di libri, serate per incontri formativi e divulgativi. Sfruttando la tranquillità e la bellezza del parco circostante si è pensato all’estate teatrale proponendo, nella bella stagione, vari spettacoli all’aperto. Considerando la tranquillità del posto, la luminosità delle sale ricavate nella vecchia barchessa e la necessità per gli studenti di avere un luogo in cui studiare, sono state istituite due aule studio frequentate e autogestite da studenti universitari di Affi e anche di paesi limitrofi. Questo servizio è attivo in modo regolare dal 2016.
Per venire ulteriormente incontro alla necessità dei lettori, dal 2019 la biblioteca di Affi fa parte del Sistema Bibliotecario Provinciale di Verona che prevede la possibilità di richiedere libri, non presenti in biblioteca, alle altre biblioteche del sistema e fatti pervenire attraverso un servizio di prestito interbibliotecario. La biblioteca ha continuato ad accrescere il suo patrimonio librario arrivando ad oggi (febbraio 2023) a possedere circa 13000 libri. Nel corso del 2024 la Biblioteca di Affi ha gestito, con patrimonio proprio o proveniente dal Sistema Bibliotecario Provinciale, 4289 prestiti, ovvero 1,73 per ciascun abitante di Affi. La nostra utente più attiva è una donna che durante il 2024 ha letto ben 113 libri, ovvero un libro ogni 3,2 giorni. Il gruppo di volontari si è arricchito negli anni e si occupa di garantire il servizio di prestito dei libri e di organizzare le varie iniziative. I volontari si dividono in vari gruppi in base alle varie attività e sono più di 30 persone.

  • Dove è situata logisticamente, com’è organizzata nella struttura dell’edificio e in che modo si relaziona con la comunità e le istituzioni del territorio?

La Biblioteca ha sede in via Stazione ad Affi, nel cuore di un parco piuttosto ampio e nelle immediate vicinanze della pista ciclabile. L’edificio è stato riconvertito ed era precedentemente adibito a stazione della ferrovia Verona-Affi–Caprino. Non a caso, infatti, il parco antistante la biblioteca ospita una locomotiva in ricordo della precedente funzione della struttura. La Biblioteca si struttura su tre piani: al piano terra si trovano la Sala Vetri e la sala associazioni, al primo piano la Sala Legno e l’ufficio dei bibliotecari, al secondo piano le sale della biblioteca con al loro interno i libri catalogati.
Gestita interamente da un gruppo di volontari, la biblioteca dialoga con il Comune di Affi per la prenotazione delle sale in occasione di incontri ed eventi e per la definizione del budget destinato alle iniziative.

  • Quali attività promuovete, oltre alla consultazione dei testi in sede, per incoraggiare la lettura e far entrare l’oggetto libro nella quotidianità dei vostri frequentatori?

La biblioteca organizza e promuove iniziative culturali rivolte a un pubblico di adulti e bambini, con l’obiettivo di tenere viva la Biblioteca del piccolo paese di Affi. Tra le tante iniziative si annoverano, ad esempio: la rassegna teatrale estiva, la rassegna letteraria invernale, il gruppo di lettura per adulti, i laboratori e le letture ad alta voce per i più piccoli, l’apertura giornaliera delle aule studio, conferenze, mostre, corsi, etc.

  • Verso che tipo di letture si orienta il pubblico della vostra biblioteca? Narrativa, poesia, saggistica, fumetti, manuali di self-help o di istruzioni pratiche? Avete un servizio di autoprestiti e auto-restituzioni?

Principalmente narrativa, saggistica, ma anche fumetti e libri in lingua straniera. Apprezzate sono anche la sezione di storia locale e gli scaffali dedicati ai libri per bambini.
Indicativamente: tanta narrativa (60%), libri bambini e ragazzi (forse 30%), poi per il restante 10% saggistica scolastica / tempo libero e guide turistiche. Non è attivo il servizio di autoprestito/autorestituzione, ma è presente un box per la restituzione dei libri h24 fuori dalla biblioteca e realizzato qualche anno fa con la collaborazione di un artigiano locale.

  • Incoraggiate anche la produzione di componimenti in prima persona attraverso corsi di scrittura, o promuovete corsi di alfabetizzazione informatica, di lingue straniere, sostegno all’apprendimento da parte dei bambini, laboratori didattici?

Esempi di attività di promozione svolte nel 2025:

  • Workshop Arianna Pastorelli per la poesia;
  • Percorso sulla fiaba con Chiara Tonini e Giovanna Scardoni;
  • Letture mensili ad alta voce per bambini infanzia e primaria a cura di un gruppo di volontarie e del servizio educativo comunale.

Negli anni passati sono state realizzate, ad esempio, anche letture e un corso di spagnolo a cura di una volontaria, Jeanette Villavicencio, e un percorso di tre incontri pensato per indagare il rapporto tra corpo e letteratura tenuto da Laura Lenci – docente della Boston University.

  • C’è una particolare iniziativa che siete particolarmente fieri di avere messo in atto? Quali sono gli autori che avete invitato e hanno ottenuto più successo di pubblico?

