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RECENSIONI

CELADA BALLANTI

ROBERTO CELADA BALLANTI – MEMORIA, AUTOBIOGRAFIA, ALTERITÀ

MIMESIS, MILANO 2024

 

Roberto Celada Ballanti, Professore Ordinario di Filosofia all’Università di Genova, ha pubblicato presso Mimesis il saggio Memoria, Autobiografia, Alterità nella collana diretta da Duccio Demetrio e Stefano Raimondi Quaderni di Anghiari, che raccoglie strumenti per la formazione, sia in campo autobiografico che biografico. Il testo è la rielaborazione di una conferenza tenuta il 29 settembre 2023 al 25° Festival dell’autobiografia organizzato dalla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Con il sottotitolo Dalla sapienza delle Muse all’infinito nulla dell’uomo contemporaneo, indaga in undici densi capitoli (corredati da un ricco apparato di note) in che modo il racconto autobiografico che recupera la memoria personale e collettiva abbia saputo e sappia intrecciare le linee di passato-presente-futuro, sprofondando nel tempo delle origini e risalendo all’oggi.

Già gli autori delle epigrafi introduttive al volume (Platone, Goethe, Blanchot, Pessoa) indicano quanto Celada Ballanti spazi nella sua ricerca dall’antichità al mondo attuale, dalla filosofia alla letteratura, prendendo in esame anche il mito, i testi religiosi e la storiografia classica.

Memoria, autobiografia e alterità si intrecciano indissolubilmente nel percorso storico e teoretico offerto dall’autore: perché autos-bios-graphein, scrivere della propria vita, è anche scrivere dell’heteron

– dell’altro –, che comunque interviene a incidere in ogni esistenza, modulandola, arricchendola, solcandola di “intermittenze, fratture, strappi, pieghe, interstizi di tenebra”. Siamo fatti del linguaggio che abbiamo ricevuto, della cultura ereditata, e delle esperienze man mano vissute: l’apporto del fuori da noi è innegabile, auto-biografia è in fondo sempre etero-biografia. A partire da questo assunto, Celada Ballanti ricompone le tracce della memoria culturale che ci ha forgiato, nel rapporto con il divino dell’universo greco ed ebraico-cristiano, con l’interiorità personale del primo cattolicesimo, con gli avvenimenti storici antichi e contemporanei, con la problematica relazionalità affettiva dell’oggi, nella volontà di dare “senso al non-senso della nostra opacità originaria, per trasformare il caos in cosmo”.

Le Muse, figlie di Mnemosyne dea della memoria, sono divinità della voce, del racconto e del mythos, che secondo Esiodo narra “ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu”, il tempo eterno delle origini: la comparsa delle Muse significa quindi la nascita della parola, del sogno, del ricordo, del canto, al di là delle barriere temporali. Il legame tra divino e umano viene espresso attraverso di loro nella poesia, mediatrice tra cielo e terra, rivelazione del mistero e rapporto con l’alterità. Da qui, dal canto delle Muse è iniziato un sapere dell’altro che si è prolungato nella scrittura, nella filosofia e nella teologia, propiziando l’avvento dell’autobiografia come conoscenza di sé. Un’esplorazione che tuttavia non è mai limpida e lineare, ma include spazi di oscurità, di non detto e non dicibile, di silenzio e di segreto impronunciabile. Solo la parola poetica è in grado di schiudere la notte e illuminarla, senza imporsi, sottraendosi al senso nella propria chiara innocenza, come suggerisce Celan: “La poésie ne s’impose plus, elle s’expose”. La parola del poeta ispirata dalle Muse è parola originaria che riporta all’essenza del dire, smarrito nei linguaggi quotidiani, futili e ridondanti: nella sua natura magico-religiosa la poesia svela il mistero dell’indecifrabile, facendolo accadere. Per questo il canto delle Muse inquieta, perché richiama a un’essenzialità che rivela l’assenza di significato del parlare consueto, abusato. L’evocazione dell’origine divina e misteriosa della parola, con il richiamo a un’alterità indistruttibile, rimane intatta anche nella scrittura autobiografica, quando un autore scandagliando incontra l’altro, quando sollecitando un ricordo schiude l’abisso del suo “continente interiore”, e ne svela il segreto.

Al canto delle Muse, trasmesso oralmente, è conseguito con uguale desiderio di sconfinamento il sapere dei filosofi greci, comunicato utilizzando la scrittura alfabetica: ricerca della verità, spiegazione razionale di ciò che nel mito veniva esperito emotivamente, poeticamente. Mito e filosofia sono i primi due cardini su cui si radica l’esperienza comunicativa dell’autobiografia. Il terzo fondamento che occorre citare sono i testi sacri. Troviamo in Abramo, visitato dalla voce di Dio, e nella protesta sofferente di Giobbe, l’antecedente biblico delle Confessioni di Agostino: confessione come uscita da sé e dalla propria ferita (“domanda, grido, lamento, invocazione”), e rivelazione dell’altro. Con le Confessioni agostiniane nasce la scrittura autobiografica che conosciamo, siglata anche da Montaigne e Rousseau, in cui il soggetto che racconta fa del suo io una singolarità storica, vicenda inserita nel divenire temporale. Pur conservando tracce del pensiero pagano e cristiano antecedente, qui la novità assoluta consiste nella saldatura attuata tra universale e singolare nella parola confessante, che assume dignità filosofica e teologica perché redenta dall’incarnazione di Cristo, trasformante l’orizzontalità della situazione umana nella verticalità del rapporto con Dio.

Agostino confessa a Dio ciò che Dio sa già da sempre di lui, testimoniando l’evento della grazia e l’impossibilità della padronanza di sé, in una pratica di spoliazione che lo invera e ricapitola in una verità più grande, poiché è Dio che lo agisce e conosce nella sua interiorità più intima (“interior intimo meo et superior summo meo”). Così il soggetto agostiniano si identifica solo perdendosi in un’apertura infinita di sé, destrutturandosi e svuotandosi, arrendendosi a un’alterità che lo eccede e a cui si consegna nella sua povertà e “indecenza” di singolo, però salvata dall’intervento divino.

Sarà Montaigne nei suoi Saggi a scrivere la prima autobiografia secolarizzata della modernità, in cui il Dio cristiano evapora dall’orizzonte umano, permettendo all’uomo di circoscrivere il suo spazio come esperienza, mentre crolla la dipendenza da modelli e autorità costituite e si apre la strada alle rivoluzionarie teorie scientifiche di Cartesio, Galileo, Newton. La denuncia delle guerre di religione, delle crudeltà compiute in nome della fede in cui non c’è alcuna traccia di divinità, fa crollare ogni credenza nelle metafisiche, ontologie e teologie del passato, sostituite dal dubbio radicale nel guidare la ragione. In conseguenza di ciò, si universalizza l’idea del singolare, del ritorno dell’uomo in se stesso, fuori dalla scena del sacro: “Ogni uomo porta la forma intera dell’umana condizione”.

Anche Rousseau ribadisce nelle sue Confessioni la consapevolezza della propria unicità di individuo, deciso a emanciparsi dai pregiudizi sociali che lo soffocano in un’autodifesa polemica e indignata contro le contraddizioni e la sopraffazione delle istituzioni. La sua autobiografia diventa un atto relazionale in cui l’altro è chiamato come semplice testimone: espropriato della propria verità interiore, Rousseau esplora l’abisso della sua anima, relegando al rango di spettatori e non più interlocutori gli altri e Dio stesso. La sua esperienza diretta della degradazione umana e delle contraddizioni sociali lo rende accusatore impietoso dell’ingiustizia umana, proprio attraverso la ricostruzione autobiografica, ripresa ossessivamente anche in opere posteriori nel cui inestricabile labirinto finirà per smarrirsi.

Roberto Celada Bellanti conclude la sua disamina della scrittura di sé affrontando la Lettera al padre di Franz Kafka. Si tratta di una lettera mai inviata a un padre “spettrale”, come quello di Amleto, un padre assente che non può ricevere la confessione né può perdonare. L’asimmetria all’interno del colloquio è totale: il figlio si autoaccusa dando voce al padre, facendosi parlare dal padre; è sopraffatto, invaso, svuotato da lui: “Nei miei scritti parlavo di Te, sfogavo sulla carta quello che non potevo sfogare sul Tuo petto”. La figura paterna si trasfigura nel Tribunale del Processo e nella Legge del Castello. Anche la lettera al padre, dunque, è una scrittura dell’altro: autobiografia come etero-biografia. Scrive Celada Ballanti: “L’ingombro paterno è totale. Ma la fuoriuscita da sé, l’estasi, qui, non è verso il canto delle Muse o il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, e poi il Dio cristiano, non è la grazia di Agostino, e neppure sono gli altri contro cui si scaglia l’indignazione di Rousseau, ma è verso il Nulla. È un’estasi, quella kafkiana, del Nulla”. È lo stesso nihil che domina il nichilismo contemporaneo, il niente di senso e di valore della creatura di fronte alla trascendenza senza volto e senza nome che la domina e la schiaccia. Tuttavia Kafka riesce a trasfigurare il niente di sé attraverso la scrittura letteraria, percorrendo un cammino di ricerca verso un altrove che non è da nessuna parte. Sarà appunto l’esigenza di scrivere a diventare autonoma rispetto alla soggettività personale, nel suo essere altro dalla biografia.

