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RECENSIONI

OTTO MARZO E MIMOSE

OTTO MARZO E MIMOSE

Vengo da una famiglia di donne, ho frequentato solo classi femminili, sono madre di due bambine, e questo ha senz’altro determinato una mia sostanziale estraneità al misterioso universo della mentalità maschile. Nutro il dubbio di aver addirittura scelto mio marito come compagno di vita perché mi è parso subito lontanissimo dallo stereotipo della virilità comunemente intesa. Ho vissuto il femminismo con la naturalezza un po’ sventata di chi si trova a lottare per idee che considero ovvie, per conquiste che ritiene scontate.

Solo ora, da questo privilegiato osservatorio dell’emigrazione svizzera, e davanti all’amara constatazione di una sostanziale débâcle dell’utopia dell’uguaglianza, mi accorgo che tali idee e conquiste ovvie e scontate non sono. Ricordo altri 8 marzo della mia vita: caroselli di ragazze infiorate, con zoccoli neri e gonne coloratissime, che si scioglievano per intrecciarsi di nuovo (ridenti, irridenti) in Piazza del Duomo a Milano, cantando slogan più sfrontati che minacciosi («Tremate, tremate, le streghe son tornate…»). Oppure il mio primo 8 marzo da mamma, a Roma, con una stupenda e canuta ultrasettantenne che copriva di mimose la carrozzina della mia bimba. Quell’allegria di essere donna (orgoglio della propria femminilità, sensazione di sorellanza complice con le altre) io non sono più riuscita a ritrovarmela intorno (o dentro?) qui in Svizzera. Colpa del rigido sessismo, della evidente discriminazione legislativa vigente nel paese che ci ospita? Colpa dell’ambiente emigratorio, ancorato a concetti retrivi quando non francamente ottusi e persecutori, per cui il ritornello dei miei nonni veneti «che la piasa, che la tasa, che la staga in casa» è tuttora il più calzante sulla piazza e nelle mura domestiche? Da una Milano provocatoriamente “rosa” mi sono trovata catapultata in una grigia Zurigo-little Italy. In cui la domanda più insistente nelle presentazioni continua a essere «Signora o signorina?», l’augurio più esaltante ai matrimoni «Figli maschi!», il commento più acuto di fronte a una violenza subìta «Se l’è cercata…»; un mondo in cui l’arma di offesa più utilizzata è la battuta volgare o la telefonata/lettera anonima, in cui il pettegolezzo, l’invidia, la maldicenza trovano nella donna (soprattutto se non perfettamente “allineata” alle aspettative ed esigenze comuni) il capro espiatorio preferito.

Festeggiamo l’8 marzo? Festeggiamo l’8 marzo! Non brinderò, tuttavia, al compagno aperto e femminista che però non c’è una volta che se li lavi lui, i calzini; né alla donna emancipata, manager in carriera che sfida il maschio usando i suoi metodi peggiori, i suoi colpi più bassi; né al gene XX in quanto tale, capacissimo di farsi più male di quanto gliene abbia mai inflitto il gene XY. Brinderò alle bambine, a tutte le bambine, da quelle in gestazione alle adolescenti, augurando loro di non dover pagare qualsiasi atteggiamento anticonformista quanto continuano a pagarlo le loro mamme, di non doversi sentire in colpa se aspirano ad esercitare la loro intelligenza autonomamente, di non doversi scusare se nutrono qualche ambizione che non sia puramente casalinga… Brinderò in particolare alle mie figlie, che nel 2000 avranno quindici e ventun anni, e l’8 marzo dell’anno scorso mi hanno regalato una rosa dell’ EPA che suonava «Tanti auguri a te» se le si premeva un petalo. Per loro due, streghine dolcissime, tornerò a cercare mimose, intonerò canzoni passate di moda, come quella spavalda e innocente «sebben che siamo donne, paura non abbiamo…».