Dal 2023 la biblioteca organizza la rassegna letteraria “Se una notte d’inverno un lettore” con l’obiettivo di presentare protagonisti e realtà legati ai mondi di editoria e letteratura. L’idea è nata con l’obiettivo di creare un’iniziativa equivalente alla rassegna teatrale estiva, manifestazione ben consolidata che si svolge già da tempo nel parco della Biblioteca di Affi. Mossi dalla convinzione che la biblioteca sia un riferimento per le comunità di Affi e dei paesi limitrofi, ci è sembrato fondamentale farne uno spazio di aggregazione, confronto e formazione anche nei mesi invernali.La rassegna pone l’accento su cosa significhi, per noi, un libro: non un banale oggetto che si acquista o si prende in prestito, quanto piuttosto il risultato di sinergie e del lavoro condiviso di tutte le figure professionali che, a vario titolo, collaborano per rendere possibile la pubblicazione. L’idea, quindi, è quella di educare lo sguardo alla complessità della filiera editoriale, offrendo una panoramica a 360 gradi e valorizzando ogni tassello che concorre alla realizzazione di un libro: non solo a chi i libri li scrive, ma anche a chi li traduce, li pubblica, ne cura la veste grafica e li promuove. La rassegna prende vita grazie ad un gruppo di volontari molto affiatato e che crede nel valore di fare rete e cultura, oltre che al sostegno degli sponsor e al patrocinio del Comune.

 

«SoloLibri», 29 ottobre 2025

 

 

RECENSIONI

FERRACUTI-MARROZZINI

ANGELO FERRACUTI-GIOVANNI MARROZZINI, L’ULTIMO VIAGGIO

IL SAGGIATORE, MILANO 2025

 

Angelo Ferracuti (Fermo, 1960), scrittore soprattutto di reportage narrativi con alta valenza civile, e Giovanni Marrozzini (Fermo, 1971), fotografo, hanno realizzato in fattiva collaborazione un volume di grande interesse e forte impatto emotivo: L’ultimo viaggio. Storie di vita e fine vita, che ha richiesto una lunga gestazione e numerosi viaggi in giro per l’Europa, oltre a periodi di osservazione presso diversi hospice, case di cura, ospedali, cliniche psichiatriche e strutture riabilitative italiane.

Incoraggiati e sostenuti dalla professionalità di medici e infermieri, dalla dedizione di varie associazioni e onlus, appoggiati dalle esperienze trasversali di amici, famiglie e ricoverati, i due autori hanno raccolto le testimonianze di molte persone che “si trovano a un passo dal varcare la soglia… continuando a lottare per ogni respiro, ogni istante, ogni sorriso” riservato loro da una quotidianità dolorosa, difficile, ma ancora degna di venire raccontata.

I due repertori fotografici che aprono e chiudono il volume illustrano in bianco e nero, con empatica delicatezza, momenti di sofferenza fisica e psichica di degenti terminali, accostandoli a immagini di un loro passato felice, o di ambienti naturali più rasserenanti. Si alternano anche ritratti crudi di cadaveri, di volti devastati dalla stanchezza, di interni squallidi che contrastano con la pulizia e l’ordine dei nosocomi, di sorrisi incoraggianti del personale ospedaliero.  La sezione finale è dedicata alla figura di Graziella, una donna marchigiana malata di SLA, il cui tormento fisico viene descritto narrativamente nell’ultimo capitolo del libro. Ormai incapace di muoversi e parlare, comunica col mondo indicando con gli occhi le lettere dell’alfabeto su una lastra di plexiglas, accudita amorevolmente e pazientemente dai figli, e con il soccorso saltuario di badanti non sempre altrettanto sollecite: Graziella rimane comunque aggrappata con forza alla vita che pulsa intorno a lei.

Ferracuti nella sua scrittura si concentra non solo sull’aspetto umano delle vicende narrate, ma si rivela anche osservatore attento dell’ambientazione esterna, tentando una corrispondenza tra dentro e fuori che alleggerisca la cappa plumbea del male. “In questa campagna marchigiana  nei dintorni di Fermo non c’è un ettaro abbandonato, un campo incolto, una sola fetta di terreno imbarbarita, un orto abbandonato, un albero non curato… Sono luoghi quieti e fiabeschi, antichi e scarsamente abitati, selvatici, le case coloniche che si alzano su piccoli poggi, le strade di polvere che serpeggiano, le balle di fieno incendiate di luce depositate su un tappeto di terreno mietuto, e un crocevia di piccole strade che improvvisamente cominciano a salire per arrivare in cima a borghi incantati e solitari”.

