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RECENSIONI

GIUDICI

GIOVANNI GIUDICI, IL MALE DEI CREDITORI – MONDADORI, MILANO 1977

Con il suo ultimo volume di versi, Il male dei creditori, Giovanni Giudici riprende il discorso iniziato in O Beatrice, accentuando qui una ricerca formale là ancora in embrione, ma lasciando pressoché inalterati i temi della precedente raccolta. La poesia di Giudici vive infatti sempre in dimensioni ristrette, quotidiane, che pur essendo esemplari di un’esperienza individuale, arrivano a rappresentare una realtà comune a molti. Ma definibile come propria di un solo ambiente, quello medio-borghese: quello, per spiegarci, della casa in città non proprio centro ma neanche periferia, del posto di lavoro di un certo prestigio ma alienante, dei party non disertati ma nemmeno amati. E queste nuove poesie sono ancora belle poesie borghesi che raccontano una vita borghese vissuta con contraddizioni borghesi. I temi sono sempre quelli, tipici, di Giudici: la morte come spettro e immagine persecutoria; la donna come tentazione e peccato, in primo luogo, ma anche come desiderio di pace, promessa mai mantenuta, ancora di salvezza; Dio come luce e riscatto; il corpo come fisicità animale ma anche come decadenza, invecchiamento, dissolvenza; il fantasma del padre, infine, che domina «lui dio re patria e duce calpestante». Ma ciascuno di questi “chiodi” non è che un aspetto di quello che, solo, spiega tutto Giudici, la sua angoscia: cioè il senso di colpa provocato da un peccato razionalmente riconosciuto e circoscritto, ammesso con ironia e giustificato, un peccato che è fondamentalmente di infedeltà. Da questo peccato non c’è pena che assolva, se anche con la penitenza sussiste il dubbio di sbrigarsela troppo facilmente. Se questo del peccato è il nodo centrale, la sofferenza più grossa che si intuisce alla base di queste poesie, a controbilanciare questa colpa sta appunto la presa di coscienza del tradimento, e il conseguente dibattersi in una penosa contraddizione: «Il fatto è che non si / ha coraggio di camminare / sull’acqua senza paura / di sprofondare». Ma il fatto è, soprattutto, che di fronte alle decisioni irrevocabili e ai tagli netti, Giudici preferisce scappare, rifugiarsi, nascondersi, oppure sfoderare l’arma, tagliente, dell’ironia, ritagliandosi un margine di vivibilità. Questo non voler radicalizzare, cercare un compromesso, è evidente anche da un punto di vista formale, poiché la poetica di Giudici concilia primo novecento e avanguardia, moduli addirittura stilnovisti e strutture tipiche del “parlato”, con risultati spesso egregi. Talvolta si notano delle forzature, delle cadute di ritmo, qualche verso decisamente brutto, ma si ha sempre l’impressione che tutto ciò sia voluto, corrisponda ad una precisa volontà di pungolare il lettore, di infastidirlo, o meglio di non corrisponderlo nelle sue aspettative. Un grande pregio di Giudici è quello di saper scherzare con la sua materia, ma in modo sottile, tanto che ce ne si accorge solo a una seconda o terza lettura: e si può sorriderne, cosa che succede raramente leggendo poesia. Un’ultima annotazione, riguardante la (non) politicità del testo: sulla copertina è scritto che questo libro ambisce a un significato collettivo, civile. Ma in realtà qui il collettivo è sentito come minaccia, a volte violenza, sopruso: e tutto è privato, è personale. Dove si potrebbe trovare un indizio di poesia civile (in due soli testi: Balducci e Immaginando Gramsci) abbiamo invece una trasfigurazione soggettiva di personaggi non più politici, ma colti in una loro individualità limitata: gag, macchiette. Il dovere di «dare un senso di società / alla privata eudaimonia» è vissuto in realtà come fastidioso rimorso, e a esso si rinuncia ancora in nome di una più totale aderenza alla storia privata, di una ricerca dell’isola felice (della poesia?): «O eccoli che farneticano talvolta / non si deve privatizzare / in queste ecatombe l’esistenza, / ma farsi parte di un progetto collettivo, / tuffarsi in quella stanza piena di fumo / dove il giusto o l’errore sono di molti…  / E tutto ciò per non dire che ha bisogno / di legittimità la povera bocca / quando resiste alla lingua ansiosa di rifugio».

