Mostra: 1431 - 1440 of 1.661 RISULTATI
MAESTRI

BRODSKIJ

CHINATI

Chinati, ti devo sussurrare all’orecchio qualcosa:
per tutto io sono grato, per un osso
di pollo come per lo stridio delle forbici che già un vuoto
ritagliano per me, perché quel vuoto è Tuo.
Non importa se è nero. E non importa
se in esso non c’è mano, e non c’è viso, né il suo ovale.
La cosa quanto più è invisibile, tanto più è certo
che sulla terra è esistita una volta,
e quindi tanto più essa è dovunque.
Sei stato il primo a cui è accaduto, vero?
E può tenersi a un chiodo solamente
ciò che in due parti uguali non si può dividere.
Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come
può soltanto sognare un frammento! Una dracma
d’oro è rimasta sopra la mia retina.
Basta per tutta la lunghezza della tenebra.

Iosif Brodskij (1940-1996)

RECENSIONI

LA CAPRIA

RAFFAELE LA CAPRIA, LA NEVE DEL VESUVIO – MONDADORI, MILANO 1988

Sulla quarta di copertina, questo ultimo volume di Raffaele La Capria viene definito «un piccolo romanzo di formazione», e in effetti si tratta di circa un centinaio di pagine, suddivise in undici capitoli, che ripercorrono la prima infanzia di un bambino napoletano, Tonino, fino al momento in cui egli si affaccia allo spietato e banale mondo degli adulti. Non ci troviamo davanti, tuttavia, a una semplice rievocazione di episodi infantili, o a una riverniciatura nostalgica del proprio passato: nessun “vestivamo alla marinara”, quindi, nelle intenzioni dell’autore, piuttosto una riflessione critica e struggente sui momenti rivelatori che hanno infranto lo specchio magico dell’innocenza puerile, distruggendo il fantastico assoluto in favore del più realistico relativo. I primi racconti, narrati in tono favolistico e piano, ruotano pertanto intorno alle scoperte fondamentali che porteranno Tonino ad una graduale consapevolezza del suo essere “altro”, rispetto alla realtà che lo circonda: l’implacabilità del tempo, che fa sparire oggetti e persone amate (il palloncino, le foglie, il giorno e la notte); l’identificazione totale e sofferta con la mamma adorata («diffusa intorno», negli odori, nei colori, nei suoni) e, attraverso essa, la scoperta dell’affascinante e misterioso mondo femminile; la magia delle parole che non si lasciano ridurre a ciò che vogliamo, e hanno invece una loro segreta autonomia e dignità che va rispettata e quasi temuta; ma, soprattutto, la scoperta della propria individualità. L’io  si intitola il racconto forse più bello del libro, in cui Tonino, desideroso di inventarsi un fratello che gli faccia compagnia quando è solo, scopre nell’armadio materno, riflesso nello specchio, un altro Tonino che gli risponde con le sue stesse parole e le sue stesse smorfie, e lo elegge subito ad amico ideale, rassegnandosi ad ammettere che si tratta della sua stessa persona riflessa solo quando alle sue spalle compare la mamma, assolutamente identica alla mamma del bambino chiuso nell’armadio. Ecco che il mondo dei grandi, la loro verità a cui bisogna cedere, irrompe nella vita incantata di Tonino e la trasforma, e se ne impossessa. Ormai quasi ragazzo, Tonino scopre che anche i genitori hanno le loro debolezze e meschinità, che la natura (il mare, soprattutto, il mare tanto amato e percorso a nuoto, in barca, oppure solo con gli occhi) può essere crudele e rendere crudeli, che il proprio corpo conosce umiliazioni ed esaltazioni di cui si deve vergognare: impara, insomma, a fare i conti con la vita. E la vita, a sua volta, arriverà ai ferri corti con la storia, negli anni bui che precedono la seconda guerra mondiale. I ragazzi inglesi, compagni di giochi nel cortile di casa, diventano improvvisamente nemici; e la gita programmata insieme sul Vesuvio imbiancato dalla neve verrà rimandata per sempre. A Tonino non resta che cercare rifugio e salvezza nelle parole, che secondo l’insegnamento di un suo professore antifascista, sono sempre sacre:

