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RECENSIONI

BRUGNARO

FERRUCCIO BRUGNARO, VOGLIONO CACCIARCI SOTTO – BERTANI, VERONA 1975

Presso l’editore Bertani di Verona, è uscito l’anno scorso nella collana Letteratura Operaia il primo libro di Ferruccio Brugnaro, Vogliono cacciarci sotto. Bertani si è da tempo qualificato con una serie di iniziative culturali che inserite nel panorama della nostra editoria, e in particolare di quella veneta, possiamo definire senz’altro coraggiose. Editore dichiaratamente “di sinistra”, a lui Dario Fo ha affidato la stampa di tutti i testi de La Comune, e sta iniziando un lavoro di recupero dei patrimoni culturali popolari, non ufficiali, contadini e operai: altre sue pubblicazioni si definiscono “di intervento militante”. Questa premessa era forse necessaria per spiegare che il libro di cui voglio parlare si inserisce in un preciso campo ideologico e la scelta dell’editore non lascia spazio a dubbi sulla posizione dell’autore. Per presentare Brugnaro a chi non ne avesse mai sentito parlare (L’Espresso lo ha citato più volte in inchieste sulla letteratura “subalterna”), possono bastare queste brevi note biografiche: nato nel 36 a Mestre, da 20 anni lavora come operaio a Porto Marghera, membro del suo Consiglio di Fabbrica; prima di questo libro diffondeva le sue poesie tramite ciclostilati nelle fabbriche e nei quartieri. Lui stesso nell’introduzione precisa (sembra con l’imbarazzo e il pudore di chi non è abituato al “mestiere” di poeta), come la sua poesia si proponga come MEZZO, e non FINE, come non creda all’assoluta catarsi affidata al messaggio artistico: «la poesia è utile se nasce come strumento di lotta, di riflessione e azione, strumento di intervento reale… essa diventa per me e per i miei compagni un momento di riflessione, di arresto per poi ripartire subito con più chiarezza, con più forza». «Solo per un attimo / che tutto sia semplice / concreto», dice in un verso: e in omaggio a questa concretezza e semplicità, Brugnaro fa un discorso piano, chiaro, se vogliamo modesto, nel senso che non si propone mete irraggiungibili, ma traguardi concreti, definiti: «Voglio dire ancora che lo scrivere versi per me non significa altro che fare delle azioni di lotta; azioni concrete perché la società in cui viviamo abbia a cambiare presto, perché gli uomini e il mondo vengano sottratti presto alla cecità e alla sete di sangue del capitalismo. Non potrò mai intendere una poesia che non tenga conto di questa realtà, della realtà bruciante quotidiana dell’uomo». Zanzotto, in una nota al libro, afferma che la poesia di Brugnaro, forse spingendosi oltre (o contro) le sue intenzioni, è anche “atto poetico”, invenzione di forma. Fa un parallelo indovinato con il primo Ungaretti, non solo per certi moduli stilistici, ma soprattutto perché la realtà di fabbrica dell’uno si può avvicinare alla realtà di guerra (ossessiva, tragica, squallida) dell’altro.

Premesso tutto questo, leggendo Brugnaro ci si aspetterebbe una poesia molto più “arrabbiata”: invece troviamo dei versi che fanno tesoro di alcune cadenze ed espressioni tra le più borghesi della nostra letteratura, che si avvicinano a volte alla tenerezza di affetti espressa dai crepuscolari: «Noi conoscemmo la luce / del silenzio come nessuno, sentimmo come / nessun altro venire con la notte / l’amore degli astri e il cuore morire»; «Di silenzio ora / l’anima è al completo / come una vasta / distesa di neve». E ciò stupisce. Siamo lontanissimi dalle denunce di Vincenzo Guerrazzi, dagli sfoghi rabbiosi di Vogliamo tutto e altra letteratura industriale. Della condizione di operaio, viene messa in luce la brutalità, la disumanizzazione, ma con un accento di rassegnazione accorata, di sconforto che è nuovo: «Siamo pronti a soccombere / sino in fondo / senza alcun gesto di protesta»; «Avremmo dovuto forse odiare, / ma non pensammo neanche lontanamente»; «Non stancatevi, cari; date / date tutto sempre quanto / vi chiedono! / Non piangete / sulla mano che vi recide».

Per spiegare tutto questo, credo sia necessario richiamarsi all’origine veneta di Brugnaro: un operaio di diversa provenienza avrebbe scritto, credo, diversamente le sue poesie. Radicata è invece in Brugnaro la mitezza dei padri, la discrezione, il misticismo proprio della sua razza. Scrive poesie d’amore, e non di rabbia; fa dell’amore un obiettivo concreto da raggiungere: «il mio pensiero guarda solo all’amore: /con lui solo discorre / giorno e notte e va per la terra»; «Non un istante della mia vita / deve andare più perduto. Voglio / spenderla tutta in amore». Non c’è in lui odio di classe. Parla di Dio, di Cristo, come presenze illuminanti, vere: il suo bisogno di preghiera e di luce è intensissimo: «Tu che ascolti i poveri, / Tu che segui quelli che piangono / e più di tutti hai pianto, / insegnami che altri giorni / ha la vita, non questi, / residui d’ombre / per poco ancora tolti alla morte»; «Ho una voglia di pregare / stamane / che non ho mai avuta prima. / Non ho mai sentito / così vivo desiderio d’inginocchiarmi»; «Alzate le braccia, compagni, in segno di gioia / fate rumore senza infrangere nulla del profumo notturno… / Fate festa! Fate festa! / Attorno l’icona sbiadita / dei nostri visi / palpiteranno in milioni e milioni i cuori»; «Sono tremendamente felice ora. / Non avrei mai creduto poter / ricevere in questo angolo / la vista del sole».

Il Brugnaro operaio assume contorni più decisi e polemici in due sezioni del libro: Mattine di sciopero e Quotidianamente: qui scopre la solidarietà nella lotta, la durezza impietosa del nemico, la dignità della sua persona in fondo alla condizione di sfruttato. E all’operaio (che in più di una poesia viene avvicinato alla figura di Cristo, proprio perché portatore di un messaggio di riscatto sociale), affida un compito gravoso e sublime: «Raccogliete tutte le ferite / i colpi a tradimento / gli sputi. La terra attende da molto / raccogliete il messaggio / d’amore, raccogliete il grido del mondo più vero»; «Un seme dobbiamo piantare / compagni / sotto queste valvole, queste tubazioni. / Un albero grande deve crescere subito…»; «Il muro di solitudine, di secoli / si sta sbrecciando / sta venendo verso di noi un gran sole»; «Ma non sanno, non sanno / – è loro sfuggito – che il sole / vive proprio qui tra noi. Non sanno, non sanno / delle nostre conversazioni silenziose / col sole / ogni mattina / del nostro grande progetto di lotta, di vita».

Per «distruggere il fuoco immenso delle fabbriche», Brugnaro invoca altro fuoco, per sé, per i compagni; invoca un’arma che non ha nulla a che vedere con la dinamite, con la rivoluzione storica, materiale: il suo è un appello di una purezza e di un’ingenuità sconcertante, il richiamo ai primissimi valori cristiani, alla solidarietà. Quando fa sciopero, lo fa contro la fabbrica, non contro gli interessi e i padroni della fabbrica: sembra dolersene come di una violenza che non è consona al suo carattere. Poesie, quindi, le sue, di un uomo mite, violentato dalla realtà, che trovano i loro accenti più veri in certe descrizioni desolate di ambienti nudi, disumani, nella pena dei compagni abbrutiti, uccisi addirittura dalla violenza delle macchine: un S.Francesco di Marghera, Ferruccio Brugnaro, un poeta che fa l’operaio, e non il contrario, come vorrebbe, come la sua coscienza ideologica gli imporrebbe. Alla fine del libro, ci si accorge che le premesse teoriche sono state capovolte, oppure che per noi, borghesi disincantati, intellettuali scafati, il mondo «semplice concreto» di un operaio e della sua poesia non riesce a mantenere il suo fascino sottile, leggero. E la colpa, in questo caso, si intende che è nostra.

