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RECENSIONI

PUSTERLA

FABIO PUSTERLA, BOCKSTEN – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1989

Fabio Pusterla è uno dei poeti ticinesi più interessanti; se posso essere meno diplomatica, mi spingo ad affermare che è il più importante che il Ticino possa vantare tra i poeti che hanno meno di quarant’anni. Lo ha dimostrato con la sua prima raccolta di poesie (Concessione all’inverno, Bellinzona 1985), prefata da Maria Corti e vincitrice dei premi Montale e Schiller. Lo conferma con questo suo secondo lavoro, pubblicato da Marcos y Marcos, Bocksten, libro decisamente meno autobiografico del primo, meno ironico e polemico, ma senz’altro più colto e sofferto. Verrebbe da definirlo “disperato”, se non si temesse la retorica suscitata da tale aggettivo. Bocksten è una località svedese, vicina al mare e al confine con la Norvegia, dove nel 1936 è stato ritrovato lo scheletro di un uomo del XIV secolo, probabilmente linciato o ucciso nel corso di qualche rituale magico-propiziatorio. Di lui rimangono (straordinariamente ben conservati dall’azione della torba in cui era sepolto) le ossa, brandelli di un abito di tela, i capelli rossi e alcuni pioli confitti nel petto. Partendo dalla descrizione di questo crudo fatto, Pusterla innalza il Bockstenmannen a simbolo di un destino più generale delle vittime misconosciute della storia: compito del poeta è quindi dare voce a un morto di cui nessuno sa niente, riscattarlo dal silenzio orrendo dei secoli, dall’indifferenza delle generazioni successive: «Ti presterò un voce per il buio / una mano per i tre pioli / nel tuo petto». Il bosco in cui si attua questa rivisitazione (quasi ricerca archeologica e insieme rito apotropaico) è un bosco ossessivo, “in rovina” come fosse un tempio sconsacrato: melma, palude boscosa, pozzo fangoso, putridume, detriti, rottami, muschio, rami rotti, luce spiovente, silenzio, sono i termini usati per offrirne una prima, angosciante, immagine. Si susseguono poi altre presenze tacite e minacciose come fantasmi («La marcia umida degli alci, / il bramire dei cervi»; «Altri incontri nel bosco / orbite vuote, fisse, / mani scarne…// Li immagino / strisciare lungo bave di lumache, / spiare dalle tane delle talpe…»; «ed è lontano / il trotto dei cavalli, il passaggio / di corpi e luci e sagome sull’acqua…») a rafforzare l’idea di un incubo che esplode nella nebbia di un sonno lungo quanto la storia. E’ uno scenario che può ricordare i primi film di Bergman, l’angoscia sottile di una natura immodificabile matrigna dell’uomo. Il poeta da una iniziale, oggettiva per quanto partecipe narrazione in terza persona, arriva poi a identificarsi totalmente con la sorte dello sconosciuto morto seicento anni fa, e a descriversi in prima persona: «Mi portano qui / con mille ragioni o per un disguido, / digrignando i denti e recitando preghiere»; addirittura inventa quale può essere stata la vera causa della sua morte, estrema e vivifica libertà dell’arte rispetto alla ottusa costrizione della realtà storica: «ho deciso per te la snellezza del viandante / ucciso per un motivo».
Il destino di chi scrive – di chi soffre scrivendo, non dei poeti salottieri e festaioli purtroppo sempre più numerosi e premiati dalla nostra società – è un destino di solitudine e diversità, alla ricerca faticosa di risposte, con la consapevolezza tragica che una risposta definitiva non si avrà mai: «Alcuni hanno scelto il mare, il suo rollio. / Altri coltivano segale, radici, / e danzano la notte attorno ai fuochi. / Io scavo, scavo, non so perché». Vittima dei suoi incubi, ma anche di quelli di chi legge, portavoce dell’inconscio collettivo, amplificatore della paure di tutti, Fabio Pusterla in quest’ultimo libro fa parlare il nostro terrore ancestrale di non essere niente, di non servire a niente: «Sale su, aggalla in un risucchio lento, / il gorgo abbagliante che preme, si espande, / strascina un ricordo di caverna…// è il mostro della stiva che sale sulla plancia, / l’urlo che nasce in pancia e vuole uscire»; «E se il buio fosse di tutti, e servisse a qualcosa / tastarne gli scalini da basso inferno?».