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 29 aprile 1977

RECENSIONI

ZANIER

LEONARDO ZANIER , IL CÂLI – AMADEUS, MONTEBELLUNA 1989
CAMUN DI DIMPEÇ – ED. LE PAROLE GELATE, ROMA 1989

Due volumi di poesia pubblicati nello stesso mese dello stesso anno sono senz’altro spia di una vitalità di pensiero e di una fertilità di vena indubbiamente e invidiabilmente felice, esuberante. La stessa felicità ed esuberanza che Leonardo Zanier esprime col suo modo di aggredire la vita, di impastoiarsi nel lavoro, di spostarsi da un capo all’altro dell’Europa si evincono infatti dai suoi versi: chi li ha letti dal loro primo ufficiale e meritatamente famoso manifestarsi (Libers…di scugni là, 1960-1962) sa di questa passione politica, vis polemica, ma anche di quanta purezza di canto e limpidezza teorica essi siano pregni. Confrontarsi ora, in questo decennio che ormai ci separa dal duemila, con le utopie di una vita, è tanto impervio quanto stimolante per un sindacalista affermato e accreditato come Zanier; più difficile e intrigante ancora affrontare la sfida, da poeta, proposta dalla nuova poesia che oggi tanto si pratica e si esalta: impersonale, eterea e, quando in dialetto, addirittura elegiaca. Con questi suoi due nuovi libri,  Il câli  e  Camun di Dimpeç, Zanier ha accettato questa duplice sfida, affrontandola con il piglio baldanzoso che gli è proprio e approdando ad un risultato di sicura rilevanza e positività. Il câli (Il Caglio), pubblicato a Treviso, per i tipi di  Amadeus, è un testo complesso articolato in diversi livelli di scrittura, con una scissione ben netta tra prosa e poesia, documenti, saggi e interventi, italiano e friulano, senza tuttavia risultare ambiguo o discontinuo. Il caglio, che si aggiunge al latte scremato e scaldato per farne formaggio, è ingrediente in qualche modo magico, in qualche modo miracoloso, imparentato al lievito di evangelica memoria: serve a trasformare una materia, grezza, in un’altra, più elaborata, un prodotto naturale in uno più artificiale. Prosa in versi, pensiero in poesia, impegno politico in fermento poetico. I personaggi, gli ambienti, quelli tipici dello Zanier che già conosciamo (l’oste di Povolaro, Bortul dal Negro, cui duole la gamba amputata; la vecchia Mabile guaritrice di paese, mezza strega mezza luminare di una scienza alternativa e antichissima; Jacum, operaio della Sulzer di Winterthur, «Cipputi / furlan e svizzer»; i marocchini, nuovi emigrati sulle orme degli emigrati carnici…), protagonisti di un’epopea degli ultimi cui Zanier ha sempre dedicato la sua attenzione di politico e il suo amore di poeta. Ma ci sono anche altre atmosfere da osservare, altre somme da trarre: fare i conti con l’età che avanza e con il corpo che funziona meno bene: «e in ogni caso ci si troverà confrontati ad assumere una fase che ha davanti meno futuro. Insomma preparati a morire, entrare nella terza età, ridimensionare il campo d’azione, iniziare un nuovo ciclo, l’ultimo, non è faccenda semplice…».

«lu cjâf / l’é plui lambri / mi samea- // lu cuarp / mancul sbûrit / – no s’imbardea-», «I ciati ogni buinora / ch’a mi spieta / ‘tal armarut di formica / dal bagno / un quart di ridada / in porcelana / sul so telâr di azâr / arian e aur».

Abituarsi all’assenza, ai vuoti lasciati da persone amate o amiche, agli ambienti di lavoro e alle case cambiate, al venir meno della propria indispensabilità: «s’alzin / voi no mi lodin / arlevament / a mancjanza», «sôra / muruz e spaltadas / raminas e cunfins // jo cun lôr / spia e contrebandîr / (dai miei destins)», «par nasci / arbui o lerbas / in t’un âti forest / o finî ta lavatric / a less». Il poeta cambia dentro, cambiano anche i luoghi intorno, prostituiti al dio soldo («E poi stagioni e turismo: non tanto predica ecologista, ma caricatura minimale di un fenomeno degenerativo…», come nell’amara  Estât a Lignan). I personaggi quasi epici che animavano la vita delle comunità montane hanno lasciato il posto a persone meno vere, fatte quasi con lo stampo: la montagna stessa, sia essa carnica, svizzera o austriaca, si è imbastardita in un rapporto di sfruttamento reciproco col turismo, snaturandosi, condannandosi: «si viergins buteghins / di souvenirs e sciolinas / boutiques mode-in / tee-rooms Gasthäuser / camerirs sclâs / côgus ‘talians o grisons / lavaplaz turcs o tamils // tra i antî das butêgas / blanc e ross i ladins / ridint di gust / a contin i becins: / ‘Bundî-Buongiorno- / Grüzi-Grüssgott-Gutentag’ / a discin vivorz / a chel davoi ingjaulât / fascint pal frêt / ‘ta l’aria / nuluz di flât / a ogni peraula».