 

«Agorà» (Svizzera), 8 marzo 1989

MAESTRI

CASSIAN

LA TENTAZIONE

Più vivo di così non sarai mai, te lo prometto.
Per la prima volta vedrai i pori schiudersi
come musi di pesce e potrai ascoltare
il mormorio del sangue nelle gallerie
e sentire la luce scivolarti sulle cornee
come lo strascico di un abito; per la prima volta
avvertirai la gravità pungerti
come una spina nel calcagno
e per l’imperativo delle ali avrai male alle scapole.
Ti prometto di renderti talmente vivo che
la polvere ti assorderà cadendo sopra i mobili,
che le sopracciglia diventeranno due ferite fresche
e ti parrà che i tuoi ricordi inizino
con la creazione del mondo.

                                                                  Nina Cassian (1924-2014)

POESIE

L’IMPERFEZIONE DELLA PIOGGIA

(Omaggio a Andrea Zanzotto, rileggendo La Beltà)

 

Obstrepente pluvia, effusis imbribus,
(scende la pioggia ma che fa?) scende
battente, bat-tente, bat-tenta: tenta
di sciacquare scialacquare allagare alluvionare
il mondo (Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente).
Ma il troppo da lavare sbiancare pulire
a cieli arcaici aciduli; basterà? basterà?
Una pioggia universale, un diluvio epocale
o la buriana che le sceme
fosse inacqua e aera le supreme
nullezze: annientando annullando dilavando
il niente ex nihilo usque ad libitum…
E affilare e affiorare
di sassi di massi di fango di melma
e pozzanghere: grigio grigio bigio nero.
Piove, per tutti gli dèi, piove,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
attraverso sidera et coelos,
pioggia perfetta, perfettissimo essere d’acqua,
sciogliti, infine!, impregnati di te, beviti,
ingozza la terra e slurp slurp
(sniff sniff gnam gnam yum yum),
affoga affonda affluisci affluente
fiume, precipita sui tetti aguzzi,
sui tegoli vecchi, a secchi, a cisterne,
a imbuti e caverne, affonda, innaffia,
annega. Oppure picchia argentina
«rain and tears»,
piccolina-ina-ina, pioggerellina
d’aprile crudele, sciacquetta,
moltofiore moltocielo moltorugiada
gentile sottile primaverile rinfresca
cose e cosine
musichette lucignoli e zuccheri,
lucida foglie asfalti vetrine suv e tir,
aziona lenti tergicristalli, rinfresca le menti,
röslein rot, rosellina tra le spine:
«Passata è l’uggiosa invernata,
Passata, passata!»
E che sarà di noi?
Che sarà del libero arbitrio e del destino?
Ancora uccellini svolazzanti nell’azzurro
di un cielo ripulito
vivario acquario dei verdi dei vivi:
Beltà beltà gorgheggiano
passeri rondoni cinciallegre
e fontanelle ruscelletti cascatine
da-de-ex-ab alto scendono gorgogliano
l’inno alla natura alla bellezza agli universi
espressione di che? (pensiero: no; azione: no;
amore: no; paesaggio: no)
la vigna pesa trasuda e fa mamma-mamma…
E io? E io? E frottole e scippi
magnifici di p-poeti.
Una riga tremante Hölderlin fammi scrivere:
sull’acqua sulla pioggia (la sua perfetta
imperfezione abbondante intrusione eclatante benedizione)
mentre balbetto ondeggiante fremo
e viene avanti il più nulla di tutti i miei nulla,
I’m singing in the rain e ballo e sguazzo e rido
sotto l’ombrello, il tutto del tutto intuendo
(ahi il primo brivido del salire, del capire)
ringrazio la pulizia dell’acqua, la polizia, la poesia,
i così sia, larga la foglia stretta la via
–  dite la vostra che ho detto la mia.
Il sale della lacrime, il sale del mare, il sale della terra,
e piante e fiori e erba
dentro la mondiale tenerezza.
Disinibiti monti caduti disagi;
e piove piove sul nostro amor.

«È tutto, potete andare».

 

In L’Immaginazione n. 278, novembre 2013 e in Omaggi, Einaudi, Torino 2017.