Sempre nelle Marche è collocato il primo reportage del volume, e precisamente nella cittadina di Montegranaro, in una zona operosa di fabbrichette calzaturiere. Nel nosocomio locale, all’ultimo piano si trova l’hospice che accoglie i degenti a cui restano pochi giorni di vita. Ferracuti ascolta le testimonianze di malati, parenti, oncologi, infermieri e volontari che raccontano, alcuni con angoscia altri con rassegnata consapevolezza, come l’attesa della morte diventi quotidianità a cui lentamente ma inevitabilmente ci si abitua. L’autore ne parla con la partecipazione di chi ha vissuto da vicino la tragedia di un abbandono, avendo curato per anni la moglie uccisa da un tumore. Esprime la propria impotenza, la disperazione, la rabbia: sentimenti provati da ciascuno di noi, di fronte all’agonia dei propri genitori, del coniuge, di un parente giovane a cui è stato negato il domani.

Nei pressi di Basilea, l’incontro con la dottoressa Erika Preisig (“la corporatura e il portamento da suora laica, un misto di determinismo nordico e misticità”) è rivelatore di quanto la pratica del suicidio assistito sia ormai accettata e condivisa anche dai credenti, nella convinzione che Dio non condanni chi si sottrae intenzionalmente a sofferenze insopportabili: nella stanza destinata ad accogliere i malati, il decesso arriva indolore in quattro minuti. Vicino a Zurigo, l’associazione Dignitas si occupa del fine vita, offrendo assistenza anche a molti italiani devastati dal male che non trovano alcuna solidale comprensione nella legislazione del nostro paese. Centinaia di casi catalogati in cartelle descrivono la disperazione di chi è rimasto solo o di chi non vuole più pesare sulla famiglia; di atei, buddisti, cristiani che ritengono sia diritto di ciascuno decidere della propria esistenza. Dignitas è infatti un’organizzazione laica e liberale, nel cui programma si sancisce “il diritto alla propria libertà fintanto che questa non lede gli interessi pubblici e gli interessi legittimi di terzi”.

Ancora altre esperienze, altri viaggi, tracce e indizi raccolti su chi lavora a fianco di infermi per alleviarne le sofferenze, e su chi rischia persecuzioni legali sostenendo l’eutanasia. La legge chiude ipocritamente gli occhi su tale pratica, quando ormai si può ottenere per trentacinque dollari un kit della morte, ordinabile sul sito internet di una fondazione australiana che fornisce il Pentobarbital, e quando tanti altri metodi di auto-soppressione vengono attuati aggirando le leggi.

Uli Davids, direttore a Berlino di una struttura per alcolisti all’ultimo stadio, concede ai suoi degenti di consumare alcol senza limitazioni prima di lasciarsi andare. Il cancerologo Franco Cavalli, che a Bellinzona ha assecondato il suicidio volontario di Lucio Magri, fondatore nel 1969 del Manifesto, portando alle cronache nazionali il dibattito sul fine vita. A Oslo, il sacerdote Trond Enger della Chiesa protestante norvegese, in opposizione alla gerarchia ecclesiastica afferma che conservare la vita a prezzo di un dolore infinito non è il bene supremo, da attribuire invece solo all’amore per il prossimo. Ad Amsterdam, dove vige una consuetudine etica e legale assai permissiva rispetto all’eutanasia, incontri agguerriti e propositivi nei confronti dell’accompagnamento a una morte dolce, si rivelano quelli con lo psichiatra Chabot, con il giornalista Dick Bosscher e lo scrittore Johannes Agterberg, convinti che l’aumento mondiale della popolazione anziana e malata indicherà nuove strade verso l’eliminazione del dolore fisico e una maggiore flessibilità riguardo al fine vita, senza che per disperazione alcune persone scelgano di porre termine ai loro giorni in maniera cruenta.

Ferracuti intervalla le sue narrazioni commentando libri letti, film visti, appuntamenti concessi o negati, perché tutto ciò che facciamo parla di vita e di morte, arricchendoci o privandoci di qualcosa di essenziale: così spesso tendiamo a censurare i nostri pensieri e sentimenti, a nascondere malinconie e rimpianti, aggrappandoci ai ricordi, negando con caparbietà la prossima scomparsa di chi amiamo e quella futura e inconfutabile di noi stessi. Come se non sapessimo che “la morte non cela alcun mistero, alcuna porta: è la fine di una creatura umana”, come scriveva Norbert Elias. Ce l’ha insegnato recentemente, con la sua scelta coraggiosa e piena di dignità, Laura Santi. Ce lo ricorda l’impegno risoluto dell’Associazione Luca Coscioni, insieme alle attività di tante diverse e valorose onlus.

 

 

«Gli Stati Generali», 23 ottobre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CAPODAGLIO

ENRICO CAPODAGLIO, POESIA E PENSIERO NELLA COMMEDIA DI DANTE

METAURO, PESARO 2025

 

Nella Premessa al suo raffinato commento all‘Inferno dantesco, il Professor Enrico Capodaglio afferma di essersi accinto a questa ardua impresa spinto da ragioni “letterarie, morali e spirituali” e dal bisogno di comprendere e far comprendere in profondità il capolavoro dell’Alighieri, seguendo le indicazioni di illustri critici, quali Giorgio Petrocchi, Natalino Sapegno, Anna Maria Chiavacci Leonardi ed Enrico Malato. Sulle orme di questi eminenti studiosi, l’autore ha firmato il suo impegnativo volume Poesia e Pensiero nella Commedia di Dante, edito da Metauro. I 34 Canti dell’Inferno vengono interpretati in altrettanti capitoli, illustrando la situazione in cui si muove il sommo poeta, il suo abbandono fiducioso alla guida di Virgilio, gli incontri con le anime dannate, le difficoltà materiali dell’arduo cammino intrapreso, i timori, le attese, le speranze che si affollano nell’animo del viaggiatore attraverso gli abissi infernali.