 

«La Tenda», anno IV, n.6, giugno 1976

RECENSIONI

LUGANO

BRUNO LUGANO, NEL ROVESCIO DEL PERDONO – MARCO SAYA, MILANO 2015

Fedele al suo proposito di pubblicare poeti lontani dai circuiti letterari collaudati e tradizionali, l’editore milanese Marco Saya propone ai lettori questo volume di versi di Bruno Lugano, un anziano signore nato a Viareggio negli anni di guerra, e vissuto a lungo in Australia facendo “di tutto”. Un’infanzia difficile, tra affidi e orfanatrofi, con un padre sparito e non rimpianto, una giovane madre ripudiata dalla famiglia, teneramente amata e celebrata «come un cucciolo di innocenza», Bruno Lugano descrive se stesso in poche frasi, incisive e impietose: «nervi fragili e presunzione divina…malgrado parli sempre di me, di me non saprei dire granché». In effetti, la sua scrittura non potrebbe essere propriamente definita autobiografica: l’autore racconta della sua vita cose comuni a tutti gli esseri umani (emozioni e desideri, rimpianti e nostalgie, speranze e delusioni), e lo fa appunto sentendosi portavoce di un sentire collettivo, per nulla elitario o privilegiato. E sempre cerca un terreno di condivisione con chi lo legge, una comunicazione diretta e partecipe:

«Chiunque fossi io non mi fiderei di me / ve lo garantisco io che mi sono perso in ogni debolezza / che mi sfiorava appena», «No scusate ora devo cercare un tappeto di petali dove / lasciarmi cadere», «Non fateci caso se mi viene da piangere in questi casi / a me viene di non farci caso», «Non so se anche voi sentite come me la chiarezza che si / scioglie nel semplice calore».

Non c’è nessuna scaltrezza formale nei suoi enjambements originalissimi e spiazzanti: solo l’urgenza di seguire un pensiero e il bisogno impellente di manifestarlo, con «un ritmo ossessivo e un verso ipertrofico», come suggerisce Antonio Bux nella postfazione. Alla poesia Bruno Lugano affida un compito di salvezza dalla banalità del quotidiano, quasi fosse un viatico capace di accompagnare all’unica verità raggiungibile: «E’ indispensabile per me mettere le parole / nelle mie piaghe / curare le piaghe sempre leggermente diverse del giorno / con parole leggermente diverse». La fede nella parola che guarisce e aiuta a vivere ha qualcosa di religioso e umile, lontano da ogni celebrazione clericale o devota: «Parole lampo / per scrivere con l’ombra di riserva / qualcosa di molto chiaro che non ricordo più», «Il destino della luce è il perdono / lì la luce sta di casa», «Tanto poi tutto quello che manca / dico, tutto quello che manca, / nel momento in cui si infiamma di leggerezza la fede / si trova in abbondanza».

Sono versi travolgenti nella loro spudorata ingenuità, soprattutto in alcuni luminosi incipit: «Mi hai lasciato d’estate, per fortuna!», «Chi vive solo sa come il disordine può fare compagnia», «Provo tutto ciò che prova l’acqua chiara», «Come sono belli i giovani io li sposerei tutti», «Mi mangio il cielo e la terra a cucchiaiate». E perdoniamo volentieri all’autore se gli capita spesso di perdersi in riflessioni filosofeggianti che annacquano la tensione poetica, quando poi qua e là, come quadrifogli insperati in un prato, riusciamo a raccogliere all’interno o alla fine di una composizione altri barlumi di improvvisa bellezza: «quando sei solo vai incontro a un dio da fermo», «anch’io ho capricci di ragno fiero, nella solitudine», «mi sospira oscenamente un male elementare», «vorrei essere un animale con l’anima cristiana», «si comincia tutti dal proprio zero disperato», «Io sentivo la sera venire. / Ho sentito tutto. //…Ho amato tutto, / quello che c’era da amare l’ho amato tutto».
Non sempre i “poeti laureati” di montaliana memoria sanno emozionarci così.

 

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www.sololibri.net/Nel-rovescio-del-perdono-Bruno.html     22 settembre 2015

RECENSIONI

CASU

ANTONIO CASU, I CASI DELLA VITA – PUBBLICATO IN PROPRIO, REGGIO EMILIA 1976

Reggio Emilia è una città strana, estremamente politicizzata, quindi con una coscienza civile e anche culturale notevole, che mantiene tuttavia “sacche” provinciali di sottocultura, e zone intere che invece vivono di un patrimonio folkloristico ancora vivace e particolarmente sentito: anche qui si pubblicano raccoltine poetiche edulcorate, frutto di cattive letture e aspirazioni frustrate. Ma ci si pubblica anche altra roba. Io che vado a Reggio ogni tanto ho trovato in una libreria del centro un libretto (cm.10 X 12) color canarino, scarno e patetico anche nel prezzo -500 lire-. Sulla copertina  Casu AntonioI casi della vita, titolo onnicomprensivo, che sa tanto di buon senso antico, di famiglia patriarcale. Come se la sapienza del mondo – quella vera sostanziale – fosse raccolta in queste non so quante pagine, non c’è il numero, né indice, né presentazione, (forse per risparmiare sulle spese di stampa). Alla fine,una specie di avvertenza: «Autore di queste rime poetiche è il signor Casu Antonio residente a Pratofontana Via Don Leuratti 12 Reggio Emilia». E allora voglio scrivere qualcosa di queste rime poetiche, come le chiama il suo autore; non “poesie”. La struttura è semplice e ripetuta uguale in tutte, rima ABABABCC nelle più complesse, rispettata a ritmo quasi ossessivo (“mangiare, male, dolore, sudore, morire, ecc.”). Do un esempio di questa estrema cura e attenzione per la rima: «La festa della Vergine Maria / che si ricorda annualmente / bisogna fare pregatoria / che ci dia salute totalmente / ognuno con la sua familia / senza essere indifferente / insieme con Gesù / che il benessere ci dia di più».