MAESTRI

RITSOS

L’ALTRA SOLITUDINE

Esistono molte solitudini intersecate – dice – sopra e sotto
ed altre in mezzo;
diverse o simili, ineluttabili, imposte
o come scelte, come libere – intersecate sempre.
Ma nel profondo, in centro, esiste l’unica solitudine – dice;
una città sorda, quasi sferica, senza alcuna
insegna luminosa colorata, senza negozi, motociclette,
con una luce bianca, vuota, caliginosa, interrotta
da bagliori di segnali sconosciuti.
In questa città
da anni dimorano i poeti.
Camminano senza far rumore, con le mani conserte,
ricordano vagamente fatti dimenticati, parole, paesaggi,
questi consolatori del mondo, i sempre sconsolati, braccati
dai cani, dagli uomini, dalle tarme, dai topi, dalle stelle,
inseguiti dalle loro stesse parole, dette o non dette.

 

Yiannis Ritsos (1909-1990)

MAESTRI

RIPELLINO

LO SPLENDIDO VIOLINO VERDE – 28

Perché così cattivi con gli alberi?
Coi tronchi tremanti che avanzano a quattro zampe,
con le foglioline malate che vi leccano le mani,
coi ramoscelli scodinzolanti?
Oh, non dico che la vita sia sempre
la marcia nuziale di Mendelssohn,
ma la colpa non è degli alberi.

 

Angelo Maria Ripellino (1923-1978)

RECENSIONI

GIUDICI

GIOVANNI GIUDICI, FRAU DOKTOR – MONDADORI, MILANO 1989
PROVE DI TEATRO – EINAUDI, TORINO 1989

Credo sia capitato a tutti noi di provare un inconfondibile struggimento nel riascoltare una musica che ha segnato un momento particolare della nostra vita. Le note si portano dietro una frase, un amore, una città: e se non è detto che il ricordo sia sempre felice, la commozione è comunque intensa, ci fa per un attimo tacere se stavamo parlando, rallentare se in macchina correvamo. Per chi come me guada “nel mezzo del cammin”, saranno le canzoni dei Beatles o di Lucio Battisti a creare l’atmosfera da magone, per i più anziani Edith Piaf o Sinatra: tremo al pensiero che i nostri figli possano provare le stesse emozioni riascoltando Jovanotti o l’acid music. Tristi gli anni non segnati da canzoni, anni muti, forse anche di sentimenti, oltre che di note. I miei anni silenziosi sono stati quelli dell’università, troppo zitti forse perché troppo seri, e pieni di cose, di avvenimenti, di rabbie: dovessi nominare un cantante o un gruppo in auge intorno al 75, non me ne verrebbe in mente uno. Fumo nelle aule magne, tatzebao, manifestazioni e volantini, Capanna col megafono; ma nessuna canzone. Eppure, ad addolcirmi labbra mente e cuore in tanto impegno esaltato e frustrante, se non c’è stata musica, ci sono stati dei versi. Sì, per alcuni anni mi alzavo, vivevo, andavo a dormire ritmando il mio tempo sul leit motiv di qualche poesia. Avevo già letto e imparato a memoria molte cose di Saba, di Penna, di Caproni, e ciascuno di loro mi aveva lasciato un’eredità particolare. Ma è stato l’incontro con la poesia di Giovanni Giudici che ha cambiato il mio rapporto con la quotidianità, facendomi scoprire la poesia nelle-delle cose.

Dico che arriverai da un lungo treno del mattino. / E devo voltarmi a ogni socchiudersi di porta se non sia tu- / o trasalire allo squillo uguale / a ogni altro se mai non fosse la tua voce / dall’altro capo a parlare, immaginarmi / rispondendo nel tenore convenuto che / a tutti indifferenza significhi e a te / invece: dove sei, mio amore, mio benvenuto? / Quale dei lunghi treni ti porterà? / Quale dei lunghi treni ti avrà portato?