Il suo discorso usa termini duri, immagini violente, ma curiosamente ne escono versi dolci, armoniosi: ne sono testimonianza le numerose poesie che iniziano con gli endecasillabi più tradizionali, molto cantati. Quasi ancora cercasse nella musica una consolazione al disagio del vivere. Il poemetto è incastonato tra alcune poesie di apertura e altre di chiusura, testamentarie. Le prime le potremmo definire introduttive al tema, e narrano del fluire cosmico del tempo, del lento e inarrestabile distruggersi del mondo, con la certezza dell’ inessenzialità della vita umana e della storia individuale (non a caso prevalgono qui le immagini di rifiuti, di scarichi, di stracci e immondizie materiali e morali). Le ultime sono anch’esse un messaggio di asciutta disperazione, ambientata nelle immobili pianure del nord, in un’Europa settentrionale freneticamente tesa ad annientarsi, tra catastrofi ecologiche in cui «l’anguilla sorella» di Montale «guizza tra scoli di atrazina…/ perché il mare è un profumo lontanissimo»». Cosa rimane indenne da questa scena apocalittica? L’immagine appunto di questa anguilla testarda e innamorata della vita che lotta «per strappare / un attimo all’asfissia, un’idea di vita / all’evidenza dei fatti…». L’immagine di una poesia che lotta per continuare a esistere, e -si può dire?- civile, nel senso più alto, come questa di Fabio Pusterla.

«Agorà» (Svizzera), 20 dicembre 1989

MAESTRI

CAPRONI

SENZA ESCLAMATIVI

Com’è alto il dolore.
L’amore, com’è bestia.
Vuoto delle parole
che scavano nel vuoto vuoti
monumenti di vuoto. Vuoto
del grano che già raggiunse
(nel sole) l’altezza del cuore.

***

LE CARTE

…Imbrogliare le carte
far perdere la partita.
E’ il compito del poeta?
Lo scopo della sua vita?

***

I CAMPI

“Avanti! Ancora avanti!”
urlai.
Il vetturale
si voltò.
“Signore”,
mi fece. “Più avanti
non ci sono che i campi”.
***
VERSICOLI QUASI ECOLOGICI

Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra.

                                                                         Giorgio Caproni (1912-1990)

MAESTRI

AUDEN

FUNERAL BLUES

Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete il pianoforte, e tra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.

Incrocino aeroplani lamentosi lassù
e scrivano sul cielo il messaggio Lui È Morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano guanti di tela nera.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l’amore fosse eterno: e avevo torto.

Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
perché ormai più nulla può giovare.

 

W. H. Auden (1907-1973)

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, OLTRE IL CRISTIANESIMO – BOMPIANI, MILANO 2013

In questo importante saggio Marco Vannini, il più noto e stimato studioso italiano del misticismo e della tradizione spirituale cristiana, torna sui temi che va approfondendo da più di quarant’anni. Il volume, suddiviso in quattro sezioni, si apre con una puntuale e appassionata disamina delle tesi eckhartiane, il cui nucleo fondamentale si può riassumere in poche citazioni: «Nessuno è ricco di Dio, se non è completamente morto a se stesso»»; «Vigila su di te, e, non appena trovi te stesso, rinuncia a te stesso; questa è la cosa migliore che tu possa fare». La rinuncia, quindi, alla propria egoità, all’amor sui (volontà di essere e di avere), quale primo indispensabile passo verso la libertà, interiore ed esteriore, e verso il raggiungimento della gioia, della pace, della beatitudine.