Da qui potrei riallacciarmi al discorso religioso che è un filo sotteso per tutta la raccolta, una fede limpida nei dogmi, un’avversione per il nuovo e anche per il pensiero corruttore, un abbandonarsi alla preghiere imparate da piccoli senza mettere in dubbio niente, seguendo la morale sana e severa dei vecchi. Questo “rimatore” parla sempre di cristiani che devono sopportare e amare e pregare per ricevere il frutto delle loro pene («ma Dio ce la dia la salvezza / d’avere compassione del brutto destino / bisogna avere buonigno cuore / per grazia del Signore», «Non bisogna perdere la speranza / quando si ha la fede del Signore / nessuna cosa viene in mancanza / e può sanare quel dolore / ci sono dei miracoli in abbondanza / tutto merito di valore / sono casi che succedono in vita / prima di essere finita») esalta figure di sacerdoti e di perpetue, onora i papi e specialmente GIOVANNI RONCAGLIA – per la rima con battaglia-, fa del moralismo severo contro la dissoluzione dei costumi, contro la legge Merlin, si scaglia indignato contro la malavita le rapine e i sequestri, dedica una decina di rime agli agenti di pubblica sicurezza uccisi, recrimina su Mario Tuti e sulla strage di Piazza Fontana. Politicamente, è difficile definirlo: come dalla Sardegna si è trasferito alla terra che ci ha dato il fascio e i comuni rossi, così passa dal rimpianto nostalgico per i tempi del duce all’esaltazione di Berlinguer e del glorioso PCI; deplora la disoccupazione, la cassa integrazione, i ghetti industriali, ma non arriva ai più che leciti collegamenti tra le varie manifestazioni della corruzione politica, o si limita a generiche accuse contro il malgoverno. Vengono in mente i cantastorie siciliani, anche per i bozzetti di vita contadina, per il gusto del macabro e del particolare pietoso: adora la cronaca nera, uccisioni stupri vendette: si sente che questa è materia sua, su cui sa lavorare meglio, su cui sa stendere giudizi più recisi. La ritiene forse oggetto di poesia, ma anche questo gusto ha alle spalle una solida tradizione di ballate, di cantilene nutrite del piccante che offre la vita quotidiana. E’ un reazionario questo signor Casu? Forse. Meglio, si fa portavoce di contenuti in sé reazionari, ma lo fa con un’innocenza e un’ingenuità che si avvicinano alla poesia. Nelle sue rime c’è una morale triste ma profondamente umana, e quello che più conta, radicatissima tra la gente di campagna: l’ossequio al passato, all’esperienza del già vissuto. Un anziano contadino che scrive rime del genere è chiaro che non vuole fare un’operazione culturale (anche se indirettamente la fa), non è un operatore, un tecnico della parola. Scrive perché qualcuno lo legga e respiri un po’ l’aria di un mondo arretrato e lontano quanto si vuole, però vivo, ancora legato a leggi severe: forse non capirebbe questo articolo, certo non capirebbe la gente de La Tenda. La poesia per lui è l’equivalente della canzonetta da intonare dopo il lavoro dei campi, o della predica a messa, o del bollettino della radio: con in più la rima. Eppure ha delle intuizioni vergini, conia parole che potrebbero essere invidiate dalla nostra avanguardia, e non lo fa per sfizio per hobby per ricerca linguistica. E’ il suo mondo e sono le sue parole, è una morale che sa di fieno. Finisco con due poesie (queste sì a buon diritto) che si commentano da sole: «Se le pensioni hanno aumentato / aiutando il consumatore / tante volte considerato / ma sempre con minimo valore / come una elemosina sempre fatto / non considerando il valore / che nella nazione lui ha dato / mi riferisco al contadino / che lui è l’ultimo poverino», «Se volete che la terra dia frutto / bisogna darla a chi lavora / il benessere viene compiuto / ognuno deve avere la sua dimora / così abbandonato è dappertutto / e la vogliono lasciare più ancora / tutto dipende dai terrieri / che lasciano incolti i poderi».

 

«La Tenda», anno IV, n. 7, luglio 1976

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DI NOLA

ALFONSO M. DI NOLA, LO SPECCHIO E L’OLIO – LATERZA, BARI 2010

L’antropologo Alfonso Di Nola (1926-1997) pubblicò questa fondamentale ricerca nel 1993: da allora Laterza l’ha riproposta in diverse edizioni economiche, che hanno continuato a riscuotere interesse e successo di pubblico. L’argomento si presta infatti a suscitare curiosità e discussioni, toccando vari aspetti della vita e della cultura italiana: religione, scienza, psicologia, astrologia, occultismo.

«Questa raccolta intende analizzare soprattutto le superstizioni italiane, come residui o survivals delle età precedenti, tuttora persistenti in una cultura che sembrerebbe avere i suoi fondamenti nella tecnologia e nelle strutture dell’epoca postindustriale». Anche in un mondo laicizzato e scaltrito come l’attuale, infatti, persistono credenze opinabili e prive di qualsiasi scientificità che risalgono alla notte dei tempi, probabilmente addirittura alla preistoria, a cui molte persone prestano fede, affidandosi a ritualità risibili, forse perché cercano in esse meccanismi di difesa e di rassicurazione dall’ignoto. Insomma, “non è vero, ma ci credo”, come recitava il titolo di un film di Peppino De Filippo. Alfonso Di Nola elenca alcune delle superstizioni più note, che spesso non si limitano al nostro ambito territoriale, ma con sostanziali differenze interessano tutto il territorio europeo: il gatto nero, lo specchio rotto, l’olio versato, il numero tredici… Di ciascuna di esse, lo studioso indaga origine e diffusione, suddividendo le credenze popolari nei loro influssi negativi o positivi. Tra i primi elenca il malocchio, la fattura, i vampiri e le streghe, il diavolo e i fantasmi, alcuni fenomeni atmosferici, le profanazioni sataniche; tra i riti positivi vengono presi in considerazione amuleti e talismani, formule magiche, fenomeni astronomici, miracoli e reliquie, medicamenti erbacei, sogni e presagi. Se alcune di queste mitologie appaiono fantasiose, frutto di ignoranza, ma sostanzialmente risultano innocue, altre rivelano invece tutta la loro pericolosità, arrivando a provocare la persecuzione e l’emarginazione di singole persone o di gruppi sociali, crudeltà nei riguardi degli animali e vandalismi contro oggetti e edifici, violenze fisiche e addirittura omicidi. Ad esempio, in provincia di Chieti, sembra persistere un costume sacrificale di antichissima origine: «…qui si assicura tuttora la fortuna di una casa in costruzione seppellendo un cucciolo vivo sotto la soglia dell’uscio».

Molti altri metodi, dai contorni tribali, vengono usati per assicurare fertilità, guarigioni, fortuna economica o (al contrario) per esercitare influssi distruttivi e maleauguranti, ricorrendo all’utilizzo di sangue mestruale, sperma, capelli, denti, ossa. Alfonso Di Nola usa espressioni molto dure nei confronti di chi (media, chiese, organizzazioni politiche, conventicole esoteriche, sedicenti maghi e indovini) si serve del proprio potere per influenzare o soggiogare mentalmente le persone più suggestionabili e culturalmente impreparate, indifese o nevrotiche, allo scopo evidente di trarne vantaggi economici e popolarità. In particolare stigmatizza «il bisogno indotto come il cappuccino e le brioches» della dipendenza dall’oroscopo quotidiano, che alimenta una fiorente industria di riviste, libri, trasmissioni, turlupinando il prossimo con previsioni ingannevoli, ma gratificanti e rassicuranti, basate sul nulla. Sotto questo profilo, uno dei veicoli più pericolosi di diffusione e legittimazione della credulità è sicuramente rappresentato dalla televisione … e dai molti strapagati ciarlatani che ne dirigono e animano i programmi.