Le idee non sempre sono sacre, ma le parole sì. Non fatevi incantare dalle parole. Imparate a usarle bene, non a gridarle. Neanche se le vedete scritte a lettere cubitali sui muri. Neanche se tutti le urlano insieme sulle piazze…

 

«Agorà» (Svizzera), 16 novembre 1988

RECENSIONI

MARAINI

DACIA MARAINI, L’ETA’ DEL MALESSERE – EINAUDI, TORINO 1988

L’età del malessere è il secondo romanzo di Dacia Maraini, pubblicato nel ’62 e subito accolto come libro rivelazione di uno stile nuovo, di un’autrice promettente. Ambientato nella periferia romana, ha come protagonista la borghesia più umile, vittima e insieme artefice degli anni del boom economico di un’italietta miracolata e squallida. La vicenda è narrata in prima persona da Enrica, una diciassettenne che vive con indifferenza sia i suoi drammi personali, sia quelli della penosa fauna umana cui appartiene. Figlia unica di una coppia già in là con gli anni, la ragazza osserva con disincanto il lento declino della madre, sfiancata e umiliata nel logorante arrabattarsi di un piccolo impiego: la vede oscena nel suo corpo sformato, nei vestiti lisi, nelle amicizie volgari, e insieme penosa nelle ambizioni meschine di rivincita, di riscatto. Forse con più affetto, ma con uguale severa implacabilità, Enrica guarda al padre, artista fallito e alcolizzato che si è ridotto a dedicare ogni suo tempo ed energia alla costruzione di elaboratissime e invendibili gabbie per uccelli. In questo tragico universo familiare si muove la giovane, senza tuttavia la benché minima voglia di evaderne. Abulica, indifferente a tutto, sue uniche aspirazioni sembrano essere l’acquisto di un paio di scarpe nuove o di un maglioncino aderente. Non si ribella alla frustrante relazione cui la costringe Cesare, uno studente fuori corso, che la usa come amante di riserva, in attesa di sposare una ricca fidanzata che rispetta. Enrica frequenta un corso di computisteria e stenografia tra insegnanti e compagni che paiono tutti più disgraziati e infelici di lei, compie poi un’umiliante esperienza di lavoro in casa di un’anziana ed eccentrica contessa, ma niente sembra segnarla, niente la scuote. Vive come in trance avvenimenti crudi e crudeli, dalla morte della madre a saltuari episodi di prostituzione, a un drammatico aborto clandestino. Solo alla fine, il matrimonio di Cesare la costringe a scegliere, le impone un cambiamento: e il libro termina con l’intenzione almeno annunciata di voltare pagina, di dare un nuovo indirizzo alla propria vita. Il fascino che indugia in queste pagine è tutto in questa storia narrata senza alcuna retorica o ammiccamento, ma con tale dolente asciuttezza che il malessere in cui sono avvolti i personaggi contagia anche il lettore, amareggiandolo, indignandolo.

 

«Agorà» (Svizzera), 23 novembre 1988

RECENSIONI

GLAUSER

FRIEDRICH GLAUSER, IL GRAFICO DELLA FEBBRE / IL TE’ DELLE TRE VECCHIE SIGNORE / IL SERGENTE STUDER / KRACK & CO. / IL CINESE / GOURRAMA – SELLERIO, PALERMO 1987-1988

 

Elvira Sellerio ha già dedicato sette volumi della sua elegante collana La memoria (inconfondibile sia nell’accuratezza grafica suggerita da Leonardo Sciascia – volumetti tascabili, carta non patinata, copertina blu di Prussia con vivaci riproduzioni d’arte moderna -, sia nell’intelligente scelta dei titoli, per lo più stranieri) al narratore svizzero Friedrich Glauser (1896-1938). Glauser, non famosissimo in patria, pressoché del tutto sconosciuto in Italia, continua forse a pagare dopo morto l’atipicità della sua esistenza, l’eccentricità delle sue passioni culturali con un isolamento e una sottovalutazione del tutto immeritati, e certo non giustificati dalla sua produzione letteraria, godibile e leggibilissima. Così scrisse Glauser della sua vita, senz’altro agli antipodi del “typisch schwyeizerisch”:

