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RECENSIONI

SAFFO

SAFFO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2012

A dispetto di una malevola tradizione che voleva la poetessa di Lesbo scarsamente avvenente, se non addirittura deforme, a noi piace immaginare questa grandissima “decima musa” così come ce l’ha descritta il poeta Alceo, suo contemporaneo : «dolce, coronata di viole». E così infatti ce la consegna questa splendida, anche editorialmente, antologia pubblicata da Nomos e curata da Silvio Raffo, che ne traduce egregiamente, con elegante dedizione, trentatré poesie, delle centoquarantaquattro che ci sono rimaste. E ne mette in luce, nella breve e intensa prefazione, la classica e limpida perfezione, sottolineando in queste composizioni «gli archetipi e i fondamenti della poesia lirica di tutti i tempi»: la presenza dell’io, del paesaggio naturale e della forza del sentimento amoroso, avvertito con tutta la delirante forza che squassa i sensi, intenerisce e immalinconisce l’anima, avvolge nelle spire accecanti della gelosia, fa esplodere il cuore di felicità. «Amore che scioglie le membra / dolceamara invincibile fiera», «vento / che sulle querce d’alto monte piomba», «Sei giunta, hai fatto bene, ti bramavo», «Io amo l’eleganza, lo sapete, / lo splendore del sole e la bellezza / mi toccarono in sorte e ne son lieta». Proponendo il testo greco a fronte, Silvio Raffo fornisce al lettore una traduzione assolutamente fedele alla struttura metrica originale, rispettosa in particolare della strofa saffica (costituita da tre endecasillabi e un adonio), e sottolineando la limpida perfezione dei versi, che anche dopo ventisette secoli mantengono tutta la loro luminosa classicità, che li rende sempre vivi e moderni, alla stregua di molta lirica novecentesca: «Naufragata nel cielo con le Pleiadi / la luna. E’ mezza / notte, il tempo passa. / Io giaccio sola».

 

«Leggendaria» n.99, marzo 2013

RECENSIONI

RIGOTTI

FRANCESCA RIGOTTI, METAFORE DEL SILENZIO – MIMESIS, MILANO 2013

Questo volumetto pubblicato nella collana dell’Accademia del Silenzio dalla filosofa Francesca Rigotti, docente all’Università della Svizzera Italiana, è diviso in due parti, la prima delle quali indaga il senso delle metafore del silenzio, mentre la seconda si interroga sul rapporto che collega silenzio e parola allo spazio e al tempo. Entrambe le sezioni esplicitano le loro tesi basandosi su robuste argomentazioni teoriche, radicate in tutta la riflessione filosofica novecentesca. I nomi più citati – e talvolta contestati – sono quelli di Nietzsche,Wittgenstein, Heidegger, Levinas, Derrida, Foucault, Bachelard, Bauman. Vengono menzionate anche due pensatrici donne: Julia Kristeva e la nostra Rosi Braidotti; è risaputo che le donne, contrariamente a quello che si tramanda, parlano meno degli uomini, e scrivono meno. Proprio partendo da un assunto ideologico femminista, Francesca Rigotti espone la sua originale teoria sull’esistenza di due tipi diversi di silenzio: un silenzio di ghiaccio e di pietra (solido, massiccio, fermo e chiuso in se stesso) e un silenzio liquido-magmatico (marino, profondo, mobile, contenitore). Il primo è maschile, duro e razionale; il secondo è femminile, morbido e soffuso. La parola interviene su entrambi, spezzando il primo con la violenza di un’arma appuntita o pesante, emergendo dagli abissi del secondo come lava galleggiante. L’autrice corrobora questa sua intuizione con dotti riferimenti letterari e musicali (Händel, Bach, Boulez, Cicerone, Ovidio, Pirandello, Rabelais, Vercors, Byatt), ma anche rifacendosi ad acute osservazioni linguistiche ed etimologiche. La seconda parte del libro mette a confronto invece i due tanto discussi concetti di tempo e spazio, ancora sfruttando le categorie del maschile e del femminile: qui però quasi capovolgendoli, perché al maschile viene attribuita la mobilità fagocitante del tempo, mentre si riserva al femminile la statica resistenza dello spazio. Uno spazio silenzioso e un tempo parlante.

