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RECENSIONI

ANEDDA

ANTONELLA ANEDDA, TRE STAZIONI – LIETOCOLLE, FALOPPIO  1997

Per le eleganti edizioni di Lietocolle è uscita in questi giorni una plaquette di Antonella Anedda, Tre stazioni, (pp. 17, L. 15.000) che raccoglie, scandite appunto in tre tempi, riflessioni (o aforismi, o brevi pezzi di prosa d’arte, o illuminazioni, o meditazioni: come insomma ciascun lettore decida di chiamare queste poche pagine), contrappuntate da suggestive immagini fotografiche. Anedda è ottima poetessa, che predilige toni densi e una forte tensione emotiva, quasi che ogni parola andasse scavata e incisa, prima di farsi visione, nella sofferenza stessa dell’essere, dell’esserci.

Le sue “stazioni” sembrano rifarsi proprio alle stazioni, contrite e gravide di ogni colpa del mondo, di una Via Crucis universale, in cui crocefissa è, più che il Cristo, l’umanità stessa, vittima sacrificale, agnello predestinato a immolarsi di fronte a un male cosmico, eterno e indistruttibile.

Da questa premessa, è evidente che a un io personale l’autrice antepone il noi collettivo, perché questa dimensione metafisica, più che sociale o storica, del dolore, investe proprio tutto e tutti, ogni materia creata. La nostra condanna è comunque anche la nostra salvezza, il soffrire è ciò che ci libera e santifica: a benedirci sarà una “scure pesante”, a vincere sarà “la povertà della roccia”, la rinuncia mite, la schiena piegata sotto il peso dei peccati umani.

Il topos dell’innocente che paga per tutti, di colui che si danna per salvare altri, trova una sua espressione in Francesco, in Cristo nel Getsemani, nell’asino da soma e in ci si fa sapientemente, coscientemente vittima per vincere spiritualmente il male attraverso la propria sconfitta fisica, materiale.

Ecco allora che tutto risponde a un dualismo (morte-vita, peccato-redenzione, offesa-perdono, violenza-dolcezza): da una parte c’è il rancore, la colpa, la paura, la fuga. Dall’altra “la grazia di un punto scuro e perfetto”, intesa come capacità di resistere al male (non compierlo, non accoglierlo, dilazionarlo nel tempo, scegliere “la lentezza che può salvare una vita”). Tuttavia, basta? Basta “non fare” per salvarsi e salvare il mondo? Non è anche la rinuncia, l’astensione, “l’illusione di ogni viltà”?

“Farsi mangiare per ultimi” è “un’astuzia inutile”, se a vincere comunque è il male. Antonella Anedda sembra ripercorrere, ma con meno ottimismo, la via indicata da Bonhoeffer, scissa tra resistenza e resa, con la speranza che la vittoria del male non sia eterna, ma venga condannata dal suo stesso limitarsi nella dimensione del tempo: “perché è vero; il bene è profondo, ma il bene è fragile. A differenza del male sfuma lentamente tra i secoli, a differenza del male ha nostalgia anche di una sola creatura”.

E che sia questa sola creatura, umilissima e “in bilico”, a riuscire a sconfiggere la sofferenza, ce lo auguriamo in molti, se lo augura l’autrice che ci ridà in alcune righe la stessa ansia di redenzione, perdono e salvezza, che abbiamo imparato a conoscere nelle preghiere dei primi cristiani, o in penetranti pagine di mistica.

 

© Riproduzione riservata       «Il Manifesto», 16 gennaio 1997

 

RECENSIONI

FROMM

ERICH FROMM, I COSIDDETTI SANI – MIMESIS, MILANO 2023

Il volume di Erich Fromm (Francoforte 1900-Muralto 1980) I cosiddetti sani, pubblicato da Mimesis due anni fa, risulta dall’assemblaggio di diversi saggi, riuniti in una prima edizione inglese nel 1991: documenti che rivelano una disposizione ideologica datata, soprattutto nell’ingenuo utopismo che li anima, ma comunque ancora di grande impatto emotivo, e di importanza testimoniale sullo sviluppo coerente delle convinzioni politiche ed etiche dell’autore.

Fromm, filosofo e psicanalista ebreo tedesco emigrato negli USA e in Messico per sfuggire al nazismo e infine morto in Svizzera, negli anni ’70-80 era arrivato a imporsi internazionalmente con due titoli divenuti leggendari: L’arte di amare e Avere o essere. Aveva contribuito ad allargare la dottrina psicanalitica dall’indagine sulla psiche individuale a quella sull’inconscio sociale, criticando la teoria freudiana delle pulsioni biologiche come chiave per la comprensione del comportamento umano, a favore di un’interpretazione più vasta della psicanalisi, destinata a indicare un nuovo equilibrio tra l’uomo e l’ambiente socio-culturale circostante. Suo merito principale è stato infatti quello di riconsiderare l’influenza negativa che i sistemi produttivi producono sui processi di adattamento psichico attuati dall’uomo per corrispondere alle esigenze dell’economia: ciò che nella nostra società determina il successo del singolo è in contrasto con la sua salute psichica, per cui deriva nell’individuo e nella collettività una sofferenza patologica espressa nello scollamento dal reale, nell’alienazione dal sé e dal mondo.

I cosiddetti sani raccoglie interventi e lezioni pubbliche tenute negli anni dal 1953 al 1973, che hanno perlopiù un tono colloquiale derivato dalla trascrizione di nastri registrati in quelle occasioni. La terza e quarta parte del volume presentano contributi più specifici, affrontando invece il tema di un auspicato nuovo umanesimo scientifico per rispondere alle sofferenze della società contemporanea, attraverso una concezione umanistica della persona.

A partire dall’analisi dell’orientamento autoritario, mercantile e necrofilo delle società contemporanee, Fromm descrive alienazione e narcisismo come fenomeni psicologici di rilevanza clinica. Individuando tra le caratteristiche della società moderna l’individualismo, l’ambizione a emergere, l’iniziativa privata, l’economicismo e lo scientismo, rileva come nei paesi occidentali a democrazia avanzata gli esseri umani siano particolarmente soggetti a soffrire di depressione, solitudine, ansia, aggressività, manie suicidarie, dipendenze da droghe o alcol, persistenti stati d’animo di noia e pigrizia. La mancanza di riferimenti che forniscano un senso all’esistenza, e il bisogno frustrato sia di riti collettivi sia di scopi che vadano al di là della produzione di materie di consumo, ha prodotto un senso diffuso di infelicità e di insicurezza. Il piacere del lavoro è diventato dovere, o adorazione della produzione fine a sé stessa. In una società dominata dal mercato come quella in cui viviamo, anche il valore dell’individuo viene determinato non tanto dalle sue qualità morali o dalle capacità professionali, “quanto dal suo essere più o meno commerciabile, dal fatto che quello che ha da offrire sia più o meno richiesto”. Il modo di produrre capitalistico ha infatti esercitato un’enorme influenza sulla struttura della personalità dell’individuo medio, pretendendo dal singolo il totale adattamento alle necessità dell’economia, e asservendo la medicina e la psichiatria a tale esigenza di normalizzare ogni opposizione conflittuale. Il senso comune identifica l’individuo “normale” con quello perfettamente “sano”, inserito nel suo ruolo sociale, soddisfatto, equilibrato e sicuro di sé. Ma in realtà, in una condizione caratterizzata da mancanza di relazionalità, astrattezza del pensiero, abitudine a una routine di gesti e orari che garantiscano conformismo e obbedienza, l’individuo cade in preda a depressione, privo di speranza nel futuro, di qualsiasi interesse e coinvolgimento nell’attività professionale.