Nato nel 1896 a Vienna da madre austriaca e padre svizzero. Nonno paterno cercatore d’oro in California (scherzi a parte), nonno materno consigliere di corte (bel miscuglio, no?). Scuola elementare, tre classi del ginnasio a Vienna. Poi tre anni di riformatorio a Glarisegg. Poi tre anni al Collège de Genève. Sbattuto fuori poco prima della maturità, perché aveva scritto un articolo letterario su un volume di poesie di un insegnante. Maturità a Zurigo. Un semestre di chimica. Poi il dadaismo. Mio padre voleva farmi internare e pormi sotto tutela. Fuga a Ginevra. Il resto lo potete leggere in “Morfina”. Internato per un anno a Münsingen (1919). Fuga. Un anno ad Ascona. Arrestato per la morfina. Rispedito indietro. Tre mesi a Burghölzli (controperizia, perché a Ginevra avevano detto che ero schizofrenico). Dal 1921 al 1923 Legione Straniera…

Ribelle, drogato, inquieto, quindi: eppure quasi nulla di questa sofferenza e di questo disadattamento trapela nei suoi romanzi, che in genere vengono classificati come “gialli”, e affiancati – non senza qualche forzatura – ai nomi di Dürrenmatt e Simenon. Con il primo Glauser ha in comune l’ambientazione, il paesaggio, che è inequivocabilmente svizzero, ma più disteso e innocente di quello dürrenmattiano, forse anche perché la Svizzera narrata dal nostro autore è preferibilmente la campagna bernese o jurassiana degli anni intorno al ’30, ancora indenne dalle trasformazioni capitalistiche, ancora tutta fondue e sanatori, cervelats e Jass: pertanto meno percorsa da inquietudini sociali e meno scalfibile da insofferenze politiche. Al Maigret di Simenon, invece, è per più versi assimilabile il protagonista delle storie di Glauser, il sergente Jakob Studer, chiamato benevolmente Köbu, funzionario della polizia bernese, declassato da ispettore a semplice sergente a causa di un suo coinvolgimento in un “affaire” bancario. Quasi sessantenne, robusto ma col volto liscio e magro, baffuto e brizzolato, «non sembrava affatto uno svizzero». La sua realtà familiare e ambientale (la tranquilla e tranquillizzante moglie Hedy, la scialba figliola, il genero gendarme turgoviese un po’ tonto, un nipotino a cui si mostra del tutto indifferente) è una realtà che lo qualifica ben poco. Köbu è, come Maigret, un poliziotto particolare, con una particolarissima idea della Giustizia: dea bendata più della Fortuna, essa non appartiene alle cose di questo mondo, è un mito, un’utopia. Così il colpevole -l’assassino- è spesso più vittima dell’ucciso, è strumento di una malvagità che lo sovrasta e a cui non è riuscito a opporsi: il sergente Studer opera quindi in modo tale da salvare sempre l’esecutore materiale, il maggiore indiziato, il paria del paese, incastrando invece i mandanti, gli insospettabili. Perciò Studer agisce scardinando prassi consolidate, e realizza sogni che un poliziotto più tradizionale non oserebbe nemmeno tenere nel cassetto: sa mandare alla malora i suoi ottusi superiori dei vari uffici cantonali e federali, riesce ad applicare in modo acuto e non convenzionale la sua notevole cultura, e viaggia, entrando persino nella Legione Straniera… Friedrich Glauser ricorda quindi Simenon per l’umanità tutta fisica, carnale della sua creatura, ma è ben più impacciato dell’autore francese nello strutturare le trame dei suoi gialli, più ingenuo nelle trovate, più scoperto nei fini, a volte ansante nella narrazione; ma forse proprio per questa sua minore scaltrezza letteraria si rende più simpatico di Simenon, e rende più simpatico il suo Köbu Studer.

 

«Agorà» (Svizzera), 28 settembre 1988

MAESTRI

PAVESE

IL PARADISO SUI TETTI

Sarà un giorno tranquillo, di luce fredda
come il sole che nasce o che muore, e il vetro
chiuderà l’aria sudicia fuori del cielo.

Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre,
nel tepore dell’ultimo sonno: l’ombra
sarà come il tepore. Empirà la stanza
per la grande finestra un cielo più grande.
Dalla scala salita un giorno per sempre
non verranno più voci, né visi morti.

Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
di un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d’ombra
appiattiti così come vecchia brace
nel camino. Il ricordo sarà la vampa
che ancora ieri mordeva negli occhi spenti.