La scrittura autobiografica è quindi parola naufragante, racconto dell’incontro impossibile con l’io, fantasma, spettro inconoscibile che faceva dire a Goethe nel Faust: “Definisci te stesso, è già un enigma”. Si scrive per questo, alla fine: per trasfigurare e trasfigurarsi.

 

«Gli Stati Generali», 10 giugno 2025

 

 

RECENSIONI

VAUDO-FRANCIOSI

 VAUDO-FRANCIOSI, PRIMA MORTE – IGNAZIO PAPPALARDO EDITORE – ROMA 2025

Asia Vaudo e Allegra Franciosi, docenti di FreeFromChains, un’associazione che realizza laboratori di scrittura creativa nelle carceri, hanno pubblicato per i tipi delle edizioni romane Ignazio Pappalardo un volume intitolato Prima morte. Da anni le due giovani insegnanti esperimentano, con la collaborazione della poetessa Zingonia Zingone, cammini di poesia negli istituiti penitenziari di Rebibbia, Regina Coeli e Poggioreale, e dal loro impegno culturale e umanitario è nata l’iniziativa di raccogliere le testimonianze del percorso interiore compiuto dai detenuti, trasformativo e arricchente in termini personali e intellettuali.

Il poeta Davide Rondoni nella prefazione al volume si chiede cosa abbia portato Asia e Allegra, dopo la laurea e un’intensa esperienza spirituale, a dedicare le loro giornate a quest’opera di formazione e riscatto sociale, “a contatto con le storie e le sofferenze più buie … portando con sé il Cantico delle creature di San Francesco e altre poesie”. Entrambe le autrici rispondono manifestando la stessa acuta sensibilità e generosità nel confrontarsi con dolori e rabbie dei reclusi: “Il carcere è uno scrigno. È il luogo delle cose perdute, di un’umanità che arranca, ferita, e che s’aggrappa a te con violenta tenerezza”, “Dalla cattedra dell’aula in cui faccio lezione a Rebibbia si vedono un pino e uno squarcio abbastanza ampio di cielo… Mi domando osservando quello stralcio di mondo come ci si debba sentire a essere esclusi da tanta bellezza, da tutta quella luce, e poterla semplicemente ammirare sapendo di non possederne neanche un frammento”.

Infatti Emilio, uno dei partecipanti ai corsi di letteratura, confessa di sentirsi umiliato e affranto nella detenzione: “È il peggior carcere del mondo, questo di Regina Coeli. Non c’è un campetto per giocare, una palestra. Siamo qui come in uno zoo. Siamo tutti degli uccelli. Vengono le persone da fuori e fanno guarda questo, guarda quello! Degli uccelli”.

Asia e Allegra vengono anche loro da fuori, da un mondo privilegiato e libero, ma a motivarle nell’ insegnamento non è la curiosità o un vago buonismo, il compiacimento cattolico di chi si sa “dalla parte giusta” ed è animato da ansia di conversione. No. Il loro è un lavoro convinto, e senza falsi pietismi, di vicinanza e solidarietà, di passione per la cultura, con la volontà di diffonderla soprattutto là dove potrebbe sembrare superflua.

Gli allievi (perlopiù giovani, tra cui molti stranieri), pur gravati da sensi di colpa e sconforto, da rancore e desiderio di rivalsa e riscatto, partecipano attivamente e con entusiasmo alla loro proposta educativa. Che si concretizza attraverso lezioni di arte (da Bernini a Picasso) e di letteratura (da Seneca a Alda Merini) accompagnate dalla produzione di testi in prima persona, sia in prosa che in versi. Prendendo ispirazione dal Cantico delle creature di San Francesco, splendido inno a Dio e alla natura di cui quest’anno si celebra l’VIII centenario, sono nate le composizioni dei reclusi sull’aria, sull’acqua, sul fuoco, sul sole e la luna. Ne scrivono Claudio (“Io sogno di veleggiare / in una gemma di mare vivo / e gli occhi mi si riempiono / d’oro fuso nel cielo”), Vincenzo (“Cerco il sole cocente / in inverno”), Roberto (“Fuoco che accende amore / fuoco che purifica / anche il vuoto”).

Altro argomento che attira l’attenzione dei detenuti, stimolandone la fantasia e il bisogno di contatto fisico, è l’amore. Ne parla con struggimento Antonio (“Guardavamo insieme le stelle / parlavamo del niente / … ero sete che cercava la tua sete / ci mescolavamo come l’acqua / col fuoco”), e gli fa eco Domenico (“I tuoi occhi – la mia strada / I tuoi orecchi – il mio richiamo / Il tuo naso – il mio profumo / Il tuo volto – il mio amore”). Asia racconta il proprio turbamento quando avverte gli sguardi maschili che la attraversano, esibendo “l’insopportabilità di un desiderio castrato, quello della carne, che muore ogni giorno dentro una gabbia”.

Altrettanto pesante da sopportare per le giovani insegnanti è la nostalgia dei loro studenti per la vita di familiari e amici che scorre escludendoli da ogni bellezza, affetto, possibilità di cambiamento: e allora si cerca di alleviare rimpianto e angoscia discutendo di tanti argomenti diversi, incoraggiando la libera espressione sulle paure, i sogni, le speranze di ognuno.

Il libro, illustrato dal pittore Roberto Pavoni, si conclude con l’intervento di Maurice Bignami, che negli anni di piombo fu condannato per la militanza nell’organizzazione terroristica Prima Linea, divenendo poi promotore del Movimento Dissociazione Politica: nei suoi vent’anni di carcere (la “prima morte”), ha conosciuto la conversione a Cristo e la rinascita nella libertà offerta dal perdono.

Il volume di Asia Vaudo e Allegra Franciosi verrà presentato a Roma Sabato 14 giugno (ore 16:15, Basilica Santa Maria Ausiliatrice al Tuscolano) e il 30 giugno (ore 19:30, Chiesa Nuova di Santa Maria in Vallicella), con la partecipazione delle autrici e importanti relatori.

 

«SoloLibri, 8 giugno 2025»

RECENSIONI

MOSER

SABINA MOSER, UNA SANTITÀ GENIALE – LE LETTERE, FIRENZE 2024

Sabina Moser (1961), di formazione filosofica e teologica, studia da tempo la figura di Simone Weil, su cui ha pubblicato diversi saggi e volumi. Questo suo ultimo testo, uscito da Le Lettere con prefazione di Marco Vannini, esplora in maniera finora inedita il legame che ha unito la filosofa ebrea francese (1911-1934) a San Francesco, accostando la ricerca severamente razionale di lei, originale pensatrice laica novecentesca, alla fede immediata e limpida del frate di Assisi vissuto sette secoli prima: in entrambi ritroviamo infatti la stessa volontà di adesione alla parola di Gesù e la scelta di un cammino esistenziale di purificazione e riduzione all’essenzialità della vita.

Weil aveva un approccio illuminista alla storia delle religioni, ed era fortemente polemica nei confronti dell’autorità ecclesiastica, Francesco aderiva totalmente al dettato delle Scritture, alla rivelazione cristiana e alla sacralità della Chiesa. Ma pur non conoscendo nello specifico il movimento francescano, Weil aveva provato relativamente a esso una forte attrazione emotiva durante un viaggio in Italia, e così ne scriveva: “Nel 1937 ho trascorso ad Assisi due giorni meravigliosi. Là, mentre ero sola nella piccola cappella romanica del secolo XII di Santa Maria degli Angeli, incomparabile miracolo di purezza, in cui san Francesco ha pregato tanto spesso, qualcosa più forte di me mi ha costretta, per la prima volta in vita mia, a inginocchiarmi”.

Francesco come alter Christus le sembrava incarnare il massimo esempio di vita evangelica, caratterizzato non solo dal rapporto interiore tra l’anima e Dio, ma anche dal profondo desiderio di rinnovare positivamente la comunità umana, attraverso la condivisione degli stessi ideali trasformativi, che nella sua introduzione il Professor Vannini identifica in povertà, umiltà, obbedienza, amicizia fraterna, accettazione della sofferenza, rinuncia a sé stessi, apertura gioiosa alla bellezza del mondo.

Sabina Moser nei cinque capitoli di Una santità geniale (accompagnati da un’appendice con accurate note biografiche, letture di brani originali e un’essenziale bibliografia attinente alle figure dei due protagonisti) sottolinea i tratti caratteriali, intellettuali e di fede che accomunavano o distinguevano Weil e Francesco, entrambi segnati da un’uguale e coerente dedizione alla parola evangelica, seppure nelle sostanziali differenze. Tra queste, prendendo a prestito il titolo di un noto testo della filosofa francese – La Pesanteur et la Grâce –, la gravità che contraddistingueva la ricerca approfondita, colta e tormentata di lei, discordava dalla leggerezza e dalla “perfetta letizia” attraverso cui il santo di Assisi rispondeva al richiamo divino.

La comune aspirazione alla spiritualità che li induceva a una spoliazione dei beni materiali aveva in loro modalità contrapposte: se Francesco aveva scelto di abbracciare positivamente una vita povera e peregrina attraverso una decisione personale e volontaria, Simone riteneva giusto attendere che fossero circostanze costrittive a ridurla in indigenza, abbandonandosi in tal modo alla sola volontà di Dio e rinunciando a imporre il proprio desiderio egoista, convinta che “dire io è mentire”.