Cosa propone quindi Erich Fromm per guarire una società malata, che crea individui malati? Recuperando le analisi di Freud e Marx, incoraggia la nascita di una nuova religione umanistica, che trasformi i rapporti lavorativi non tanto e non solo socializzando i mezzi di produzione, quanto anche le condizioni e le funzioni del lavoratore, affinché ognuno possa diventare soggetto attivo e cooperativo, e il lavoro stesso riacquisti dignità e significato, diventando un’espressione della forza vitale dell’uomo. Diventa fondamentale liberare l’energia che in ogni uomo è rimasta paralizzata, perché ritenuta pericolosa per l’ordine sociale, restituendo responsabilità e creatività nel processo lavorativo ormai iper-specializzato, valorizzando concentrazione, attenzione e competenza di ogni salariato, decentrando le industrie e riconvertendole a misura d’uomo nel rispetto dell’ambiente naturale, restituendo valore sociale o culturale a ciò che si produce …

Un progetto insomma che mette in primo piano non il profitto e il mercato, ma l’essere umano, con la sua indipendenza di pensiero e giudizio, il diritto a esprimere liberamente le proprie capacità, la fantasia, la possibilità di sognare, il piacere di esistere non solo come meccanismo destinato alla produzione e al consumo.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 26 aprile 2025

 

 

 

 

 

RISPOSTE

AIRAGHI

Intervista ad Alida Airaghi

Le poesie di “Litania periferica”, “Un diverso lontano” e “Frontiere del tempo” tornano in libreria

 

A gennaio 2025, Il Convivio Editore ha riportato in libreria in un unico volume,
intitolato “Tre libri”, tre opere della poetessa Alida Airaghi diventate quasi
introvabili: “Litania periferica”, “Un diverso lontano” e “Frontiere del tempo”.
L’autrice ha risposto ad alcune domande di Francesco Campagna, docente, poeta
e divulgatore letterario.

La silloge Tre libri di Alida Airaghi (Il Convivio Editore, 2025) racchiude tre volumi di poesie
ormai quasi introvabili: Litania periferica, Un diverso lontano e Frontiere del tempo,
pubblicati rispettivamente nel 2000, 2003 e 2006. La lettura in successione di questi titoli
suscita emozioni variegate, poiché ci si ritrova catapultati in un percorso ricco di
suggestioni, di tematiche diverse, di questioni risolte e irrisolte, di pensieri profondi sulla
vita, sulla fede e, specialmente nell’ultima opera, sul tempo.

1) Come nasce l’ottima idea di raccogliere in un’unica silloge tre opere così lontane
rispetto alla sua produzione letteraria attuale?

Ho creduto opportuno ripubblicare i tre libri usciti all’inizio degli anni 2000 dall’editore Manni
perché alcuni lettori mi esprimevano il desiderio di recuperare i testi lì inseriti, spesso
antologizzati in volumi scolastici (come Euridice, Il Lago o le poesie sociali), altri
parzialmente riportati da utenti di Facebook o di Instagram. Inoltre, mi è sembrato giusto
mettere in luce il filo conduttore (tematico, ma anche formale) che attraversa tutta la mia
opera, sebbene oggi gli esiti a cui sono giunta siano ovviamente diversi da quelli di vent’anni
fa. Ma gli interessi per la teologia, la scienza, il mito sono rimasti gli stessi, come la
disposizione d’animo verso chi ha segnato affettivamente e sentimentalmente il mio
percorso di vita.

2) Leggendo questa silloge inevitabilmente ci si confronta con argomenti più che
interessanti e un poetare che si evolve da lirica a lirica. Partirei con Litania periferica,
la quale presenta inizialmente commoventi note biografiche e successivamente
poesie dedicate a figure appartenenti all’ambito scientifico e ad animali asiatici.
Quanto è stato particolare immedesimarsi in Galileo o Einstein e immaginare cosa
avrebbero potuto scrivere sotto forma di lirica?

Sì, mi appassiona l’idea dello sviluppo della ricerca scientifica nel corso dei millenni, dai
presocratici in poi, anche se avendo studiato lettere classiche non ho avuto e non ho tuttora
i mezzi per addentrarmi nello specifico dei vari rami della scienza. Però mi emoziona l’idea
che l’umanità abbia sempre cercato di spiegare i misteri dell’esistenza: chi siamo, da dove
veniamo, qual è il destino finale dell’universo. Sono state tentate varie strade, ipotizzate
risposte, e il mistero è ancora fitto. Come faccio dire a Einstein:
Non può finire tutto, così, / per niente. Nel vuoto. //… Lo urlerò nell’abisso, / nel non tempo: /
dove non sarò”.

3) Gli aspetti biografici sono presenti anche nelle prime poesie del volume Un
diverso lontano, ma la sezione che mi ha attirato maggiormente è Metamorfosi, in
cui nuovamente lei si immedesima in altri personaggi, in questo caso figure
appartenenti alla mitologia greca dal destino a volte beffardo. C’è stata difficoltà
nel voler vivere le stesse emozioni della ninfa Eco o della sfortunata Alcione?
Perché ha scelto proprio queste storie?

Nel mio primo libro di poesia Rosa rosse rosa, pubblicato nel 1986, avevo riservato una
sezione, intitolata Classiche, a figure femminili della letteratura greca, incontrate nel corso
degli studi universitari. In Litania periferica ho voluto di nuovo affrontare l’argomento
scegliendo però un’ottica particolare, quello della fedeltà e della dedizione coraggiosa (a
volte fino al sacrificio finale) di alcune donne del mito, che hanno saputo vivere con
coerenza e coraggio la propria femminilità, fedeli anche a sé stesse.

4) Frontiere del tempo, a mio avviso, è la perfetta conclusione di Tre libri. Sono
evidenti i richiami a grandi filosofi e scrittori del passato, come sono facilmente
rintracciabili grandi ispirazioni bibliche per quanto concerne le tematiche religiose.
Le varie sezioni trascinano il lettore in un turbinio di intime riflessioni sulle nostre
esistenze. La mia sensazione è che in quest’ultimo volume le liriche abbiano toccato
un livello poetico tra le migliori dell’intero panorama italiano contemporaneo. Da
giovane scrittore e poeta e da curioso lettore, le chiedo se questi versi siano stati
scritti di getto o siano stati studiati e costruiti in più settimane e/o mesi.

In genere quando scrivo, sia in versi sia in prosa, medito molto a lungo i temi su cui poi
lavoro. Prendo appunti, leggo, mi confronto con i testi e le riflessioni altrui. Poi compongo
di getto, lascio depositare nel cassetto per molto tempo (a volte anche per anni) quello che
ho scritto. Infine rileggo e correggo, soprattutto sfrondando, asciugando tutto ciò che mi
pare in eccesso. Se mi sento abbastanza convinta, provo a sottoporre ad amici – non solo
letterati – il “prodotto” finale, e tento la pubblicazione. La valutazione finale giustamente
spetta ai lettori.