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

MARAINI

DACIA MARAINI, GITA A VIAREGGIO – FAHRENHEIT 451, ROMA 2013

Questo bel racconto che Dacia Maraini pubblicò su Paragone nel 1964 viene ora riproposto dall’attenta casa editrice romana Fahrenheit 451, con un’illuminante ed acuta postfazione di Eugenio Murrali. Due coppie di mezz’età, in evidente crisi di stanchezza matrimoniale (Antonio e Pietra, Gino e Tina) decidono in un piovoso pomeriggio sotto Pasqua di lasciare la capitale e di dirigersi a Viareggio, con il pretesto di far visita a un vecchio amico pittore, Carmelo. Al volante dell’auto è Tina, voce narrante e sguardo disincantato- deluso e insieme spietato- su luoghi, oggetti e persone. L’autrice segue con meticolosa e fredda analiticità sia il percorso materiale dell’automobile (sorpassi e insulti, rallentamenti e soste, indifferenti paesaggi esterni), sia il vagare mentale della protagonista, e il suo soffermarsi su ciò che succede all’interno dell’abitacolo: spezzoni di discorsi, sigarette e caramelle, noia e piccole provocazioni. La descrizione dei corpi e degli ambienti è puntuale, asettica e lenta, come in una serie di fedeli ma impersonali inquadrature cinematografiche: «Il suo braccio è corto, molto corto rispetto al resto del corpo. Le dita invece sono lunghe, normali, con dei ciuffi di peli biondi sul dorso delle falangi»; «…in disordine, giacciono sparpagliati cinque o sei barattoli di colore, una manciata di pennelli e pennellesse, uno spruzzatore elettrico, due bocce di colla americana, della carta di giornale, due coltelli da cucina macchiati di verde, una grande latta di trementina e dei tamponi di garza imbevuti d’olio e di colore».

A Viareggio, la gita delle due coppie si concluderà con un duplice tradimento, vissuto dalla protagonista con assoluta estraneità e abulia, che lo stile asciutto e neutrale della Maraini riesce a rendere con intelligente finezza.

 

«Leggendaria» n. 104, marzo 2014

RECENSIONI

CAMPO

AAVV, CRISTINA CAMPO. SUL PENSARE POETICO – FEERIA, FIRENZE 2011

Secondo l’editore di questa antologia di saggi che dieci studiosi hanno dedicato a Cristina Campo, «nei convulsi anni di autocelebrazioni narcisistiche in cui viviamo, ci sta di fronte con una sorprendente e sia pur impervia esemplarità» la figura di questa sensibilissima, colta, vulnerabile poetessa e intellettuale bolognese, vissuta a lungo sia a Firenze sia a Roma. Guido Ceronetti la definì «filatrice dell’inesprimibile», «trappista della perfezione», protagonista di un «umbratile, filtrato viaggio nell’esistenza» che la portò a indagare i percorsi segreti dell’anima, attraverso lo studio appassionato della mistica e della liturgia orientale e ortodossa, la frequentazione di letture spirituali (da Eckhart a Silesius a Simone Weil) e dei più importanti poeti e filosofi a lei contemporanei (Luzi, Merini, Alvaro, Zolla, Emo), l’interesse per la musica e la fiaba, ma anche l’impegno civile nei riguardi di tutti gli avvenimenti politici, culturali e religiosi della sua epoca. Il volume esplora con analitico rigore i vari aspetti della produzione letteraria di Cristina Campo: dal suo ricchissimo epistolario (1942-1976), definito dalla studiosa Maria Pertile «residuo dell’assoluto», alla sua empatia nei riguardi degli ultimi e dei fragili, alla devozione verso la letteratura intesa quasi come pratica religiosa, fino alla sua biografia vissuta all’insegna della riservatezza e della discrezione, che la portò ad affermare severamente: «Che nulla traspaia dell’intimo cuore, nulla sia noto di noi che il sorriso».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