“Dante cammina fin dall’inizio, è l’animale umano, non lo scrivente seduto ma l’uomo incarnato che si muove fisicamente nel mondo, non un animo che si muove soltanto dentro di sé: è un’allegoria incarnata spiritualmente, vicina al sentimento cristiano dell’incarnazione”. Capodaglio accompagna il procedere dantesco tra “la perduta gente” partecipando con osservazioni in prima persona, mettendosi in gioco con richiami alla propria esperienza di docente, cittadino, letterato, a volte rimproverandosi per l’eccesso di partecipazione emotiva: “Sto fantasticando, lo so; … Ma allora mi domando; … Scopro ora, lo confesso; … Eh no, qui mi ribello, come ricordo feci da ragazzo; … Stanotte ho dormito male, con sogni di insuccesso umilianti”.

Parla il critico, ma anche l’uomo che, immerso nella lettura, diventa tutt’uno con essa, lasciando che penetri nei suoi sogni e permei le sue giornate. Consapevole che “in Dante c’è la ripresa, la reazione, la rigenerazione: è il maestro di vita che guidando se stesso guida anche noi”, e ammirando lo stile della Commedia ne viene travolto: “È un vortice di moti contrari, un’altalena rapinosa, un ottovolante di passioni, descritte in modo sciolto e senza enfasi”. Puntuale è anche la sua attenzione ai dati storici, così come affiorano tra le pagine del poema: vengono analizzati e puntualmente ricostruiti nel loro contesto temporale e ambientale gli episodi che hanno tragicamente coinvolto l’esistenza di Dante, costringendolo all’esilio. La lotta tra Cerchi e Donati, i vari protagonisti della vita politica di Firenze e dell’Italia tutta (Bonifacio VIII, Farinata degli Uberti, Jacopo Rusticucci, Filippo Argenti, Cavalcanti, Ciacco, Brunetto Latini ecc.), odi e amori del poeta vissuti intensamente. Ma poiché “la Commedia è sempre e soprattutto opera di poesia e di pensiero libero, nel grembo cristiano”, è il messaggio spirituale del poema a coinvolgerlo particolarmente, da credente convinto e fiducioso in un prosieguo del cammino umano nell’aldilà: “Qualcosa in me segretamente si rigenera, che nessun capolavoro del novecento sarebbe in grado di sanificare, affidato alla dura e sapiente psicoterapia dantesca: il nostro futuro in un’altra vita dipenderà da noi, dalla nostra condotta”.

L’inferno esiste veramente? si chiede Enrico Capodaglio. E risponde, in accordo con Urs von Balthasar, che spera di no. Ma ne giustifica il grande significato di ammonizione e sorveglianza, nel senso di una tutela e di una direttiva dell’agire umano: “Potenti bisogni collettivi, forze straordinarie che si muovono nelle anime collettive, intese in senso non letterale e metafisico, spingono a elaborare e diffondere credenze come questa dell’inferno, che è un’immensa carta assorbente dei dolori”. Per tali radicate motivazioni, così l’autore in quarta di copertina giustifica il suo oneroso lavoro di commento e interpretazione del poema: “Sono stato mosso dal bisogno di comprendere e far comprendere la Commedia, in questa ottica di convivenza tra fede poetica e fede religiosa, che si arricchiscono a vicenda, generando un mondo che percorro come fosse vero… al fine di condividerne i frutti anche con coloro che non hanno avuto ancora la fortuna di studiare in modo intimo e radicale l’opera dantesca”.

 

«SoloLibri», 12 ottobre 2025

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

AAVV, GEDANKEN SIND FREI!

AAVV, GEDANKEN SIND FREI!

 

 

Nel 1899 Gustav Mahler (1860-1911) pubblicò una raccolta di ventiquattro lieder sotto il titolo Des Knaben Wunderhorn (Il corno magico del fanciullo), i cui testi erano più o meno direttamente tratti da un ciclo di poesie e canti popolari curati all’inizio del secolo da Clemens Brentano e Achim von Arnim, i quali intendevano con quest’opera rendere omaggio alla tradizione poetica orale tedesca dal medioevo al XVIII secolo.