Così infatti si esprimeva a questo riguardo: “Sono stata conquistata da san Francesco fin da quando ne ebbi conoscenza… Ho sempre creduto e sperato che la sorte un giorno mi avrebbe spinta a forza in quella condizione di vagabondaggio e mendicità che egli accettò liberamente… Sin dall’adolescenza ambivo al matrimonio di San Francesco con la povertà, ma sentivo che non dovevo essere io a darmi la pena di sposarla, perché un giorno lei stessa sarebbe venuta a prendermi a viva forza”.

Inoltre, non li animava un’uguale visione della fede: se l’assisiate coglieva l’aspetto personale della Provvidenza, Weil ne sottolineava l’impersonalismo, inteso come accettazione della volontà di Dio subìta e non intenzionalmente scelta, in ciò proponendo un’interpretazione stoica della rivelazione cristiana, basata sull’umiltà e la totale obbedienza, in grado di svuotare pensieri e azioni, sottraendoli a ogni imposizione soggettiva. Un’ulteriore difformità caratterizzava le loro esperienze di vita: Francesco diffidava della cultura e della scienza, ritenendole pericolosamente seduttrici e manipolatorie, lontane dalla semplicità e dallo spirito di carità. Simone al contrario era permeata di ogni sapere, conosceva a perfezione diverse lingue moderne e antiche, compreso il sanscrito; era consapevole delle ultime conquiste della fisica e della matematica; penetrava con acume critico sia le sacre scritture sia la filosofia, l’arte e la letteratura greca, con una predilezione particolare verso l’Iliade, e non le era estranea la sapienza orientale.

Cosa tuttavia accomunava queste due figure portatrici di una spiritualità luminosa e radicale, nonostante le evidenti diversità storiche, culturali e caratteriali?

Sabina Moser individua numerosi elementi che permettono di rilevare una consonanza effettiva nel loro agire e pensare, aldilà dei secoli di storia che li dividevano. Entrambi morti in giovane età (Francesco a 44, Simone a 34 anni) consunti dall’inedia, dai sacrifici e dalle malattie, erano attratti dal miracolo della bellezza, ovunque essa si esprimesse. Il primo aveva trovato in gioventù nell’ideale cavalleresco un modello di aristocratica cortesia, liberalità e coraggio disinteressato, che dopo la conversione mantenne depurandolo da ogni materialità nella difesa ammirata della magnificenza del creato e di tutte le creature. Simone era affascinata dalla purezza e armonia espressa dall’arte classica, risultato della perfetta concordanza tra l’elemento sensibile e quello ideale, in grado di volgere l’anima verso l’alto: “La bellezza è veramente, come dice Platone, una incarnazione di Dio”.

Altro fattore che metteva in relazione i due era la comune, profonda disposizione all’imitazione di Cristo, esempio di povertà, umiltà, pazienza, giustizia, compassione e carità cui conformare la propria vita. Un Christus patiens, della Passione e della Crocefissione, definito dalla kénosis (cfr. Fil 2,6-11), cioè dallo svuotamento di ogni forza, potenza e imperiosità, che Francesco intendeva come positivo atto di amore verso le creature, mentre Simone in maniera più radicale indicava come mortificazione, nullificazione dell’io: “per diventare qualcosa di divino, non ho bisogno di uscire dalla mia miseria, vi debbo solo aderire… È al fondo estremo della mia miseria che io tocco Dio”.

Moser si sofferma sul complesso concetto weiliano di de-creazione, processo grazie al quale il nostro io, sparendo, distruggendosi, astenendosi dall’affermarsi nel mondo, scorge un dio che per amore ha abdicato egli stesso alla forza, rinunciando all’onnipotenza, e facendosi uomo ha accettato di scomparire per fare posto a noi creature: “Dio non ha potuto creare che nascondendosi. Altrimenti non ci sarebbe che lui”.

Francesco e Simone hanno entrambi compreso di essere stati chiamati a trasformare, nel segno dell’autentica fede cristiana, il modo di vivere della società in cui erano immersi, rinnovandola alla radice.  La loro santità è consistita nell’operare affinché il mondo fosse prossimo al regno di Dio, promuovendo sentimenti di fratellanza, amicizia e pace, aprendosi alla grazia e alla trascendenza.

Rileggerli oggi significa constatare la necessità di un cristianesimo completamente rinnovato, come auspicava Weil: “Oggi non è sufficiente essere santo: è necessaria la santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch’essa senza precedenti […] Un nuovo tipo di santità è qualcosa che scaturisce d’improvviso, una invenzione […] Esige più genio di quanto sia occorso ad Archimede per inventare la meccanica e la fisica: una santità nuova è un’invenzione più prodigiosa […] Il mondo ha bisogno di santi che abbiano genio come una città dove infierisce la peste ha bisogno di medici”.

 

 

RECENSIONI

NEWMAN

JOHN HENRY NEWMAN, POETA – JACA BOOK, MILANO 2010

Di John Henry Newman (Londra 1801-Birmingham, 1890), cardinale, teologo e apologista cattolico, si mantiene oggi sensibile memoria non solo nel mondo ecclesiastico per la sua autorità dottrinale, ma più in generale in ambito letterario come raffinato poeta e saggista.

Presbitero anglicano e docente universitario, in gioventù fu figura trainante del Movimento di Oxford, che intendeva spiegare razionalmente i dogmi e la fede cristiana. In seguito a una profonda crisi personale e dopo gravi lutti familiari, si convertì al cattolicesimo e venne ordinato sacerdote nel 1845, quindi elevato al cardinalato nel 1879, beatificato nel 2010 da papa Benedetto XVI, e infine proclamato santo il 13 ottobre 2019 da papa Francesco. Newman fu osteggiato da una parte della gerarchia cattolica coeva per la sua convinzione che anche i laici dovessero partecipare alla vita della Chiesa, e per avere espresso opinioni contrarie al dogma dell’infallibilità pontificia, ma ebbe comunque un’influenza profonda nel rinnovamento del cattolicesimo (al punto da venire considerato tra i “padri assenti” del Concilio Vaticano II), e nella conciliazione con la dottrina anglosassone.

In un’epoca come quella del tardo ’800 segnata da grandi scoperte scientifiche e tecnologiche, e dall’avanzare delle filosofie positivistiche, materialiste e di politiche liberali, Newman rinvigorì uno spiritualismo di stampo umanistico, basato sul valore della coscienza come fondamento dell’azione e dell’impegno del credente (il suo motto cardinalizio Cor ad cor loquitur – il cuore parla al cuore -, esprimeva appunto l’influenza che un rapporto personale può esercitare nel convertire gli uomini dallo scetticismo alla fede). La sua meditazione teorica ruotò intorno alla relazione tra fede e ragione, e venne ribadita in tutte le opere omiletiche e teologiche (Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana, Sermoni all’Università di Oxford, Grammatica dell’assenso), come in quelle più prettamente letterarie.

Il volume Poeta, pubblicato da Jaca Book nel 2010 con la cura di Luca Orbetello, offre ai lettori una scelta antologica dei suoi versi religiosi, oltre al poemetto Il sogno di Geronzio e al Saggio sulla poesia scritto nel 1828, con notevole irruenza giovanile, in commento alla Poetica di Aristotele. In questo testo, molto vicino alla sensibilità romantica di Shelley e alla sua Defence of Poetry del 1821, Newman sottolineava il valore essenziale, nell’espressione artistica, del sentimento interiore, della personalità morale, dell’immaginazione e della spontaneità, esibendo una totale avversione per il tecnicismo compositivo, l’eccesso di criticismo e lo sfoggio culturale colpevoli di soffocare ogni ispirazione poetica.

La selezione di versi proposta nel volume indica chiaramente a quali intendimenti si attenesse l’autore, già a partire dalle prime prove edite nella raccolta Memorial of the Past, del 1832, e in seguito nel fondamentale contributo all’antologia oxfordiana Lyra apostolica del 1836: una costante ispirazione biblica intrecciata alla finalità di combattere lo spirito liberale del suo tempo, ribadendo i valori della fede e della trascendenza, attraverso la celebrazione ispirata di alcuni modelli da glorificare, come san Filippo nel cui ordine aveva preso i voti, la Madonna o i simboli delle varie festività religiose. La sua composizione più nota, adottata anche per l’uso liturgico della Chiesa Anglicana, scritta nel 1833 durante un tempestoso viaggio in mare, assume i toni della preghiera popolare, quasi inteneriti nel fiducioso affidarsi alla guida divina: “Lead, Kindly Light, / amidst th’encircling gloom, / Lead Thou me on! / The night is dark, / and I am far from home, / Lead Thou me on!”

