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RECENSIONI

REZA

YASMINA REZA, DA NESSUNA PARTE – ARCHINTO, MILANO 2012

Cinque brevi racconti della scrittrice “iraniana, russa, ebrea, ungherese”, naturalizzata francese, Yasmina Reza, nota a livello internazionale soprattutto per la sua produzione teatrale: scritti con levità e sospesa malinconia, quasi con pudore e timore di approfondire sentimenti e situazioni, evitando descrizioni accurate di luoghi e figure. Non si tratta nemmeno di ricordi: immagini, piuttosto, sensazioni che hanno qualcosa di impressionistico. Acquerelli dai colori tenui. «I luoghi mi ispirano quando li vedo da una strada o da un treno per esempio». Mai da molto vicino, piuttosto dall’alto, o di lato. Come quando racconta il rito del saluto ai suoi bambini che vanno a scuola, il timore di seguirli troppo con gli occhi, o troppo poco. La paura di penetrare con eccessiva partecipazione nelle vicende altrui, nelle anime degli altri: che così vengono colti in un solo gesto, e in esso immortalati (il tuffo in piscina, un maglione nero con le frange, il cocker nero inquietante dei genitori, la camera troppo ordinata dell’adolescenza…). Tutto viene come mediato, filtrato, attraverso lo spettro impersonale della letteratura; i sentimenti rivivono soprattutto nelle parole degli scrittori più amati. Questa quasi estraneità alla vita reale («occorre astrarsene o considerarla l’unica salvezza, con la sua banalità, le sue inerzie i suoi continui ricominciamenti?») viene motivata nel racconto finale, che dà il titolo al libro. L’autrice non ha origini, è una déraciné: «Io non ho radici, a nessun luogo è mai importato di me….Non conosco le lingue, nessuna lingua, dei miei padre, madre, antenati, non riconosco né terra né albero, nessun suolo è stato il mio… non so di quale linfa mi sono nutrita…» Troppi luoghi e troppe lingue l’hanno resa lontana ed esclusa, incapace di riconoscersi in ricordi e tradizioni, incapace di rimpianti. E così la sua scrittura elegante e leggera dà al lettore l’impressione di uno smarrimento soffocato a lungo, di un disagio mai vinto, di una tristezza quasi rassegnata.

 

«Leggere Donna» n.97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

SPINELLI

BARBARA SPINELLI, IL SOFFIO DEL MITE – QIQAJON, BOSE 2012

«Difficile dire cosa sia la mitezza, se questi sono tempi di collera, di intranquillità, di mali che si fanno forti della docilità, della passività cittadina». Così esordisce Barbara Spinelli in questo libro che è sia una meditazione sulla mitezza, sia un elogio del carattere mite, sia un excursus letterario e filosofico sulle rappresentazioni che questa particolare disposizione d’animo e atteggiamento comportamentale ha trovato nella cultura universale dalle sue origini. Se «’mite’ significa originariamente ‘maturo’ o ‘molle’: si dice della frutta…», è evidente che non sempre il termine ha avuto nell’immaginario collettivo un’accezione positiva. Per persona mite si intende abitualmente un perdente, una figura remissiva, mansueta, rinunciataria, umile, passiva, docile: insomma, «ammansita». Ma l’autrice sottolinea con veemenza l’energia «diversa ma ugualmente intensa» che anima i miti: «una forza concentrata, riluttante all’aggressione, ma non priva di ribellione». E si sofferma ad esaminare le più importanti incarnazioni di forza, convinta indipendenza di giudizio, capacità di resistenza, rifiuto di qualsiasi succube obbedienza al potere o adeguamento alla condotta dei più: da Mosè a Gesù a Gandhi… Solidali con l’altro, animati da spirito profetico, possessori di una letizia interiore che deriva dal consapevole dominio delle proprie virtù (pazienza, perseveranza, semplicità e misericordia, in primis), i miti non rifuggono dal mondo e dall’impegno civile o politico: solamente, non ne fanno un mezzo di dominio, sopraffazione e imposizione di sé. La loro «libertà consiste nel sopportare la necessità… non è apatia ma pathos e com-passione». Forse è eccessivo fare di loro degli estatici, dei dionisiaci danzanti, come suggerisce Spinelli. Ma è vero che essi «erediteranno la terra», secondo Mt 5,5: chiamati «ad agire qui in basso, ora», salvando persino la violenza da se stessa.