«Il perfetto distacco non vuole né questo né quello… lascia essere tutte le cose davanti a sé, senza importunarle». Togliere dall’animo il desiderio di appropriazione: non solo delle cose e delle passioni, del successo e della considerazione di sé, ma anche della volontà di conoscere e persino del sentimento religioso.
«Prego Dio che mi liberi di Dio», scriveva Eckhart. Recuperando tutto un filone di pensiero spirituale che da Eraclito, Platone e Plotino, attraverso i Vangeli, S. Paolo e Sant’Agostino arriva alla mistica occidentale (Eckhart, appunto, e poi Taulero, Silesius, Margherita Porete), approdando infine ai pensatori moderni e contemporanei (Kant, Hegel, Hölderlin, Schopenhauer, Nietzsche e Simone Weil), Marco Vannini supera la concezione tradizionale di un cristianesimo corrotto dalla teologia, dai dogmi, dalle istituzioni religiose che hanno voluto impadronirsi di Dio per metterlo al servizio di una società, di una morale, di un singolo popolo, degradandolo così a falso mito da utilizzare secondo i propri bisogni e fini. Contesta anche l’idea più sentimentale e psicologica che ci facciamo della divinità, intesa solo come esperienza interiore arricchente o difensiva: un dio-ente, dio-idolo, storico e finito. Dio è invece «uno ed eterno, e perciò opposto a corpo, molteplicità, temporalità», è «spirito, che non ha un dove, non è nel tempo e nemmeno nell’estensione», non è creato né creatore: la sua esistenza «è tutta data, qui, nella luce, nella pace che è e che siamo». E’ l’inesprimibile libertà del tutto, trascendente e immanente insieme, estraneo a ogni dualità o alterità.
Quello che può aiutare l’uomo contemporaneo, sedotto dalle mille sirene dello psichismo e della realizzazione sociale (economica, culturale, sessuale…) a liberarsi dai condizionamenti di una fede fasulla e delle derive menzognere cui sono approdati i vari cristianesimi, è un’immersione nella spiritualità orientale, un “Passaggio in India”, che sappia recuperare la saggezza delle Upanishad, del brahmanesimo e del buddhismo, di cui in questo volume vengono illustrati i principi fondamentali: ancora una volta il distacco e la meditazione, per arrivare all’ illuminazione.
Esemplare in questo senso è stata la vita del monaco benedettino francese Henri Le Saux, di cui Vannini racconta nell’ultimo corposo capitolo l’appassionante vicenda umana e spirituale, usando come traccia il suo Diario. Nato in Bretagna nel 1910, Le Saux fu ordinato sacerdote nel 1935 e, dopo controverse vicende umane, si trasferì in India nel 1948, con l’intento di conciliare la regola benedettina con le forme della spiritualità hindū. Dall’India non fece più ritorno, e lì venne sepolto nel 1973. Ebbe occasione di frequentare i saggi Ramana Maharshi, Sri Poonja, Sri Gnanananda, convincendosi della superiorità delle Upanishad e della Bhagavadgita rispetto ai testi della tradizione ebraico-cristiana, fino ad arrivare a scrivere: «Ho vissuto le mie ore migliori da hindū. Il vedānta mi ha donato ciò che non mi ha mai donato la Chiesa». Combattuto da un doloroso travaglio interiore, rimase comunque cristiano: «Che lo voglia o no, io sono profondamente legato a Gesù Cristo e dunque alla koinonìa della Chiesa. E’ in lui che il ‘mistero’ si è rivelato a me dal momento del mio risveglio a me e al mondo…E’ nel suo specchio che io mi sono riconosciuto, adorandolo, amandolo, consacrandomi a lui».

Vannini ritrova in Le Saux la stessa illuminante e umile sapienza dei mistici medievali, lo stesso loro rifiuto della temporalità e della corporalità, l’esigenza del distacco dal fenomenico e dell’immersione nel fondo della propria anima: «Perché la nostra realizzazione è al di dentro. Noi non siamo per il domani, né per l’oggi, né per il futuro prossimo, ma per l’istante presente… La salvezza è ‘uscire dal tempo’. Accedere all’eternità». In nome di Dio («Amare Dio senza attaccamento») bisogna superare tutte le realizzazioni storiche della varie religioni, dei riti, delle formule, delle superstizioni, accogliendo in sé la Grazia, e l’unica vera proposta di libertà: quella dello Spirito.