Il guardarsi alle spalle non è allora un processo nostalgico e un po’ reazionario di tanta poesia vernacolare, un “come eravamo” stillante retorica: in Zanier il parlare di figure e ambienti del passato, e il parlarne in dialetto, assume quasi una connotazione documentaristica, di ricerca e di memoria “archeologica”, affinché non tutto si perda di quello che siamo stati e che la Carnia è stata.
Nel secondo libro, Camun di Dimpeç, è proprio questo desiderio di narrare e fissare nel ricordo collettivo fenomeni e sentimenti in via di estinzione ad avere lo spazio e la tensione poetica maggiore. Camun di Dimpeç (titolo che gioca sul doppiosenso tra camuno-comune) è un pregiato volumetto stampato in pochi esemplari, numerati e firmati, dall’editore Martinis per  Le parole gelate di Roma: Zanier vi narra la storia di un bastone ritrovato in una malga di Ampezzo, minutamente inciso in tutta la sua lunghezza con disegni riportati anche sul libro: «…ramazut di nolâr, taiât ‘ta stagjon dai amôrs…sgorbiuta cul mani di quargnul e timp, timp avonda e un pinsîr, un pinsîr fiss ‘tal cjâf…». Quale sia stato il pensiero fisso del contadino-artista, Zanier cerca di interpretarlo, da poeta, con l’offrire una lettura che partendo dall’incisione descritta minuziosamente, arriva ad azzardare ipotesi psicanalitiche, ma anche soluzioni più leggere e fantasiose, a dare aria al già arioso e inventivo ricamo grafico, come in questo bel pezzo, Tension: «Pès ch’al svuala e al si alza ribaltât…ai van devour: linzul, aquilons, tovalas, gardelas e imo’ cours, cours-pess, cours-pagnocas…Dût tacât, picjât, come a suîa sui rais dal sôreli, o su ramazuz di un arbulon di cucagna, o sui fi di una tela di rai…Taula improntada, sul prât, par in gustâ di nozas. Dut al va in su, in sbighèz: tension, tiradoria, fan… voia insomas. Il pastor vevel fan? Fan di ce? I mi dîs j ti dîs…».

«Agorà» (Svizzera), 21 giugno 1989

RECENSIONI

DORIGO

ERMES DORIGO, LE CENERI DI PASOLINI – CAMPANOTTO, UDINE 1994

Ermes Dorigo è una voce nuova e diversa nella cultura friulana di questi ultimi anni: appassionato organizzatore di convegni in Carnia, divulgatore e tenace mentore di tradizioni alpine, polemico pubblicista e critico. Oltre a ciò, Dorigo è narratore e poeta in proprio, e in quest’ultima veste ha recentemente pubblicato un volume di versi, Le ceneri di Pasolini, che, a quasi quarant’anni dal libro pasoliniano dedicato a Gramsci, tende a recuperare la tensione ideologica e la forza d’urto di quel testo. Intendiamoci, Dorigo è abissalmente lontano dalle scelte formali di Pasolini: non troviamo in lui la terzina classica, né lo stile retorico-celebrativo dell’altro. Il suo discorso è più franto e tormentato ideologicamente, e si riflette in una forma molto accanita, più giocata e “astuta”, nel senso che conosce e sa sfruttare tutti gli apporti poetici di questi nostri ultimi decenni (da Sanguineti ai neodannunziani). Eppure c’è anche qui indignazione morale: «Secolo agonizzante, ora che tremi / la tua fine e con livido sguardo / delirante brami la fine / dell’altro, ringhiando la vittoria / sul tu solidale, dal seme di morte / che ti ha generato educhi / il male e una velenosa bava / spargi di follia e di lutto: / morto tu, dio, morto tutto?)», con l’aggravante di una disperazione – cioè, proprio, di una non-speranza, di una consapevolezza della vanità di ogni resistenza politica – che Pasolini, alla fine degli anni ’50, non conosceva. Pasolini padre, quindi, e Pasolini patrigno, amato e contestato («come / una collazione di urla / mute, inespansa virtute / vedevi la verità: / ma era vera?»), insieme ad altri riferimenti mitici, paterni, della nostra tradizione letteraria, quali Paolo Volponi, cui Dorigo attribuisce un secondo, affettuoso omaggio in versi.