 

  Cesare Pavese (1908-1950)

 

RECENSIONI

MARIANELLI

MARIANELLO MARIANELLI, IL FANTASMA DI CHIANCIANO / UNA CASA DI PAROLE
GIARDINI, PISA 1987

Marianello Marianelli, germanista, direttore di istituti italiani di cultura in Germania, professore di letteratura tedesca all’Università di Pisa e collaboratore de La Nazione, ha mantenuto segreta, in tanti anni di fedele devozione alle lettere teutoniche, una sua seconda, robusta pelle di narratore in proprio: soffocando (per discrezione, per pudore, o in rispettoso omaggio al senso “alto” dello scrivere) una voce che – tra le tante spudorate pronte a gracchiare il loro niente – a ragione avrebbe potuto rivelare i suoi ricchi e diversi timbri. Recentemente, presso l’editore Giardini di Pisa, Marianelli ha raccolto in due volumi racconti e articoli scritti nell’arco di un quarantennio, e via via più assiduamente in quest’ultimo periodo, libero dall’attività accademica. Il fantasma di Chianciano raccoglie tredici storie, definite dall’autore stesso «disincantate», probabilmente perché non concedono alcuna residua illusione sul senso di questo nostro vivere, incapace di qualche riscatto che ne travalichi il puro accadere. Ma il disincanto appartiene anche allo stile, impersonale, fattuale, tendente a livellare in una indifferente intercambiabilità i personaggi e le loro vicende, e a personalizzare gli oggetti, a concretizzare immagini e pensieri. Così, sono le camicie esposte in un grande magazzino a scegliersi i clienti, e sono i numeri nati dalla mente di un matematico che gli scandiscono il tempo da dedicare all’amore, fino a impedirgli ogni abbandono; gli occhi di un radiologo vedono attraverso le cose, i corpi; il Mar Tirreno improvvisamente registra e diffonde amplificate tutte le voci e i discorsi che si sono sciolti tra le sue onde; un fantasma turba la villeggiatura degli ospiti di Chianciano, visualizzazione del loro represso collettivo; i fiori di Amburgo improvvisano un’insurrezione, ribellandosi all’ipocrisia di chi li vuole messaggeri d’amore in un mondo senza amore. Soprattutto nell’ultimo racconto, Una donna è una donna, Marianelli riesce a incantare disincantando, quando narra del trapianto del cervello di una popolana nel corpo di un’aristocratica, dello straniamento che ne deriva alla sopravvissuta e del tragico imbarazzo che la situazione suscita tra i parenti delle due donne: tutto ciò in uno stile asciutto e veloce, che molto offre alla dimensione visiva della narrazione, e poco o niente alla retorica di una lettura sentimentale. Il secondo volume, Una casa di parole, riunisce, per un immaginario album di famiglia e società, una quarantina di prose in cui Marianelli tratteggia «le parti che ha via via recitate dalla guerra a oggi», ripiegando – anziché sulle immagini – sulle parole, «le vere sconfitte del nostro tempo». Parole semplici e pesanti come mattoni, per costruire una casa più solida dell’investimento in muratura. Parole che ritraggono persone o cose «assai care, care nel solito doppio senso di amate e pagate care». Come la figlia Lia, presenza assidua e pungente in tutto il volume: la lunga e incrollabile fedeltà a Lia è testimoniata da dichiarazioni d’amore stupefatto e stupefacente nel memoriale dedicato alla figlia duenne; nelle pagine intenerite e amareggiate dalla crudeltà incosciente della ragazzina che nega al padre un ballo, preferendogli le attenzioni di insipidi giovanetti, o dalla spavalda contestazione della studentessa sessantottina; nell’ultimo Happy Day in cui la figlia ormai preside rende omaggio al genitore con un saggio canoro degli alunni. Questo destino di padre, amato e patito con un’adesione che si suppone addirittura maggiore di quella che accompagna qualsiasi altro ruolo, o dovere, si esalta nella prosa fino a raggiungere un lirismo da scandire in versi: «Ora che sei venuta, scalpita il cavallo rosso del mio sangue, ti tengo su una mano come il mio falcone impaziente dei miei paesi». La paternità si esprime attraverso la morbosità e l’ansia di possesso che siamo abituati a ritrovare nella consapevolezza di essere madre: «Io conosco tutto di te…sapevo il tuo viso prima di creartelo…in te si sazia la mia poca sete di eternità». Ma decine sono le “foto di famiglia” da appendere, da non lasciare ingiallite tra i ricordi privati e pubblici di scarsa comunicabilità. Marianelli figlio che assiste alla riesumazione delle ossa dei suoi genitori, e se li porta in braccio, così, in due cassette di alluminio, a fare un giro in macchina. Marianelli nonno che prepara un presepe al nipotino e osserva sconfitto e complice la trasformazione moderna dello scenario natalizio in un Parking-Center in miniatura. Marianelli scrittore civile che non si vergogna di essere tale, scabro nella commozione e alto nello sdegno: per una Sardegna amata-odiata in guerra, per una Germania compatita e detestata nel dopoguerra. Per parafrasare uno dei racconti più belli, in cui l’autore bambino inciampa in un invisibile filo d’acciaio, che lo ferisce a tradimento, potremmo definire i racconti di Una casa di parole come trame di fili che incidono, che lasciano un segno. Anche se il lettore che corre tra di loro, commosso, divertito, finge di non accorgersene.