 

«Leggere Donna» n.97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

TOSCANO

ANNA TOSCANO, DOSO LA POLVERE – LA VITA FELICE, MILANO 2012

Anna Maria Carpi, nella prefazione a questa plaquette di circa trenta poesie, definisce la giovane autrice «disadorna Anna», sottolineando di lei l’uso parco di artifici retorici, e il disincanto emotivo che accompagna i suoi versi. E veramente Anna Toscano sembra voler controllare molto sensazioni e sentimenti, eludere coloriture ed effetti speciali, come è già possibile intravedere dalla scelta indovinata del bel titolo Doso la polvere: quasi a indicare una severa regola di vita e di estetica, tesa a liberarsi da scorie, inessenzialità, eccessi. L’autrice, studiosa di Scienze del Linguaggio a Ca’ Foscari, è anche appassionata fotografa, e predilige gli scatti in bianco e nero. Così sono anche le poesie, che descrivono con tratti recisi, mai ammorbiditi da allegrezza o vivaci entusiasmi, ambienti, città, persone, affetti. La sua Venezia è raccontata nella lentezza di un passato celebrato e immobile («Il futuro non esiste / il futuro non arriva / nella mia città…// Noi si sta, felici, in uno specchietto retrovisore»), i passi che la portano in giro per il mondo non conoscono la spavalda gioia di vivere che meriterebbero i suoi giovani anni («Ho contato i passi, / passi lunghi cauti orizzontali»), il domani non sembra indicare possibilità di salvezza («i sogni / li ho infranti tutti / con una lancia sola»). La poesia di Anna Toscano esibisce una continua e malinconica constatazione di precarietà, come in questi espliciti versi tratti da Tutto è in affitto: «siamo grucce per cappotti / manichini per cappelli / forme per i guanti», e nemmeno l’amore concede scampo a questa negativa prospettiva di vita futura: «Fantastico, mi dicevi. / Fantastico, mi dico, / come non mi preservo, / come mi scialacquo»; «Non vi è nessuna sortita / questa è la fine della vita». A questa disposizione morale di immobile resistenza al tempo, l’ autrice fa corrispondere scelte formali raramente innovative, “dosate” su un minimalismo descrittivo di pura decifrazione dell’esistente.

 