Decisamente originale è infine il poemetto The Dream of Gerontius, composto nel 1864, in cui la contemplazione della morte dà origine a una rappresentazione dell’invisibile e dell’ultraterreno di grande efficacia drammatica, riuscendo a fondere l’aspetto religioso con la meditazione filosofica. Il poeta descrive i sentimenti di un’anima che nel momento del trapasso, quando si interroga sull’ esistenza trascorsa e su ciò che l’aspetta, rimpiangendo gli affetti che lascia e la bellezza della vita terrena e temendo il giudizio divino, oscilla tra timore e speranza, nel suo viaggio attraverso l’universo, scortata da schiere di angeli. L’orrore di un “informe abisso, vuoto, senza confini” che possa avvolgerla, inghiottendola nel nulla, è contrastato dalla preghiera e dalla fede nell’immortalità promessa dalle Scritture: “Sollevati, o mia anima languente, e fatti forte; / ed in questo tratto svanente / di vita e di pensiero che ancor dev’essere percorso / preparati all’incontro col tuo Dio”. Con profondo acume psicologico, Newman descrive la vertigine del distacco, il senso di perdita delle cose amate, la tentazione della negazione e il richiamo dell’abiura, per poi approdare alla serenità dell’abbandono a una realtà diversa, alla leggerezza della libertà dai vincoli fisici, all’immedesimazione con lo Spirito. Contesa tra le potenze del Bene e del Male, l’anima infine accetta con umiltà il giudizio divino, disponendosi alla purificazione di un periodo di penitenza prima di arrivare alla beatitudine luminosa della visione di Dio, “nella verità del giorno sempiterno”.

Tutta la poesia di John Henry Newman è cristianamente nutrita dalla fede nella redenzione, ma anche dalla consapevolezza della caducità e fragilità umana: fa tesoro degli insegnamenti della Chiesa così come della letteratura e della filosofia mondiale, dai tragici greci a Dante, da Shakespeare a Pascal. Pur esprimendosi nel rigore intellettuale della fedeltà alla tradizione scolastica, sa sollevarsi a potenti immagini di creazione fantastica e visionaria, che la proiettano oltre i confini ottocenteschi in cui è cronologicamente situata.

 

«La Poesia e lo Spirito», 29 maggio 2025

RECENSIONI

ABELARDO ED ELOISA

ABELARDO ED ELOISA, HO AMATO SOLO TE – GARZANTI, MILANO 2022

L’editore Garzanti ha pubblicato nell’economicissima collana I piccoli grandi libri alcuni brani dell’epistolario di Abelardo ed Eloisa, con il titolo Ho amato solo te. Si tratta del Prologo dello stesso Abelardo, e delle quattro lettere conclusive dei due amanti più famosi della letteratura medievale, che oggi riposano l’uno accanto all’altro nello storico cimitero Père-Lachaise di Parigi.

Abelardo, chierico, teologo e ammirato filosofo docente all’Università di Notre Dame, era nato in Bretagna nel 1079; Eloisa, più giovane di venticinque anni, era una sua bella, sensibile e intellettualmente dotata allieva, nipote del canonico della cattedrale Maestro Fulberto, il quale l’aveva affidata al famoso logico perché ne approfondisse la preparazione culturale.

La passione subito sorta tra i due (“Mi bastò ascoltarti una volta. La tua parola mi penetrò come fiamma luminosa e compatta, incendiando il mio cuore”, scriveva lei; “Aveva tutto ciò che più seduce gli amanti”, commentava lui), nutrita da comuni interessi culturali e religiosi, ma soprattutto da un’intensa attrazione sensuale, li indusse presto a intrecciare una relazione clandestina, gravida di dolorose conseguenze per entrambi. Scoperti e costretti a un matrimonio riparatore, dopo che Eloisa aveva dato alla luce un bambino, subirono entrambi la vendetta della famiglia di lei e del mondo ecclesiastico. Abelardo, aggredito nel sonno da due sicari ed evirato, si ritirò nel monastero di Saint-Denis, Eloisa prese il velo nel convento di Argenteuil. In seguito il filosofo, osteggiato dai monaci benedettini per le sue tesi ritenute eretiche, fondò presso Troyes una comunità di studio e preghiera cui diede il nome di Paracleto, finendo poi i suoi giorni nel monastero di Cluny, mentre Eloisa ereditò dall’amante la scuola da lui fondata, divenendone stimata badessa.

Il Prologo con cui si apre il volumetto garzantiano è tratto dalla lettera Historia calamitatum mearum che Abelardo scrisse a un amico, descrivendo con toni sinceramente pentiti la sua esplicita intenzione di sedurre la giovane: “Tutto preso dall’amore per questa fanciulla, studiai il modo di avvicinarla e intrecciare con lei rapporti quotidiani e familiari, per rendermela amica, in modo da indurla più facilmente a cedermi”. Fattosi ospitare nella stessa casa dello zio di Eloisa, ebbe da lui il consenso a occuparsi dell’istruzione di lei, e addirittura di “piegarla con minacce e percosse, nel caso non fossero bastate le lusinghe e le carezze… come se egli affidasse una tenera agnella a un lupo affamato”. Così l’attrazione fisica tra i due ebbe il sopravvento su ogni interesse intellettuale: “Aprivamo i libri, ma si parlava più d’amore che di filosofia: erano più i baci che le spiegazioni. Le mie mani correvano più spesso al suo seno che ai libri. L’amore attirava i nostri occhi più spesso di quanto la lettura non li dirigesse sui libri. E talvolta, per meglio stornare qualsiasi sospetto, io arrivavo al punto di percuoterla… Nel nostro ardore, passammo per tutte le fasi dell’amore: e se in amore si può inventare qualcosa di nuovo, noi lo inventammo. E il piacere che provavamo era tanto più grande, perché noi non lo avevamo mai conosciuto, e non ci stancavamo mai. D’altra parte, a mano a mano che mi lasciavo portare dalla passione, avevo sempre meno tempo per i miei studi di filosofia e trascuravo anche la scuola”. Tralasciati gli studi e le pubblicazioni, Abelardo iniziò a dedicare alla giovane amante appassionate poesie d’amore che divennero presto di dominio pubblico tra gli allievi e i colleghi della sua università e nell’ambiente clericale. Il Prologo si sofferma a lungo sulle vicende che portarono i due amanti al matrimonio e poi alla separazione forzata, vissuta da loro in maniera diversa: più straziata da nostalgia e rimpianto da parte di lei, più pentita e obbediente ai voti religiosi nelle considerazioni di lui.

Nelle due lettere di Eloisa riportate in Ho amato solo te, la sua dipendenza sentimentale dal maestro e amante risulta evidente in ogni espressione carica di affetto, apprensione, risentimento, sensualità, già nell’intestazione, e poi nell’affannoso tentativo di rinnovare la comunicazione affettiva, e nei malinconici saluti finali: “Al suo signore, anzi padre, al suo sposo, anzi fratello; la sua ancella, anzi figlia, la sua sposa, anzi sorella”, “A colui che è tutto per lei dopo Cristo, colei che è tutta per lui in Cristo”, e ancora “Carissimo”, “Mio unico bene”.  Il timore, tutto femminile, di perderlo: “quello che soprattutto mi preoccupa è il saperti tuttora in pericolo”, “pensa di quanto sei debitore a me: e allora con più affetto dà a questa donna che è solo tua quello che dovresti dare a tutte le tue fedeli insieme”. Il ricattante ricordo: “sai bene che io ti ho amato sempre di un amore senza fine. Tu sai, mio caro – e lo sanno tutti –, quel che ho perduto perdendo te… questa tua povera Eloisa che è in preda all’incertezza e che si sente quasi morire a causa del lungo dolore patito… quanto maggiore è la causa del mio dolore, tanto più efficaci devono essere anche i rimedi, e devi essere tu a porgermeli e non altri, perché tu solo, tu che sei la causa del mio dolore, tu solo puoi aiutarmi. Come solo tu puoi farmi soffrire, così solo tu puoi rasserenarmi e consolarmi. È un tuo dovere, perché io ti ho sempre ubbidito con fervore, ho sempre fatto quello che tu mi dicevi di fare, tant’è vero che, non potendo farti torto in alcun modo, non ho esitato, a un tuo ordine, neppure a perdere per sempre me stessa… In te ho cercato e amato solo te, Dio mi è testimone; ho desiderato te, non i tuoi beni o le tue ricchezze. Non ti ho chiesto patti nuziali né dote alcuna; non ho voluto soddisfare la mia volontà e il mio piacere, ma te e il tuo piacere, lo sai bene. E anche se il nome di sposa può parere più santo e più decoroso, per me fu sempre più dolce quello di amica, perfino quello di amante, se non ti offendi, o di sgualdrina. Appunto perché, quanto più mi umiliavo davanti a te, tanto più credevo di piacerti, e di recare minor danno alla tua gloria”. L’encomio celebrativo: “Quale regina, quale donna potente non invidiava le mie gioie e il mio letto? Tu avevi due cose in particolare che ti rendevano subito caro a qualunque donna: la grazia dei tuoi versi e il fascino dei tuoi canti, due cose che di solito i filosofi non hanno… e io divenni oggetto di invidia agli occhi di molte donne”. La confessione erotica: “Per me, in verità, i piaceri dell’amore che insieme abbiamo conosciuto sono stati tanto dolci che non posso né odiarli né dimenticarli. Dovunque vada, li ho sempre davanti agli occhi e il desiderio che suscitano non mi lascia mai. Anche quando dormo le loro fallaci immagini mi perseguitano. Perfino durante la santa Messa, quando la preghiera dovrebbe essere più pura, i turpi fantasmi di quelle gioie si impadroniscono della mia anima e io non posso far altro che abbandonarmi a essi e non riesco nemmeno a pregare. Invece di piangere pentita per quello che ho fatto, sospiro, rimpiangendo quel che ho perduto. E davanti agli occhi ho sempre non solo te e quello che abbiamo fatto, ma perfino i luoghi precisi dove ci siamo amati, i vari momenti in cui siamo stati insieme, e mi sembra di essere lì con te a fare le stesse cose, e neppure quando dormo riesco a calmarmi”. L’accusa esplicita: “sarò costretta a dire io quello che penso o meglio quello che ormai tutti sospettano: i sensi e non l’affetto ti hanno legato a me; la tua era attrazione fisica, non amore, e quando il desiderio si è spento, con esso sono scomparse anche tutte le manifestazioni d’affetto con cui cercavi di mascherare le tue vere intenzioni… Perché tu sai bene che ho accettato di sacrificare la mia giovinezza nell’austerità della vita monastica non per vocazione ma solo per ubbidire a un tuo preciso ordine: e ora giudica pure tu a che cosa mi è servito tutto ciò, se tu non mi degni neanche di una parola”.