 

www.sololibri.net/Lo-specchio-e-l-olio-Alfonso-M-Di.html     21 settembre 2015

RECENSIONI

PERRENOUD – GIANCOTTI

MADDALENA STABILE PERRENOUD, ALTRE ATTESE – CREA EDITORIAL, 1990
ELIO GIANCOTTI, LA VITA OLTRE IL MITO – LUIGI PELLEGRINI  – 1990

 

Secondo l’ultima indagine dell’Istat, numerosissimi sono gli italiani che scrivono poesie (uno su cinque, pare); più al centro-nord che al sud, più uomini che donne (queste ultime, se coniugate, si firmano sempre con due cognomi…). La percentuale dei lettori di poesia è invece risibile, vergognosamente bassa: Zanzotto, dei suoi libri pubblicati nella prestigiosa collana Lo specchio di Mondadori, non riesce a vendere duemila copie. Questo perché il linguaggio poetico è arrivato a una densità espressiva e a una difficoltà interpretativa tali, che il lettore medio italiano – già poco propenso a grosse fatiche intellettuali – tende a evitare di lasciarsi mettere in crisi, rinuncia a priori ad approfondire, a svecchiare le sue conoscenze letterarie. Si può allora pensare che il pubblico della poesia sia costituito dai poeti stessi, ma anche questo non è sempre vero; mentre è indubbio che a un certo -basso- livello di produzione letteraria chi scrive versi legge solo quelli che lui stesso produce, non avvertendo minimamente l’esigenza, umile ma doverosa, di coltivarsi, perché no?, di “studiare” poesia, così come un medico studia anatomia, o un programmatore si aggiorna su riviste e pubblicazioni specializzate. A questo mi viene da pensare quando ricevo in omaggio volumi di versi, con la preghiera, talvolta imperiosa e assillante, di una recensione, che ovviamente deve essere SEMPRE positiva ed esaltante, pena odio eterno e strali feroci. Allora leggo, annoto, postillo, rileggo cercando di trovare tra le pagine tutti i preziosismi letterari e le recondite armonie promesse da prefatori entusiasti e un po’ troppo generosi.. Scusate la lunga digressione, e prendetela come sfogo di una tizia che ama molto leggere poesia, e a cui piacerebbe anche scrivere molto e bene di poesia, e non sempre ci riesce, certo per sua personale insensibilità verso la genuina e strabordante vena poetica di chi scrive… E arriviamo a parlare di due volumi di versi appena pubblicati da scrittori che già si sono messi in luce nell’ambito dell’emigrazione: Maddalena Stabile Perrenoud e Elio Giancotti, con Altre attese e La vita oltre il mito. La Stabile Perrenoud, calabrese ma con una storia che ha conosciuto diversi orizzonti, vive, lavora e scrive a Neuchâtel, e ha con la poesia un rapporto intenso, quasi fisico e sensuale, di donazione totale, di confessione irrefrenabile. Le sue sono poesie con una forte sensibilità pittorica e un’ altrettanto forte sensibilità religiosa, rivolta verso un dio creatore onnipresente nella bellezza del creato. Si tratta di visioni, sogni, preghiere permeate di gratitudine stupefatta nei riguardi dell’esistente, del miracolo di un mondo sempre uguale e sempre nuovo nello stesso tempo, dietro cui è difficile decifrare il silenzio divino: «Nulla resta / il presente ci sfida immobile. // Tu che domini il tempo / vivi e non esisti…»; «Lontana come una stella, / mi guida questo pianto, / questo gridare dell’anima, / un’ultima preghiera / al Dio degli uomini»; «Aspetto che mi parli / che strappi questo velo, / il sigillo / che chiude la porta della mente». Ci sono immagini icastiche, assolutamente giuste nel far scattare quel quid che definiamo poesia, soprattutto negli attacchi delle singole composizioni: «Sarà sera fra poco, / gli alberi immobili / l’attendono. // Ho vinto l’impulso / di cercare casa , / d’accostarmi come un lupo solitario, / per carpire / e rassicurarmi in un’immagine»; «L’autunno / è la guerra degli alberi. // La sconfitta», ma curiosamente sembra che l’autrice sia tentata dalla sovrabbondanza e dalla ripetizione, preferisca il diluire che il condensare, la tradizione della retorica all’originalità più scabra, dimenticando che la poesia è data dall’intensità, e mai dalla banalità. E così leggiamo espressioni datate che finiscono per danneggiare il libro nel suo complesso: «paradiso di luce; lacrime di madreperla; l’ultimo raggio di sole al tramonto; spighe di grano / ondeggiano / al vento della passione», e altre ridondanti immagini del genere che vanificano il timbro più personale e dotato della Stabile Perrenoud.
Elio Giancotti, lui pure calabrese, professore nei Corsi di Lingua e Cultura Italiana a Berna, tre anni fa ha pubblicato un romanzo ambientato nella Svizzera inquieta della terza generazione, a cui nuoceva forse l’eccesso di storie e situazioni, di elucubrazioni socio-psicologiche e di bozzetti narrativi. Troppe cose con troppe parole, insomma, per un libro solo, e non abbastanza sorvegliato stilisticamente. Quella prima impressione di allora mi viene ora consolidata da questi versi, stranamente retrò con una robusta impostazione classicheggiante, quasi che le letture dell’autore si siano fermate a Vincenzo Monti, o a Prati e al tardoromanticismo: «La tua grazia, Velia / m’inebriò di gioia celeste. / Sfiorandomi la tua mano / ch’ora invano cerco / stringer nel sonno / sentii fendermi il petto»; «Nella lubrica china del tempo / s’è lacerato l’amoroso idillio»; con curiose rimembranze da Michelangelo («È preferibil cosa / l’esser di sasso») o da Foscolo («Or son vent’anni, Calabria mia, / adolescente ti lasciai»). Severi settenari iniziali («O fervide colline, / dai limpidi orizzonti») si sfilacciano presto in un’assoluta dimenticanza e noncuranza di ritmi e clausole metriche; le frequenti anastrofi («Ivi i nati figli; I proibiti frutti; dalle feraci valli; il mio ardente petto») fanno il verso, non si capisce se ironicamente o meno, al traduttor dei traduttor d’Omero: «E rubiamo teneri afflati a zefiro / e calami d’oro al sole / e scriviamo messaggi ineffabili / che il complice Favonio apporta». Eppure anche Giancotti ha un timbro suo, personale e piacevole, che trascura o non mette in evidenza quanto dovrebbe, preferendogli l’elegia e la retorica: è nella parte finale del volume che l’autore si riscatta, nelle  Satire che recuperano con finezza e ironia il tono di certe epistole in versi del latino imperiale (da Orazio a Marziale a Giovenale, ma senza dimenticare Catullo); e fustigando i vizi dei più, manie e memorabilia di amici e nemici, assume toni scherzosi e simpaticamente denigratori, tenendo in serbo l’aculeus finale («tante botte e senza retribuzione / mi domando se sei un duro o un coglione») nella migliore delle tradizioni classiche.