«Leggere Donna» n.162, gennaio 2014

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LIBERALE

LAURA LIBERALE, BALLABILE TERREO– D’IF, NAPOLI 2011

Scrivere di malattia e di morte, soprattutto in poesia, significa correre il rischio di imbattersi nel patetico o nel retorico, di sforare in toni troppo striduli o forzatamente dimessi, di urtare per un eccesso di esibita sensibilità o esacerbato rancore l’emotività del lettore. E’ un rischio che la poetessa torinese, trapiantata a Padova, Laura Liberale (1969) ha consapevolmente accettato come sfida, ed eluso attraverso consapevoli scelte contenutistiche e formali. La malattia del padre, la sua individuazione e cura da parte di asettici dottori («E’ davvero così certo / di parlare del tumore di mio padre?») viene metabolizzata poeticamente («adenocarcinoma / un settenario, dottore, dunque cantabilissimo»; «il cancro è una cometa / la coda a cui attaccarsi per tornare»), soprattutto attraverso la rivisitazione affettuosa del rapporto con la figura genitoriale («mio Assente, mio Narrante / mio colossale Mito»;  ««O luce che fai strada / O fuoco che non bruci più ma guidi»). Il ricordo àncora a un passato che si vorrebbe poter rivivere nelle sue tenerezze («Al luogo delle voci ritrovate / c’arriverò, papà? / La tua, la cara, con il suo corteggio»), o nella foto sullo sfondo marino che li ritrae insieme, ««il padre e la bambina //…col sorriso / identico e leggero», o nell’apparizione estiva nei luoghi dell’infanzia di un vecchio arrotino, e nuovamente nell’appellativo piemontese con cui il padre la chiamava: «garibuia». Alla fine e dolorosamente, il dialogo «lungo trentacinque anni»» si chiude, con le ultime parole di lui : «Non fare quella faccia». E la poetessa commenta, ferita, commossa : ««Nemmeno da morente / vuoi rinunciare al ruolo». Eppure, «Se è con l’imperfetto che dovrò / dirti d’ora in avanti», sarà proprio la poesia a compiere l’arduo miracolo di restituire una presenza, una voce, un accompagnamento non più materiale, ad assicurare una difesa che sia per sempre. «E dunque ancora mi proteggi da me».

 

«L’Immaginazione» n.271, novembre 2012

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JANECZEK

HELENA JANECZEK, BLOODY COW – IL SAGGIATORE, MILANO 2012

Helena Janeczek, nata nel 1964 a Monaco di Baviera da genitori ebrei polacchi, vive da molto tempo in Italia, occupandosi di editoria. In questo suo terzo romanzo, dalla scrittura tesa e originalissima, coinvolgente e spiazzante, si occupa di uno scandalo che ha terrorizzato l’Europa alla fine del ‘900, contagiando politica e media mondiali: la malattia di Creutzfeldt-Jacob, comunemente conosciuta come morbo della mucca pazza. Oggi ce ne siamo quasi dimenticati, ma vent’anni fa un’ansia fobica e irrazionale aveva paralizzato i consumi di carne, stravolto abitudini alimentari, dominato con toni apocalittici quotidiani, televisioni e conversazioni private. Janeczek ci fa ripiombare in quell’incubo, e la prima parte del libro assume toni sarcasticamente feroci nei riguardi sia della barbarie consumistica che adultera cibi e coscienze, avvelenandoci tutti, sia della nostra indifferente connivenza con le sistematiche torture del mondo animale e con la corruzione capitalistica del mercato alimentare. Moriremo di carne infetta e mafiosa; moriremo di cecità e egoismo, ma anche di ingordigia e di assuefazione colpevole al male: «…E allora ci aspettiamo che si nasconda lì dentro, nel metanolo nel vino, nella diossina dei polli, nelle bottiglie di Coca-Cola, negli organismi geneticamente modificati contrabbandati dentro ai biscotti, la nostra morte, e certo nelle mucche ammalate…; …mucche cui cedono le gambe, cui gli occhi si rovesciano all’indietro…; …bestiame, carne, sangue, siero, grassi, farine animali, ogni sorta di scarto o avanzo, illegalmente o legalmente esportato con lo sconto speciale».

A questo macello universale prono alle leggi di sfruttamento economico è dovuta la morte incolpevole della giovane Clare Tomkins, vegetariana dall’età di undici: la sua terrificante e dolorosa agonia, lo strazio irrisarcibile della sua famiglia; sul tragico destino di Clare, Helena Janeczek scrive le pagine commosse e indignate che concludono questo notevole romanzo.

 

«Leggendaria» n.107, settembre 2014

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LECOMTE

MIA LECOMTE, INTANTO IL TEMPO – LA VITA FELICE, MILANO 2012

Gabriela Fantato, nella prefazione a questo nuovo libro di Mia Lecomte (critica letteraria, autrice teatrale e per l’infanzia, traduttrice ed esperta della letteratura di emigrazione), scrive: «Mia sa conferire la parola ai corpi esposti nella loro nudità…guarda il mondo nei suoi lati meno interrogati e nella sua memoria dimenticata, e lo riscatta, offrendo parola, calore e colore a tutto, così che anche a ciò che sembra di poco conto, che si dimentica e va a finire nei ripostigli, della casa e della memoria, si mostra a noi che leggiamo questi versi in un’altra luce».