5) Per concludere l’intervista, prendo spunto da alcuni versi di Un diverso lontano: “eccomi
sola / nel tutto, eccomi tutto, buio / nel nero. Senza niente / intorno, senza le facce amate, /
senza voci ascoltate, e parole: / e mai che, dopo la notte, torni / il giorno”. Considerando che
sono passati ventidue anni dalla pubblicazione di questa raccolta, le chiedo: dopo tante
notti e tanto buio, il “giorno” è arrivato?

La ringrazio per questa sua partecipazione emotiva. Passiamo tutti nella vita momenti
difficili, di sconforto, di malattia, di difficoltà affettive e ambientali. Prima dei quarant’anni
ho perso in pochissimo tempo mio marito, i miei genitori, una cugina e ho affrontato una
non facile operazione. La grave depressione che ne è derivata si è appesantita di un
ingiustificato senso di colpa, come se temessi di aver in qualche modo meritato quello che
mi succedeva. Mi sentivo inadeguata ad affrontare qualsiasi aspetto quotidiano e pratico
dell’esistenza, schiacciata da responsabilità che travalicavano la mia capacità di resistenza.
Ho avuto tanta paura di non riuscire a crescere le mie bambine, e il ritorno da Zurigo a
Verona (in un ambiente che certo non mi ha aiutato a superare sia i problemi esterni, sia il
buio interno che cito nella poesia), ha acuito queste problematiche, e anche – perché
negarlo – il dolore. Ma il tempo guarisce tante cose, le mie figlie sono diventate due donne
straordinarie e mi sono state sempre vicine, io ho ritrovato la volontà di uscire di casa e da
me stessa, di riprendere a studiare, a scrivere, a guardarmi intorno. Insomma, posso dire
che sì, già da anni ho riscoperto la luce, il giorno, la gioia di esserci e di essere in questo mondo, problematico e bellissimo.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 16 aprile 2025

RECENSIONI

GIVONE

SERGIO GIVONE, LA RAGIONEVOLE SPERANZA –SOLFERINO, MILANO 2025

In sette capitoli e in un documentato repertorio di note, il filosofo e romanziere Sergio Givone (Buronzo, 1944) affronta il tema del dopo-morte, e lo fa riprendendo argomenti che gli sono cari (cfr. Storia del nulla, Favola delle cose ultime, Non c’è più tempo, Sull’infinito), però qui con un diverso stile aforistico, dal tono ansante, ispirato, rapito nell’immersione di un’idea.

La ragionevole speranza, si intitola il suo ultimo libro pubblicato da Solferino, indicando un’esplicita posizione teorica: di per sé, la speranza non si posa sulla ragione, ma si affida a un moto del sentimento, che in quanto tale è irrazionale; l’autore alterna l’attributo definendola a più riprese sia ragionevole sia illusoria, o addirittura disperata. Sperare cosa, quindi? Di sopravvivere, di permanere nell’essenza (nella coscienza) individuale dopo la morte, questione su cui da millenni si interroga il pensiero filosofico, insieme alla letteratura, all’arte, alla musica.

Le pagine del volume si aprono descrivendo la cerimonia funebre del fumettista Sergio Staino, avvenuta al Palazzo Vecchio di Firenze nel 2023, in cui tutti i presenti auguravano all’amico defunto un “buon viaggio” in compagnia dei sorrisi che aveva saputo dispensare in vita attraverso lo spirito caustico del suo eroe Bobo. Si può ridere della morte, di questo evento “impenetrabile come una pietra … muro contro cui si va a sbattere” ineluttabilmente, mettendoci di fronte al non essere più? Givone tenta un alleggerimento della negatività iniziale commentando la necessarietà di finire “per lasciare spazio ad altri. Magari sapendo che prima lo si fa, meglio è.  È dimostrato. Più in lungo la si tira, più amaro il calice che tocca bere”.

Si può ridere della morte per la gioia di essere comunque stati vivi, di aver goduto di momenti intensi di felicità e altri di incomparabile tristezza, di avere amato e odiato, partecipando al destino comune a tutte le creature. Da sempre si fronteggiano due modi opposti di porsi di fronte al limite estremo dell’esistenza: si può accettare la propria caducità, riconoscendo che nulla e nessuno sopravvive per sempre. Oppure si può credere che la vita individuale persista aldilà della sua conclusione fisica, aprendosi a una realtà diversa e superiore, per quanto inconoscibile e indefinibile.

La lieta e futile concretezza del libertino, la consapevolezza della finitudine del materialista si oppongono alla fede del mistico che rifiuta il limite, proiettandosi in un infinito, per lo più rivestito di sembianze divine. “Venuti al mondo, la sola cosa certa è che dovremo lasciarlo. Per finire dove? Nel nulla o in Dio?”, si chiede Givone, illustrando le tesi che hanno contrapposto i filosofi già dagli albori del pensiero umano.

Il primo a parlare di infinito fu il presocratico Anassimandro, che in un frammento così poetava: “Principio dei viventi è l’infinito […] là dove i viventi hanno la loro origine, là trovano la loro dissoluzione necessariamente: essi infatti pagano il dovuto gli uni agli altri ed espiano l’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Ma ad Anassimandro si opponeva Democrito, a Parmenide Eraclito, a Platone Aristotele, agli orfici Epicuro. Per Pindaro la vita è fugace, eppure luminosa (“Effimeri siamo: cos’è qualcuno? / cos’è invece nessuno? Sogno di un’ombra / è l’uomo. Ma se un lampo giunge, disceso dal cielo, / allora splendida luce gli uomini investe, / e dolce diviene la vita”). Per il Qoèlet biblico tutto è vanità, per il Cantico dei Cantici tutto è amore, Lucrezio era ateo e materialista ma celebrava la grandezza della natura, Plotino credeva nel ritorno all’Uno e si vergognava di essere in un corpo…

Via via nel corso dei secoli si è approfondito il contrasto tra spiritualismo e positivismo, tra caso e necessità. Pascal scommetteva su Dio, convinto che “se la porta della trascendenza resta aperta, allora possiamo sperare di avere una risposta alla domanda sul senso della vita”. Lo contraddiceva Montaigne, che pur nella disillusione metafisica era commosso dalla fragilità umana. A Vico si oppone Cartesio, a a Rousseau Voltaire, Manzoni a Leopardi, a Hegel Marx, contro Nietzsche combattono James e Bergson, Jung contesta Freud. Tutti con l’angoscia di capire, di spiegare a sé stessi e agli altri l’origine e la fine delle vite individuali, l’apparire e la dissoluzioni di intere civiltà nel corso della storia.

La Grundfrage di Leibniz e Schelling (“Perché c’è qualcosa? Perché non c’è il nulla?”) rimane inevasa, dopo secoli di ricerche scientifiche, di riflessioni teologiche, di preghiere e di bestemmie. L’anima, la bellezza, la verità, la grazia sono concetti che riconducono all’idea indimostrabile di Dio; l’odio, la malvagità, la malattia, lo sfruttamento, la dipendenza ribadiscono la nostra condanna al limite e all’infelicità. Schiller incoraggiava a resistere: “Abbiate il coraggio della sofferenza, / soffrite per il mondo a venire. / Al di sopra del cielo stellato / l’Infinito sarà la ricompensa”.