 

«Agorà» (Svizzera), 20 marzo 1991

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OTTIERI

OTTIERO OTTIERI, POEMETTI – EINAUDI, TORINO 2015

Einaudi ripubblica tre poemetti di Ottiero Ottieri (usciti nell’ 88, nel 91 e nel 93), con un’esauriente prefazione di Valerio Magrelli. Ottieri, nato a Roma nel 1924 da una nobile e ricca famiglia toscana, romanziere di successo, sceneggiatore e figura di spicco dell’editoria, sposò Silvana Mauri, nipote di Valentino Bompiani, da cui ebbe due figli: la scrittrice Maria Pace e Alberto, attuale presidente di IBS e Messaggerie Libri. Breve premessa per inquadrare il milieu intellettuale e sociale in cui si mosse, con tormentata inquietudine, l’autore di questo libro, vissuto tra Roma, Milano, Ivrea, Pozzuoli e la Versilia, con frequenti ed estemporanei soggiorni all’estero. Ideologicamente orientato a sinistra, pativa tuttavia una sua esclusione dal mondo del proletariato proprio a causa della sua elitaria appartenenza all’ ambiente alto-borghese, in qualche modo finendo per vantare narcisisticamente questo suo dualismo culturale e di classe. Tutti e tre i poemetti, composti in cinque anni di ossessivo scavo interiore, con soffocanti tentativi di ancoraggio morale e politico, ruotano esclusivamente e angosciosamente intorno alla sua biografia, con l’esibito desiderio di costruire un personaggio da celebrare e offendere, da straziare con uno scandaglio psicologico di implacabile severità, e da consolare con divertito ma orgoglioso autocompiacimento. Lo stile, che Ottieri stesso definì «scivolosa…prosa rimata» e «funambolismo verbale», è coerentemente narrativo, veloce, colloquiale, con frequenti inserti di locuzioni quotidiane e termini volgari, quasi logorroico e sempre autoreferenziale, talvolta ironicamente allusivo alla più collaudata tradizione letteraria.
La prima raccolta, Vi amo, consta di nove composizioni dedicate a vari amori: i figli («io vi amo non voluti figli…Terribili pubblici ministeri / voi siete…»); antiche amanti suicide; le spiagge tropicali; diversi personaggi principeschi; la passione per i cocktails e la vita mondana; la sua Milano odiosamata («città senza cielo / terrore d’ansia e di suoni»), con la seducente attrattiva dell’elegantissima Via Spiga.
Nella seconda sezione, L’infermiera di Pisa, Ottieri si confronta, servendosi di una spiazzante e vivace leggerezza, con il tema sofferto dei frequenti ricoveri in cliniche psichiatriche, dopo anni di sedute junghiane a Milano e a Zurigo, per cercare di vincere il suo male oscuro, non provocato solo da depressione e bipolarismo, ma soprattutto dalla dipendenza dal sesso e dall’alcol, e da un costante sentimento di inadeguatezza («Tra nevrosi e psicosi, / analisi e benzodiazepine, trascorsero decenni»; «Mantiene psichiatri, psicoanalisti, / psicologi, assistenti sociali, / infermieri, tassisti e baristi»). Preso da una senile e incontenibile passione erotica per un’infermiera pisana, il poeta sbeffeggia se stesso e il suo «sessuale delirio» («Voglio con atletico cazzo / penetrare una stupida fica»), duellando testardamente contro le imposizioni mediche dei luminari della casa di cura, che sfotte sarcasticamente chiamandoli per nome (Cassano, Perugi, Mignani….), convinto che l’unica sua possibile salvezza risieda nelle cure amorose della bella toscana in camice blu.
Il terzo e più esteso poemetto, Il palazzo e il pazzo, torna sui temi assillanti delle precedenti raccolte: il sesso («Il mio dongiovannismo sordido / e tremebondo») e la psicanalisi («Nella mania e nella malinconia / io sono implacabile»). Ma a queste ossessioni se ne affiancano insistentemente altre: l’alcol («Bevvi / dodici bottiglie di rosso di seguito; io non concepisco / le realtà senza birra») e la passione politica («Ho sempre sostenuto che la classe operaia / non deve fidarsi / degli intellettuali»). Prendendo a pretesto un solitario rientro nel palazzo di famiglia a Belverde, nel senese, motivato dalla decisione dei suoi figli di vendere la proprietà, Ottieri, allergico a qualsiasi aspetto pratico-amministrativo dell’esistenza, si misura con il presente e il passato suo personale e dell’ambiente che lo circonda. I «cari luoghi» della sua adolescenza gli appaiono dopo anni oltraggiati dal capitalismo nella natura, nel paesaggio e nel carattere degli abitanti, da cui il poeta si sente estraniato e osservato con sospetto e rancore («tutto il paese mi considera / un verme»). A chi scrive non resta ormai nessuna fede, né in Marx («L’orrido mito marxiano non termina / che con il termine della povertà mondiale. / Allora la televisione potrà tutto; Insomma, che fa / un ex comunista?»), né in Freud («Mentre si cercano / le terapie brevi, le si fanno / interminabili»). Rimane soltanto un’adesione sofferta a una corporeità vissuta come condanna, e la devozione a un IO «scorticato vivo», che spadroneggia imperioso e fragilissimo: unica verità cui ancorarsi. «Sono un uomo senza fantasia,  / autobiografico perso».

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Poemetti-Ottiero-Ottieri.html;     19 settembre 2015

 

RECENSIONI

PEDROLI

GUIDO PEDROLI, IL SENSO E LE PAROLE – CASABLANCA, BELLINZONA 1990

Certamente un importante fattore di giudizio nella valutazione di un testo è costituito dalla sua resistenza nel tempo, dalla sua capacità di non lasciarsi ossidare dalle mode, di mantenere una sua pregnanza di significato anche in diversi contesti culturali. Gli scritti di Guido Pedroli, pubblicati a trent’anni dalla sua morte, in un primo volume curato da vari studiosi per le edizioni Casablanca di Bellinzona, godono di questo raro privilegio, conservano dopo un così lungo periodo di silenzio, e forse di ostracismo, tutta la lucidità teorica e il peso politico di quando furono scritti. Si tratta di articoli, pubblicati tra il 52 e il 62 per lo più sulla stampa ticinese, di contributi a convegni, di introduzioni a volumi, limpidi e decisi nella prosa, correttamente polemici nelle argomentazioni e nei contenuti. Fu un maestro, questo giovane filosofo ticinese, cresciuto alla scuola di Abbagnano e di Paci, a cui solo una malattia crudele e inaspettata ha impedito di diventare una voce autorevole del pensiero e della cultura svizzera di questo secolo. Del maestro aveva la vocazione e la caratura morale: lo possiamo dedurre dalle pagine vibranti di sdegno verso una scuola che isterilisce e non educa, verso una pedagogia «addomesticata alle esigenze produttive di una società che tende a svuotare l’individuo, a ridurlo sempre più al rango di strumento efficiente, di essere che produce servizio (…). L’uomo ha la sua unica espressione nel “Job”, dal suo lavoro riceve l’individuazione, ma è individualità non sua, individualità senz’anima: la pedagogia che ne deriva è quella (…) che si preoccupa esclusivamente di adattare l’uomo alla funzione che esso è destinato a ricoprire nella società (1952)».

Sembra di rileggere i Quaderni piacentini degli anni 70, o Ivan Illich. Ci sono anche altre espressioni che hanno una valenza esplosiva contro la didattica rigida e funzionalistica tanto in voga oggi: «E nemmeno bisogna distogliere il maestro dalla ricerca personale. Più si diventa persona e più si diventa maestro. E un valore conquistato per sé è una valore conquistato per tutti gli altri. L’educazione deve dunque andare contro corrente rispetto all’attivismo moderno. Se il mondo moderno ci svuota e ci esteriorizza, la scuola ha il compito di riportare l’uomo dentro se stesso, di fargli ritrovare la sua natura spirituale e personale».

C’è quasi una foga missionaria in questo compito del docente, che Pedroli individuava non solo nel suo lavoro di professore, quanto proprio nel ruolo di intellettuale al servizio di una regione, di una cultura. Idealismo, certo, ma non donchisciottismo: gli obiettivi a cui mirare erano – e sono – ben concreti, armati, resistenti, gli interessi da scalzare enormi. Pedroli non lottava contro i mulini a vento, e le sue parole assumevano spesso uno slancio cui la morte precoce ha consegnato un senso quasi profetico. Temi privilegiati erano i giovani: «…i giovani quando si aprono al mondo, hanno il diritto di sentirlo davanti a loro come mondo da conquistare. Nostro compito è solo di fornire loro i mezzi tecnici e culturali perché possano orientarsi in esso e trasformarlo, e non già di deprimere i loro entusiasmi e prepararli ad una accettazione supina e rassegnata».