Nel secondo gruppo della raccolta mahleriana, l’ottava delle dodici composizioni per voce e orchestra si intitola Lied des Verfolgten im Turm (Canto del perseguitato nella torre), ed è un duetto in cui un prigioniero rivendica perentoriamente la libertà di pensiero, arrivando a rinunciare per essa all’amore della sua fidanzata, che gli risponde con una melodia di intenso lirismo, invitandolo a recedere dai suoi propositi battaglieri per tornare a godere delle bellezze della natura e del profondo sentimento che li lega. La prima strofa del lied è strutturata in otto versi, così modulati con voce roboante dal protagonista rinchiuso nella torre: “Die Gedanken sind frei, / Wer kann sie erraten? / Sie rauschen vorbei / Wie nächtliche Schatten. / Kein Mensch kann sie wissen, / Kein Jäger sie schießen; / Es bleibet dabei, / Die Gedanken sind frei” (“I pensieri sono liberi, / chi può indovinarli? / Passano di corsa / come ombre notturne. / Nessun uomo può conoscerli, / nessun cacciatore colpirli; / questo è certo: / i pensieri sono liberi”). Il ritornello Die gedanken sind frei (I pensieri sono liberi) viene ribadito dal prigioniero alla fine di ogni strofa, insieme all’orgogliosa constatazione del suo stato di recluso, ingiustamente perseguitato da un potere tiranno: “Penso cosa voglio e cosa mi piace / ma tutto in silenzio e come si conviene. / Quel che voglio e desidero nessuno lo può impedire, / questo è certo: i pensieri sono liberi! // … Se anche mi rinchiudessero in una buia galera / sarebbe un’azione inutile / perché i miei pensieri spezzano le sbarre / e i muri in due: i pensieri sono liberi!”

Mi è tornato alla mente questo lied alcune sere fa, ascoltando uno degli ospiti di un talk show televisivo chiedersi per quanto tempo potremo ancora pensare ed esprimerci apertamente e con indipendenza, senza venire sorvegliati, emendati e censurati in quello che diciamo e scriviamo dalle nuove tecnologie imperanti o da poteri più o meno occulti. Sono andata quindi a cercare informazioni sul testo di Mahler, scoprendo che si tratta di una canzone di protesta diffusa in fogli anonimi alla fine del ’700 nell’area alpina di lingua tedesca (Baviera, Austria, Svizzera tedesca, Südtirol). Venne musicata intorno al 1810, e stampata nella raccolta Lieder der Brienzer Mädchen a Berna, per essere poi pubblicata nel 1842 nella versione che conosciamo in Schlesische Volkslieder da August Heinrich Hoffman von Fallersleben. Il motivo centrale risale però a un periodo molto precedente al romanticismo, addirittura al Medioevo: già il poeta e cantore cortese Walther von der Vogelweide (ca.1170-1230) cantava Sind doch Gedanken frei, mentre il Minnesänger austriaco Dietmar von Aist gli faceva eco pochi anni dopo: Die Gedanken, die sind ledig frei. Il testo risulta reperibile in Freidank (Bemogenheit, 1229). Veniva cantata in altre tonalità, secondo diverse testimonianze, durante la rivolta contadina del 1524/25.

Ha attraversato da allora in poi tutti i momenti in cui in Germania il popolo si è opposto all’oppressione, dalla rivoluzione del 1848 alla resistenza al nazismo, che ne vietò la diffusione, pena il carcere: diventò comunque l’inno del movimento studentesco “Weisse Rose” (Rosa Bianca), che nel 1942/43 si ribellò a Hitler e fu soffocato nel sangue. La canzone è stata ripetutamente ripresa in momenti cruciali di lotta popolare e nelle manifestazioni contro la repressione nel corso di tutto il ’900. Il 9 settembre 1948, al culmine del blocco di Berlino, Ernst Reuter pronunciò un discorso davanti alle rovine del Reichstag, in cui fece appello ai “popoli del mondo” affinché non abbandonassero la città. Dopo questo discorso, la folla intonò spontaneamente Die Gedanken sind frei. Nel 1989, durante la rivoluzione pacifica nella RDT, la canzone fu suonata dai membri dell’Orchestra di Stato di Dresda sulla Theater Platz di Dresda, insieme a migliaia di dimostranti. Nel 1966, il cantante folk americano Pete Seeger ne registrò una versione inglese per il suo album Dangerous Songs. Molti altri artisti e gruppi (Dean Reed, Leonard Cohen, Christof Stahlin, KeinMenscH!, Nena, Evelyn Fischer, Lea) hanno esaltato la tradizione secolare del canto sovversivo. Il 10 dicembre 2010, i sostenitori dello scrittore Liu Xiaobo, incarcerato, hanno interpretato la canzone in inglese di fronte all’edificio in cui gli è stato conferito in contumacia il premio Nobel per la pace. In seguito all’attacco terroristico alla redazione della rivista francese Charlie Hebdo nel 2015, gli artisti alsaziani hanno utilizzato il testo per esprimere la loro resistenza all’intimidazione di matrice islamista.  Il 21 maggio 2017, a Francoforte sul Meno, si è tenuta una lettura di solidarietà per l’autore Deniz Yucel, imprigionato in Turchia, con l’esibizione canora di Jan Boehmermann. Il 15 febbraio 2019, il canto è stata eseguito in tedesco e francese durante la cerimonia funebre per Tomi Ungerer nella cattedrale di Strasburgo. Nel marzo 2019, è stato ripetuto da molti giovani durante diverse manifestazioni nell’ambito delle proteste contro la riforma del diritto d’autore dell’Unione Europea. Dal 2020, è stato riproposto frequentemente contro le misure di contenimento della pandemia di COVID-19.