 

«incroci on line», 22 luglio 2015

MAESTRI

BERNHARD

QUEST’ANNO

Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
noi portiamo la brocca e sferziamo la schiena della vacca,
falciamo e non sappiamo nulla dell’inverno,
beviamo mosto e non sappiamo nulla, presto saremo dimenticati
e i versi svaniranno come neve davanti alla casa.

Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
volgiamo lo sguardo nel bosco come nella stalla del mondo,
mentiamo e intrecciamo cesti per mele e pere,
dormiamo mentre le nostre scarpe infangate
invecchiano davanti alla porta.

Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
non sappiamo nulla,
non sappiamo nulla del declino,
delle città sprofondate, del vortice in cui sono affogati
cavalli e uomini.

***

NESSUN ALBERO E NESSUN CIELO

Nessun albero e nessun cielo
ti consolerà,
neanche il mulino
dietro il rumore del legno d’abete,
nessun uccello morente,
neanche il gufo e neanche la starna veloce,

è lunga la via del ritorno,

ormai nessun arbusto ti proteggerà
da fredde stelle
e da rami macchiati di sangue,
nessun albero e nessun cielo
ti consolerà,
nelle corone di inverni in frantumi
cresce la tua morte,
con rigide dita
lontano da erba e da lande selvagge,
nei detti della neve or ora caduta.

Thomas Bernhard (1931-1989)

 

MAESTRI

PASTERNAK

LA NEVE CADE

La neve cade, la neve cade
alle bianche stelline in tempesta
si protendono i fiori del geranio
dallo stipite della finestra.
La neve cade e ogni cosa è in subbuglio,
ogni cosa si lancia in un volo,
i gradini della nera scala,
la svolta del crocicchio.
La neve cade, la neve cade,
come se non cadessero i fiocchi,
ma in un mantello rattoppato
scendesse a terra la volta celeste.
Come se con l’aspetto di un bislacco
dal pianerottolo in cima alle scale,
di soppiatto, giocando a rimpiattino,
scendesse il cielo dalla soffitta.
Perché la vita stringe. Non fai a tempo
a girarti dattorno, ed è Natale.
Solo un breve intervallo:
guardi, ed è l’Anno Nuovo.
Densa, densissima la neve cade.
E chi sa che il tempo non trascorra
per le stesse orme, nello stesso ritmo,
con la stessa rapidità o pigrizia,
tenendo il passo con lei?
Chi sa che gli anni, l’uno dietro l’altro,
non si succedano come la neve,
o come le parole d’un poema?
La neve cade, la neve cade,
la neve cade e ogni cosa è in subbuglio:
il pedone imbiancato,
le piante sorprese,
la svolta del crocicchi.

 

Boris Pasternak (1890-1960)

 

 

 

MAESTRI

MONTALE

MOTTETTO  XVIII

Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.

Un freddo cala… Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.

***

IL SOGNO DEL PRIGIONIERO

Albe e notti qui variano per pochi segni.

Il zigzag degli storni sui battifredi
nei giorni di battaglia, mie sole ali,
un filo d’aria polare,
l’occhio del capoguardia dallo spioncino,
crac di noci schiacciate, un oleoso
sfrigolio dalle cave, girarrosti
veri o supposti – ma la paglia è oro,
la lanterna vinosa è focolare
se dormendo mi credo ai tuoi piedi.

La purga dura da sempre, senza un perché.
Dicono che chi abiura e sottoscrive
può salvarsi da questo sterminio d’oche;
che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d’altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel paté
destinato agl’Iddii pestilenziali.

Tardo di mente, piagato
dal pungente giaciglio mi sono fuso
col volo della tarma che la mia suola
sfarina sull’impiantito,
coi kimoni cangianti delle luci
sciorinate all’aurora dai torrioni,
ho annusato nel vento il bruciaticcio
dei buccellati dai forni,
mi son guardato attorno, ho suscitato
iridi su orizzonti di ragnateli
e petali sui tralicci delle inferriate,
mi sono alzato, sono ricaduto
nel fondo dove il secolo è il minuto –

e i colpi si ripetono ed i passi,
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L’attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito.