C’è, in questo volume di Dorigo, un intenso, straziato richiamo all’eros, molto diverso rispetto a quello che Pasolini ci lasciava intuire ne Le ceneri di Gramsci: là timore e tremore, adorazione religiosa del corpo, qui dissacrazione del sesso, svelamento impudico, genitalità espressa come in un basso continuo e ossessivo. La sezione Raphaela, la più violenta e febbricitante del libro, presenta, accanto a versi di indubbia valenza erotica («Ma come guizzerebbe la mia trota / nella tua mano ignota con perle di latte arcano»), in qualche modo sciolti e appagati nel desiderio soddisfatto, presenta dunque un angosciante turbinio di riferimenti espliciti, assillanti ed esagitati nella loro consapevole oscenità. Al punto che lo stesso Dorigo sembra averne paura, e tenta esorcismi che riducano la carica sensuale dei suoi versi, smorzandone l’ebbrezza attraverso giochetti linguistici, scioglilingua, che in realtà finiscono per risultare elementi di distrazione piuttosto datati: «che porco / questo mio corpo / che copro d’un poco di croco!» . Lucido com’è ideologicamente, indubbiamente abile nella costruzione formale, quando non permette alla sua vitale tensione poetica di annacquarsi, e la mantiene vibrante e tesa, Dorigo ci regala versi importanti, importanti turbamenti.

 

«Zeta News», n.31/32, gennaio-febbraio 1995

RECENSIONI

LAMBERTI

ANGELO LAMBERTI, IL SIGNOR FRANZ K. – LCE EDIZIONI, CASTEL FRANCO VENETO 2015

Angelo Lamberti, poeta e drammaturgo nato nel 1942 in provincia di Mantova, attivo animatore culturale nel suo territorio padano, ha appena pubblicato nella  Biblioteca dei Leoni  curata da Paolo Ruffilli un volume di versi scandito in sei sezioni. Se vogliamo iniziare il nostro commento proprio dalla poesia conclusiva, diciamo che si tratta di una preghiera alla Signora con la falce, un’implorazione affinché agisca con clemenza, senza crudeli differimenti: «e vorrei che arrivassi all’improvviso… // Ti chiedo: non rendermi difficile / il facile che mi aspetta». La morte è protagonista anche di un altro capitolo del libro, intitolato Livello di calpestio, in cui si muovono ombre aggredite dalla fine più o meno attesa, più o meno desiderata. Anziani stanchi o centauri imprudenti, anonimi clochard o iracondi viveurs… Ma non è senz’altro il finis vitae quello che interessa maggiormente raccontare a Lamberti: invece la tenerezza dei ricordi, la nostalgia per ogni bellezza naturale, l’inquietudine della ricerca metafisica, l’amore per l’espressione scritta. Ecco allora la descrizione del suo primo lavoro, quando, bambino dodicenne, si ritrovava in treno tra adulti insonnoliti o disincantati: «Tra i compagni di viaggio c’è chi porta / gli occhiali tristi della persona istruita / e chi il malodore di ascelle sudate», chiosando con malinconia: «La conquista del pane quotidiano / sfregia le stagioni dell’infanzia». Ancora, in una sezione dedicata a Dieci nomi, sono presenze di familiari o amici a riemergere dal buio della memoria: «Gli occhi docili e spauriti / della sua razza storpiata / da fatiche seminate alla terra», è un omaggio poetico a una contadina cui la vita non ha saputo rendere giustizia (allora, anche la bestemmia educata, «dio invasore», per vendicare un malato di cancro, trova una sua umana giustificazione). Ma l’autore è uomo di lettere, autodidatta appassionato cultore di classici, e il suo confronto con i grandi della letteratura è fecondo e continuo: quindi Shakespeare, Calderon, Poe, Céline, l’amato concittadino Umberto Bellintani, e soprattutto Franz Kafka diventano interlocutori assidui e maestri venerati. Perciò in Teatro instabile e in Il signor Franz K. il gioco di sovrapposizioni tra il poeta e gli scrittori celebrati, le trasfigurazioni e le citazioni che segnano «le tappe di un’affinità letteraria intuita, cercata, coltivata e consolidata» (come giustamente sottolinea la prefatrice Chiara Prezzavento) si rincorrono quasi a voler recuperare in uno specchio rifrangente un’ambita eredità di pensiero, un tentativo di riconoscersi allievo in perenne e inquieta ricerca: «lui, / che nel territorio degli eruditi blablabla / arranca la stesura di versi controversi». La sua inquietudine si rivela tale non solo in termini letterari, ma soprattutto in ansie esistenziali, là dove Lamberti trova un proprio tormentato alter-ego in ogni esiliato, in ogni piccolo messia in incognito, nel malinteso, nel fuori catalogo, in chi «Porta in salvo l’innocenza delle cose / percorrendo a ritroso la strada»(Un angelo in esilio), alla ricerca di quella modesta ma salvifica luce che chiamiamo poesia.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Il-Signor-Franz-K-Angelo-Lamberti.html      1 ottobre 2015