MORETTO

LUCIANA MORETTO, LA MEMORIA NON HA PALPEBRE – LA VITA FELICE, MILANO 2012

Da un frammento di Emily Dickinson, il titolo di questa raccolta di poesie di Luciana Moretto sembra suggerire che chi ricorda non chiude mai gli occhi, continua a tenerli ostinatamente e nostalgicamente aperti su volti, voci, gesti delle persone che abbiamo amato e che ci hanno lasciato. «Che cos’è la poesia se non il perpetuo racconto di un’assenza, di qualcosa che continuamente manca e che paradossalmente e sempre ci insegue con la sua presenza?», scrive nella sua partecipe prefazione Piero Marelli. Una poesia che si propone di annullare la distanza, recuperando tempi e spazi messi in ombra, ma mai definitivamente cancellati, dalla morte di chi ci è stato caro. In questo caso, del fratello dell’autrice, che lei è certa di poter ritrovare in un’altra, più generosa e perenne dimensione: «sicura dell’eterna compresenza / del tutto nella vita, nella morte», «certo prosegue di là, oltre il confine / d’ombra il patto di alleanza che un’anima / tiene accostata all’altra», «non arresa presenza, / garanzia di vita che continua» nella metafora di un asfodelo giallo reciso che persiste inspiegabilmente a rifiorire. Il fratello amato, le cui ceneri sono conservate in un’urna lontana, «nel continente estremo in vista / del mare», torna vivo nella foto dell’infanzia, sollevato in braccio dalla madre orgogliosa dell’unico figlio maschio. O nel quaderno ritrovato, con i riassunti dell’Iliade, e nei suoi inquieti vagabondaggi intorno al mondo, di cui la sorella poetessa si faceva rassicurante tramite presso i familiari «perplessi». O ancora nell’eco di una telefonata gentile, nelle immagini allegre del giorno del matrimonio. Ma soprattutto nella poesia più delicata del volume, che raffigura il fratello «smagrito e stanco» intento a curare le rose del suo giardino: «Spesso la morte è gentile / e ha buoni modi. Non toglie / qualcosa di vistoso, le basta / che muoia una cosa / una sola, diversa ogni volta. // E così piano piano / dalle tue mani ha tolto la rosa».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

MASTROCOLA

PAOLA MASTROCOLA,  FACEBOOK IN THE RAIN – GUANDA, MILANO 2012

Un racconto gradevole e pulito, scritto in un linguaggio terso e privo di ambizioni artistiche, che sembra accontentarsi di narrare con delicatezza e pianamente una sorta di fiaba contemporanea, ambientata in un paesino dell’Appennino centrale, con protagonisti modesti che conducono una vita priva di slanci, avventure, ideologie. Anche la trama non si prefigge di indagare socialmente o psicologicamente il fenomeno dei network, ma semplicemente propone una storia di comune e tranquilla banalità sentimentale. Una vedova cinquantenne, il cui unico diversivo quotidiano sembra essere la visita al cimitero alla tomba del marito, e lo scambio di confidenze e piccoli favori con altre donne in lutto, scopre improvvisamente la possibilità di aprirsi al mondo attraverso Facebook, e diventa inconsapevolmente ma implacabilmente una vittima di Internet.

«Uno si sentiva subito meglio, subito…collegato. Mai più solo, senza fili. Si sentiva una centrale da cui si diramavano infiniti fili che andavano tutti verso le altre persone e le legavano a sé… Una rete, appunto!»

Su Facebook, Evandra incontra vecchi compagni di scuola e sconosciuti, e viene tentata anche dal desiderio di conoscere queste persone fisicamente, imbattendosi di conseguenza in cocenti delusioni e in pericolosi imprevisti. Rimane comunque tanto dipendente dal suo pc, da preferire questa sua nuova esistenza virtuale alla realtà dei rapporti familiari e amicali di sempre.
Questa passione informatica le provoca però ben presto acuti sensi di colpa in quanto la distoglie dalle visite al camposanto, in passato trascurate solo nelle giornate di pioggia. Sarà un suo timido corteggiatore a cercare goffamente di risolvere gli scrupoli vedovili di lei con un ingegnoso sistema idraulico in grado di far piovere davanti alle finestre del suo appartamento, giustificando così le sue assenze dal cimitero e indirizzando il racconto verso un prevedibile e romantico lieto fine.