Così le rispondeva Abelardo, solenne e sempre compreso nella sua funzione religiosa, suffragando ogni affermazione con l’autorità dei testi sacri o la profondità teorica dei filosofi antichi, insistendo con toni di rammarico e deplorazione sul sentimento che li aveva uniti nella colpa e nella meritata punizione, incoraggiando la donna alla continenza e alla castità, senza nascondere un supponente fastidio e un contrariato rimprovero per le insistenze di lei: “A Eloisa, sorella carissima in Cristo, Abelardo, suo fratello in Cristo… sorella un tempo tanto cara nel mondo, ma ora ben più cara in Cristo: il salterio certo ti gioverà moltissimo per offrire al Signore un perpetuo sacrificio di preghiere in espiazione dei nostri numerosi e gravi peccati… ti sei abbandonata ancora una volta alle tue solite recriminazioni nei confronti di Dio per il modo in cui siamo stati indotti a ritirarci in monastero e per la crudele vendetta di cui sono stato vittima… Non dire mai più cose del genere, ti prego, ed evita lamentele come queste che non sono certo dettate da spirito di carità… Non è certo il caso che stia a ricordarti tutte le cose sconce e vergognose, tutti gli atti immorali, tutte le sozzure che hanno preceduto il nostro matrimonio… Tu sai a quale turpe schiavitù aveva asservito i nostri corpi la mia sfrenata passione: non c’era alcuna forma di decenza e alcun rispetto per Dio, neppure nel giorno della sua morte in croce e neanche in occasione delle più grandi solennità, che potesse impedirmi di rotolarmi in quel pantano… Non mi rimane, infine, che affrontare quella tua ormai vecchia ma sempre attuale lamentela per cui, riguardo al nostro ingresso in convento invece di ringraziare Dio, come sarebbe giusto, hai la sfrontatezza di accusarlo. Fa’ appello al tuo sentimento religioso per non essere separata da me anche quando andrò con Dio, e pensa che il fine ultimo di tutto questo è la felicità eterna, e che i frutti di questa felicità saranno più dolci se noi li gusteremo insieme… Dio, nella sua misericordia, si è servito della sua giustizia per rimetterci sulla retta via, ha saputo trarre il bene anche dal male, ha sfruttato per giusti fini anche la nostra empietà”. Terminava la sua ultima lettera inviando a Eloisa una lunga preghiera da lui stesso composta perché chiedesse il perdono divino per entrambi, e così chiudendo devotamente il loro rapporto: “Tu, Signore, ci hai uniti, tu ci hai separati, quando hai voluto e come hai voluto. Ora, Signore, conduci misericordiosamente a termine ciò che non meno misericordiosamente hai iniziato, e unisci a te per sempre in cielo coloro che una volta hai separato qui nel mondo, tu nostra speranza, nostra eredità, nostra attesa, nostra consolazione, o Signore che sei benedetto in tutti i secoli, Amen. Salute in Cristo, sposa di Cristo, in Cristo salute e vita, Amen”.

Su questo appassionato e appassionante epistolario si sono pronunciati molti studiosi, esprimendo perplessità sulla reale autenticità soprattutto delle prime due lettere di Eloisa, e addirittura attribuendo a lei un’età più adulta di quella dell’amante. Rimane comunque inalterata la fondamentale testimonianza di un rapporto erotico e intellettuale la cui fama ha varcato un millennio di storia, e ancora richiama pellegrini da tutto il mondo alla tomba che, secondo la leggenda, li conserva abbracciati in un’unica bara per l’eternità.

 

«Gli Stati Generali», 15 maggio 2025

RECENSIONI

JEBREAL

RULA JEBREAL, GENOCIDIO – PIEMME, MILANO 2025

“Dopo una vita trascorsa a interrogarmi, personalmente e professionalmente, su come il mondo abbia potuto permettere catastrofi come l’Olocausto, ho trovato la risposta tra le macerie nella mia terra martoriata, a migliaia di chilometri di distanza dai campi di sterminio europei. Scrivo questo libro perché il genocidio di Gaza mi ha cambiata nel profondo. Ha rivelato il vuoto morale e politico di un mondo che riduce l’umanità a una gerarchia di morte. Scrivo affinché nessuno, in futuro, possa dire di non sapere o che non poteva sapere… Scrivo perché le mie parole possano aiutare a impedire che il genocidio di Gaza diventi una dottrina da esportare nel resto del mondo, un modello da applicare ogni volta che il potere decida di avere ragione della ragione, minacciando la sicurezza e l’esistenza dell’umanità stessa”.

Con queste parole Rula Jebreal (Haifa 1973), giornalista esperta di politica internazionale, cresciuta a Gerusalemme e residente da anni negli Stati Uniti, introduce il suo volume Genocidio. Quello che rimane di noi nell’era neo-imperiale, in cui ricostruisce la storia della popolazione palestinese, soffermandosi particolarmente sulle vicende politiche che hanno portato alla creazione dello stato di Israele e ai successivi conflitti con la popolazione arabo-musulmana, fino alla recente e tragica invasione della striscia di Gaza.

Il resoconto puntuale delle sofferenze della sua gente viene misurato in cifre: oltre 61.000 morti a marzo del 2025 – secondo il calcolo al ribasso delle Nazioni Unite –, di cui il 75% donne e bambini con ventunomila dispersi, dai corpi disfatti e irriconoscibili; la distruzione del 94% delle strutture sanitarie di Gaza con centinaia di attacchi mirati, che hanno ucciso 1.200 operatori sanitari; più di duecento giornalisti assassinati; la devastazione del 90% del territorio: scuole, ospedali, palazzi, infrastrutture, coltivazioni; la carenza assoluta di cibo e acqua che ha provocato denutrizione e malattie croniche; un elenco tristissimo di torture, violenze sessuali, omicidi efferati… Un vero e proprio massacro che l’Occidente democratico guidato dagli Stati Uniti mistifica e minimizza, giustificando l’ingiustificabile, mettendo in atto una macchina di propaganda più letale delle stesse armi utilizzate, “mentre il mondo continua a girarsi dall’altra parte”.

Rula Jebreal ripercorre la storia di questo genocidio a partire dalla Dichiarazione di Balfour del 1917 con cui l’impero britannico accordava al movimento sionista la creazione di un “focolare nazionale”, decidendo delle sorti dei popoli nel territorio palestinese. “Il potere politico e militare ebraico si è affermato, in Palestina, attraverso un rapporto violento con i nativi arabi, tanto musulmani quanto cristiani, un rapporto di disprezzo e volontà di schiacciamento, nella consapevolezza piena di stare occupando un territorio in spregio dei suoi abitanti”. Contemporaneamente, i governi europei utilizzavano il sionismo per giustificare la loro volontà di espellere gli ebrei dai propri Paesi. Per i palestinesi iniziava nei decenni successivi la Nakba, la catastrofe, un progetto di discriminazione, cancellazione, riduzione progressiva dei diritti e della presenza fisica dei palestinesi in Palestina, con la loro sostituzione etnica permanente.

Perché tale programmata occupazione delle terre palestinesi si può correttamente definire “genocidio”? Nel novembre del 2024, Amnesty International ha pubblicato un rapporto sull’intento genocida della politica militare israeliana, che ha intenzionalmente violato il diritto internazionale umanitario. Concetto ribadito da Papa Francesco, dal Segretario delle Nazioni Unite António Guterres, dall’ex ministro degli Esteri europeo Josep Borrell, dai governi di Spagna, Irlanda, Sudafrica e Colombia, dalla Corte internazionale di giustizia, dalle Ong Human Rights Watch, Oxfam, Save the Children, Medici senza frontiere. E coraggiosamente documentato da Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani, nel suo report ONU del 2024 Anatomia di un genocidio, in cui accusava Israele di volere la distruzione materiale, morale e culturale del popolo palestinese, attraverso la negazione della sua dignità umana. Tali denunce sottolineano il rischio che, se lasciato impunito, questo genocidio possa rappresentare un precedente storico da esportare altrove, facendo “saltare l’ordine democratico, verso nuove giungle dominate dalla legge del più forte”.