RECENSIONI

MANICARDI

LUCIANO MANICARDI, SIATE CREATIVI! – QIQAJON, BOSE 2015

Le edizioni Qjqajon del Monastero di Bose pubblicano questo libriccino del monaco Luciano Manicardi dedicato alla creatività, intesa non solo come dote artistica ma soprattutto come condizione mentale e spirituale di approccio all’esistenza. Viviamo tutti una sorta di nichilismo che «ci appiattisce sul presente e ci paralizza nel pantano dell’oggi, chiudendoci in quella schiavitù volontaria della rinuncia a credere e a sperare, a immaginare e a desiderare…» . Come recuperare, allora, responsabilità e progettualità, orgoglio delle proprie scelte e gioia di esistere, indipendenza di pensiero e originalità? Come tornare, in una parola, a essere liberi e padroni della nostra vita? Manicardi riflette su tre realtà che condizionano il nostro agire contemporaneo, e che patiscono una profonda crisi: futuro, lavoro, interiorità. Ciascuna di esse ci appare priva di ottimismo e sfiduciata, quasi minacciosa nel suo profilarsi svuotato di prospettive. Il lavoro non è e non dovrebbe essere solo sforzo e fatica, attività compensata da un salario, subordinazione a interessi altrui, ma soprattutto ricerca di sé, completamento della propria umanità, conoscenza dell’io, costruzione di una spiritualità capace di riflettere anche sul proprio otium. Dove per otium non si deve intendere l’irresponsabile e impigrito “dolce far niente” o l’immersione nello svago e nel divertimento sfrenato, ma proprio un raccoglimento contemplativo che ci faccia recuperare un’intimità con noi stessi troppo trascurata: «…cerca consapevolmente la solitudine e abitala; vivi il silenzio come azione interiore, abita il silenzio; persegui la pace interiore, stabilisci in te la pace interiore».

Soprattutto in una contemporaneità e in un futuro come quello che ci si prospetta, in cui il lavoro si trasformerà profondamente (riducendosi negli orari, utilizzando macchine e robot che sostituiranno l’impiego di manodopera umana, lasciando a nostra disposizione sempre più tempo libero), è necessario che impariamo a impiegare diversamente i nostri pensieri e le nostre capacità, rivoluzionando abitudini collaudate, riscoprendo la meditazione e la riflessione: in una parola, tornando a essere creativi. «C’è una fecondità legata al non lavorare, al non fare, come nella parabola evangelica del seme che spunta da solo e che cresce, matura e porta frutto grazie sì al tempo del lavoro, del fare, ma anche a quello del non fare, dell’attesa, dell’assecondare i tempi della crescita (cf. Mc 4, 26-29). C’è un futuro che nasce dal non lavorare».

Manicardi esorta a sfruttare l’immaginazione personale, per far sì che l’impossibile divenga possibile, per non arrendersi al reale e approfondire ogni potenzialità vitale, permettendo l’emergere delle novità e lasciandosi stupire da esse. All’immaginazione bisogna poi accostare la concentrazione, la volontà, l’ambizione, l’accettazione dei conflitti con l’esterno: tutti atteggiamenti mentali che corroborano nella persona la sua peculiare originalità di individuo, rispetto alla banale massificazione cui ci obbligano la cultura mediatica, la dipendenza dalle mode, il conformismo sociale e ideologico.
Sono parole vivificanti, quelle espresse in queste poche pagine: e tuttavia ci lasciano un’impressione di utopismo elitario, di sofisticato cerebralismo, quando proprio in questi giorni il nostro mondo occidentale privilegiato e benestante viene invaso da masse di disperati, di affamati, di oppressi a cui è stata tolta qualsiasi speranza di futuro. E che certo, più che alla scoperta della loro creatività, sono rabbiosamente e giustamente interessati alla ricerca di un lavoro, di un’abitazione, di un riscatto non solo economico. Si avverte insomma in questa riflessione di Luciano Manicardi la stessa atmosfera di algido intellettualismo, di incontaminata supponenza che si respira nel Monastero di Bose, tanto attento allo scambio ecumenico e culturale, alla presenza assidua nei luoghi deputati dell’editoria e del confronto letterario, all’eleganza dei rituali religiosi, ma forse non altrettanto evangelicamente presente là dove forse oggi sceglierebbe di incarnarsi nuovamente Cristo.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Siate-creativi-Luciano-Manicardi.html      29 settembre 2015

 