Sono versi tratti da La Bovary c’est moi, una delle prove più alte di Giudici, che io scoprii nell’Oscar Mondadori a lui dedicato nel 74: libretto segnato dagli anni e dalle mie intemperanze di allora, pieno di sottolineature, conservato con la cura che si dedica agli amuleti preziosi. Ho riletto lo stesso brano recentemente, in un numero della rivista Poesia in cui si offriva ai lettori un’antologia del percorso poetico dell’autore, insieme ad alcune sue illuminanti considerazioni sul come fare poesia. E subito, come appunto succede con le canzoni, mi è galleggiata dentro un’atmosfera, insieme alla pregnanza della strofa successiva:

«Ho guardato l’ora all’orologio sul muro. / Ho aspettato lo squillo già / scusato come e perché non hai potuto chiamarmi, / ho pensato: e pensare che ero qui sola. / Brevi minuti ancora mi restano per supporre / il tempo che tu raggiunga la strada della mia casa / e un suono di citofono a questi miei inferi emerga / definitivo come un lieto annuncio di morte… / Ti scambieranno per uno come un altro – ho scherzato. / Arriverai domani se oggi non sei arrivato».

Cosa poteva esserci nei versi di questo poeta da attirare così violentemente me ventenne? In fondo erano anni letterariamente tutti conquistati allo sperimentalismo, o allo più sboccato populismo, e Giudici si proponeva come una figura discreta, vagamente ironica e anche autoironica, molto lontana sia dall’immagine dell’artista maledetto sia da quella del vate che parla cripticamente. Mi è parso subito uno dei pochi che tentasse di coniugare caparbiamente etica e poetica, deciso a non rinunciare a un impegno più morale che politico dello scrivere, realista in un’epoca di formalismo, capace di indignazioni ma anche di grandi utopie, come indicano questi versi (cristiani? comunisti? Giudici accomuna le due filosofie in un’ampia preghiera di salvezza):

Da quanti anni non vedo un fiume in piena? / Da quanto in questa viltà ci assicura / la nostra disciplina senza percosse? / Da quanto ha nome bontà la paura? // Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura / che dice: domani, domani…pur sapendo / che il nostro domani era già ieri da sempre. / La verità chiedeva assai più semplici tempre. / Ride il tranquillo despota che lo sa: / mi calcola fra i suoi lungo la strada che scendo. / C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà.