In effetti, sembra essere proprio la materialità degli oggetti, l’affollarsi delle cose intorno a noi, ciò che cattura maggiormente l’attenzione poetica dell’autrice, come nella bella poesia intitolata Ikea: «Letti armadi librerie divani / mensole sedie scrivanie / lampade stoffe cuscini / pentole tende tappeti / piatti vasi bicchieri / giochi posate // viti bulloni / automatici / chiodi // istruzioni // non trovi cosa resterà di te / dopo tutto questo vivere / cosa resterà da vivere». L’elencazione minuta e assediante di ciò che riempie lo spazio, («dettagli che non lasciano scampo all’azzurro»; la «chincaglieria/ più ingannevole») è resa più ansante e ossessiva dall’assoluta mancanza della punteggiatura, in un’atmosfera che si fa via via più minacciosa e destinata alla fragilità inesorabile della decomposizione (i titoli di alcune poesie sono emblematici: Darkroom, Rovine, Inventario, Casa di bambola…): «e muore il sacchetto nella teiera / lo spago morsicato dal gatto / carta straccia nello zaino di scuola / il cappotto destinato al suo gancio // per solidarietà di cose / apparente».

Altre sezioni del volume dedicate ai personaggi del circo o alle protagoniste femminili delle fiabe giocano comunque con la malinconica consapevolezza di un inevitabile equilibrismo femminile tra quotidianità e aspirazione all’assoluto, come in questi versi dedicati alla Principessa sul pisello: «In equilibrio tra la lana e le piume / volto e rivolto il nucleo del mio giacere…// se potessi levarmi domani / riposata in eterno a squarciagola». Così giustamente Elio Grasso sottolinea nella postfazione: «Un poema sul tempo e le favole, sulle storie delle rovine casalinghe e dei letti rifatti, dei bicchieri vuoti e di tutte le cose che esistono intorno ma che spariscono con facilità perché sembra non vogliano più avere a che fare con noi». Cose a cui la poesia sa e deve dare voce, perché sono loro ad ancorarci alla vita, se «intanto il tempo» scorre veloce, e noi con lui.

 

«Leggendaria» n.99, marzo 2013

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ERNAUX

ANNIE ERNAUX, IL POSTO – L’ORMA, ROMA 2014

Di Annie Ernaux, nata nel 1940 e considerata un classico nella narrativa contemporanea d’oltralpe, la casa editrice romana L’Orma propone nella traduzione di Lorenzo Flabbi questo romanzo pubblicato in Francia nel 1983. Si tratta di una rivisitazione autobiografica della famiglia dell’autrice, e in particolare della figura paterna, tracciata in uno stile composto e oggettivo, privo di qualsiasi compiacimento o ridondanza: un omaggio al padre vissuto e morto occupando con dignità il suo piccolo posto nel mondo. Annie Ernaux per questa sua celebrazione domestica ha scelto con consapevolezza una «scrittura piatta», e ce ne fornisce una giustificazione etica prima che letteraria: «Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a far qualcosa di ‘appassionante’ o ‘commovente’. Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io».