RECENSIONI

AMBROSI

ROSANNA AMBROSI, GOMITOLI – HIBISCUS PRESS, ZURIGO 1991

Rosanna Ambrosi è arrivata a Zurigo dal nativo Veneto nel ’64, e da allora si è sempre occupata con competenza e dinamismo dei problemi dell’emigrazione, come insegnante e funzionaria sindacale. A tutt’oggi è membro eletto di due commissioni miste per i problemi degli stranieri nella città di Zurigo. Traduttrice e giornalista part-time (ricordiamo le sue collaborazioni ad Agorà nella rubrica «camera con vista»), per breve tempo ha tentato anche l’impervia via dell’editrice in proprio, coltivando sempre -al di là di tutte queste attività- l’ambizione e la passione per la scrittura. Con la poesia si era già cimentata una decina di anni fa, nel volumetto Diario discontinuo, in cui era pressante la materia esistenziale cui dare forma, ancora un po’ acerbo ma curioso di nuovi timbri risultava lo stile, febbrilmente franto in una ricerca non sempre coerente e rigorosa di suoni, e segni, e immagini a metà tra la post-avanguardia e un ungarettismo di maniera. Nel volume di versi che ha dato recentemente alle stampe (Gomitoli, Hibiscus Press), Rosanna Ambrosi è riuscita ad asciugare le più vistose sbavature di quella prima produzione, anche se talvolta persiste nel gusto per lo sperimentalismo più datato, con una consapevolezza che rasenta il masochismo: «Sì, lo so / spesso / scivolo nel banale // continuo a scivolare / in questo cunicolo / sdrucciolevole // chi verrà a ripescarmi / mettendomi manette ai polsi?».

I gomitoli del titolo sono composti da tanti fili (visioni, ricordi, emozioni), che indicano strade percorse e interrotte, rapporti intrecciati e strappati, matasse di vita da dipanare e ricomporre nella speranza di recuperare il bandolo iniziale, di cui servirsi per disegnare un arazzo armonioso: «riarrotolare / lentamente // (con pazienza) // i gomitoli interiori». Il più vivo tra questi «momenti di grazia poetici» mi pare quello rappresentato dall’ottava sezione di un breve poemetto senza titolo, che ha qualche cadenza montaliana: «finalmente / li trovammo / tutto un gruppo – una famiglia / non proprio porcini / ma parenti // bellissimi // li guardammo a lungo / con amore // decidemmo di lasciarli crescere / ancora un po’ // quando ripassammo / erano marci di pioggia».

Ma altri ancora si potrebbero citarne, di particolarmente felici, non tanto quelli in cui l’elegia è più spiegata e distesa, al punto da rasentare la retorica, quanto quelli più ironici e autoironici: «grande capacità / di fare / cose / alla rovescia / figli-lavoro-università»; «tre / quattro / cinque / (a volte sei-sette) / persone diverse / mi coabitano dentro // spesso / mi danno tutte fastidio».

Stilisticamente c’è da rilevare una propensione, non sempre formalmente giustificata, al pastiche linguistico, all’uso indifferenziato di francese, inglese, tedesco, lingue che certo contribuiscono a creare un’atmosfera di estraniamento e di sospensione del lettore, e che tuttavia non bastano da sole a fare poesia; un’evidente inclinazione all’uso-abuso degli avverbi, spesso tra parentesi, con l’esplicito proposito di riprodurre nei versi la prosaicità colloquiale di una poesia narrativa e “bassa”; la tendenza mediata ancora dal primo Ungaretti ad abolire qualsiasi segno di interpunzione, rime e metrica, in versi che si riducono per lo più ad un’unica parola e rifiutano quasi del tutto la coniugazione del verbo, come in questa poesia dell’ 80, una tra le migliori del libro: «al lume di una / candela / (una sola) // per / vedere meno // per lasciare / più spazio».

 

«Agorà» (Svizzera), 30 gennaio 1991

MAESTRI

BETOCCHI

NON HO PIÙ

Non ho più che lo stento d’una vita
che sta passando, e perduto il suo fiore
mette spine e non foglie, e a malapena
respira. Eppure, senza acredine.
C’è quell’amore nascosto, in me,
quanto più miserevole pudico,
quel sentore di terra, che resiste,
come nei campi spogli: una ricchezza
creata, non mia, inestinguibile.
Nemmeno più coltivabile, forse, ma vera
esistenza; così come pare sperduta
nel cosmo, con la sua gravità, le sue leggi,
il suo magnetismo morente, che lo Spirito
non dimentica, anzi numera.
Non guardatemi, che son vecchio,
ma nel mio mutismo pietroso ascoltate
come gorgheggia , com’è fiero l’amore.

***

COSI’, DA PIU’ OSCURE LATEBRE
Così, da più oscure latebre, si libera
un io sconosciuto, invecchiando, cui
non badammo da giovani, o che intravisto
tememmo, e parevaci il peggio di noi,
il più abbandonato e senza speranza;
eppure era lui, nella sua essenza precaria
era l’uomo, nella triste sua carne,
e mortale destino, e ivi dentro
il suo amore, melanconico e vorace,
e fatuo, indegno di risposta: e ora che il crudo
suo vero rivelasi, tu, anima, specchio
d’eterno, che cosa farai? Così s’interroga
il vecchio, dondolando la testa, mentre
soffre e dubita.