 

«Agorà» (Svizzera), 3 marzo 1988

RECENSIONI

ROMANO

LALLA ROMANO, LE LUNE DI HVAR, EINAUDI, TORINO 1991

E’ uscito in questi giorni Le lune di Hvar, ultimo libro di Lalla Romano, a pochi mesi dalla consacrazione letteraria dell’autrice come uno dei classici del nostro 900 avvenuta attraverso la pubblicazione delle Opere vol.1 nei Meridiani Mondadori.

«Questo libro è nato dalla volontà del libro stesso. Io l’ho trovato scritto: da me, ovviamente, ma senza che l’avessi voluto. Non era nemmeno propriamente “scritto”: erano annotate soltanto frasi, parole. E’ un libro privo di testo».

È davvero difficile da definire e da recensire: ne dà prova la quantità di articoli risoltisi poi in interviste all’autrice, un po’ a scansare l’impegno critico di un giudizio letterario, un po’ a mascherare l’imbarazzo derivato da ragioni extra-letterarie. Narra di quattro viaggi fatti dalla Romano in estati diverse, in Jugoslavia, dall’Istria a Spalato (con una particolare predilezione per l’isola di Hvar e i suoi notturni) insieme con un giovane amico, Antonio, e rivissuti in squarci di visioni, in lampi della memoria, con la parzialità assoluta e desiderosa di alibi di ogni rivisitazione affettiva. Protagonista è ovviamente questa coppia fuori dalla norma, lei con il doppio dell’età di lui, ma «questo non ha importanza. Devo aver scritto da qualche parte che per me i numeri sono magia, non cronologia…»: con i capelli e la pelle bianca sotto il cappello di paglia, l’anziana scrittrice; abbronzato, con un berretto da mare e un borsone da fotografo a tracolla, il giovane studioso. Antonio è innamorato del mare, della gente, degli imprevisti: paziente fino a rasentare l’incoscienza di fronte ai molti disagi del viaggio, capace di entusiasmi infantili e di altrettanto estemporanei scoramenti, animato da una dedizione fedele e quasi compiaciuta di sé ai voleri dell’amica, si lascia bistrattare, ammette di essere debole, anche se è il più forte dei due, ma scisso in un continuo «pareggiarsi di mistero e limpidezza». Lei deve fare i conti con la sua età, con i mal di schiena, con il fastidio a volte soffocante che le procurano gli spostamenti, o anche gli involontari atteggiamenti giovani di lui. Lo aspetta, lo aspetta sempre, in macchina, nei bar, nelle hall degli alberghi, sulla spiaggia, mentre lui gira, traffica, incontra: spaventata quasi dalla sua “festosità”, dell’ingenuità delle sue letture e dalle sue esaltazioni. E’ una storia tenera, sofferta, quella che si dipana tra i due: di una sofferenza oggettiva (gli sguardi maliziosi degli altri; la richiesta di spiegazioni del cameriere: («-La mamma?- A.:-Sì-. Cameriere contento») e soggettiva (analisi e autoanalisi, lacrime, ricatti, notti in bianco, gelosie come in qualsiasi altra storia). Evidente appare un certo sottile sadismo di lei, una non camuffata volontà di ferire Antonio con frasi che hanno la spietata durezza della verità: «Non provo piacere: sono una mummia», «A me piacciono i vecchi asciutti, tu sei giovane e umido (sudato)», «Non si può amare la madre», «Non temo di essere abbandonata, ma di essere ingannata». I due escono da questa cattiveria esibita – delle cose, delle circostanze, di loro stessi – più grandi, più drammatici e vivi della miriade di volti e figure inconsistenti che nel libro passano e vengono riassorbiti subito nel loro ruolo di comparse, inchiodati solo allo scampo di una definizione che li accomuna a personaggi famosi (Paolo Stoppa, Fernanda Pivano, Nicola Abbagnano, Ezra Pound, ecc.), osservati dalla narratrice con occhio severo e talvolta stizzito verso le loro debolezze fisiche o intellettuali, specialmente se femminili. Secondo le indicazioni date dalla Romano stessa nel risvolto di copertina, la verità del racconto corrisponde alla sua limpidezza, non alla sua logica. E illogico parrà forse questo rapporto ai più che lo leggeranno con la pruderie o la morbosità di chi ama tenere i conti anche nei sentimenti; ad altri sembrerà una storia grata nella gratuità del suo accadere, insolita nel suo sgomitolarsi imprevedibile e necessario.