Parole sferzanti, che invitano a fare i conti con l’anima e col corpo, con l’assoluto e il compromesso, con il destino e con la storia. La poesia successiva di Giudici (da Il male dei creditori a Lume dei tuoi misteri, fino all’ultimo splendido libro Salutz) è diventata via via più controllata stilisticamente e nei toni, meno vibrante e più amara, ma comunque sempre ostinatamente lontana da quella metafisica delle parole e del pensiero che appare invece il tratto dominante negli altri poeti operanti oggi in Italia. Poeta “fisico” e immerso nella fisicità, Giudici si è mantenuto cantore del reale, del corpo, del sesso (adorato paganamente e religiosamente dissacrato): anche la riflessione sulla storia diventa per lui ricerca di individuazione, recupero del proprio passato, con una predilezione particolare per gli anni intorno alla seconda guerra mondiale, anni della sua giovinezza: «Quanto di storia mi è transitato addosso / A me che sono un privato».
Tutto questo lungo discorso vorrebbe essere un omaggio a Giudici, una mia dichiarazione di fede-fedeltà a un poeta che ho molto amato e mi ha dato molto, e insieme un invito, un incoraggiamento a chi leggesse queste note ad avvicinarsi alla sua poesia. Nella speranza che Mondadori si decida a pubblicare un’antologia completa di questo autore, potrebbero comunque servire da introduzione alla sua opera due volumi usciti da poco e quasi contemporaneamente: il primo (Frau Doktor, Mondadori) di prose varie, e il secondo (Prove di teatro, Einaudi) di versi. Entrambi prefati da pagine di acuta competenza e puntualità (l’uno da Edoardo Esposito, l’altro da Carlo Ossola), sono accomunati dal fatto di essere stati composti in un arco di tempo molto esteso, e di accompagnare quindi, scandendola, tutta la produzione “maggiore” di Giudici poeta. Sappiamo che l’autore è anche prolifico e apprezzato giornalista (recensore e commentatore de L’Espresso e de L’Unità), che si è occupato a lungo di pubblicità per l’Olivetti e che ha tradotto molti poeti dall’inglese e dalle lingue slave; in qualche modo tutto questo suo operare in maniera diversificata con la lingua scritta, gli ha fornito quella versatilità e concretezza che ben sono rappresentate dai due volumi sopra citati.
Frau Doktor si divide in due sezioni: Propositi di narrazione e Diari, itinerari, la prima più ambiziosa nel proporre testi di indubbio respiro narrativo, racconti complessi e stilisticamente elaborati, spesso non vincolati ad alcuna contingenza autobiografica; la seconda più legata a occasioni cronachistiche, a osservazioni di costume, a memorie di viaggio. Tutti questi testi si possono leggere, e forse si dovrebbero leggere, autonomamente, come episodi di una scrittura sempre brillante, sempre interessante: ma io non l’ho fatto, ho dato la preferenza a quei brani che in maggior misura mi rendevano echi di situazioni e ambienti conosciuti attraverso i versi. Quindi l’infanzia in Liguria, la giovinezza a Roma, un grande amore praghese, trattati con la stessa leggerezza e lo stesso incanto che in poesia. Il secondo volume, Prove di teatro, raccoglie tutti quei versi che, composti tra il 53 e l’88, dovevano far parte della raccolte maggiori e all’ultimo momento non sono stati compresi, per un eccesso di severità autocritica, per una sorta di censura stilistica, ed ora giustamente sono riproposti al pubblico come “prove” che contengono in nuce i motivi fondamentali della produzione già nota. Abbiamo perciò poesie d’amore e di memoria, poesie civili (come la splendida Di lontano, dedicata alla rivolta ungherese del 56, o la rabbiosa Anni affluenti), e poesie divertite e irridenti (Stopper). Troviamo anche qui versi memorabili, versi-talismani («Era sempre difficile trovarti, / lasciarti fu incredibile», «Per questa sola differenza che / c’è tra il vivere e l’essere costretti / a vivere»), attraverso cui la poesia svolge la sua funzione, che è quella di dare emozioni a chi la legge. Anche se oggi va di moda tormentarsi sulle parole, forse perché ad essere non si sa più affidare nessun messaggio.

«Agorà» (Svizzera), 20 settembre 1989

MAESTRI

MORETTI

A CESENA

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.

Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia della casa senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella la tua vita, bella,

bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;

so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolente,
il babbo che ti vuole un po’ di bene…

« Mamma! » tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei vïaggi, poi…

poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,

quando, come, perché; ripeti ancora
quando, come, perché; chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.

Parli d’una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch’è quasi al tramonto,
il nonno ricco, del tuo Dino, e dici:
« Vedrai, vedrai se lo terrò di conto »;

parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui
tutta d’un uomo ch’io conosco appena.

tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla… così,
senza dolcezza, mentre piove o spiove:

« La mamma nostra t’avrà detto che…
E poi si vede, ora si vede, e come!
sì, sono incinta… Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome…
Ho fortuna, è una buona gravidanza… »

Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.

E l’anno scorso eri così bambina!

 

Marino Moretti (1885-1979)