Quale ricompensa, e quale pena? Il paradiso o l’inferno?

Sergio Givone dedica l’ultimo capitolo del libro all’idea di immortalità dell’anima, oggi misconosciuta e contestata a livello filosofico, quanto quella del giudizio finale ultraterreno. Dibattuta dai mistici medievali (Silesius: “So che senza di me Dio non può vivere un istante: se io divento nulla, deve di necessità morire”) come dagli spiriti più intensamente e laicamente religiosi (Simone Weil: “Bisogna morire – morire nell’anima – per accedere a una dimensione di conoscenza e di verità, diciamo pure di immortalità”), l’immortalità dell’anima si scontra con l’ipotesi quasi scandalosa di una condanna perpetua (“Un’eternità dove tutto è pianto e stridor di denti, da una parte, e tutto è gioia e osanna, dall’altra, mette Dio in stato d’accusa”). Paradiso e inferno allora vanno derubricati a semplice “ammonimento per chi ha mal vissuto e incoraggiamento per chi ha ben vissuto”, a leggenda ormai razionalmente ripudiabile? Idea soppiantata da quella più nobile e generosa dell’Apocatastasi – cioè di una rigenerazione e redenzione totale dell’esistente nella perfezione originaria dell’inizio, ritrovata alla fine dei tempi–, intuita da Origene, discussa dai Padri della Chiesa, difesa da Giordano Bruno e ripresentata come necessaria da Luigi Pareyson, maestro di Givone, come promessa di un paradiso aldilà del paradiso, aldilà di tutto…

Il suo allievo, autore di questo intenso libro, la accoglie con il monito di Marguerite Yourcenar “cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti”, e con l’invocazione dell’ultima canzone di Leonard Cohen “I’m ready, my Lord”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 18 aprile 2025

 

 

RECENSIONI

AAVV, IL PANE E LE ROSE

AAVV, IL PANE E LE ROSE –  ALEGRE, ROMA 2025

Ho pubblicato la mia prima recensione nel giugno del 1976, su una rivistina universitaria: era dedicata al libro di Ferruccio Brugnaro Vogliono cacciarci sotto, uscito l’anno prima per le edizioni veronesi di Giorgio Bertani nella collana Letteratura operaia. Brugnaro (Mestre 1936) con Luigi di Ruscio (1930-2011) è stato il più noto poeta operaio, e tra i maggiori rappresentanti della letteratura subalterna. In quel suo primo volume, che era accompagnato da una nota di Andrea Zanzotto, dichiarava nell’introduzione: “La poesia è utile se nasce come strumento di lotta, di riflessione e azione, strumento di intervento reale… essa diventa per me e per i miei compagni un momento di riflessione, di arresto per poi ripartire subito con più chiarezza, con più forza… Voglio dire ancora che lo scrivere versi per me non significa altro che fare delle azioni di lotta; azioni concrete perché la società in cui viviamo abbia a cambiare presto, perché gli uomini e il mondo vengano sottratti presto alla cecità e alla sete di sangue del capitalismo. Non potrò mai intendere una poesia che non tenga conto della realtà bruciante quotidiana dell’uomo”.

Negli anni ’80, da Zurigo (dove mi sono occupata per Agorà, un settimanale delle Colonie Libere, anche della scrittura dell’emigrazione) ho iniziato a collaborare con la rivista Abiti-Lavoro, diretta da Sandro Sardella e Giovanni Garancini, che poi ho conosciuto personalmente. Abiti-Lavoro, di cui conservo ancora religiosamente tutti i numeri, è stata una storica rivista di poesia operaia, aperta al contributo di maestranze, sindacalisti, studenti, insegnanti e intellettuali impegnati nel sociale.

Sono quindi tornata indietro di cinquant’anni con la memoria, e con molta emozione, scoprendo alcuni giorni fa che la coraggiosa casa editrice romana Alegre ha inaugurato una collana intitolata Working Class, sotto la direzione di Alberto Prunetti, dedicata alla narrativa prodotta da lavoratori inseriti nel mondo industriale, agricolo, della ristorazione. Dagli anni 60-70, in cui il mondo professionale godeva di una rappresentazione di eccellenza nelle nostre patrie lettere (la rivista Comunità di Adriano Olivetti, le ambientazioni industriali di Ottieri, Volponi, Bianciardi, Calvino, il Menabò numero 4 di Elio Vittorini, la collana di poesia edita da Savelli sotto l’egida di Majorino), l’interesse del mondo editoriale italiano per il tema del lavoro è andato via via scemando, fino quasi a scomparire, nonostante la sua rilevanza sociale e politica continui a essere basilare. Oggi la letteratura sembra più orientata verso l’intrattenimento e il disimpegno, e l’industria del libro riproduce al proprio interno gli squilibri nella distribuzione del capitale culturale, dove le persone di classe operaia – necessarie per la stampa, il magazzinaggio e la logistica del libro – sono indispensabili ma completamente invisibili, e i rari premi letterari sul tema del lavoro vengono sponsorizzati da banche e associazioni come Confindustria, limitandosi a privilegiare momenti di incontro mondano.

Proprio Prunetti introduce Il pane e le rose, volume che raccoglie alcuni racconti operai premiati nelle prime due edizioni del Festival di Letteratura Working Class tenutosi nell’aprile del 2022 e del 2023 al presidio ex Gkn di Campi Bisenzio, collegato al premio omonimo ideato da un gruppo di bibliotecari e lavoratori della cultura del comune di Montelupo Fiorentino. In un progetto di convergenza culturale, il Collettivo di fabbrica degli operai ex Gkn, (protagonisti dell’assemblea permanente più lunga del movimento operaio italiano), la casa editrice Alegre, la Società operaia di mutuo soccorso Insorgiamo e l’ARCI di Firenze, hanno creato un evento internazionale di riflessione sull’immaginario letterario della classe lavoratrice, a cui il comune di Campi Bisenzio ha prestato il patrocinio.

Questo festival, ormai alla quarta edizione, ha come obbiettivo di dare centralità e nuova visibilità alla letteratura working class, per produrre effetti pratici nelle mobilitazioni di appoggio alle lotte sindacali contro licenziamenti, delocalizzazioni e speculazioni finanziarie, soffermandosi sul tema del lavoro sfruttato e oppresso. Il Festival è forse il primo tentativo a livello europeo di costruire una forma radicale di literary public sphere, per intervenire con la letteratura nella società, costruendo e mobilitando un pubblico a partire dalla solidarietà popolare attorno a una mobilitazione sindacale: un festival della classe operaia per la classe operaia. Ha sempre ottenuto molto successo in termini di partecipazione, di vendite di libri, con presenze di relatori internazionali e centinaia di volontari, ma è stato anche ferocemente boicottato, con l’utilizzo minaccioso di droni sorvolanti la manifestazione, con la contestazione di interventi solidali come quello di Elio Germano, con un attentato alla cabina elettrica per bloccare la luce.