Il genocidio di Gaza ha radici lontane, nelle dichiarazioni violentemente razziste e antidemocratiche dei dirigenti politici e militari di Israele, a partire da Theodor Herzl per arrivare a David Ben-Gurion, e poi a Golda Meir, Moshe Dayan, Menachem Begin, Badshir Gemayel, Ariel Sharon, fino all’attuale rappresentanza parlamentare guidata da Benjamin Netanyahu, che per decenni hanno portato avanti un progetto coloniale di sostituzione etnica per garantire la supremazia ebraica e costituire una “Grande Israele” esclusivamente per gli ebrei. “Oggi l’obiettivo di Israele è di cancellare la Palestina – una Palestina senza i palestinesi – con la complicità e il sostegno esplicito del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha legittimato il progetto di pulizia etnica dell’estrema destra israeliana, che il premier Netanyahu ha portato al potere, consolidando l’occupazione illegale, legalizzando la discriminazione razziale ed etnica del nostro popolo”.

Rula Jebreal ripercorre la storia della sua famiglia, dai nonni che dovettero lasciare la loro abitazione ad Haifa, ridotti a povertà estrema, al padre rifugiato con la famiglia a Gerusalemme est, a lei costretta a vivere con le sorelline in un orfanatrofio fino all’espatrio in America, dove dal 2018 insegna all’Università di Miami affrontando i temi della propaganda e del genocidio. Con coraggio e ostinazione ha creato una Fondazione, insieme a giuristi internazionali, diplomatici statunitensi e israeliani, per denunciare la strage in atto a Gaza sia al Congresso americano sia al Parlamento Europeo di Bruxelles, dove si è desolatamente imbattuta nell’indifferente scaricabarile della Vicepresidente e Deputata del PD Pina Picierno.

La voce dell’autrice si fa particolarmente commossa quando si sofferma sugli atti di eroica resistenza degli abitanti di Gaza (medici, operatori umanitari, giornalisti, avvocati e giudici, artisti), fornendo una puntuale documentazione del loro coraggioso operare. Infine enuncia tutte le iniziative legali che alcuni organismi politici mondiali hanno svolto e continuano a svolgere in appoggio alla popolazione palestinese (il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, il Consiglio per i diritti umani, la Corte internazionale di giustizia…), denunciando le potenze occidentali che esportano tecnologie di morte, trasgrediscono all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra che vieta i trasferimenti forzati individuali o di massa, e negano l’apartheid, l’occupazione illegale e l’assedio paralizzante messo in atto da Israele a Gaza e in Cisgiordania.

Così infine conclude la sua drammatica e angosciante testimonianza: “La situazione non fa che peggiorare giorno dopo giorno, e la mia disperazione cresce. Siamo evidentemente alle soglie della soluzione finale per il mio popolo… Ma la nostra determinazione è superiore al dolore, è più forte dell’oppressione che grava su di noi da cinquantotto anni”.

 

«Odissea», 13 maggio 2025

INTERVISTE

SEVERINI

                              Paola Severini e la poesia

Intervista alla conduttrice radiotelevisiva e giornalista Paola Severini, attiva nella difesa dei diritti umani, sul suo particolare rapporto con la parola dei poeti.


Paola Severini (Roma 1956), giornalista, saggista, ricercatrice universitaria, conduttrice e
produttrice radiofonica, televisiva e cinematografica, è una nota attivista per i diritti umani.
Laureata in Sociologia, nel 1996 ha fondato la Cooperativa Superangeli poi trasformatasi in
Superangeli srl che edita l’agenzia Angelipress.com (nata 25 anni fa); è segretario generale del
Comitato Internazionale Viva Toscanini e coordina l’Archivio Storico Piero Melograni. Grazie al
suo continuo impegno, alle attività svolte nei confronti degli Enti di Terzo Settore e alla sua lunga
esperienza nel mondo cattolico, è considerata una dei massimi esponenti del terzo settore in Italia, e
una delle prime giornaliste in Italia esperta in comunicazione sociale, avendo fondato in questo
ambito già nel 1990 l’Agenzia Paneuropa. Collabora a diversi quotidiani (QN, Messaggero,
Avvenire, Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore). In Rai attualmente cura per la radio la trasmissione
bisettimanale La sfida della solidarietà e per la televisione il programma O anche no sulla disabilità
da lei ideato. Registra le puntate delle sue trasmissioni radiofoniche e televisive quattro volte alla
settimana, con una media di duecento all’anno, per un totale di circa duemila trasmissioni sui temi
del Sociale, dei Diritti dell’uomo, della Disabilità, delle Minoranze religiose ed etniche. Ha curato
approfondimenti sulle guerre del Kosovo, del Ruanda, del Libano, della Yugoslavia, dell’Ucraina,
del Kurdistan, conflitti che ha vissuto recandosi personalmente in loco dal 1988 ad oggi.
Sposata una prima volta con Antonio Guidi, politico e neurologo da cui ha avuto tre figli, nel 2007
si è sposata con Piero Melograni, scomparso nel 2012.
Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti: Premio Marisa Bellisario nel 1989 per il lavoro sulla
salute della donna italiana in gravidanza; Premio Diego Fabbri nel 2001 per la una serie di
biografie, realizzata per Rai International; Microfono d’argento per la rubrica radiofonica Punto
d’incontro; Premio Saint Vincent di Giornalismo per la direzione giornalistica dei portali Internet
sul sociale; Medaglia d’Oro del Presidente della Repubblica nel 2011 per la direzione dell’Agenzia
giornalistica Angelipress.
Tra le sue produzioni e attività radiofoniche e televisive:
Passioni d’amore – RAI International – 2001; Un popolo di Poeti – RAI – 1995; Testimoni del
nostro secolo – RAI – 1996-1998; Le Bugie della Storia – Rete 4 [co-produttrice, 2005]; La Sfida del
Federalismo Solidale – in onda dal 2010 su Radio RAI GR Parlamento; La Sfida della Solidarietà –
in onda su Rai GR Parlamento; No Profit – in onda dal 2011 su Radio RAI GR Parlamento; L’Italia
è un paese fondato sulle nonne – RAI – 2013; Miss Sarajevo – RAI – 2018; Il Giorno della Libertà –
RAI 3 – 2019; O anche no – RAI 2/RAI 3 – 2019-in corso; Insieme con…la Rai per il Sociale – RAI
1 – 2020; Stravinco per la Vita e O anche no dedicato alle Paralimpiadi e ai diritti fondamentali – Rai2 – 2021/2024
Tra le sue pubblicazioni:
Manuale d’informazione sull’handicap, editore “Temi di vita italiana” 1992 (Presidenza del
Consiglio dei Ministri); Ersilio Tonini Il grande comunicatore, edizioni San Paolo e poi Minerva
2013; Le mogli della Repubblica, Baldini& Castoldi Dalai 2006, Nuova edizione 2008 Marsilio;
Manuale dei Diritti Fondamentali e Desiderabili, a cura di, Oscar Mondadori 2013; O Anche No.
Da vicino nessuno è normale, Castelvecchi Edizioni, 2024.

 

O anche no. Da vicino nessuno è normale - Paola Severini Melograni - copertina

● Gentile Dottoressa Severini, lei può vantare un’intensissima attività culturale coniugata a
un encomiabile e proficuo impegno sociale, che le ha meritato importanti riconoscimenti non solo a livello nazionale. In che maniera l’ambiente familiare, la formazione scolastica,
l’educazione al cattolicesimo hanno contribuito a creare il suo progetto di vita e di lavoro?

L’ambiente familiare, soprattutto l’esempio di mio padre che è stato un medico di
profonda fede cattolica e uomo generoso nei confronti dei più fragili, la scuola paritaria
frequentata dalle suore di Santa Maria degli Angeli fino alle terza media, quindi
l’educazione al cattolicesimo sono stati determinanti per il mio progetto di vita e di lavoro.

● Quali sono state le personalità letterarie, filosofiche e spirituali che più hanno segnato la
sua maturazione intellettuale? E quali gli incontri umani fondamentali nella costruzione
del suo profilo personale?

Poichè mi sono sposata a diciassette anni con una persona disabile che svolgeva il
lavoro di medico e attivista dei diritti fondamentali ho potuto conoscere il mondo dei
movimenti dei leader e dei fondatori di quello che sarebbe stato chiamato Terzo Settore:
ho conosciuto quindi Don Pierino Gelmini, Don Oreste Benzi, Madre Teresa di Calcutta,
Andrea Riccardi, Ernesto Oliviero, Chiara Lubich, Don Albino Bizzotto (nel
mondo cattolico) e molte personalità importanti nel mondo laico che si occupavano di
diritti fondamentali come Vincenzo Muccioli che ha fondato San Patrignano, Mario
Tomassini, l’uomo che insieme a Franco Basaglia ha cambiato la condizione dei malati di
mente in Italia ed è riuscito a realizzare e promuovere una legge fondamentale come
quella della chiusura dei manicomi. Queste persone sono soltanto alcuni di coloro che io
ho avuto il privilegio di poter frequentare.

 

● Nel 1995 ha ideato e condotto il primo programma tematico sulla poesia contemporanea
mai realizzato nel nostro Paese: Un popolo di poeti per Video-Sapere RAI (oggi Rai Cultura), andato in onda sulla terza rete della televisione di Stato e replicato per addirittura
due decenni. Quali motivazioni l’hanno spinta a ideare queste trasmissioni, e quali tra i
poeti da lei incontrati l’hanno emozionata maggiormente?