Una lunga e combattiva storia, dunque, sta alla base di questo motto libertario e democratico, riportato in auge da Mahler, al quale va tuttora la mia gratitudine, perché in anni per me molto dolorosi – emotivamente e psichicamente – mi è venuto in soccorso con gli adagio delle sue sinfonie, e con i messaggi (angosciati, sì, ma anche ricchi di indignata ribellione) dei suoi lieder, Riascoltando adesso l’energica e inflessibile affermazione del suo perseguitato nella torre, sento il desiderio di unire la mia voce al coro: Gedanken sind frei, nella speranza che tali rimangano sempre.

 

 

Riferimenti:

 

 

«Gli Stati Generali», 12 ottobre 2025

 

 

 

Melodia e testi di Gedanken sind frei, da: Canzoni popolari della Slesia con melodie: Dalla bocca   del popolo di August Heinrich Hoffmann von Fallersleben , Ernst Heinrich Leopold Richter , p. 307; Pubblicato da Breitkopf & Härtel , 1842

 

Canzoni contro la guerra: https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=810

 

Alida Airaghi, https://www.glistatigenerali.com/cultura/letteratura/grinzing-lautobus-era-il-n-38/

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VALLORTIGARA

GIORGIO VALLORTIGARA, DESIDERARE – MARSILIO, VENEZIA 2025.

Non appare facilmente definibile l’ultimo libro pubblicato dal Prof. Vallortigara (e prima sua prova narrativa), che si muove con elegante disinvoltura tra i modelli del saggio e del romanzo.

Giorgio Vallortigara (Rovereto, 1959), neurobiologo noto a livello internazionale, autore di innumerevoli articoli scientifici e di molti volumi divulgativi di successo, oggi è Professore di Neuroscienze al Center for Mind/Brain Sciences dell’Università di Trento.

La trama di Desiderare (verbo declinato all’infinito, quasi a esprimere un auspicio non quantificabile o limitabile, oppure un invito imperioso…) si sviluppa su due binari, uno inserito nella contemporaneità, l’altro riportabile all’epoca vittoriana inglese. I luoghi che fanno da sfondo alle vicende narrate sono infatti Brighton, Londra, Cambridge, Trieste, Padova, Capri, Erice, Rovereto. Gli ambienti in cui si muovono i molti personaggi sono decisamente esclusivi: grandi ville padronali, istituti e università scientifiche d’élite, alberghi di lusso, feste in salotti prestigiosi, congressi selettivi. Come afferma a un certo punto il protagonista principale Itzhak, alter ego dell’autore: “Alla nostra età siamo autorizzati all’agio e all’indisciplina ideologica”. L’agio raccontato nel testo è innegabile; l’indisciplina ideologica, meglio qualificabile come incontinente curiosità intellettuale, è altrettanto reale. Infatti i campi del sapere che vengono affrontati, discussi e sezionati con affilatissimi strumenti esplorativi, spaziano da quelli più peculiarmente scientifici (biologia, genetica, medicina, astronomia, fisica, chimica, psicanalisi) ad altri più distesamente umanistici (arte, architettura, letteratura, filosofia, teologia), con un’elencazione davvero impressionante di figure illustri, di aneddoti curiosi e pettegolezzi, di titoli, brani in prosa e in versi riprodotti a suffragare le tesi esposte nei vari capitoli.

Anche lo stile della scrittura di Vallortigara evidenzia un gusto raffinato per la ricercatezza di sostantivi e attributi, talvolta desueti o addirittura arcaici, spessissimo inerenti a una terminologia specialistica di ambito scientifico. Il lettore avverte affiorare qua e là toni ironici e pungenti, mentre diffusa ovunque è la sensibilità attenta ai dettagli, colti nella descrizione di esterni/interni e di persone. Luci, colori, arredamenti sono tratteggiati con cura; le espressioni dei visi e le posture dei corpi vengono delineati con cruda esattezza. Stupisce, ad esempio, l’interessamento costante che l’autore rivolge alle dita dei suoi personaggi: lunghe e affusolate, oppure tozze e respingenti; a ventaglio, unghiute, appoggiate delicatamente alla fronte o al naso, inanellate, intrecciate tra di loro, o esploranti le intimità più seduttive.