Ma dall’esistenza modesta del padre – nato contadino, poi diventato operaio e infine gestore di un bar-drogheria in una cittadina della Normandia – la figlia prende presto le distanze, scegliendo un percorso più borghese e intellettuale, laureandosi e insegnando, in qualche modo vergognandosi sempre delle origini e degli atteggiamenti dei genitori (gesti impacciati, linguaggio dialettale, vestiti dozzinali: «Assomigliavano a tutti coloro che non sono abituati a uscire»). Fuori posto loro nella sua vita, lei nella loro: «Sono scivolata in quella metà di mondo per la quale l’altra metà è soltanto un arredo». Felice e forse orgogliosa di essere fuggita dal posto che le era stato predestinato, sentendosi tuttavia in colpa per aver in qualche modo tradito. L’unico riscatto possibile rimane allora quello della testimonianza scritta: «Non per indicare al lettore un doppio senso e offrirgli così il piacere di una complicità, che respingo invece in tutte le forme che può prendere, nostalgia, patetismo o derisione. Semplicemente perché queste parole e frasi dicono i limiti e il colore del mondo in cui visse mio padre, in cui anch’io ho vissuto. E non si usava mai una parola per un’altra».

«Leggendaria» n.107, settembre 2014

RECENSIONI

GOLISCH

STEFANIE GOLISCH, FERITE. STORIE DI BERLINO – EDIZIONI ENSEMBLE, ROMA 2014

«Penso che i colori e le atmosfere di una città siano inesauribili, quanto le sfumature dell’uomo che variano secondo la luce del giorno, le stagioni, gli stati d’animo del momento», così scrive nella postfazione al suo volume di racconti Stefanie Golisch, autrice tedesca trapiantata in Italia dal 1987.
Quindici storie ambientate a Berlino, città forse come nessun’altra in Europa ferita nel corpo e nell’anima da una storia di divisioni e invasioni, di persecuzioni e ricuciture: «Non si rivela facilmente questa città, anzi, diffida degli impazienti e dei fotografi amatoriali…vuole essere avvicinata lentamente, con cautela, ama farsi pregare…».

Stefanie Golisch racconta una metropoli attraverso la storia dei suoi monumenti, delle stazioni e dei giardini: ma soprattutto attraverso i volti di chi la abita, e il pedinamento di ombre che l’hanno vissuta. Quindi troviamo in queste pagine la prigione di Ploetzensee dove furono giustiziati circa tremila oppositori del nazismo («l’esistenza di un’altra Germania…perché, nelle medesime condizioni socio-politiche, un individuo si fa strumentalizzare mentre l’altro conserva la sua integrità…»); visitiamo malinconicamente il Dorotheen Friedhof, dove sono sepolti Hegel, Fichte, Brecht; respiriamo «il clima cupo e minaccioso» di stanze sorvegliate dalla Stasi; riviviamo il drammatico suicidio di von Kleist sulle sponde del Wannsee. La Berlino che non c’è più, abitata da stravaganti pittrici, misteriose poetesse e generosi teatranti, si confonde con la Berlino efficiente della finanza, e con lo squallore disperato in cui si nascondono i senzatetto, «nel ventre della grande città, che dondola egualmente gli sporchi e i puliti, gli ubriachi e i sobri, i vinti e in vincitori; essa ha bisogno di noi, siamo noi il suo nutrimento quotidiano, il suo mosaico umano, il suo grandioso affresco, il suo Totentanz, la sua esuberante festa di primavera». Stefanie Golisch cerca di farla rivivere nonostante le sue ferite.