E la politica: «Io sono convinto che democrazia e civiltà si difendono nel socialismo. Alla domanda che cosa ci distingue dai comunisti, risponderei: ‘una diversa concezione dell’uomo’. Anzitutto una diversa concezione della sua individualità. Il comunismo considera la realizzazione di una società senza classi dal punto di vista della storia universale: l’uomo è un elemento trascurabile di questo processo storico assoluto e può quindi essere sacrificato, l’uomo di oggi, alla felicità dell’uomo di domani. Il socialismo invece tiene fermo l’uomo nella sua individualità. La storia è storia di uomini e non di ragione; la nuova società sarà quindi realizzata dagli uomini, non contro di essi)».

Ma è soprattutto la situazione della cultura ticinese, l’ambivalenza di fondo in cui sono costretti a vivere gli intellettuali del suo cantone, a suggerirgli articoli insieme orgogliosi e sprezzanti, comprensivi e infuriati: «Il Ticino è svizzero ma non è la Svizzera, è italiano ma non è l’Italia… C’è un complesso verso l’Italia, che è insieme di superiorità – l’ordine, l’onestà, l’automobile e il frigorifero che abbiamo come Svizzeri – e di inferiorità – la facilità di parola, la fantasia di vivere che si sono appannate da quando non siamo più italiani…- Il protezionismo della cultura, se favorisce la quantità della produzione, non favorisce certamente la qualità. Le acque si fanno stagnanti, si forma un’aria viziata, di serra, la fauna e la vegetazione è troppo fitta e rigogliosa per essere ricca di nerbo, di vita. Ecco allora il Ticino diventare la più provinciale delle province…Come lo scrittore romagnolo e piemontese portano, il più delle volte, l’impronta caratterizzante della loro terra, a maggior ragione la porteremo noi, di questa valle che la frontiera ha reso tanto diversa dalle altre valli italiane. L’Italia non aspetta nulla da noi. Quasi non sa che esistiamo. Ma se le facciamo nascere un fiore, vuole essere un fiore della nostra terra».

Non c’è nulla da riassumere, da tagliare, da contestare: sono considerazioni che hanno l’evidenza della verità, validissime ancora oggi, da sottoscrivere in toto. Un’intelligenza cristallina, quindi, quella di Guido Pedroli, e una moralità altrettanto forte ed esemplare, come si può dedurre dalle poche pagine del diario presentate nel volume. Pagine che rasentano l’altezza degli insegnamenti di Mounier, la severità etica del Sisifo camusiano: «Essere nel mondo e tra gli uomini – questo è il problema che devo risolvere. Oggi non è più possibile per me lasciarmi vivere – porterei sempre con me il senso di sprecare la mia vita, di non fare ciò che appunto il mondo e gli uomini chiedono da me, di sotterrare i miei talenti, pochi o tanti che siano. E d’altra parte debbo superare una volta per tutte la fissazione che per fare “qualcosa”, per non disperdere la propria vita nel mondo, occorre sacrificare il mondo. Non si tratta di fare “qualcosa” – giungere a una cattedra o scrivere un libro importante – si tratta semplicemente di non abdicare al posto che ci è assegnato, non fuggire la responsabilità che abbiamo il dovere di assumerci, esaudire nel modo migliore il proprio compito».

Non abdicare, non fuggire, esaudire il proprio compito. Semplicemente.
Fosse facile.

 

«Agorà» (Svizzera), 15 maggio 1991

RECENSIONI

BIANCONI

SANDRO BIANCONI,  I DUE LINGUAGGI – CASAGRANDE, BELLINZONA 1989

Sandro Bianconi, noto sociolinguista ticinese, a un decennio di distanza dal suo discusso Lingua matrigna. Italiano e dialetto nella Svizzera italiana (Bologna 1980), ha pubblicato un nuovo volume destinato, come il primo, a smuovere le acque – piuttosto stagnanti – della ricerca linguistica dentro e fuori il Ticino, e a costituire allo stesso tempo un punto fermo della teorizzazione e un pungolo vivace al confronto. Infatti questo I due linguaggi, edito da Casagrande di Bellinzona, dichiara coraggiosamente e polemicamente i suoi obiettivi già dal sottotitolo (Storia linguistica della Lombardia svizzera dal ‘400 ai nostri giorni) e, in modo più esplicito, nell’introduzione. Definire il Ticino “Lombardia svizzera” è già prendere posizione contro certo sciovinismo e revanchismo che vorrebbero contrapporre la cultura di questo cantone a quelle confinanti, quasi fosse autoctona e assolutamente originale: «Lo spazio oggetto della mia ricerca coincide con quello delle pievi lombarde ambrosiane e comasche, che oggi costituiscono il Canton Ticino. E’ lontanissima da questo lavoro qualsiasi tentazione di riesumare scheletri (tuttora purtroppo presenti in certi armadi), quali “il genio ticinese” e simili. Lo ripeto: queste comunità non sono mai state una realtà unica, a sé stante, svizzere o ticinesi: si farà, quindi, la storia linguistica di una regione lombarda di frontiera, simile alle altre regioni lombarde alpine o prealpine: dal Comasco alla Valtellina alle valli bergamasche…».

Il titolo I due linguaggi sta ad indicare le due anime e le due culture da sempre presenti nella Lombardia Svizzera, tradotte nel binomio lingua/dialetto, in una diglossia vissuta come arricchimento e senza particolari traumi fino a questo secolo, e che solo oggi sembra essere sfociata in uno stato di disagio non solamente linguistico. Il volume si divide in tre parti, corrispondenti a tre periodi storici, e ben enucleate dai titoli : I. Italiani, II. Italiani svizzeri, III. Svizzeri italiani. La prima parte, Italiani, comprende il periodo di totale appartenenza al Ducato di Milano, tra il 1400 e i primi decenni del 1500, quando il ruolo del volgare nello scritto è ancora subalterno a quello del latino, e nei documenti si riscontra un predominio del modello cancelleresco con qualche variante di italiano regionale e presenze di frequenti toscanismi. Nonostante sia questa la sezione ovviamente più ridotta e forse meno stimolante del volume, tuttavia vi si possono ritrovare testimonianze di esemplare ricchezza e interesse sociale: ad esempio la condanna alla tortura di un ladro di Morbio Inferiore, colpevole di aver rubato tra l’altro «un paro de calzette rosse…». La seconda sezione, Italiani svizzeri, è la più consistente sia dal punto di vista quantitativo, sia per l’importanza dei documenti presentati e delle conclusioni raggiunte. Nell’età compresa tra il 1513 e il 1798, tuttora poco indagata dagli storici, caratterizzata dalla dominazione dei cantoni svizzeri e dalla costituzione dei Baliaggi svizzeri d’Italia, la gente ticinese si considerava con ovvietà lombarda, e riteneva Milano e Como tra i suoi veri centri di riferimento culturale: «Il sentimento di identità della gente cisalpina è rimasto costantemente e serenamente italiano sino all’affermazione concreta e definitiva dell’autonomia cantonale verso la metà dell’800!»