I racconti antologizzati nel volume Il pane e le rose hanno temi comuni, pur nella diversità delle situazioni rappresentate. Vengono ribaditi il senso di precarizzazione e sfruttamento, la disumanizzazione dei rapporti interpersonali e la difficoltà nel mantenere salde le relazioni familiari, la deresponsabilizzazione e l’egoismo dei vertici aziendali, il timore e la rabbia per il ripetersi di incidenti causati dalla mancanza di sicurezza, le ingiustizie salariali, i turni massacranti, i licenziamenti e i trasferimenti immotivati, e poi la volontà di ritrovare una solidarietà comune nell’organizzazione degli scioperi e dell’occupazione delle fabbriche. Si tratta di esperienze vissute tragicamente sulla propria pelle: una lavoratrice di un’azienda agricola australiana che si ferisce e non viene soccorsa dai responsabili, un operaio anziano che si arrampica come ogni giorno faticosamente su una ciminiera di 100 metri e sventola uno striscione di protesta, il giovane laureato che non riesce a trovare un’occupazione adeguata, lo stabilimento siderurgico di Piombino su cui si diffonde una nube tossica dopo un’esplosione, l’addetto alla cura del verde (matricola 108712) che viene discriminato dai colleghi, il lavoratore che ricostruisce un secolo di storia delle Officine Meccaniche Reggiane… La conclusione di Dario Salvetti – Rsu e portavoce del Collettivo di fabbrica ex Gkn –, rende conto dei due anni di lotta della fabbrica toscana, che non ha avuto e non deve avere solo rivendicazioni economiche, perché “lo scontro passa anche per la capacità di essere soggetto narrante e narrato, di raccontare e di raccontarsi, sapendo scendere nel dettaglio del colore di una tuta, ma tenendolo assieme ai grandi fatti storici della classe operaia e dei movimenti sociali”.

Il titolo della seconda edizione del Festival Working Class citava Mark Fisher: “Non siamo qui per intrattenervi”, sottolineando la volontà di creare un pubblico di lettori capace di trasformare il mondo dei libri fuori dai libri, e aprendo spazi di riflessione per cambiare i rapporti di forza nella società.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 8 aprile 2025

 

RECENSIONI

NEUMAN

ANDRÉS NEUMAN, LE COSE CHE NON FACCIAMO – SUR, ROMA 2017

Dell’argentino, naturalizzato spagnolo, Andrés Neuman (Buenos Aires 1977) – narratore, poeta, traduttore, blogger, docente di letteratura all’Università di Granada –, la casa editrice SUR ha pubblicato nel 2017 il volume di racconti Le cose che non facciamo, arricchito in seconda edizione da un’interessante postfazione sull’arte di scrivere testi brevi. Molto prolifico, pluripremiato e tradotto all’estero, Neuman ha firmato sei romanzi di successo, un volume di versi e due libri di racconti.

Le cose che non facciamo contiene venticinque storie che esplorano soprattutto i rapporti familiari, di coppia o genitoriali, utilizzando misure e registri diversi: si va dal bozzetto flash al racconto più articolato, dal genere intimistico al surreale e al grottesco, con una notevole maestria formale per cui nessuna descrizione risulta indulgente o sbavata, i dialoghi sono serrati, le descrizioni puntuali, il tono anche se commosso mai scadente nella retorica.

Soprattutto il rapporto tra marito e moglie viene indagato con acuta perspicacia, e talvolta con sorniona perplessità, quasi chiamando il lettore a condividere un senso di stupore per come le relazioni coniugali sappiano complicarsi senza reale motivo, rendendo difficile la reciproca comprensione e qualsiasi convivenza. C’è ad esempio l’uomo così affezionato al suo migliore amico da prestargli la sua donna fino a quando sarà riuscito a emularlo nelle qualità fisiche e morali; la moglie che in spiaggia proibisce al marito di avvicinarla tracciando col piede una riga sulla spiaggia; una coppia perfetta e simile anche nei nomi, Elias ed Elisa, sincronizzata e simultanea in tutto, che poi implode inaspettatamente e fragorosamente; un’altra coppia solidale nelle cose non fatte (viaggi immaginati, sane abitudini tralasciate, palestre non frequentate, lingue mai studiate): “Mi piacciono tutti i propositi, dichiarati o segreti, che disattendiamo insieme. È questo che preferisco della vita a due. La meraviglia aperta sull’altrove. Le cose che non facciamo”.

I venticinque racconti sono raggruppati in cinque aree tematiche: oltre alla prima dedicata alla vita in due, particolarmente suggestiva è quella in cui Neuman affronta le relazioni interne alle famiglie, non sempre improntate al confronto ostile o all’indifferenza, ma anche pervase da un’inaspettata tenerezza. Se quindi leggiamo di conflitti irriducibili, possiamo imbatterci al contrario in narrazioni commosse relative ai momenti topici dell’esistenza: la nascita e la morte. In Dare alla luce un padre assiste al parto del primo figlio con una tale partecipazione emotiva da patire in prima persona le doglie, fino all’apparizione rivelatrice e sconvolgente del bambino: scenderà contento o piuttosto sconcertato lungo lo scivolo del tempo? mi accetterà? sarò degno del suo esordio? e cosa fare con tutta la meschinità e la crudeltà che ci trasciniamo dietro quando un figlio ci nasce, quando un figlio ci dà alla luce, cosa fare per sentire che malgrado tutto ci meritiamo un altro inizio?”. In altri testi, sinteticamente essenziali (Madre di spalle, Una sedia per qualcuno, A piedi nudi)), sono i due vecchi genitori a venire accompagnati all’ospedale (“quanto di più simile a una cattedrale in cui noi miscredenti possiamo mettere piede”) prima dell’ultimo saluto, con la consapevolezza di non essere riusciti a ricambiare la generosa dedizione di tutta la loro vita: “ci sono amori che non si possono ripagare. Per quanto un figlio contraccambi i genitori, ci sarà sempre un debito tremante di freddo”. Lo stato di orfano viene addirittura negato mantenendo fittiziamente vivi padre e madre in Juan, José.

Particolare è anche la sezione dedicata a L’ultimo minuto vissuto da diversi protagonisti prima di congedarsi dal mondo: un nonno che annega volontariamente nella vasca da bagno, un prigioniero di fronte a una finta fucilazione, diversi aspiranti suicidi, un pestaggio brutale precedente all’esecuzione. Sono presenti nella raccolta anche testi crudamente feroci, e altri intellettualmente sofisticati, che si servono di uno stile meno tradizionale e affabulatorio per tentare soluzioni più sperimentali. Tra i primi, si esibiscono testi narranti di errori giudiziari, persecuzioni poliziesche, abusi e violazioni nel privato dei cittadini, rese dei conti tra amici-nemici. Invece, nell’ultima sezione del volume, Fine e principio del lessico, cinque brani si misurano con la creazione letteraria, con le aspirazioni e le delusioni di scrittori e poeti, e qui per la prima volta Andrés Neuman si concede qualche puntualizzazione nei nomi dei protagonisti e nelle ambientazioni delle trame. In generale, gli altri racconti si muovono in tempi e luoghi indefiniti, quasi l’autore volesse significare che i sentimenti, i gesti, i pensieri e i dialoghi descritti rimangono gli stessi a qualsiasi latitudine e in ogni periodo storico.