***

DICONO CHE

Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa.

                                                                                                      Eugenio Montale (1896-1981)
MAESTRI

EVTUSENKO

TUTTO È ANCORA POSSIBILE SALVARE

Tutto le dicerie possono travolgere,
come un vento cattivo,
tutto è ancora possibile salvare,
se ad esse non crediamo.

Tutto è ancora possibile salvare.
Noi vivevamo insieme.
Tu non mi lasciare
in mani estranee a me.

Tutto è ancora possibile salvare.
Come sul ghiaccio tutto è sottile.
Tu fai la croce all’amore
come fosse un bambino.

Ci tentano le strade,
rischiose come vipere.
Tutto è ancora possibile salvare
se più intelligenti.

Non vendicarti con freddezza.
L’astio ci rovina.
Tutto è ancora possibile salvare,
entrambi vivi.

 

Evgenij A.Evtušenko (1933)

RECENSIONI

WOOLF

LEONARD WOOLF, LA MORTE DI VIRGINIA – LINDAU, TORINO 2015

Di questo interessante volume pubblicato dalle edizioni torinesi Lindau, ci impressiona e commuove già la copertina: una fotografia del 1939 raffigurante Virgina e Leonard Woolf, seduti su un divano accanto al cocker Pinka. I due si assomigliano nell’espressione rassegnata e mite dei volti, nello sguardo affettuoso che entrambi rivolgono al cane rannicchiato tra di loro, quasi a chiedergli pudicamente un sostegno complice. E Pinka guarda l’obiettivo come avesse compreso e perdonato tutto, a significare “li difendo io, da voi e da se stessi”. Leonard Woolf (1880-1969) scrisse in tarda età un corposa autobiografia, di cui il presente volume è un estratto, limitato agli anni 1939-1941, i più dolorosi della sua esistenza, straziati dalla guerra e dalla depressione di sua moglie, che sfociò nel suicidio di fine marzo 1941. Una sorta di diario, meditato e sofferto, puntellato da riflessioni politiche, considerazioni storiche, ritratti di amici e intellettuali, aneddoti curiosi. Divagazioni, anche, che Woolf giustifica con queste parole: «Per l’autore di un’autobiografia, forzare la propria vita e i propri ricordi secondo una linea retta rigidamente cronologica significa distorcere la prima e truccare e falsificare i secondi. Se si vuole provare a raccontare la propria vita in modo veritiero, si deve puntare a lasciare nel racconto qualcosa della disordinata discontinuità che la rende così assurda, imprevedibile e sopportabile».

Le pagine si aprono sulla descrizione degli avvenimenti che portarono al conflitto mondiale, con la ottusa crudeltà di chi lo pianificò e con la miopia di chi non seppe ribellarvisi, in una tragica e perenne ripetizione di violenza contro gli inermi, scandita nella storia da millenni: l’elenco delle vittime prende avvio dalla Genesi, toccando Socrate e Gesù, per arrivare a Dreyfus, al genocidio degli armeni, ai pogrom contro gli ebrei: «Il mondo era tornato a guardare gli esseri umani non come individui ma come semplici pedine, tessere o marionette, nel ripugnante processo che doveva far tacere la paura o soddisfare l’odio».