Gli elementi di italianizzazione del linguaggio si moltiplicavano allora con evidente vitalità, quasi a garanzia di una maggiore apertura culturale e sociale: i vivaci commerci transalpini, l’emigrazione qualificata di artigiani e artisti, la predicazione e il catechismo cattolico, le scuole parrocchiali e i collegi più esclusivi, tutto contribuiva alla diffusione e alla penetrazione della lingua italiana anche nel Ticino più interno. Fondamentali appaiono qui almeno due aspetti di quelli segnalati da Bianconi: in primo luogo l’importanza dell’emigrazione dei maestri d’arte ticinesi, che ha decisamente contribuito ad aprire le comunità cisalpine al mondo (creando una serie di bisogni culturali nuovi quali l’esigenza di comunicare per scritto con la famiglia rimasta in Svizzera e la conseguente richiesta d’istruzione; l’imperativo di comprendere l’italiano regionale e di adattarvisi; il confronto con esperienze artistiche e urbanistiche diverse e stimolanti); in secondo luogo, il ruolo avuto dalla Chiesa nel campo dell’alfabetizzazione popolare già a partire dal 1300, e più decisamente ancora dopo il Concilio di Trento, per cercare di contenere l’espansione del protestantesimo (e quindi le frequenti visite pastorali dei vescovi di Milano e Como, l’istituzione di seminari, l’apertura di scuole popolari e di collegi, in particolare dei Gesuiti e dei Padri Somaschi).
Sfruttando una vastissima documentazione storica, faticosamente recuperata attraverso accurate ricerche sia in archivi pubblici che in fondi privati quali quello della famiglia Oldelli di Meride, Bianconi riesce ad abbattere un pregiudizio diffuso e confortato da numerose teorie accademiche (cfr. pag. 57, 170, 205: l’autore si contrappone pressoché a tutto il Gotha linguistico italiano, Migliorini, Devoto, Dionisotti, De Mauro, Durante, Bruni, Marazzini…), e cioè che la popolazione delle vallate cisalpine comunicasse oralmente solamente in dialetto, e che l’italiano fosse invece riservato solo ai ceti alti, ai letterati e ai documenti scritti. Sulla base di numerose lettere private, di diari e inventari, di atti processuali e di rapporti ufficiali, Bianconi dimostra al contrario che la competenza almeno passiva dell’italiano era molto diffusa anche tra gli strati bassi della popolazione, e afferma che «la pluralità di usi linguistici, sia scritti che parlati, in funzione di situazioni comunicative diversificate, induce a ritenere plausibile l’esistenza di una situazione di diglossia con bilinguismo sociale sin dal ‘500».

Sempre dalla stessa data, lo studioso fa partire una situazione di bilinguismo italiano-tedesco al livello di dibattimenti processuali e degli atti ufficiali: «L’atteggiamento degli Svizzeri nei confronti dell’aspetto linguistico sembra essere stato, in generale, rispettoso della specificità italiana della popolazione cisalpina, tuttavia con eccezioni: ad esempio, l’imposizione del tedesco nella cause portate davanti ai cantoni sovrani…L’ordinamento amministrativo elvetico e l’adozione di alcuni usi del diritto tedesco portarono ben presto all’introduzione nel lessico regionale cisalpino, di livello ufficiale e settoriale giuridico-amministrativo, di una serie di termini tedeschi…».

Sono le prime avvisaglie di una situazione linguistica difficile, quale quella presa in considerazione nella terza parte del volume, che riguarda il periodo più vicino a noi, quando sorgono le più problematiche crisi di identità per il cantone ticinese, avviato a diventare autonomo e ancora alla ricerca di una propria voce, sempre nell’ambiguità tra accenti svizzeri e italiani. Svizzeri italiani si intitola appunto quest’ultima sezione, in cui Bianconi riesce a cementare le sue tesi linguistiche basandole su ben determinati avvenimenti economici, sociali e di costume, come l’emigrazione di massa, le frequenti carestie, la dichiarazione di autonomia (1803) e l’adozione della Costituzione Federale del 1874, l’apertura della galleria ferroviaria del Gottardo nel 1882 e infine l’istituzione della diocesi di Lugano.

«Questi eventi di natura politica, economica e culturale accentuano e portano a conclusione il processo di formazione dell’identità cantonale e nazionale, nel senso della crescita del sentimento di appartenenza alla Svizzera e di distacco e differenziazione dalla Lombardia e dall’Italia. Questo processo si attua con grosse difficoltà, risentimenti, diffidenze e polemiche… Così che l’identità cantonale finisce col nascere reattivamente e polemicamente, sia nei confronti dei confederati, in particolare degli svizzeri tedeschi, sia nei confronti degli italiani: nella paura di una possibile fagocitazione da nord, col rischio di estinzione economica, culturale e linguistica, e di un’annessione da sud, e quindi cancellazione politica. Nasce in questo periodo, e in questo contesto sociopolitico-economico e culturale, la nuova identità cantonale, ambigua e problematica, inserita com’è nella doppia tensione di appartenenza/esclusione politica, economica, culturale e linguistica, e che sfocia nel progetto illusorio di fondare la propria specificità autarchicamente, nel nome della propria unicità e diversità».

Come si vede, Bianconi non ha paura di usare parole forti per suffragare le sue tesi forti, né di essere accusato di “fare politica” occupandosi di dati storici e sociali, o riportando i dati allarmanti sulle percentuali costantemente calanti di italofoni in Ticino. D’altra parte, la sociolinguistica è scienza solitamente applicata all’indagine del presente, in qualche modo, quindi, “ideologica”, soprattutto quando, come qui, viene adoperata per lo studio del passato. Bianconi si è assunto il rischio di un approccio innovativo e polemico a una materia in genere affrontata con metodi paludati, e giustamente se ne compiace:

«Sono in ogni caso consapevole dei rischi che comporta, malgrado il rigore metodologico e la ricerca dell’oggettività, un approccio contemporaneo al passato,il dialogo tra l’oggi e l’ieri: ma non vedo altra possibilità di fare storia».

 

«Agorà» (Svizzera), 5 luglio 1989

RECENSIONI

ANGIULI

LINO ANGIULI, LA PENNA IN FONDO ALL’OCCHIO – STILO EDITRICE, BARI 2013

«Che senso ha una raccolta di scritti paralleli alla scrittura cosiddetta ‘creativa’?», si chiede il poeta Lino Angiuli nella premessa a questo importante volume di contributi critici, che nella sua lunga carriera letteraria hanno affiancato con severe e puntigliose prese di posizione la produzione di versi. E così si risponde nelle stesse pagine: «Sono… dell’avviso che la scrittura cosiddetta ‘creativa’ non possa fare a meno, come ogni altra forma di manifestazione artistica, di un diuturno esercizio critico da praticare in primo luogo addosso alla propria voce, intrattenendo nel frattempo rapporti dialettici con il mondo circostante e contribuendo, così, a superare quella distanza che finisce per cristallizzare i ruoli e le ‘competenze’».