 

«Leggendaria» n. 95, settembre 2012

RECENSIONI

MURGIA

MICHELA MURGIA, L’INCONTRO – EINAUDI, TORINO 2012

Michela Murgia torna con questo romanzo alla sua Cabras natale, qui anagrammata in Crabas, «cittadina di novemila anime», che vive «di un respiro comune ritmato dal suono delle campane», in cui l’esistenza, continua «con balsamica noncuranza», in equilibrio tra tradizioni millenarie e ansie di modernità, animata da «una fede popolare in cui malocchio e rosario convivevano senza contraddizione». Qui passa le sue estati il bambino Maurizio, ospite dei nonni che lo accolgono con rustica amorevolezza: alla fine della scuola i genitori, operai in città, confondono il loro unico figlio tra i «ragazzini ossuti e bruni con qualcosa di rapace negli occhi», a giocare sulla strada partecipando di «una comunità infantile sbilenca e provvisoria». «È così’ che si diventa davvero fratelli a Crabas»: condividendo avventure nei campi e in battaglie navali sullo stagno, partecipando alle feste parrocchiali e alle sagre, ascoltando le storie di fantasmi raccontate dai vecchi seduti di sera all’esterno delle case. In paese bisogna fare i conti con il “noi”, poiché «tutti parlavano di sé al plurale con la ronzante fluidità di uno sciame d’api intorno all’alveare». Maurizio impara a intessere relazioni con gli altri, soprattutto vivendo in simbiosi con due amici, Giulio e Franco: con loro scopre il significato della solidarietà, della complicità e poi improvvisamente del tradimento e della separazione, per ritrovare infine il gusto della riconciliazione e della fraternità recuperata. Giochi, scontri, monellerie ruotano intorno alla vecchia chiesa di Santa Maria guidata da Monsignor Marras, cui i tre ragazzi incendiano il cortile e una palma centenaria nel tentativo di eliminare col fuoco una colonia di aggressive pantegane. Qui si anima anche il dissidio con il nuovo, evoluto parroco che inaugura una concorrente chiesa di periferia: polemica che sfocia in una dissacrante e divertente processione tra le due comunità che si fronteggiano a colpi di invocazioni, giaculatorie e rosari pochissimo devoti. Il racconto scorre veloce e pulito, senza particolari originalità lessicali o sintattiche: e lo stile appare addirittura qua e là un po’ inamidato, con i dialoghi tra i ragazzi spesso ingessati in un italiano molto letterario e irreale. Soprattutto la trama, piuttosto debole, non riesce a elevare la narrazione al livello di altre precedenti prove della Murgia.

 

«Leggendaria» n. 97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

TORREGROSSA

GIUSEPPINA TORREGROSSA, ADELE – NOTTETEMPO, ROMA 2012

Con questo sapido e intrigante monologo teatrale, ambientato in una rigorosa e oppressa Sicilia degli anni ’60, Giuseppina Terragrossa ha vinto il Premio Roma 2008  Donne e teatro. Protagonista è Adele, una sessantenne sciatta e rancorosa, che ha vissuto e sprecato la sua esistenza nelle mura domestiche, assediata da presenze maschili mal sopportate, ondeggiando tra nevrosi e sadismo.
Rimasta incinta diciottenne di un uomo che l’ha abbandonata, sposa «’u manciato», un chimico violento, marchiato da una disgustosa malattia cutanea, che tuttavia riconosce come suo il bambino di lei, Ciccio, e anzi si lega a lui con un affetto protettivo e paterno. Adele vive il rapporto con il figlio e il marito con una sorta di nauseata e imposta dedizione, odiando se stessa, i corpi maschili che la circondano, e senza riuscire ad ammorbidire il suo livore nemmeno con la nascita del secondogenito, Gabriele. «’U manciatu s’era fatto pretenzioso, voleva trovare la tavola conzata, il picciriddo curcatu, un silenzio di chiesa e la pasta nel piatto…».