In effetti, più degli accadimenti concreti in cui si imbattono i personaggi, hanno rilievo nel libro le sfumature della loro interiorità, le emozioni e gli affetti. Di questa propensione allo scavo e all’interpretazione psicologica, Neuman dà testimonianza nelle raccomandazioni finali rivolte a chi volesse cimentarsi con la stesura di racconti: una serie di quattro dodecalogi e un pezzo conclusivo sugli errori da evitare e di suggerimenti da mettere in pratica per meglio catturare l’attenzione dei lettori interessati alla narrativa breve.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 6 aprile 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ROSSI

TIZIANO ROSSI, IL BRUSÍO – EINAUDI, TORINO 2025

Nella Collezione bianca di Einaudi è uscito Brusìo, di Tiziano Rossi (Milano 1935), autore di numerosi libri di poesia confluiti in un unico volume garzantiano nel 2003, e di altri testi successivi in versi e prosa, fino a Gli affaccendati pubblicato lo scorso anno da Moretti & Vitali.

Critico letterario, a lungo professionalmente attivo nell’editoria, vincitore del Premio Viareggio nel 2019, Rossi ha fatto parte tra gli anni 60 e 80 della cosiddetta “scuola lombarda”, mantenendo un coerente e raffinato profilo letterario e culturale di attenzione alla realtà umana nei suoi molteplici aspetti relazionali: di famiglia, di ambienti lavorativi e urbani, di cronache diffuse, e più ampiamente di interesse alla situazione politica e sociale internazionale. In quest’ultima raccolta, le circa cento composizioni sono suddivise in quattro capitoli privi di titolo. Il primo è dedicato alla violenza che “colpisce regolare”, a partire dagli anni della guerra “porcheria mondiale”, ricostruiti recuperando i ricordi infantili, adesso che con la stanchezza dell’età “sparito è il superfluo / e dell’accadere / conta solo l’intero”. Protetto dall’affettuosa trepidazione dei parenti, il ragazzo di allora ubbidiva alle raccomandazioni del padre (“Mai fare lamento!”) e del nonno (“Quando bisogna ballare si balla”), se a luci oscurate aspettavano timorosi il nemico, balbettando “qualche fievole orazione”: il “modesto decoro” in cui viveva la famiglia fungeva da baluardo alla paura delle bombe, perché “occorre / resistere almeno in salute”. Intorno, tremavano i muri della casa, nel cortile erano sparite le galline, e lungo i binari della ferrovia giaceva insepolto per tre giorni il corpo di una ragazza uccisa.

“Miglioreremo? Miglioreremo”, cerca ora di convincersi il poeta, pensando a un futuro pacificato. Al desiderio di un domani più sereno risponde l’ultima sezione del libro, dedicata ai bambini che sono il potenziale dell’umanità, come suggerisce pomposamente un altro nonno osservando i nipotini al parco giochi. Il tempo dei piccoli è segnato dall’incanto, indifferente al “mondo bislacco” dei grandi, alle loro domande difficili e alla prudente esattezza dei calcoli. Le altalene, i tricicli, i peluche, le partite a pallone, le recite a scuola e il gioco della bandiera, descritto con affettuosa nostalgia. Tiziano Rossi novantenne affida ai “sopravvenienti” il germogliare di nuove attese: “Si spera nei loro tantissimi eccetera. / Noi qui restiamo / docile balbuzie”.

Nelle due parti centrali del volume, l’autore transita attraverso alcune allarmate e malinconiche considerazioni sui disastri ambientali degli ultimi decenni e sulla passiva rassegnazione delle persone comuni rispetto al degrado dei rapporti umani. Con più amarezza che sarcasmo così commenta l’attualità: “Avanzano sulla statale / mandrie d’automobili sbuffanti… // Di qua le genti / nel parcheggio deposte / girano in tondo a testa bassa / ansando appena, / poi deboline si disperdono / tra le fabbrichette”, “Il nostro pianeta fabbrica e disfa / e già comincia l’enorme baraonda”, “Svelare il presente? Ma è già / sorpassato… // l’oggi precipita, il cuore indugia, / circospezione, circospezione”.

L’augurio rivolto alla Terra è che dalla catastrofe climatica possa derivare una rigenerazione prepotente, fatta di nuove giungle selvatiche, lussureggiante vegetazione tropicale, risveglio di animalità “con palpitante vena salgariana”. Chi scrive sa che non potrà assistere all’alba di una nuova epoca di ottimistico riscatto: l’età avanzata indebolisce i sensi, e la lentezza nei movimenti va accettata con consapevole tranquillità. “Gli pareva di abitare da tempo / un pallido acquario / forse una bambagia / ma in fondo / sempre era stato il suo sogno / uno zitto dissolversi mite”. L’attesa della fine non provoca disperazione: “Fluire è la cosa che conta”, “E dunque noi con la nostra / stipata valigia / andremo altrove nell’aria: / un nuovo trasloco, come tanti”, perché “mica sei il centro, nessuno lo è”. Saggiamente e con un sorriso spiazzante il poeta ammette: “Esistere è un teso rinviare / e sono necessari un po’ di ghirigori. / Per intanto sulla tavola mi aspetta / una pagnotta”, “Purtroppo eravamo mortali / però la commedia / tanto vivace / non era male, non era male”.

Lo scarso ossequio tributato alla metrica e ad altre figure retoriche (rime, assonanze, anafore, ellissi ecc.), lo stile piano e colloquiale, il lessico mai ricercato, e l’utilizzo composto e intelligente del registro ironico, fanno della poesia di Tiziano Rossi un bell’esempio di originalità formale. A livello contenutistico appare poi rilevante il suo richiamo alle responsabilità individuali verso la storia collettiva nell’intrecciarsi a quella personale, riletta con affettuosa sensibilità.

 

© Riproduzione riservata          «L’Indice dei Libri del Mese» n. IV, aprile 2025

RECENSIONI

COLLIN

DOMINIQUE COLLIN, LA FEDE È ANCORA POSSIBILE? – QIQAJON, BOSE 2024

 

Il testo di Dominique Collin pubblicato nella collana Sentieri di senso delle edizioni Qiqajon è apparso con il titolo originale La foi est-elle encore possible? nella rivista Études 4 del 2020. Collin (1975), teologo domenicano, insegna alla Facoltà di teologia del Centre Sèvres d Parigi, ed è autore di numerosi volumi, alcuni dei quali tradotti anche in italiano (Il Cristianesimo non esiste ancora, Credere nel mondo a venire, Il Vangelo inaudito).

In queste venticinque pagine riflette sull’insignificanza del discorso cristiano nella realtà contemporanea, chiedendosi cosa sia credere, oggi, quando l’indifferenza verso ogni fede rivelata viene esibita platealmente sui media internazionali e nei social da artisti, scienziati, filosofi e persone comuni. Sembra infatti che attualmente il credere in qualcosa abbia perso significanza, anche riferito alla vita individuale di ciascuno. Secondo Gilles Deleuze “noi non crediamo più in questo mondo. Non crediamo neppure agli avvenimenti che ci accadono, l’amore, la morte, come se ci riguardassero solo a metà”. In questo stato generalizzato di scetticismo e indifferenza, quale ascolto può pretendere il richiamo alla fede religiosa?