 

Carlo Betocchi (1899-1986)

MAESTRI

KAFKA

RIMANI AL TUO TAVOLO

(…) Non è necessario che tu esca di casa.
Rimani al tuo tavolo e ascolta.
Non ascoltare neppure, aspetta soltanto.
Non aspettare neppure, resta
in perfetto silenzio e solitudine.
Il mondo ti si offrirà per essere smascherato,
non ne può fare a meno,
estasiato si torcerà davanti a te (…).

Franz Kafka (1883-1924)

RECENSIONI

AMBROSI

ROSANNA AMBROSI, I BAGNI DI CALDIERO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1991

Rosanna Ambrosi, veronese emigrata in Svizzera a vent’anni, ben conosciuta nel mondo dell’emigrazione italiana per il suo impegno culturale e politico a favore degli stranieri, ha pubblicato in dicembre presso le Edizioni Casagrande di Bellinzona un romanzo-diario, I bagni di Caldiero, in cui ripercorre anni e atmosfere comuni al ricordo e alla sensibilità di molti di noi. Con tratto leggero e piacevolezza di stile, la Ambrosi recupera il rapporto doloroso ma fecondo che la legava ai genitori: una madre repressa e repressiva, dolente e pudica, che mai neanche in punto di morte riesce a trovare il modo di comunicare con la figlia al di là delle convenzioni, e un padre più amato, se non altro per l’aura di mistero che avvolgeva i suoi anni giovani, passati in carcere per attività antifascista. La bambina Rosanna viene fatta rivivere nella sua selvatichezza istintiva di animaletto mai del tutto addomesticato, impaurito e pronto a mordere: si veste da maschiaccio ma è affascinata da ogni preziosismo e raffinatezza femminile (appena accennato, ma intenso, è il richiamo subìto dall’elegante figura della nonna materna, che, sola, la sa introdurre ai misteri incantati della fiaba e della poesia); patisce presto il richiamo imperioso del sesso, occultato ferocemente da cattolicissimi sensi di colpa; conosce l’umiliazione di frequenti rovesci di fortuna della famiglia, il confronto penoso con ambienti più ricchi, più colti, più raffinati. Dapprima Verona, in seguito Padova, provinciali nella loro affettazione pseudoculturale, offrono alla sua adolescenza inquieta uno sfondo solidamente tradizionale su cui formarsi e affinare le armi per le prime, importanti, ribellioni. E’ l’incontro con Bernardo, poeta comunista più anziano ed esperto di lei, ad agire come miccia, a far esplodere i contrasti fino ad allora censurati in famiglia. Questa lunga e meticolosa carrellata di avvenimenti del passato, ripercorsi da una memoria mai ironica o risentita, a tratti anzi troppo lucida e distaccata, vengono inframmezzati da pagine diaristiche (esternamente rese riconoscibili anche da un diverso carattere tipografico) “al presente”, in cui Rosanna Ambrosi ormai adulta, divorziata e madre di due problematici adolescenti, si analizza e ridiscute i ricordi alla luce dei loro sviluppi concreti; racconta l’agonia dei genitori e, con essa, la morte, la non recuperabilità di una parte di sé; si giudica come madre, moglie, ex moglie, tenendo però sempre a bada la sua sofferenza, non scoprendosi mai troppo nelle fibre più intime: forse proprio perché finisce per “raccontarsi” eccessivamente negli accadimenti esteriori. E’ un po’ come se a noi lettori venisse proiettato sotto gli occhi il veloce film di una vita: un film girato con competenza e completezza, ma senza primi piani, senza pause per la riflessione. Un esempio tra i tanti, queste poche righe, liquidatorie, sul funerale della madre: «Infilata la cassa nel loculo, dei muratori l’hanno richiusa alla meglio. Più tardi vi verrà applicato un marmo. Mi faceva una ben strana impressione vedere murare mia madre».

Il linguaggio è pulito, lo stile scorrevole: e oggi poter scrivere ciò è già moltissimo. Ma se la sofferenza e la gioia fossero state in grado più spesso di aprire squarci, buchi neri, bagliori accecanti nelle pagine e nel lettore, Rosanna Ambrosi ci avrebbe fatto un dono migliore.