Uno dei miei professori all’Università degli studi di Urbino è stato Umberto Piersanti.
Il professor Piersanti è tra i maggiori poeti viventi italiani, è stato grazie a lui che ho
potuto ideare un popolo di poeti che mi permesso di conoscere da Alda Merini a Attilio
Bertolucci, da Dario Bellezza a Patrizia Valduga insomma tutti i poeti italiani ancora
viventi negli anni Novanta. É molto difficile se non impossibile dichiarare una preferenza:
sono stati tutti incontri straordinariamente emozionanti. Se dovessi però davvero essere
costretta a scegliere, il poeta del mio cuore è proprio il mio Maestro Piersanti: la mia
poesia preferita è L’anima. Eccola :
Io non avevo mai capito
da dove l’anima viene tra gli spini
ma l’anima è piccola, fatta d’aria,
passa tra gli spini e non si graffia

● Legge sempre poesia? Preferisce i classici o i contemporanei, gli italiani o gli stranieri?

Sì leggo sempre poesia italiana e straniera: tra gli stranieri ho presentato in Italia il
lavoro del nostro contemporaneo tedesco Durs Grünbein e ho avuto in televisione anche (ed è stata la prima volta) Mariangela Gualtieri. Credo che ci sia una grande fioritura, anzi
una primavera della poesia italiana soprattutto dopo l’epidemia di Covid. Il periodo
terribile che sta passando il mondo e le due guerre che abbiamo alle porte di casa nostra
stimolano e fanno si che la poesia contemporanea conosca una grande fioritura.

● Nel programma “O anche no” da lei curato su Rai 3, le è capitato di confrontarsi con
esperienze di poesia singole o collettive espresse dal mondo delle disabilità e della
marginalità sociale?

Sì, certamente ed è ogni volta un grande dono. Mi permetto di ricordare una scrittrice, che ha raccontato la sua esperienza personale in modo magistrale ed alcuni brani sono vere e proprie poesie: Ada d’Adamo.

INTERVISTE

ODISSEA

Intervista alla redazione di “Odissea”, fieramente pacifista

La copertina di un numero della rivista Odissea, diretta da Angelo Gaccione

Intervista ad Angelo Gaccione, fondatore e direttore della Rivista Odissea.

 

 

Da quanti anni esce la rivista Odissea, in che formato e con quale scadenza?

Angelo Gaccione: “Odissea” esce dal 2003, sono oramai 22 anni di vita. Per i primi dieci anni è uscito in formato tabloid e in edizione cartacea; un bimestrale colto, elegante e dalla bella testata azzurra. Poteva contare su decine e decine di rubriche e una compagine di collaboratori molto ampia e prestigiosa, diffusa in tutta Italia e non solo. Dal 2013 con i festeggiamenti del decennale e un incontro pubblico presso la Sala del Grechetto della Biblioteca Sormani di Milano in cui sono intervenute personalità come i filosofi Fulvio Papi, Roberta De Monticelli, Gabriele Scaramuzza, il sociologo Nando Dalla Chiesa, il saggista Giovanni Bianchi, collaboratori come Grazia Livi, Giorgio Colombo, Morando Morandini, Arturo Schwarz e tanti altri, si è decisi di passare in Rete. Da quel momento “Odissea” ha assunto un carattere di vero e proprio quotidiano.

 

Su quanti collaboratori e quanti lettori può contare?

Si deve tener conto che “Odissea”, fungendo da voce pubblica per tutto il variegato mondo dei senza voce (comitati, associazioni, lavoratori, collettivi, sindacati di base, circoli culturali, gruppi musicali, gallerie d’arte, istituzioni intellettuali dalle diverse specie: musei, case editrici, conservatori, e via enumerando) ha una rete di lettori molto vasta. A questo va assommata la galassia dei movimenti (pacifisti, ambientalisti, di difesa della legalità, della tutela del patrimonio architettonico, dei beni comuni, del contrasto alle mafie, della cura del territorio, della solidarietà, dell’antifascismo, dei diritti, delle donne, delle minoranze, ecc.), del dissenso, dell’impegno sociale e culturale, ma anche dei tanti senza partito che condividono le nostre prese di posizioni contro le discriminazioni e le ingiustizie. La società civile è ben rappresentata da “Odissea”. Tantissimi i collaboratori, e tantissimi gli intellettuali e i letterati che supportano, con il loro impegno e la loro intelligenza, il giornale.

 

Soprattutto nell’ultimo periodo la vostra pubblicazione si è schierata coraggiosamente contro il riarmo e ogni politica di aggressione militare. Fate riferimento a qualche partito o organizzazione politica in particolare, e da quale pubblico ottenete più attenzione e solidarietà (studenti, professionisti, intellettuali, cattolici, militanti di sinistra?)

 

“Odissea” sin dal suo nascere si è schierata contro guerre e militarismo: su questo non abbiamo fatto sconti a nessuno. Consapevoli che militarismo e guerra rappresentano due aberrazioni storiche che hanno prodotto le tragedie più gravi del Novecento e stanno portando il mondo verso l’apocalisse nucleare. Il giornale non ha mai nascoste le sue simpatie libertarie e per questo non ha mai operato censure; sulle sue pagine si confrontano uomini di cultura, intellettuali, associazioni e comitati fra i più diversi, in piena autonomia e libertà. Un coro di voci che come ebbe a dire il filosofo Fulvio Papi, trova il suo spazio in un luogo che ha rimesso al centro la moralità, l’etica pubblica. Come è riportato sotto la testata, ora di colore rosso per distinguere il passaggio dal cartaceo alla Rete (da Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel primo editoriale), cerchiamo di essere coerenti con le nostre idee e di non tradirle, come fanno spesso e volentieri i partiti ufficiali, e di tener fede al monito di Robert Musil: “Nessuna grande cultura può trovarsi in un rapporto obliquo con la verità”. Questa è la nostra forza e l’autorità morale che i lettori ci riconoscono.

 

Come ritenete di poter intervenire in maniera incisiva nel mobilitare l’opinione pubblica nei riguardi delle recenti posizioni europee sulle spese militari?

Quasi quotidianamente scriviamo di questi argomenti mettendo in guardia sui pericoli che l’Europa corre, e quotidianamente inviamo i link degli articoli a politici e a rappresentanti delle istituzioni. Ma “Odissea” chiama i suoi lettori anche a un impegno pubblico personale in occasioni di mobilitazioni come quelle recentemente svoltesi a Roma, Milano e in tante altre città, contro il riarmo e per un ruolo pacifico e diplomatico delle istituzioni europee. Molti di noi vi hanno preso parte attiva fisicamente e vi contribuiscono con idee e scritti anche radicali. Molti si stanno interrogando sul concetto di difesa in epoca nucleare, e non siamo più soli a parlare di neutralità, di alleanze militari pericolose, di spesa di riarmo criminale che affama i popoli e crea tensioni internazionali.

La mia Milano - Angelo Gaccione - copertinaContrappunti

Quale posizione assume Odissea sui conflitti in Ucraina e in Medio Oriente?

Già prima che il contrasto russo-ucraino degenerasse in guerra aperta, ci siamo schierati per una soluzione diplomatica da attivare subito. Abbiamo consigliato parlamentari e Governo di farsi parte attiva affinché l’Europa svolgesse questo ruolo di mediazione pacifica per evitare un conflitto che avrebbe provocato morti, lutti, rovine e profughi, come è poi avvenuto. Siamo scesi in piazza in una manifestazione oceanica a Milano, abbiamo creato un Comitato Nazionale di artisti, poeti, cittadini di buona volontà raccogliendo firme e pubblicando appelli e testimonianze su “Odissea”. Abbiamo organizzato una lettura poetica e di testimonianze in Piazza della Scala, fra le tante, quelle arrivate dal fisico Carlo Rovelli e dallo storico Franco Cardini. Abbiamo portato tutte quelle firme al prefetto di Milano che le ha trasmesse, con i punti da noi individuati per una risoluzione pacifica, al Parlamento, al Governo, al presidente della Repubblica. Suggerivamo la città di Assisi, città mondiale per la Pace, come luogo fisico delle trattative; coinvolgendo le tre massime autorità spirituali mondiali delle tre religioni monoteiste. Il papa, aveva espresso le nostre stesse idee e i frati di Assisi sarebbero stati disponibilissimi, così come l’amministrazione pubblica di quella città. La nostra bellissima nazione avrebbe potuto svolgere un ruolo straordinario che ci avrebbe resi tutti orgogliosi, se avesse intrapreso questa strada favorendo le trattative ai massimi livelli politici ad Assisi. Abbiamo ripetuto fino alla noia che era meglio un anno di negoziati che un giorno di guerra; meglio una pace ingiusta di una guerra giusta, perché il tempo avrebbe risanato i contrasti e attutiti gli odi. Invece restarono sordi e iniziarono a soffiare sul fuoco inviando armi e contribuendo al massacro. Allora si era ancora in tempo; ora la deriva è il riarmo e la follia di volere mandare truppe europee sul teatro di guerra dopo tre anni di morte. Sul Medioriente ci siamo espressi e ospitiamo tuttora scritti provenienti anche da quella terra martoriata. Abbiamo sempre sostenuto i comitati palestinesi in Italia e le iniziative di piazza, oltre a pubblicare le locandine degli incontri e delle proteste pubbliche. Lo riteniamo un dovere morale oltre che umano. Sono gli indifferenti che non sopportiamo, perché come ebbe a scrivere Gramsci: “L’indifferenza è il peso morto della storia”.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 30 aprile 2025

 

 

 

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RECENSIONI

ANEDDA

ANTONELLA ANEDDA, TRE STAZIONI – LIETOCOLLE, FALOPPIO  1997

Per le eleganti edizioni di Lietocolle è uscita in questi giorni una plaquette di Antonella Anedda, Tre stazioni, (pp. 17, L. 15.000) che raccoglie, scandite appunto in tre tempi, riflessioni (o aforismi, o brevi pezzi di prosa d’arte, o illuminazioni, o meditazioni: come insomma ciascun lettore decida di chiamare queste poche pagine), contrappuntate da suggestive immagini fotografiche. Anedda è ottima poetessa, che predilige toni densi e una forte tensione emotiva, quasi che ogni parola andasse scavata e incisa, prima di farsi visione, nella sofferenza stessa dell’essere, dell’esserci.