A questo “diuturno esercizio critico”, indice di consapevolezza e serietà professionale portata avanti con coerenza negli anni, Angiuli rende omaggio appunto con la pubblicazione di questo volume, che si presenta al lettore suddiviso in tre parti fondamentali, più un’appendice di brevi recensioni. Nella prima sezione viene riproposta un’indagine sulla poesia di Guido Gozzano, esplorata dall’autore sin dalla sua tesi di laurea conseguita a Bari nel 1972, e poi continuamente rivisitata con appassionata dedizione. Nel saggio argutamente intitolato “Dal maiuscolo al minuscolo”, Angiuli segue la parabola della scrittura gozzaniana dagli esordi suggestionati dalla visione estetizzante e superomistica di D’Annunzio, al rinnegamento del titanismo nella ricerca linguistica, ironica e dialogico-narrativa, de I Colloqui.
Nella seconda parte del volume vengono ripubblicati saggi e articoli, annoverati come Altri Esercizi, che Lino Angiuli ha scritto nell’arco degli ultimi quarant’anni, ripercorrendo la letteratura italiana dalle origini della Scuola Siciliana, attraversando poi la produzione leopardiana, per approdare alla contemporaneità, soprattutto commentata affettuosamente nei risultati raggiunti dagli scrittori della sua Puglia (Raffaele Nigro,Vittorio Bodini, Pietro Gatti). Particolare in questo senso risulta la sua riflessione sul senso di colpa dell’intellettuale meridionale («che scatta sempre sul versante della perdita di un mondo smarrito e dell’elaborazione fantastica del lutto»), sui suoi complessi edipici di inferiorità nei riguardi della letteratura europea, e sull’uso del dialetto («una variante del culto dei morti, l’applicazione letteraria di quella ritualità che costituisce l’epicentro inossidabile delle civiltà tradizionali»).
Partendo da queste premesse, si entra nel cuore pulsante degli interventi critici del volume, la cui terza sezione è dedicata ai  Ragionamenti. E qui Angiuli sfodera le appuntite armi del suo impegnato interventismo critico, indagando con appassionata coscienza civile «il rapporto tra politica e letteratura, poesia ed engagement», e stigmatizzando la produzione letteraria che non sappia o non voglia fare i conti con la Storia, concretizzata in un tempo e in uno spazio reali, definiti:«Non esistono il poeta e la poesia in assoluto, se non come astrazioni che vanno costantemente storicizzate, contestualizzate, materializzate…Dichiarerò che, tra le mille poesie possibili, preferisco quella che aspira testimoniare piuttosto la piccolezza contraddittoria che la grandezza finta e illusoria dell’animale uomo».

Parole forti e coraggiose, memori anche di un’utopia sessantottesca mai rinnegata, e decise nel rifiutare una letteratura solipsistica ed esangue, scarnificata e sacrale, che finisce «per santificare il corpo mistico del testo, grazie al riciclaggio di neo- o tardo- simbolismi più o meno ‘innamorati’».
Una vera e propria, orgogliosa, dichiarazione di estetica, questa di Angiuli, intesa a proporre un’ipotesi di «critica relazionale», in grado di porsi – rispetto al testo e al suo autore – in uno stato di «ascolto vicinanza comprensione empatia sintonia», e anche di «consapevolezza emotiva», rifuggendo dagli schematici rigorismi interpretativi imposti dalla «cultura logocentrica». Amare la parola scritta, quindi, «impossessarsene»: incoraggiare la pars costruens della letteratura, magari privilegiando «le composizioni supportate da progettazione poematica», tanto in disuso nella produzione in versi attuale, così minimalista, epigrammatica, orfica.
Il messaggio ottimistico, propositivo e profondamente poetico di Angiuli si conclude quindi con parole di speranza e incoraggiamento:«Alla denuncia, al risentimento, alla critica, all’amara invettiva contro la malarealtà preferisco la valorizzazione di quello che c’è e di quello che è possibile…Una delle manovre esistenziali più proficue è quella di cercare un ‘noi’ in cui stemperare la centralità dell’io…Un noi che non esclude l’io, ma che non escluda l’altro».

È raro oggi trovare chi postuli programmaticamente una letteratura non autoreferenziale, ma aperta alla realtà, e capace di progetti, di sogni: chapeau, quindi, alla voce giovane e vitale di un uomo di cultura nato nel 1946 nel nostro antico Sud.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/La-penna-in-fondo-all-occhio-Lino.html         14 settembre 2015

 

RECENSIONI

TANIZAKI

JUN’ICHIRΟ TANIZAKI, LA CROCE BUDDISTA – GUANDA, PARMA 2015

Di Jun’ichiro Tanizaki (1886-1965), uno dei massimi narratori della narrativa giapponese del secolo scorso, leggiamo questo romanzo del 1931 edito da Guanda nell’elegante collana de Le Bussole: e lo leggiamo con qualche aspettativa e curiosità, in quanto viene presentato in copertina come un «classico della letteratura erotica». In realtà, di eros se ne trova poco, nelle 250 paginette del volume, e invece di noia, mescolata a un leggero senso di fastidio, tanta. Protagonista del racconto è Sonoko, giovane e non troppo avvenente moglie di un uggioso avvocato di Tokyo: Sonoko narra in prima persona a un misterioso e silenzioso Maestro (una guida spirituale? un saggio o un monaco buddista? una sorta di psicanalista estraneo alla cultura occidentale?) della sua complicata vicenda esistenziale, da cui arguiamo soprattutto di trovarci di fronte a una signora benestante e insoddisfatta, viziata e superficiale, in spasmodica ricerca di emozioni e situazioni che la liberino dal suo torpore quotidiano. Sonoko ha già tradito il marito, che non sembra particolarmente turbato dall’incostanza della moglie: ma nella vicenda qui narrata viene sconvolta dalla turbinosa passione per una splendida ragazza, Mitsuko, con cui intreccia una relazione frenetica ed eccitante. Si badi bene che Tanizaki non racconta in nessun modo particolari o atteggiamenti relativi alla sessualità, non c’è nessuna prurigine pornografica, nessuna morbosità descrittiva. Solo accompagna il lettore attraverso una serie di situazioni labirintiche, e in fondo anche comiche, in cui le due ragazze si trovano invischiate rispetto alle loro pudiche famiglie, ai domestici e ai relativi partner di sesso opposto. Ne deriva una carambola di incontri, bugie, sotterfugi, ricatti, promesse, fughe e ritrovamenti, gravidanze supposte o reali, aborti minacciati o concretizzati, promesse siglate col sangue, in cui tutti i protagonisti appaiono insieme persecutori e vittime. Mitsuko è affascinante e crudele, irretisce con la sua conturbante personalità e bellezza chiunque incontri: la futile amante, il bolso e paziente marito di lei, un fidanzato impotente e ossessivo, la cameriera e i genitori. Sonoko quasi impazzisce per amore, travolta da una passione irresistibile: «Se per caso avessi finito per incontrarla per strada… se fosse capitato non le avrei detto niente, ma chissà poi come mi sarei comportata se per caso i nostri sguardi si fossero incrociati! Sarei impallidita e, tutta tremante, non avrei potuto muovere un passo, sarei forse svenuta sulla soglia».

Mitsuko agisce con crudele sadismo, certa del suo irresistibile fascino a cui nessuno riesce a sottrarsi: «Lei si credeva la donna più bella del mondo, era superba e si sentiva triste se non c’era qualcuno a adorarla». Questa sicurezza di facciata si rivela tuttavia scalfibile proprio nei suoi comportamenti frenetici e irrazionali, nei suoi progetti convulsi di fuga o di matrimonio, nelle sue oscillazioni sessuali; Tanizaki sottolinea con maestria la superficialità del personaggio attraverso una narrazione altrettanto superficiale, priva di scavo psicologico, intessuta di dialoghi brevi e insulsi, fino ad arrivare alla paradossale conclusione, in cui da un triplice suicidio annunciato si salva solamente Sonoko, narratrice carnefice e vittima sacrificale, probabilmente la più forte di tutti.

 

© Riproduzione riservata  

http://www.sololibri.net/La-croce-buddista-Tanizaki.html#forum5187       14 settembre 2015

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