Già il Vangelo di Luca (Lc 18,8) si poneva questa tormentosa domanda: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” E che fede potrebbe trovare, se non quella caratterizzata da una funzione puramente decorativa, poiché non ha più una realtà dove operare? Il mondo su cui vorrebbe agire la disconosce, e la rifiuta proprio nel momento in cui essa reclama di essere accolta. Il mondo attuale, nella propria vanità e arroganza, pensa sé stesso come sufficiente, confidando di produrre effetti attesi e predicibili. Non l’inatteso, il possibile, il “senza senso”: ma solo il fatto compiuto, che non inquieta, non disturba, ed è appunto favorevolmente prevedibile.

La fede invece crede nell’evento che accade al di là della prevedibilità e del calcolo, e spera nell’inatteso che si presenta senza ragione “sufficiente”. Secondo Kierkegaard, la fede consiste nel “tener ferma la possibilità”: è la speranza che offre significanza alla fede, aprendo a un futuro di novità, alla libertà assoluta del possibile. I vangeli lo ripetono, ribadendo la fiducia all’affidabilità di una promessa: “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23), “Tutto è possibile a Dio” (Mc 10, 27), “Nessun evento sarà impossibile a Dio” (Lc I, 37).

Qui la fede diventa “un’ipotesi viva”: trasgredisce ogni limite alienante, trasportando la potenza del “fuori del senso” in questo mondo. Ed è la speranza che crea il possibile, l’imprevedibile. Credere è sperare, chi non spera si priva della possibilità di credere. Collin afferma che “la fede consiste nello sperare affinché il possibile avvenga e perché è già avvenuto, fatto che rende il possibile ancora più sperabile”. Bisogna dare fiducia non alla possibilità del miracolo, ma al miracolo della possibilità. Infatti, se il possibile è accaduto, ciò significa che può ancora accadere. La fede sposta le montagne (Mt 17, 20), indica il passaggio dal regime della necessità (ciò che è) a quello del possibile (ciò che può essere).

Se l’eccesso di razionalità e criticismo ha minato le credenze cristiane, la fede può sfidare la tracotanza della sufficienza del mondo, suggerendo la speranza come antidoto alla rassegnazione, la possibilità di credere all’impossibile e all’impensabile per uscire dal soffocamento imposto dall’insignificanza. Il “credo quia absurdum” di Tertulliano torna quindi a declamare con forza la sua provocazione. Si può vivere diversamente, anche nella realtà attuale vuota di significati, affidandosi alla speranza irragionevole, eccedente, paradossale “fuori dal senso”: movimento verso l’infinito che apre a un nuovo modo di esistere.

 

© Riproduzione riservata         «Mosaico di pace», aprile 2025

 

RECENSIONI

VAGLIO

LUCA VAGLIO, IL VUOTO – MORELLINI, MILANO 2019

Con un titolo che nella sua inflessibile durezza ricorda atmosfere esistenzialistiche, Luca Vaglio ha firmato Il vuoto, romanzo scandito in sette giornate comprese tra la fine del 2009 e l’inizio del nuovo anno, il cui protagonista Mattia Ventura si racconta in prima persona, svelando senza alcuna indulgenza, ma anche senza ironia, l’inanità in cui trascina la propria esistenza.

Trentaseienne, single, figlio unico e viziato di due apprensivi genitori che lo sorvegliano da lontano, Mattia è un giornalista in cassa integrazione, che gode della propria improvvisa e comunque ben retribuita disoccupazione per concedersi un anno di disimpegno e pigrizia, “lontano da vincoli e contingenze, da obblighi e necessità”.

Si alza tardi la mattina ed è perennemente in ritardo a ogni appuntamento, per un’insopprimibile tendenza alla dilazione. Vive, insomma, in uno stato di accidiosa solitudine, tranquillamente accettata per i suoi vantaggiosi aspetti di indipendenza: legge, va al cinema, ascolta musica, trascorre ore su Facebook e YouTube, bighellona attraverso la città, frequenta molti bar e si concede qualche esperienza sessuale a pagamento, rimanendone generalmente insoddisfatto e umiliato. Abita a Milano, in un bilocale nella zona di Città Studi regalatogli dal padre, che ha provveduto anche a pagargli un posto macchina nel garage sotto casa.

Il rapporto più esclusivo che Mattia nutre con l’esterno è infatti quello con la propria Alfa Romeo 147 nera metallizzata, che guida a folle velocità per le strade cittadine, contravvenendo a ogni regola, sfidando i semafori, occupando parcheggi riservati e rasentando investimenti: “ne apprezzo la linea essenziale e aggressiva, la chiusura a spigolo del piccolo finestrino posteriore e la fiancata che si allarga, cresce, si gonfia tra il faro posteriore e il montante, a suggerire l’idea dei muscoli, della forza, dello scatto rapinoso di un’Alfa Romeo”. Le pagine narranti queste folli corse in macchina sono tra le più vivaci e riuscite del volume, insieme ai ritratti dei vari bar e caffè frequentati, con la descrizione puntuale di camerieri e avventori: l’Albatros, il Giulia, l’Arcadia, l’Hemingway, il Maya, il Milano, nomi che Luca Vaglio ci aveva già fatto conoscere nei suoi libri di versi, Milano dalle finestre dei bar (2013) e Cosmologie (2022).

Improvvisamente, nella “vita labile e inutile, a bassa intensità” del protagonista, uno strano episodio arriva a sconvolgerne lo stato emotivo, catalizzando i suoi pensieri verso timori prima trascurati. Un carrozziere a cui fa controllare uno pneumatico sgonfio gli rivela che la gomma era stata forata e poi malamente riparata con una bomboletta spray. Mattia sospetta che uno dei tre dipendenti del garage di cui è cliente, abbia nottetempo utilizzato la sua auto senza permesso, incappando in un incidente. Inizia così a indagare sull’accaduto, tormentando i garagisti, i propri genitori e i rari conoscenti con le ipotesi più fantasiose. Questa ossessione finisce per riempirgli giorni e notti di fine dicembre, in una Milano sempre più fredda e deserta, scenario corrispondente al suo vuoto interiore: “Manca poco a Capodanno, e sono da solo, come mi capita quasi sempre in questo momento dell’anno. Eppure ho degli amici. Un numero variabile dai tre ai sei, che nella mia mente oscilla di settimana in settimana, più o meno in base al mio umore. E conosco e vedo molte persone. Frequento alcuni cineforum, aperitivi in lingua straniera e ritrovi delle comunità letterarie milanesi, più o meno vivaci e in polemica aperta o strisciante tra loro”.