 

«Agorà» (Svizzera), 11 dicembre 1991

RECENSIONI

POESIA – MENSILE DI CULTURA POETICA

POESIA, MENSILE DI CULTURA POETICA – Anno I, numero 1- CROCETTI; MILANO 1988

Quasi tutte le riviste italiane di un certo livello culturale (da Alfabeta a Il piccolo Hans a Linea d’ombra) riservano uno spazio limitato, ma di prestigio, a quel genere particolare di comunicazione letteraria che è la poesia. Come a dire che al pubblico che legge versi – sempre più striminzito ed esigente, agguerrito anche se in via d’estinzione – va riconosciuto il diritto all’esistenza che ormai non si nega nemmeno agli esemplari animali più rari, ancorché patetici e talvolta bruttini. Poiché insomma la poesia non serve a niente, e tuttavia non fa male, la cultura ufficiale assume nei suoi riguardi atteggiamenti spesso protettivi e paternalistici, come con certi placebo, e con certi partitini ambientalistici: ben attenta però a non concederle più di tanto, che non si sa mai… Stando così le cose, suscita curiosità e ammirazione la decisione temeraria di pubblicare una rivista per addetti e appassionati, dilettanti e professionisti, che si intitola semplicemente Poesia, e chiarisce il suo scopo nel definirsi «mensile di cultura poetica». Edita da Crocetti (raffinato traduttore dal greco moderno, e diffusore benemerito di eleganti volumi di versi), diretta da una delle voci più originali della giovane poesia (Patrizia Valduga), questa rivista si rivela subito ambiziosa e nuovissima, decisa nel voler informare e formare insieme lettori più sensibili al discorso poetico. Ricca di rubriche graffianti («Plagi», ad esempio, che in questo numero uno dà a Rebora quello che è di Rebora, appannando un poco gli Ossi montaliani…), di interviste meno calibrate e diplomatiche di quelle solitamente in uso tra accademici (incide, il critico Pier Vincenzo Mengaldo, arguto anche nella foto), mi sembra offra il meglio di se stessa nel porgere ampi spazi alla poesia da scoprire. Molti gli stranieri antologizzati (tutti, rigorosamente, con testo a fronte; anche l’indiano Shahryar, che non so quanti siano riusciti a leggere nell’originale. Io, comunque, ho imparato come si scrive “amici” in lingua Devnagri…). E poi la poesia in dialetto, molto ben rappresentata da Raffaello Baldini, poeta e critico di se stesso. Numerose pagine sono riservate poi al rapporto poesia/musica e poesia/traduzione. Di taglio limpidamente giornalistico i servizi fotografici, con i vari poeti finalmente e più volte immortalati, messi a confronto: allucinati e rabbiosi (Attila Jözsef – Gunnar Ekelöf), ispirati (Held – Atencia), professorali (Baldini). La rivista si apre e si chiude con due interventi filosofici, dello psicanalista Ignacio Matte Blanco, che definisce poco originalmente la poesia come «pensiero imbevuto di sonorità musicale», e di Platone, che nel libro X della Repubblica metteva in guardia dagli effetti nefasti che deriverebbero alla società dal praticare poesia e poeti…