Con un ritmo narrativo incalzante, e un linguaggio reso assolutamente vivido ed espressivo dalle numerose interferenze dialettali («ammucciavano il sole con il crivo!»), Giuseppina Torregrossa riesce a rendere senza pietismi e con partecipe adesione l’abbattimento morale di questa donna, che si riduce e parlare con i suoi fantasmi mentali, chiusa nelle sua cucina, spettinata e ciabattona, ammorbando l’esistenza soprattutto al figlio maggiore, mai desiderato eppure profondamente amato, fino a fargli del male fisicamente, ad allontanarlo da casa, per poi perderlo definitivamente con un’ultima, crudele, ferita quando pensava di averlo riconquistato.

 

«Leggendaria» n.97/98, gennaio 2013

POESIE

PEDRO DEL FARO

Lo chiamavano Pedro –  ma non era spagnolo –
per il baffo spiovente, la voce suadente, l’aspetto
gitano e marino, un destino di sole e di acqua
nel sangue, imbastito di scarne parole.
Da vent’anni viveva nel faro, che era sua moglie
e sua mamma perché ci passava le estati e i natali;
da solo. Ogni mese arrivava la barca a motore
a portargli coperte vestiti vivande: lui scendeva
le scale a spirale, caricava sei sacchi di roba
sulle spalle – farina per il pane, il vino, saponi.
E poi rimaneva in silenzio a mangiare,
assorto a pensare. Sull’isola gli scogli, sentieri
dirupati, brughiera di mirto e rosmarino.
Usciva di mattino, fischiava a un pescatore,
a un contadino che lavorava l’orto,
ma senza dire niente. Inutile parlare,
faticoso: non c’era abituato.
Piuttosto cantava, canzoni d’amore
che aveva imparato in gioventù.
Adesso che è maturo, quasi vecchio,
Pedro guardiano fa compagnia a se stesso
e non gli serve altro, non ha più voglie
rimpianti speranze. Le poche stanze
del faro sono reggia e monastero:
la minima cucina e il forno a legna,
la camera da letto, il cesso e un salottino.
Di giorno tutto bianco di luce,
di notte le stelle splendenti che quasi le tocchi.
Antares, Cassiopea come un diadema,
sapersi nulla scrutando l’orizzonte,
strizzando gli occhi a rincorrere i lampi
che dalla lanterna sorvolano il mare,
indagano il cielo. Ma c’è da fare,
sempre. Spazzare i pavimenti,
controllare le lenti e la pompa
dell’acqua, comunicare i dati
alla centrale, riempire i secchi
nella cisterna fuori, per lavarsi
e per bere. Eppure, sono cielo
e mare, la linea di confine che li segna
a occupargli la mente, i sogni
quando dorme: a fissare dall’alto
quella riga sottile gli viene da pensare
che la terra sia piatta, e non rotonda:
lunga, distesa, un deserto infinito
e paziente. Azzurro, blu cobalto,
giallo al tramonto, rosato all’alba,
di notte nero in quello spazio aperto
solcato a volte da una fila di navi,
più spesso vuoto e muto. Pedro
si perde, cerca l’aiuto di capodogli
e delfini, oppure un roteare di falchi,
gli stridi dei gabbiani per non sentirsi
abbandonato e solo,
che se morisse nessuno lo saprebbe.
Gli piace udire almeno la risacca,
uno sciacquio remoto prima di addormentarsi;
o quando legge il farfallio di mosche,
di falene, le rondini che sbattono
sui vetri, e il vento, il vento forte;
la burrasca, una buriana di scirocco
o grecale, qualsiasi cosa che lo faccia
star bene o male, ma vivo e vero. Da sveglio
col binocolo sugli occhi
non sa cosa si aspetta di scorgere lontano,
nel sulfureo bagliore di flutti giganteschi:
le ossa spolpate di un antico fenicio,
larvale spettro implorante vendetta
che un tempo era bello, era alto
e amava nella stiva ragazzi moreschi;
finì negli abissi del buio avvinghiato
a una trave (ah, temi, marinaio del mondo,
la morte per acqua!). O spera, il guardiano del faro,
di essere il primo a vedere in un’alba nebbiosa,
confuso col vento, lo sbuffo di vapore
alzarsi dal dorso della bianca balena
trafitta di fiocine, indomita, furiosa,
vittoriosa. E dietro di lei un vascello fantasma
che sfiora le onde, si alza, sprofonda,
poi vola su ali poderose tra le nuvole,
scompare come un sogno, è una fiaba
narrata davanti al camino da un vecchio
che accarezza a parole lui bambino.
Lui bambino non ancora Pedrito
pesava i suoi giorni sulla riva
ciottolosa, a lanciare sassetti
rimbalzanti sull’acqua, poi nudo
si tuffava a bracciate innervosite
dove non si toccava: e il faro
era lontano, a guardarlo, futuro
del futuro, promessa
di silenzio e di avventura, di freddo
e di paura; il faro del destino
di Pedrito bambino.
Che cresciuto e forte come un toro,
con le braccia abbronzate e il primo pelo
sulle guance sul petto tornito
ci portava le signore più grandi
straniere, imparava l’amore, le stringeva
sdraiato tra le chiglie delle barche
a riposo, e la luce del faro
sciabolava i capelli normanni vaporosi,
lo invitava ad osare ogni notte di più.
Così pensa i suoi ricordi compagnia
mentre è solo appoggiato con la testa
alla parete brufolosa inumidita
della stanza in cui conta le ore
di fronte alla finestra salmastra,
fumando sigarette stropicciate
tra le dita, e dalla radiolina
ascolta la voce distante
che racconta una partita indifferente.