Chi è quindi Itzhak, questo personaggio eclettico, colto, che agisce nei dialoghi, nei gesti, nei pensieri con una sicurezza invidiabile, e un’inscalfibile padronanza di sé? Nativo di Ferrara, si definisce uno storico della scienza, ma in realtà rivela competenze eccezionali non solo nell’indagine del sistema nervoso, della memoria, e della coscienza negli esseri viventi, ma in tutte le ramificazioni della cultura. È interessato, fisicamente e intellettualmente, a Sylvia (giovane ex-matematica passata allo studio dei computer e assunta in una società farmaceutica per occuparsi di sicurezza investigativa), con cui vive una sessualità coinvolgente e disimpegnata, sfuggente nella sua saltuarietà. Intorno a Itzhak ruotano altre figure: il vicentino Pietro Ongaro, professore espatriato in Inghilterra, concreto e graffiante; il grande scienziato Patrick de Gray, misterioso e arrogante, protetto dall’alone sibillino della madre Contessa, dalle inclinazioni e potenzialità insolite; l’ombra del geniale amico Vittorio, suicidatosi in circostanze oscure, di cui un millantatore sconosciuto aspira a fare le veci. Sarà compito del protagonista Itzhak smascherare quali simulazioni e inganni si celano nelle vite di chi lo circonda. Altro suo incombente impegno è la stesura di un romanzo riguardante la personalità fascinosa di Douglas Spalding, biologo britannico che nell’ 800 studiava il comportamento degli animali, vivendo nella lussuosa dimora di Lord John Amberley Russell, come amante ufficiale della di lui moglie Kate e precettore dei loro figli Frank, Rachel e Bertrand Russell. Spalding fu lo scopritore del fenomeno dell’imprinting, cioè dell’interazione tra apprendimento e istinto nel comportamento animale, ben prima del suo epigono Konrad Lorenz: entrambi mitici riferimenti degli interessi scientifici di Itzhak. Interessi che emergono in quasi ogni pagina del libro, ne costituiscono l’ossatura portante, spesso arrivando ad appannare la trama puramente narrativa.

Così i discorsi tra amici diventano colte e talvolta polemiche dissertazioni accademiche, mentre i comportamenti di api, topi, opossum, anguille, maialini, gabbiani, zecche, e in particolare di pulcini e galline vengono analizzati con meticolosità chirurgica (è opportuno ricordare a questo proposito i recenti volumi divulgativi di Giorgio Vallortigara, Cervello di gallina e I pulcini di Kant).

Gli esperimenti di laboratorio descritti anche nella loro crudezza – dissezioni, perforazioni del cranio, mutilazioni – risultano coinvolgenti e insieme inquietanti per la loro trasferibilità sugli umani. L’indagine scientifica viene costantemente applicata dall’autore a ogni fenomeno più o meno rilevante dell’esistenza: dalla passeggiata sul lungomare di cui si contano i passi alle varie fasi del trasporto amoroso, dall’ancheggiamento delle modelle nelle sfilate di moda alla magica sonorità di un violino, dal colore dei fiori in un parco ai fluidi trasmessi con il bacio.

“Dopo che ha raddrizzato le spalle, sulla schiena le si forma una curva sigmoidea che si allaccia al principio dei glutei”; “Lo guarda di sottecchi, le palpebre abbassate riducono le sclere a ellissoidi che cercano di metterlo a fuoco”; “La ghiandola tiroidea dev’essersi risvegliata nelle ultime settimane: ne riconosce la firma quando le sue risposte motorie, gli effetti, sono così veloci da precedere la consapevolezza degli stimoli che ne sono stati la causa”.

La compenetrazione tra invenzione narrativa e informazioni scientifiche è talmente intensa e vitalizzante, che appare in tutta la sua veridicità la frase che l’autore fa pronunciare a uno dei suoi personaggi: “La scienza è sempre stata un’attività riservata a pochi: noi guardiamo dall’alto in basso anche Dio… Per quelli come me fare lo scienziato non è un lavoro, ma una condizione dell’anima”.

Giusto suggello a un romanzo sapiente, impegnativo, decisamente originale anche e soprattutto nei suoi effetti imprevedibilmente spiazzanti.

 

«Gli Stati Generali», 9 ottobre 2025

RECENSIONI

FERRAZZOLI

MARCO FERRAZZOLI, RIDUZIONE DEL DANNO – GATTOMERLINO, ROMA 2025

Il volume che Marco Ferrazzoli ha da poco pubblicato per le edizioni romane Gattomerlino (Riduzione del danno. Rime, versi, distici ed epigrammi) si inserisce in una tradizione millenaria di letteratura satirica, comico-burlesca, realistica, dissacratoria, alternativa alla narrativa e alla poesia aulica, lirica, spirituale, intimistica, assertiva e convenzionale. A partire dal latino di Lucilio, Orazio, Marziale e Giovenale, attraverso i medievali Filippi, Angiolieri, Berni; dai rinascimentali (Ariosto, Tassoni, Folengo) ai settecenteschi e illuministi (Parini, Giusti); dai romantici e popolareschi dialettali  (Porta, Belli, Pascarella, Trilussa) fino alle espressioni novecentesche del futurismo (Farfa, Lucini, Folgore, Palazzeschi) per arrivare infine ai contemporanei Sanguineti, Giuliani, Maraini, Niccolai, Scialoja, Ingarrica, Petrolini, Flaiano, Marchesi, Eco,  tutta una linea ben marcata della nostra letteratura ha evidenziato una tendenza ironica e irriverente nei confronti non solo del malcostume politico e sociale, delle istituzioni e delle ideologie, ma anche dei canoni culturali e delle strutture comunicative più affermate e rispettate. Sulla scia di cotanta encomiabile produzione, Marco Ferrazzoli dedica 22 sferzanti capitoletti a commentare usanze e mancanze nazionali, in versicoli, epigrammi e poesie disinvoltamente zoppicanti e demenziali, utilizzando le tecniche retoriche più collaudate (giochi di parole, calembour, divertissement, anagrammi, rime, rimandi lessicali, onomatopee, assonanze-dissonanze, etimologie…), per creare parodie canzonatorie e sbeffeggiamenti in grado di suscitare nei lettori sconcerto o puro divertimento, riprovazione o sogghigno.