Le sue “stazioni” sembrano rifarsi proprio alle stazioni, contrite e gravide di ogni colpa del mondo, di una Via Crucis universale, in cui crocefissa è, più che il Cristo, l’umanità stessa, vittima sacrificale, agnello predestinato a immolarsi di fronte a un male cosmico, eterno e indistruttibile.

Da questa premessa, è evidente che a un io personale l’autrice antepone il noi collettivo, perché questa dimensione metafisica, più che sociale o storica, del dolore, investe proprio tutto e tutti, ogni materia creata. La nostra condanna è comunque anche la nostra salvezza, il soffrire è ciò che ci libera e santifica: a benedirci sarà una “scure pesante”, a vincere sarà “la povertà della roccia”, la rinuncia mite, la schiena piegata sotto il peso dei peccati umani.

Il topos dell’innocente che paga per tutti, di colui che si danna per salvare altri, trova una sua espressione in Francesco, in Cristo nel Getsemani, nell’asino da soma e in ci si fa sapientemente, coscientemente vittima per vincere spiritualmente il male attraverso la propria sconfitta fisica, materiale.

Ecco allora che tutto risponde a un dualismo (morte-vita, peccato-redenzione, offesa-perdono, violenza-dolcezza): da una parte c’è il rancore, la colpa, la paura, la fuga. Dall’altra “la grazia di un punto scuro e perfetto”, intesa come capacità di resistere al male (non compierlo, non accoglierlo, dilazionarlo nel tempo, scegliere “la lentezza che può salvare una vita”). Tuttavia, basta? Basta “non fare” per salvarsi e salvare il mondo? Non è anche la rinuncia, l’astensione, “l’illusione di ogni viltà”?

“Farsi mangiare per ultimi” è “un’astuzia inutile”, se a vincere comunque è il male. Antonella Anedda sembra ripercorrere, ma con meno ottimismo, la via indicata da Bonhoeffer, scissa tra resistenza e resa, con la speranza che la vittoria del male non sia eterna, ma venga condannata dal suo stesso limitarsi nella dimensione del tempo: “perché è vero; il bene è profondo, ma il bene è fragile. A differenza del male sfuma lentamente tra i secoli, a differenza del male ha nostalgia anche di una sola creatura”.

E che sia questa sola creatura, umilissima e “in bilico”, a riuscire a sconfiggere la sofferenza, ce lo auguriamo in molti, se lo augura l’autrice che ci ridà in alcune righe la stessa ansia di redenzione, perdono e salvezza, che abbiamo imparato a conoscere nelle preghiere dei primi cristiani, o in penetranti pagine di mistica.

 

© Riproduzione riservata       «Il Manifesto», 16 gennaio 1997

 

RECENSIONI

FROMM

ERICH FROMM, I COSIDDETTI SANI – MIMESIS, MILANO 2023

Il volume di Erich Fromm (Francoforte 1900-Muralto 1980) I cosiddetti sani, pubblicato da Mimesis due anni fa, risulta dall’assemblaggio di diversi saggi, riuniti in una prima edizione inglese nel 1991: documenti che rivelano una disposizione ideologica datata, soprattutto nell’ingenuo utopismo che li anima, ma comunque ancora di grande impatto emotivo, e di importanza testimoniale sullo sviluppo coerente delle convinzioni politiche ed etiche dell’autore.

Fromm, filosofo e psicanalista ebreo tedesco emigrato negli USA e in Messico per sfuggire al nazismo e infine morto in Svizzera, negli anni ’70-80 era arrivato a imporsi internazionalmente con due titoli divenuti leggendari: L’arte di amare e Avere o essere. Aveva contribuito ad allargare la dottrina psicanalitica dall’indagine sulla psiche individuale a quella sull’inconscio sociale, criticando la teoria freudiana delle pulsioni biologiche come chiave per la comprensione del comportamento umano, a favore di un’interpretazione più vasta della psicanalisi, destinata a indicare un nuovo equilibrio tra l’uomo e l’ambiente socio-culturale circostante. Suo merito principale è stato infatti quello di riconsiderare l’influenza negativa che i sistemi produttivi producono sui processi di adattamento psichico attuati dall’uomo per corrispondere alle esigenze dell’economia: ciò che nella nostra società determina il successo del singolo è in contrasto con la sua salute psichica, per cui deriva nell’individuo e nella collettività una sofferenza patologica espressa nello scollamento dal reale, nell’alienazione dal sé e dal mondo.

I cosiddetti sani raccoglie interventi e lezioni pubbliche tenute negli anni dal 1953 al 1973, che hanno perlopiù un tono colloquiale derivato dalla trascrizione di nastri registrati in quelle occasioni. La terza e quarta parte del volume presentano contributi più specifici, affrontando invece il tema di un auspicato nuovo umanesimo scientifico per rispondere alle sofferenze della società contemporanea, attraverso una concezione umanistica della persona.

A partire dall’analisi dell’orientamento autoritario, mercantile e necrofilo delle società contemporanee, Fromm descrive alienazione e narcisismo come fenomeni psicologici di rilevanza clinica. Individuando tra le caratteristiche della società moderna l’individualismo, l’ambizione a emergere, l’iniziativa privata, l’economicismo e lo scientismo, rileva come nei paesi occidentali a democrazia avanzata gli esseri umani siano particolarmente soggetti a soffrire di depressione, solitudine, ansia, aggressività, manie suicidarie, dipendenze da droghe o alcol, persistenti stati d’animo di noia e pigrizia. La mancanza di riferimenti che forniscano un senso all’esistenza, e il bisogno frustrato sia di riti collettivi sia di scopi che vadano al di là della produzione di materie di consumo, ha prodotto un senso diffuso di infelicità e di insicurezza. Il piacere del lavoro è diventato dovere, o adorazione della produzione fine a sé stessa. In una società dominata dal mercato come quella in cui viviamo, anche il valore dell’individuo viene determinato non tanto dalle sue qualità morali o dalle capacità professionali, “quanto dal suo essere più o meno commerciabile, dal fatto che quello che ha da offrire sia più o meno richiesto”. Il modo di produrre capitalistico ha infatti esercitato un’enorme influenza sulla struttura della personalità dell’individuo medio, pretendendo dal singolo il totale adattamento alle necessità dell’economia, e asservendo la medicina e la psichiatria a tale esigenza di normalizzare ogni opposizione conflittuale. Il senso comune identifica l’individuo “normale” con quello perfettamente “sano”, inserito nel suo ruolo sociale, soddisfatto, equilibrato e sicuro di sé. Ma in realtà, in una condizione caratterizzata da mancanza di relazionalità, astrattezza del pensiero, abitudine a una routine di gesti e orari che garantiscano conformismo e obbedienza, l’individuo cade in preda a depressione, privo di speranza nel futuro, di qualsiasi interesse e coinvolgimento nell’attività professionale.

Cosa propone quindi Erich Fromm per guarire una società malata, che crea individui malati? Recuperando le analisi di Freud e Marx, incoraggia la nascita di una nuova religione umanistica, che trasformi i rapporti lavorativi non tanto e non solo socializzando i mezzi di produzione, quanto anche le condizioni e le funzioni del lavoratore, affinché ognuno possa diventare soggetto attivo e cooperativo, e il lavoro stesso riacquisti dignità e significato, diventando un’espressione della forza vitale dell’uomo. Diventa fondamentale liberare l’energia che in ogni uomo è rimasta paralizzata, perché ritenuta pericolosa per l’ordine sociale, restituendo responsabilità e creatività nel processo lavorativo ormai iper-specializzato, valorizzando concentrazione, attenzione e competenza di ogni salariato, decentrando le industrie e riconvertendole a misura d’uomo nel rispetto dell’ambiente naturale, restituendo valore sociale o culturale a ciò che si produce …

Un progetto insomma che mette in primo piano non il profitto e il mercato, ma l’essere umano, con la sua indipendenza di pensiero e giudizio, il diritto a esprimere liberamente le proprie capacità, la fantasia, la possibilità di sognare, il piacere di esistere non solo come meccanismo destinato alla produzione e al consumo.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 26 aprile 2025

 

 

 

 

 

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