RECENSIONI

GUIDINETTI

ELDA GUIDINETTI, IL CORTILE INTERNO ESTERNO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1988

Il cortile interno esterno è il titolo del primo dei dieci racconti di Elda Guidinetti pubblicati dalle Edizioni Casagrande di Bellinzona, ed è anche il titolo del volume stesso, a suggerire una condizione essenziale di scrittura, un occhio volto a esplorare tutte le possibilità di implosione-esplosione narrative. Dieci storie, quindi, ma non dieci trame. Siamo di fronte, più che altro, a situazioni immobili, a stasi, analizzate da diversi punti di vista. Lo stesso oggetto, lo stesso personaggio viene inquadrato sotto differenti ottiche, attraverso lo spostamento di un fascio luminoso che lo inonda facendolo muovere magari solo millimetricamente. La tecnica pare essere quella cinematografica: campo lungo, mezzo campo, primo piano. Il risultato a cui tende l’autrice è la totale oggettivazione dell’ episodio, l’esclusione di qualsiasi interpretazione soggettiva: si lasciano parlare le cose. Frasi ripetute ossessivamente, oggetti ingranditi fino a confonderne i contorni oppure analizzati minuziosamente, catalogazione asettica del reale: tutto sembra voler ribadire l’estraneità di ogni fenomeno alla comprensione umana. Un esempio emblematico di questo stile è il racconto Solo se giovane e bella, storia di una addio tra amici, di un abbraccio esaminato al replay visto da lui, visto da lei, visto dall’altra, visto dal gruppo. Gesti rallentati, ripetuti, sovraccaricati e improvvisamente svuotati di ogni simbologia. Non c’è altro. Non c’è un prima, non c’è un dopo. Dei personaggi intuiamo solo il movimento, spesso senza comprenderlo: prendiamo atto di quello che fanno, di quello che dicono, che è in genere qualcosa di inessenziale. Un altro racconto molto bello e indicativo è Quel mongoloide, in cui il protagonista è introdotto quasi casualmente in scena (mentre figure che sembrano di primo piano e invece poi risultano di sfondo giocano a spruzzarsi nella piscina di un albergo, e altri ospiti prendono il sole, chiacchierano); il mongoloide compie una serie di gesti meccanici, assurdi: si spoglia, ripiega e stira varie volte i pantaloni, si riveste, va a giocare -lui ventottenne- con dei bambini a “regina reginella”, viene preso in giro, si arrabbia. Ancora, nel racconto che dà il titolo al libro, in un cortile interno a un muro, ma esterno rispetto al ristorante cui sta di fronte, avventori diversi, a gruppi o isolati, che sembrano ignorarsi a vicenda (se non fosse per l’occhio dell’impietosa telecamera che li inchioda), sono accomunati dalle loro reazioni di differente intensità, ma ugualmente imbarazzate, davanti all’accoppiamento di due gatti, stizzosi e miagolanti. La storia a mio parere migliore del volume sottolinea un carattere costantemente presente anche negli altri: l’estraneità, l’impossibilità di capirsi tra i due sessi, insieme con una violenta attrazione fisica, impastata però da un pesante disprezzo intellettuale, per cui la donna è oggetto di desiderio carnale e insieme di avversione. In Latin lover, dunque, una coppia –forse ticinese- invitata a casa da un’amica nordica, assiste incredula ma indifferente al rituale di umiliazione cui un latin lover locale costringe l’ospite amante, presa in giro per la sua scarsa conoscenza della lingua, ridotta a puro oggetto di piacere, mortificata in un ruolo in cui è solo pedina. Usando una tecnica molto vicina a quella dell’ école du regard (lo sguardo impassibile rivolto agli oggetti, e l’annullamento del personaggio ricorda il Robbe-Grillet di Nel labirinto), Elda Guidinetti è maestra nel creare inquietudine e malessere nel lettore, con questa sua straordinaria capacità di abolire la storia, di trascinare il tempo della narrazione in un presente assoluto, verso una meta irraggiungibile, un luogo assente; la «fine senza inizio», per dirla con un suo titolo, metafora di un assurdo vissuto quotidianamente.

 

«Agorà»(Svizzera), 15 marzo 1989

MAESTRI

ANGELI

L’ULTIMA LIBERTA’

Impara dalla foglia
di novembre che vedi
sciogliersi dalla spoglia
pianta nella precaria
luce in punta di piedi;
dalla foglia che sa
prima d’esser morta,
persuadendosi a un lieve
gioco col filo d’aria
che alla terra la porta,
fare di ciò che deve
l’ultima libertà.

***

SE TI RESTA

Se ti resta un talento
di tanto spreco fatto
sul bianco delle pagine,

spendilo in vita: l’atto
può adeguarsi all’intento,
non il segno all’immagine.

***

A DARIA

Per te, addentare lì davanti

alla tivù uno a uno gli spicchi

del mandarino che ho sbucciato,

è ancora continuare il gioco.

Di una meraviglia mai finita

colmi la distanza dai miei tanti

anni, a guardarti, li fai ricchi

della tua assenza di passato.