 

In Lo Straniero n.180, giugno 2015 e in L’attesa, Marco Saya edizioni, Milano 2018

RECENSIONI

HUERLIMANN

THOMAS HÜRLIMANN, NEL PARCO – GARZANTI, MILANO 1992

Un nuovo autore svizzero, Thomas Hürlimann, nativo di Zug ma vissuto tra Zurigo e Berlino, già noto sia per importanti lavori teatrali, sia per una raccolta di racconti (La ticinese) che gli era valsa dieci anni fa autorevoli riconoscimenti, ha pubblicato presso Garzanti la traduzione di un suo romanzo dell’ 89,  Nel parco. Romanzo di atmosfera, in cui accade poco più di niente: due anziani genitori – lui, ex militare di carriera; lei, moglie tenace e madre tradizionale – porgono giornalmente omaggio alla tomba dell’unico figlio maschio, morto di cancro prima di poter comparire in divisa davanti al padre. «Erano i genitori di un figlio morto. Erano sopravvissuti al loro discendente, al portatore del nome ed erede, che avrebbe dovuto continuare nel futuro il casato. Questo era un controsenso della natura. A esso, un po’ per cordoglio, un po’ per penitenza, veniva pagato un tacito tributo mediante la quotidiana visita al cimitero».

La morte del ragazzo, nato dopo sei femmine, sembra rendere più profondo e definitivo il baratro che da tempo si era aperto tra marito e moglie: primo, insidioso segnale di rottura è il dissidio tra i due sul tipo di stele funeraria da porre sulla sepoltura. E’ la moglie, con femminile e prevaricante testardaggine, che riesce a realizzare il suo progetto di un monumento in granito. Il colonnello si adatta, adeguandosi anche al rito della visita giornaliera al cimitero, un parco elveticamente impeccabile nel suo curatissimo verde, ma altrettanto macabro nel memento calvinista riservato ai visitatori: «Quello che voi siete, eravamo noi. Quello che noi siamo, sarete voi». Docile nel seguire la consorte e nel condividerne il cordoglio, l’anziano militare mantiene però una quasi infantile autonomia nell’imporre a queste visite uno stile soldatesco, ormai patetico: «Il colonnello dava l’ordine di partenza, direzione tomba»; «Lassù gli riusciva proprio tutto. Lì era il fronte, lì il vecchio soldato era nel suo elemento». E ben presto trova una motivazione più urgente dell’omaggio al figlio per giustificare la sua adesione al rito quotidiano: tra le tombe sbuca un gatto randagio, «un essere smagrito, ossuto, tremolante» che lui prende a nutrire di nascosto dalla moglie. E mentre lei è dedita a lavori di giardinaggio o di pulizia della tomba, il colonnello si distrae in grottesche operazioni tattiche di «rifornimento» all’animale, che subito assume un rilievo allegorico, trasformandosi nella proiezione dell’unica forma di vita in quella città dei morti.