 

«Eco di Locarno», 22 febbraio 1992

RECENSIONI

CARBOGNANI

GERMANA CARBOGNANI, UN GRANDE MONDO DI DONNE – ALICE, COMANO 1991

I bambini che oggi affidano al Nintendo i loro sogni e le loro proiezioni fantastiche, le adolescenti che si costruiscono i loro oroscopi personalizzati con il computer, trent’anni fa avrebbero forse interrogato le lucciole o le stelle cadenti per ricavarne presagi meno specifici ma certo più suggestivi. Trent’anni fa, in Carnia, poteva accadere che una ragazzina chiedesse a un grillo rubato a un prato in una notte di giugno, tenuto prigioniero sotto un bicchiere per ore, e poi lasciato improvvisamente andare, di indicarle nella fuga quale direzione avrebbe preso il suo futuro. E se il grillo correva («oracolo, speranza e un po’ di fato») verso il fiume, verso l’ovest, «dritto dove non c’era più paese», esprimendo con naturalezza una sentenza che equivaleva a una condanna, quella ragazzina poteva sentirsi morire. Cresciuta, avrebbe – come moltissimi altri carnici – lasciato le sue montagne per una vita matrigna da spendere chissà dove, tornando ogni tanto, col cuore e con gli occhi, alla sua infanzia e alla sua gente, magari scrivendone un libro-diario, un libro-memoria e testimonianza, come questo Un grande mondo di donne, di Germana Carbognani, dal titolo rassicurante e materno. Germana Carbognani vive da molti anni nella Svizzera Interna, e in Ticino presso le Edizioni Alice ha pubblicato la sua autobiografia, seguendo l’incoraggiamento di Saverio Tutino, direttore dell’Archivio Diaristico Internazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo). Non mi sembra si possa equivocare, come hanno fatto alcuni autorevoli commentatori, definendo il volume femminista: semmai femminile, donnesco, in quanto non contemplante l’universo maschile se non come assenza, lontananza. Mondo di donne, da sempre, è il mondo carnico. Donne sposate giovani e già gravide, ingravidate poi ogni anno a Natale dai mariti emigrati che tornavano per le feste dalla Francia, dal Lussemburgo: donne con la gerla sulle spalle e i “scarpéz” di pezza ai piedi. Buone a far la polenta, a far figliare le bestie, a lavare d’inverno nell’acqua gelida, crescendo i figli (maschi robusti e di poche parole, femmine caparbie e forti come loro) senza svenevolezze. Germana Carbognani, ultima di tre sorelle, vissuta con la madre, le zie, la nonna, si definisce da subito autrice in quanto donna, e donna di Carnia: «guardavo la vita con altri occhi. Occhi non solo di bambina, ma di piccola carnica, fiera come tutte le donne carniche e felice di esistere…».

Il “grande mondo” che racconta – grande non solo perché osservato con sguardo infantile, ma perché effettivamente grande e generoso rispetto alla miseria di quello presente – ha scenari di esterni e di interni particolarmente suadenti: abeti silenziosi e noci carducciani, corvi in cielo e ricami di ghiaccio alle finestre, strade polverose e cortili col fieno da seccare. Dentro le case, poi, cassettoni e madie intagliate, acquai di pietra. Il tempo era cadenzato in riti che avevano la rigida scansione delle ore, della stagioni, degli anni: il giorno del bucato, il Nédal, le nascite e le morti, le serenate sotto i balconi e i matrimoni, le partenze con addii secchi. Poca pietà per la gente (partigiane e suore, puttane e violentatori, maestri e organisti ciechi, molti bambini cresciuti in fretta) e quasi nessuna pietà per gli animali: maiali macellati festosamente e gatti randagi uccisi per divertimento. Tanto intenerimento, invece, per gesti e abitudini scomparse, come l’infilarsi nel lettone tra le lenzuola gelide, a intrecciarsi le gambe con le sorelle, addosso un camicione di flanella su biancheria che si cambiava poco; la partita a tris giocata coi fagioli su pezzi di cartone, la fame addomesticata spiluccando le croste della polenta rimasta nel paiolo. E soprattutto il linguaggio, la lingua straordinaria e ricca di una regione antica e di confine. Un “lessico famigliare” non borghese, non ebreo, non di città: ma paesano, carnale e carnico, anzi “cjargnél”. Parlata aspra, tormentata e scabra come i monti scoscesi, i fiumi ripidi della Carnia. Il paese del sogno ha un nome poco pronunciabile: Pradiscjàs, ricalcato su nomi simili (Pradamano, Pradiélis, Pràdis), sibilanti e arrotati, inquieti come la gente che li abita. Libri di memorie recuperate, di paesi ritrovati, di nostalgie pudiche ne abbiamo letti parecchi, a cominciare dall’indimenticabile Libera nos a Malo di Meneghello per arrivare agli ultimi di La Capria: ciò che ci rende così teneramente vicino questo della Carbognani è forse il «parlarsi essenziale» di una zona che si è, finora, raccontata poco, e con rabbiosa malinconia per «un grande mondo» che si è perso, a volte a causa di un destino cattivo (il terremoto, il lavoro lontano), più spesso per l’indifferenza, per l’insipienza di tutti.

 

«Eco di Locarno», 22 febbraio 1992

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