«Leggere Donna» n.165, ottobre 2014

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IRIGARAY

LUCE IRIGARAY, L’OSPITALITA’ DEL FEMMINILE – IL MELANGOLO, GENOVA 2014

Stimolante anche se avveniristico, nella sua spiazzante utopia, questo breve saggio di Luce Irigaray, dedicato al concetto di ospitalità e di accoglienza nella società multiculturale di oggi. «Più siamo costretti a interfacciarci con chi o cosa è estraneo o distante da noi, più dobbiamo scoprire cosa ci è proprio»; quindi, per aprirci all’altro, dobbiamo tuttavia rimanere noi stessi, non divenire uno, ma restare due: imparando a modificarci nelle nostre abitudini stratificate in millenni di cultura impositiva e poco democratica, nel linguaggio sempre orientato alla prima persona singolare, nelle situazioni abitative e urbanistiche ermeticamente chiuse al diverso. Non tanto integrando, quanto coesistendo in una rispettosa e paritaria vicinanza. E’ più propriamente femminile l’apertura verso l’accoglienza e l’ospitalità, sedimentata fisicamente nell’esperienza materna, metaforizzata dall’esistenza della placenta che nella gravidanza nutre il bambino pur tenendolo distinto dalla madre. Non si deve inglobare chi non è noi, ma imparare a ospitarlo senza prevaricazioni. Spesso l’ospitalità viene intesa come «pratica di un gesto unilaterale e paternalistico verso un individuo più bisognoso rispetto a noi»: non deve essere un gesto caritatevole, né aspirare all’assimilazione dell’altro che cancelli la sua specificità. La prima cosa da fare, a livello sociale e individuale, per impostare una nuova cultura dell’ospitalità è «organizzare lo spazio in modo da creare un’architettura che renda possibile l’esistenza di ognuno e l’incontro tra individui», aprendo il circolo dell’orizzonte in cui siamo immersi, recuperando ambienti in grado di accogliere ogni corpo e cultura altra. Dove trovare questi spazi generosi e incontaminati? Secondo Irigaray «la natura potrebbe essere il luogo ideale per la coesistenza, se le condizioni climatiche lo permettono, ma non sempre ciò è possibile». Soprattutto nelle nostre asfissianti metropoli. U-topia, non luogo, secondo Thomas More.

 

«Leggendaria» n. 110, marzo 2015

RECENSIONI

DE SIMONE

ANNA DE SIMONE, CASE DI POETI – MAURO PAGLIAI EDITORE, FIRENZE 2012

In questo originale, commosso e commovente volume, Anna De Simone offre al lettore il ritratto di sessanta poeti novecenteschi, italiani e stranieri, famosissimi o quasi ignoti al grande pubblico, con i loro omaggi alle case che hanno abitato, confondendosi nelle loro atmosfere, nelle loro ombre e luminosità accecanti, negli sfarzi e negli squallori: case dell’ infanzia e della maturità, di lutti e di nascite, di amori e di abbandoni. L’autrice ci presenta ogni poeta non solo nella curata bio-bibliografia finale, ma soprattutto attraverso una serie di ritratti fotografici di volti e ambienti che bene colgono la loro particolare domesticità, incorniciandoli in versi e prose che sempre rimandano alle stanze vissute: «I luoghi mentali sono diventati luoghi reali e viceversa, capaci di offrire scenari ogni volta inediti su situazioni, vicende interiori e brandelli di storie perdute…nella convinzione che le case dei poeti esercitino un grande fascino sui lettori, e qualche volta diventino, come la poesia, un corrimano, un rifugio o un sogno da sognare quando la quotidianità diventa incomprensibile o insopportabile».

Allora, di un poeta del focolare come Pascoli, accanto alle foto del giardino, dello studio e della casa natale, la didascalia propone, tra gli altri, questi versi: «io, la mia patria or è dove si vive: / gli altri son poco lungi, in cimitero». E della bellissima e malinconica Achmatova: «Sotto l’icona un liso tappetino, / dentro la fresca stanza è sceso il buio». Di Wislawa Szymborska: «A destra c’è la mia casa, che conosco da ogni lato, / insieme ai suoi scalini e all’entrata, / e dentro accadono storie non dipinte»». Dello sperimentalismo di un poeta ancorato alle sue campagne come Zanzotto godiamo questo incipit: «Del mio ritorno scintillano i vetri / ed i pomi di casa mia, / le colline sono per prime  / al traguardo madido dei cieli», e di Montale la notissima chiusa: «Tu non ricordi la casa di questa/ mia sera. Ed io non so chi va e chi resta»

 

«Leggendaria» n. 103, gennaio 2014