Mentre dico a me stesso “Questa

è mia figlia”, penso sia poco

offrire, non per la tua vita,

ma solo per quello che m’è dato

adesso, la vita che mi resta.

***

A SILVIA PER I SUOI TRE ANNI

19 febbraio 1988

Silvia, conto i miei

anni a ritroso

da quando sei

nata tu,

e li conto fatti

di giornate nuove.

Dicendomi “ti sposo”

me ne hai sottratti

tanti altri, più

numerosi

dei giocattoli

con cui hai invasa

per ogni dove

la casa.

***

TRASLOCO – Zurigo, 15 ottobre 1987

 

Dal primo al quarto trasloco

dieci anni e mille chilometri.

In Via Dall’Ongaro non c’erano

Daria e Silvia. Sono nate

qui a renderci un poco

nostra, un poco familiare

questa città straniera.

E saranno ancora esse,

le nostre bambine, a colmare

con voci fresche e risate

il niente senza nome

delle stanze troppo bianche e nuove

che non ci attendevano, in Zypressen-

strasse, numero quarantanove.

 

 

Siro Angeli (1913-1991)

 

 

 

RECENSIONI

SCIASCIA

LEONARDO SCIASCIA, UNA STORIA SEMPLICE – ADELPHI, MILANO 1989

Una storia semplice è l’ultimo volume dato alle stampe da Leonardo Sciascia prima della sua scomparsa: uscito da Adelphi, nella collana Piccola Biblioteca. Si tratta di un romanzo breve, o di un racconto lungo, nella più schietta tradizione narrativa dello scrittore siciliano. Semplice la vicenda raccontata non pare davvero: semmai esemplare, elementarmente basata più su fatti concreti che su interpretazioni fittizie, più su dati immodificabili che su illazioni moralistiche. Fedele allo stile dell’ultimo Sciascia, poco propenso ormai alla denuncia e all’indignazione civile, la storia si commenta e si condanna da sé: c’è un morto scomodo, che la polizia vorrebbe far passare per suicida; c’è una villa abbandonata di cui sconosciuti si servono per la preparazione e lo spaccio di droga; c’è il consueto scontro tra carabinieri e polizia, l’assoluto disinteresse per la ricerca della verità, il desiderio di non approfondire questioni ambigue o pericolose da parte dell’autorità giudiziaria. Tutto questo, ma anche una vicenda che nelle ultime quindici pagine assume contorni sempre più inquietanti e scandalosi, con i vertici della polizia e personaggi della chiesa coinvolti totalmente e colpevolmente nel caso; il protagonista, allora, diventa l’eroe buono, l’unico a cui la società può affidare la sua sacrosanta volontà di punizione e redenzione: il brigadiere Antonio Lagandara reagisce alla corruzione che lo circonda uccidendo il commissario in capo, rivelatosi responsabile degli avvenimenti. Per ironia o dramma della sorte, questa uccisione non apre la strada ad ulteriori approfondimenti, non riesce a scuotere le coscienze addormentate dei cittadini, ma viene archiviata come “accidentale” e la “storia semplice” viene ricondotta alla sua banalità quotidiana e inoffensiva. Bocca amara, quindi, per il lettore, cui non resta che cercare tra le scarne pagine affidate ad una severa, essenziale prosa, qualche traccia della sofferenza dignitosa dell’autore che si sapeva condannato, non solo dal suo male, ma forse anche dalla storia della sua Sicilia. Un accenno alla malattia: «…ma il professore aveva, proprio quel pomeriggio, da fare la propria e inalienabile dialisi, pena per giorni l’intossicata immobilità». La consapevolezza che spesso sta più in alto chi ne è meno degno: «Il magistrato scoppiò a ridere. -L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è stato poi un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…- . – L’italiano non è l’italiano: è il ragionare – disse il professore. – Con meno italiano, lei sarebbe forse più in alto-». Infine, la più lapidaria delle constatazioni, la più tragicamente laica: «ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza».

 

«Agorà» (Svizzera), 10 gennaio 1990