Leonard Woolf si oppone alla cecità distruttiva del nazismo con tutta la dignità e il coraggio che la sua vastissima cultura, la sua sensibilità di scrittore e il suo impegno di editore gli concedono, stringendosi con solidarietà ai vicini, ai collaboratori, e soprattutto alla moglie Virginia, di cui conosce e teme la fragilità emotiva, che già l’aveva indotta a tentare due volte il suicidio. Con lei è costretto ad assistere alla distruzione sistematica di Londra, ai bombardamenti a tappeto, ai conoscenti uccisi al fronte o in città, al loro appartamento sventrato, alla tipografia rasa a terra. Si trasferiscono da Mecklenburgh Square al paesino di Rodmell, nel Sussex, rinunciando ad agi e servitù, in un’atmosfera irreale, «di quiete triste e rassegnata». Lui entra nel servizio anti-incendi, costretto (ormai quasi sessantenne) a turni di pattugliamento notturno; ma soprattutto partecipa attivamente alla via sociale del paese, con uno spirito generosamente altruista. Insieme a Virginia legge, cura il giardino, cucina, gioca a bocce, fa lunghe passeggiate. Lei, in questi suoi ultimi due anni di vita, è impegnata nella scrittura della Biografia di Roger Fry e del romanzo Tra un atto e l’altro, sempre alla ricerca della perfezione stilistica, e perpetuamente terrorizzata dal giudizio dei critici letterari. Virginia annota nel suo diario, di cui il marito trascrive alcune righe, la «strana atmosfera di quieto fatalismo, nell’imminenza dell’inevitabile», rivelando la loro condivisa decisione di sopprimersi nel caso di un’invasione tedesca, e di una probabile deportazione. («Continuammo a parlare del suicidio mentre la luce elettrica cominciava a sbiadire fino a che restammo completamente al buio»). Nei primi mesi del ’41, la situazione precipita, Virginia ripiomba in un delirio ossessivo, perde lucidità, soffre di «spasmi di esasperazione improvvisa ed acuta». Leonard le rimane vicino con dedizione, ma scisso tra timore di doverla internare e volontà di salvarla: quindi esita, depistato dai cambiamenti d’umore di lei, senza comprendere fino in fondo in quale baratro di disperazione e follia sua moglie stesse precipitando. La mattina del 28 marzo non la trova in casa, si precipita al fiume Ouse e trova «il suo bastone da passeggio posato sull’argine». Il corpo di Virginia fu recuperato tre settimane più tardi, cremato con l’accompagnamento musicale di un quartetto di Beethoven, e le sue ceneri seppellite ai piedi di due grandi olmi a cui marito e moglie avevano dato i loro nomi. Il biglietto che Virginia aveva lasciato sulla mensola del camino era insieme una dichiarazione di resa, di amore assoluto, e una richiesta di perdono: «Tu mi hai offerto la massima felicità possibile. Tu sei stato in tutto e per tutto quello che nessuno poteva essere. Non penso che due persone avrebbero potuto essere più felici di noi, fino a quando non è arrivata questa terribile malattia…Ho perso tutto tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita».

«Leggendaria» n.112, luglio 2015

RECENSIONI

AAVV – UN ALTRO MONDO IN QUESTO MONDO

AAVV, UN ALTRO MONDO IN QUESTO MONDO – MORETTI&VITALI, BERGAMO 2014

Con l’esplicito sottotitolo Mistica e Politica, questo volume curato da Wanda Tommasi offre ai lettori dodici qualificatissimi interventi sul significato storico e sociale della pratica mistica, così come si è venuta delineando dal medioevo ad oggi. In margine a un convegno tenutosi all’Università di Verona nel settembre del 2013, gli autori dei saggi (che poi sono nella quasi totalità autrici) hanno ritenuto opportuno e fecondo esaminare quanto rilievo possa avere ancora nella nostra contemporaneità l’aspirazione ad aprirsi, in questo mondo, a un percorso “altro”, in grado non solo di sottrarsi alle logiche utilitaristiche del potere, ma addirittura di riuscire a incrinarle facendo riferimento a un lato invisibile della realtà, «a un ordine senza nome né forma che noi non possiamo definire ma che tuttavia ci orienta»- come suggerisce la prefatrice. Quali sono, quindi, le ragioni e le caratteristiche che determinano la funzione essenziale dell’esperienza mistica oggi? Secondo Giancarlo Gaeta, massimo studioso di Simone Weil, la mistica è «un accesso al soprannaturale limitato a pochissimi», che tuttavia ha un decisivo «effetto di crescita sulla vita comune…così come lo è il lievito nella massa della farina», perché «da sempre e sotto ogni cielo si è avuta certezza dell’esistenza di un ambito superiore, l’ambito del bene assoluto, in cui hanno cittadinanza parole come verità, giustizia, bellezza, amore». Wanda Tommasi raccomanda di fare un uso sapienziale di alcune formule dell’agire mistico che possono servirci da orientamento anche nella nostra quotidianità. A partire dall’umile regola che si era proposta Teresa d’Avila: «fare il poco che dipende da me», invito a una considerazione realistica «della propria forza e della propria miseria» nell’indirizzarsi verso un agire comunque trasformativo. Proposito ripreso secoli dopo da Simone Weil, Etty Hillesum, Cristina Campo, nel loro dare largo spazio all’ infinitamente piccolo, al niente senza nome, ma «irrinunciabile», che rinvia al soprannaturale.