A distoglierlo dalla fissazione del furto arriva inaspettata una convocazione della Questura, in cui la Polizia gli contesta due telefonate che lo metterebbero in relazione con l’assassinio di una prostituta. Mattia si difende negando qualsiasi responsabilità, in maniera confusa, mentalmente sospeso nella spessa nube bianca che ha inghiottito tutta la sua esistenza. Rilasciato in attesa di nuove prove che lo scagionino, ripara come è solito fare in un bar dei paraggi, cercando un sollievo protettivo e confortante tra le sue pareti. “Non penso a nulla. Sono immerso in una specie di meditazione, il corpo quasi inerte… Guardo le persone che camminano sul marciapiede e sono lontano da ogni cosa, come inabissato dentro me stesso”. Il romanzo si chiude con quest’ ultima riflessione del protagonista, lasciando il lettore in dubbio sulla reale consistenza delle azioni e dei pensieri da lui raccontati, galleggianti in un’impalpabile ambivalenza, nel vuoto giustamente richiamato dal titolo.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 31 marzo 2025

RECENSIONI

MESSORI

GIORGIO MESSORI, IL PIANETA SUL TAVOLO. GIORGIO MORANDI E LUIGI GHIRRI. CASAGRANDE, BELLINZONA 2025.

Tre emiliani di grande spessore umano e culturale sono i protagonisti dell’(ormai museali)incontro letterario celebrato nel piccolo volume edito da Casagrande Il pianeta sul tavolo. Si tratta del pittore Giorgio Morandi (1890-1964), del fotografo Luigi Ghirri (1943-1992), dello scrittore Giorgio Messori (1955-2006). Ho conosciuto personalmente quest’ultimo nel 1985, quando per un anno è arrivato a Zurigo come supplente negli stessi corsi in cui insegnavo come dipendente del Ministero degli Esteri. Ospite qualche volta a cena da noi, io e mio marito ne avevamo apprezzato non solo i molteplici interessi intellettuali, ma anche la discrezione e la sensibilità con cui sapeva rapportarsi alle persone, pur nell’intensità dei suoi silenzi e degli sguardi. Ritrovo ora la sua gentilezza di allora in queste pagine uscite a quasi vent’anni dalla sua prematura scomparsa, che raccolgono due saggi già pubblicati nel 1992 e nel 2005, e sette fotografie di Luigi Ghirri.

Proprio con il conterraneo Ghirri, che aveva iniziato a frequentare negli anni 80, con sempre maggiore familiarità e amicizia, Messori aveva deciso di rendere omaggio al pittore bolognese Giorgio Morandi nel 1990, visitando le sue due abitazioni-atelier (ormai museali) in Via Fondazza, in centro città, e nella residenza di campagna nel paese di Grizzana, per produrre un reportage fotografico in intensa e fattiva collaborazione.

L’appartamento cittadino in cui Morandi aveva vissuto in affitto per quasi tutta la vita, insieme alla madre e tre sorelle, era sobrio e ordinato: il pittore ne occupava un’unica stanza che fungeva da camera da letto e da laboratorio, a cui accedeva da una piccola porta che lo costringeva ad abbassarsi, nel suo metro e novanta di altezza, con un movimento che suggeriva umiltà e dedizione. Davanti al letto si trovava il tavolo su cui erano disposti gli oggetti privilegiati della sua pittura: “brocche, bottiglie, tazze, scatole, vasi, barattoli, teiere”, che per il loro utilizzo quotidiano implicavano una totale confidenza dello sguardo. Materiali semplici e domestici, a cui Morandi consacrava lunghi momenti di paziente contemplazione prima di accingersi a riprodurli.

Messori dedica parole commosse al lavoro artigianale del pittore, alla sua volontà di confrontarsi con le cose, che abitano non solo lo spazio ma anche il tempo. Fedele a una vocazione all’immobilità e al silenzio, Morandi secondo Messori era un artista “che sceglie l’esercizio costante del lavoro per entrare nell’intima realtà delle cose. Il silenzio, di cui Morandi ha voluto circondare la sua vita, è quello di uno sguardo contemplativo che testimonia l’apparizione stessa del mondo, il suo costruirsi in uno spazio visibile che si forma davanti agli occhi”. Questo processo metodico di concentrazione sugli oggetti attivava sensorialmente in lui una prassi di conoscenza creativa, permettendogli di avvicinarsi alla loro enigmatica purezza e realizzando l’assenza dal sé, dal soggetto che guarda, e l’immersione estatica nella natura più intima del reale.

Messori individua nell’arte di Morandi alcune caratteristiche fondamentali: la luce, in primo luogo, che dà sostanza anche al colore, senza eclissarlo ma rendendolo più impalpabile. E poi la ripetizione di temi sempre uguali, ripresi secondo infinite modalità, “rifuggendo da un’ansiosa ricerca espressiva del nuovo, che finirebbe soltanto per ritrovare l’identico sotto le apparenze più svariate”.

Questa necessarietà “dell’esserci” intuito dalla pittura di Morandi era stata ben compresa dall’occhio fotografico di Luigi Ghirri, per il quale vedere coincideva con il fotografare, secondo “un progetto di amplificazione delle percezioni e non di una indiscriminata moltiplicazione degli oggetti”. Tale rigorosa pulizia dello sguardo accomunava la pittura di Morandi alla fotografia di Ghirri, e Messori ne offre una preziosa testimonianza nel commentare una foto che viene riprodotta anche nel volume. Il letto della casa di campagna di Grizzana “ha un solo colore, il bianco, così anche il volume e il disegno delle cose vengono dati da lievissime sfumature di bianco, che certo non cancella ma comunque fa sì che il mondo fisico degli oggetti, delle cose, quasi si smaterializzi in un soffio di luce”.

La stima e l’affetto che univa Messori a Ghirri è ben esemplificato in quanto scrive nel secondo saggio del libro: “A differenza di molti altri fotografi, Ghirri non chiudeva il mondo nell’obbiettivo di una macchina fotografica, come se il mondo fosse semplicemente qualcosa da mettere dentro un’inquadratura. Semplicemente guardava, con insaziabile curiosità, e andare in giro con lui si traduceva nell’esperienza di vedere nel mondo tante immagini che poi, solo in alcuni casi, finivano in una stampa fotografica. Perciò la cosa sorprendente ed emozionante era scoprire, attraverso di lui, quante immagini popolassero il mondo, che così finiva di essere quel tutto indistinto in cui normalmente ci muoviamo… E così è riuscito a farmi a capire, meglio di tutti, che dal mondo è anche stupido difendersi. Tanto non siamo che passanti, siamo stranieri anche alla strada che percorriamo ogni giorno”.

La sintonia con gli oggetti che Morandi e Ghirri esperivano, permetteva loro di “varcare la soglia che normalmente separa chi guarda dalla cosa guardata”, annullando la distinzione tra esteriorità e interiorità in un momento epifanico capace di restituire l’anima a ciò che è inanimato. Il tragitto poetico si risolveva per entrambi in un percorso mistico in direzione della luce, della chiarezza, dell’essenzialità ontologica.

In questi due brevi testi Giorgio Messori è riuscito a amalgamare in un’unica visione spirituale le esperienze creative di due grandi artisti, arricchendo le pagine con qualche appena accennata e pudica nota biografica, e con appropriate interpretazioni critiche di filosofi, sociologi, psicanalisti (Bateson, Bachelard, Merleau-Ponty, Fachinelli…), e con citazioni tratte da poeti e scrittori come Rilke, Kafka. Bousquet e Holan. Tra queste, la più in sintonia con il dettato del libro è forse l’affermazione ammonitrice di Cézanne: “Bisogna sbrigarsi a guardare le cose perché tutto sta scomparendo”.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 31 marzo 2025