«Comparve da Emilio Hagedorn, infarto cardiaco, un’ombra che lambì il marmo chiaro, qualche attimo dopo sgusciò intorno all’acquasantiera del commilitone Kessler, una faccenda di prostata con complicazioni laterali…Allora lo vide, stava arrivando, allarme rosso. Altri tre minuti… e avrebbe raggiunto la carnosa copertura di fogliame sopra la tomba dei Siegenthaler, lui cancro allo stomaco, lei all’intestino». Il sostentamento della bestiola costa al colonnello tempo ed energia, in primo luogo per procurare e conservare la razione giornaliera di carne senza dare nell’occhio (e allora, visite improvvise e ingiustificate al supermercato, riserve di cibo negli armadi di casa o nelle tasche dei vestiti fuori stagione), con il susseguirsi di situazioni imbarazzanti, che allarmano la moglie e tutto il parentado. Ma il vecchio è ancora un soldato: «semel miles, semper miles», e continua imperterrito nelle sue operazioni di rifornimento, studiando nuove tattiche e aggiornandosi su riviste di strategia militare per aggirare il nemico ottenendo lo scopo prefisso. In un crescendo di allucinazioni e frenesie, il gatto diventa alleato e insieme obiettivo strategico: «Il figlio? No, pensava il colonnello. Lo conduceva alla tomba il dovere. Lui, il vecchio soldato a riposo, nella vecchiaia era diventato l’ufficiale di sussistenza di un animale randagio». La moglie non capisce, soffre, si sente schernita nella sua sofferenza di madre, e teme nel marito una forma di demenza senile.

«Lei amava le sere presso la tomba, lì era felice. Quello che diceva era preghiera, e quello che faceva le si trasformava tra le mani in metafora…Un dio malvagio le aveva rubato il figlio, ora un gatto da cimitero le rubava il marito: il suo cuore si chiuse in una morsa di gelo». Intorno alla coppia, sempre più smarrita e incapace di sfogare il proprio strazio, le figlie sciamanti, i generi indifferenti, i nipoti capricciosi, e soprattutto l’imponenza triste della grande villa sul lago, un parco deserto e denso di ricordi, presenze minacciose nel loro silenzio. E’ un disagio inespresso e inesprimibile, quello che mura i gesti dei due vecchi in triste incomunicabilità, reso più drammatico da un paesaggio immobile e inespressivo, da una cultura nevrotica e superficiale, dalla neve che tutto livella, ma su cui ancora compaiono, incancellabili e vincenti, le orme del gatto, tracce di un’animalità che è vita. Molto critico nei riguardi della società in cui è cresciuto, strozzata da mode intellettuali che a volte assumono volti riconoscibili (da quello junghiano a quello antroposofico), Hürlimann è crudelmente pessimista anche nelle pagine finali del romanzo, forse un po’ affrettate e volutamente conclusive, rispetto al lento dipanarsi della vicenda. E crudelmente patetiche sono comunque la pazzia del colonnello, che beve il suo whisky col biberon, e la confusione mentale della moglie, intenta a cercare sul lungolago, ogni sera, la sposa adatta per il figlio morto.

 

«L’Arena», 13 febbraio 1992