Cinque teologhe (Morra, Vantini, Simonelli, Tomassone, Potente) indagano il misticismo soprattutto come fenomeno religioso legato alla cristianità. Forti di quando affermava Karl Rahner negli anni ’60: «i credenti del terzo millennio o saranno mistici o non esisteranno per niente», analizzano la relazione tra mistica e possessione diabolica (Stella Morra) come «rimosso» della storia; l’intuizione atea di Julia Kristeva (Lucia Vantini), che individua psicanaliticamente la dimensione di eccesso e di ulteriorità non addomesticabile del misticismo; la preghiera come pratica trasformatrice e modalità di abitare il mondo (Cristina Simonelli); l’ illuminante esempio di resistenza politica della pacifista tedesca Dorothee Sölle (Letizia Tomassone); e infine la necessità di accogliere in se stessi la gratuità del vuoto, il silenzio del nulla (Antonietta Potente). La teorica del femminismo Luisa Muraro afferma che «la mistica è una lotta contro i dualismi che sono già stabiliti, oppure che si producono… dalla perdita di contatto con la propria interiorità». Erminia Macola, docente universitaria e psicoanalista a Padova, ritrova nelle estasi di Santa Teresa e nel suo abbandono totale a Dio una rivendicazione della fisicità come ricerca della verità. Gloria Zanardo rilegge «l’impersonale» di Simone Weil («l’intima estraneità», lo svuotamento spassionato) come un grimaldello capace di scardinare le interpretazioni tradizionali di politica e giustizia. Contemplazione e Kenosi sono poi alla base del rinnovamento etico e di pensiero introdotto nella scuola di poesia veneziana La settima stanza di Laura Guadagnin. Per concludere la breve analisi di questi testi, tirando un po’ le fila delle loro intuizioni e proposte interpretative, citerò il saggio di Annarosa Buttarelli, più polemicamente critico dei precedenti. Buttarelli afferma: «sono convinta che la politica delle donne abbia bisogno di un respiro ulteriore che l’esperienza mistica e l’eterno extra-storico possono dare per immettere un cuneo nella fase costituente di oggi». Una mistica però più declinata al femminile che al maschile, se è vero che nella storia occidentale più donne che uomini hanno vissuto un’esperienza in prima persona di ciò a cui diamo nome Dio. Ma soprattutto perché, come sostiene la studiosa della Comunità di Diotima, «nella mistica maschile prevale nettamente l’idea che sia necessario perseguire l’annichilimento dell’Io, non per amore del mondo, ma per incoraggiare e coltivare la solitudine e la perfezione del gesto…il cammino di perfezione sembra essere percorso come ‘cura sui’….cura-di-sé piuttosto che lotta perché…prevalgano le relazioni». Mentre una politica delle donne che sappia «collocare in un altrove non umano e misterioso la fonte del potere» mettendo «in grado di governare senza incarnare alcunché, di restare creativi e sovrabbondanti di idee, di non avere conti sospesi con nessuno, nemmeno con dio» (e viene citato l’esempio luminoso di Cristina di Svezia) «apre alla generatività dell’amore».

«Leggendaria» n.112, luglio 2015