Nato a Roma nel 1964, giornalista professionista a lungo capo ufficio stampa del CNR di cui è ora dirigente tecnologo, Ferrazzoli è attualmente in comando alla Presidenza del Consiglio; insegna Comunicazione della conoscenza all’Università di Roma Tor Vergata e al Master di Comunicazione scientifica dell’Università di Parma, è autore di narrativa e di un imprecisato numero di articoli, saggi e lavori multimediali. “Si è messo a scrivere perché non sapeva né leggere né vivere”, dice di sé in apertura di volume, rincarando la dose di impietosa autoironia in diversi successivi bozzetti: Coerenza: “Com’ero allora così sono adesso / sono rimasto sempre lo stesso. / Per questo non posso / non darmi del fesso”; Torno a dormire: “Oddio, ho sbagliato / mi sono svegliato”.

I versi e gli epigrammi più incisivi e polemici stigmatizzano, con qualche nostalgia per il passato, comportamenti sociali stupidamente imitativi, abitudini-mode-linguaggi codificati e accettati supinamente. Ecco quindi Lessico misto: “Un tempo una persona / era allegra e simpatica, / oggi è solare e tonica”; Riduzione del danno: “Da qualche tempo per il Capodanno / si augura un nuovo anno sereno. / Come se la speranza tirasse il freno / come se ci contentassimo di meno, / una specie di riduzione del danno”; Tutto inutile: “Non ho mai fumato / ho bevuto poco / mangiato sempre sano / e fatto tanto sport. / Perché mai sono mort?”; Non luoghi: “Un tempo in ogni paese / trovavi piazze e chiese / cinema, teatri, case / scuole e municipio / caserma ed ospedale. / Oggi, l’unico centro / è quello commerciale”.

Ci sono poi divertenti parodie di fenomeni culturali, o pseudo-imitazioni letterarie: Quasi (a) modo: “Basta una cassetta / col coperchio di vetro / qualche seme / un pochino di terra. / Ed è subito serra”; Chiusura ermetica: “Esattamente nel momento / in cui mi aspergono d’incenso / “m’illumino d’immenso”; Alta quota: “In Zarathustra, Nietzsche dice / che l’uomo è una corda tesa / c’è chi fa il funambolo / e chi ci tiene la biancheria appesa”; Cortesie per recensori: “Se il pamphlet è facile / meglio dire agile, / se il tomo è faticoso / definirlo ponderoso”; No bel: “Lo danno a Fo /e a Bo no? Boh…”.

Si sorride di tutto, sempre con una punta di disillusione: guerra e pace, salute e malattia, religione e scienza, turismo e spettacolo, matrimonio e divorzio. A volte l’abilità linguistica di Ferrazzoli si esibisce in pregevoli scioglilingua, come in Rimestando: “Incassati scontrini scontati / incrociati scostanti contratti / incastrati costanti contatti / scostati scontrosi cretini / scansati crostini incrostati”, o in calembour: La domestica smemorata: “Lavò la mattina / e scivolò la sera: /c’era la cera”. Altre volte invece affiorano sconsolate meditazioni filosofeggianti: Basta, grazie: “Ogni giorno ha la sua pena qualcuno, però, più di una”; Il meglio è nemico del bene: “Si dice “passare a miglior vita” / ma in genere prolungare la peggiore / sarebbe la soluzione più gradita”; Non è quasi mai troppo tardi: “Infarto: letale ritardo / nell’arrivo al reparto”. Sempre spiazzante risulta lo scarto tra titolo e testo: Una strage: “Innocenti, attenti / che a Erode gli rode”; Fatti, non parole: “Padre perdona loro / perché non sanno / di cosa si fanno”.

Spietatezza, malignità? No certo, ma disincantata contrarietà, e un dileggio che difficilmente arriva a essere caustico sarcasmo. Persino nella dedica iniziale all’amata sorella che non c’è più, Marco Ferrazzoli riesce a fare dell’ironia su se stesso, pur di evitare la retorica: “A Daniela, che era buona il libro più cattivo (per ora) di suo fratello”.

 

«Gli Stati Generali», 1 ottobre 2025

 

 

 

 

 

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