«Agorà» (Svizzera), 9 marzo 1988

RECENSIONI

CANALI

LUCA CANALI, ALLA MANIERA DI – CROCETTI, MILANO 1987

Più di dieci anni fa, G.Almansi e G.Fink avevano pubblicato un libro molto intelligente e divertente (forse per questo trascurato da critica e pubblico), in cui proponevano la parodia come nuovo genere letterario, presentando diversi brani narrativi scritti Come se, alla maniera di. Ora Luca Canali ripete l’esperimento, offrendo «inediti apocrifi di poeti moderni», usciti presso l’editore Crocetti, intitolati appunto Alla maniera di.

Finissimo traduttore di classici latini, risentito poeta in proprio, critico attento e severo di versi altrui, Canali ha le carte in regola per cimentarsi in questo che è – avverte – «anche un gioco», ma soprattutto «chiave di lettura, e identificazione di poetiche, cioè critica attraverso una nemesi in versi». I poeti prescelti per questo esercizio di stile sono 17 italiani e 5 stranieri, rigorosamente elencati in ordine alfabetico e con un numero di poesie che varia da due a sei. L’intento parodistico con cui Canali rifà il verso ad alcuni di loro, accentuandone stilemi e tic espressivi, è ben evidente nel caso di Maurizio Cucchi (di cui si sottolinea l’attenzione eccessiva ai particolari più minuti) e di Giovanni Giudici, decisamente – ma poco verosimilmente – preso in giro per l’eccesso di autobiografismo e per gli intercalari discorsivi (i “no”, i “sai”, i lombardismi) della sua prima produzione, e la “maniera” trobadorica dell’ultima. Anche Caproni sconta in Canali alcuni abusi tematici (lo scontro io/Dio, il doppio, l’inconsistenza dell’io) e stilistici (l’artificio delle interrogazioni). Con più affetto e maggiore riuscita imitativa, dovuta probabilmente ad una consonanza culturale ed espressiva, vengono trattati Bertolucci (di cui si ricostruisce l’ambientazione nella provincia emiliana, il collegio, gli amori giovanili: ma anche la sapienza nell’uso dell’aggettivazione) e Mario Luzi, ripercorso con discrezione nei temi e nella pacatezza del tono narrativo. Le imitazioni di Montale e Sandro Penna risultano particolarmente felici: l’uno inchiodato ai suoi termini (albale, abbaglio, blasfema, crinale, balugina, gomena, approdo…), allo stile dei primi tre libri; l’altro rivissuto e riportato in vita in versi assolutamente penniani: «Andavano di sera indifferenti / e belli giovanotti in canottiera». Ma anche la nevrosi stilistica e l’inventivo plurilinguismo di Zanzotto, il sermoneggiare di Fortini, l’aulicità di G.Conte, l’abbandono romantico di Raboni, l’onirismo di Gatto e l’ansante spietatezza di Balestrini sono ben resi, a dimostrare quanto vasto sia il raggio di intuito critico, di abilità parodistica di Canali.

Viene da interrogarsi sul perché di alcune esclusioni di poeti facilmente riducibili ai loro “topoi” stilistici: Sanguineti, tra i maturi, e De Angelis tra i giovani. Mentre è evidente che la sapienza tecnica dell’imitatore molto deve alla perizia del traduttore, soprattutto là dove la polemica e la tentazione del confronto perdono mordente, come nelle abilissime imitazioni degli stranieri, tutti, tra l’altro, morti: Borges, Eliot, Kavafis, Thomas, Trakl.

«Agorà» (Svizzera), 27 gennaio 1988

MAESTRI

GARCIA LORCA

MIA VIVA MORTE

Mia viva morte, amore delle viscere,
io aspetto invano una parola scritta
e penso, con il fiore che marcisce,
che se non vivo preferisco perderti.
L’aria è immortale. E la pietra nessuna
ombra conosce, né, immobile, la scansa.
Non ha bisogno nel profondo il cuore
del freddo miele che sparge la luna.
Ti sopportai. Mi lacerai le vene,
tigre e colomba, sulla tua cintura
in un duello di gigli e veleno.
Calma la mia follia con le parole,
o nella notte dell’anima oscura
per sempre, lascia ch’io viva sereno.

                                                        Federico Garcia Lorca (1898-1936)